TATARIGAMI : Sangue

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sangue


“Ma la terra con cui hai diviso il freddo mai più potrai fare a meno di amarla.” Vladimir Majakovskij

La storia di Foggia marcia al passo con il suo immaginario religioso e affonda le sue radici in tempi lontani. Si narra che fu il principe di Argo, Diomede, a fondare Argos Hippium, meglio conosciuta come Arpi. Nel 1062 il centro era ormai in rovina, ma a pochi passi dei sparuti casolari si estendevano intorno alla Taverna del Gufo; il territorio era disseminato di querceti e piccoli stagni e fu proprio in una di queste paludi che avvenne il ritrovamento dell’iconavetere, evento determinante la nascita dell’odierna Foggia. Oggi ciò che vediamo non è solamente un agglomerato architettonico figlio di un’esigenza economica, ma un terreno che ha bisogno di essere coltivato da parole, gesti e dall’amore dei suoi. Il primo stadio del nostro amore è quello cartografico, quando attraversi la città e riesci a percepirla in ogni sua ramificazione: ogni strada è un tuo arto, ogni panchina un tuo neo; passo dopo passo l’hai percorsa tutta e l’hai rifatta ancora. Il secondo stadio è segnare il passaggio, di piazza in piazza, indelebile e mnemonico. Il terzo è raccontarla.


Crediamo sia importante una riscoperta identitaria della nostra città, riunendo il vissuto di chi non l’ha mai lasciata a quello di chi l’ha appena conosciuta e di chiunque la porti dentro. Le contraddizioni di questa città sono ciò che ci ha spinto a riempire le righe di queste pagine, a tracciare gli imprecisi contorni tra le sue ricchezze e le altrettante criticità. La raccolta mira a creare un profilo che sappia indagare sul valore identitario che Foggia ha costruito nei suoi nati. Ritrovarsi e riconoscersi in piazza, rinnovare la gelosa sensibilità verso quei luoghi, le tradizioni, i ritmi delle giornate è tutto ciò che vogliamo costruisca il volto della nostra città. Nel suo “Città Ribelli” David Harvey costruisce il profilo di uno spazio urbano in cui il diritto alla città è il diritto di cambiare noi stessi attraverso la città, in cui la dimensione economica, quella ambientale e quella relazionale si intrecciano e si scontrano dando vita a quel sottobosco urbano che ogni giorno viviamo e modifichiamo attraverso le nostre azioni. Abbiamo il diritto di “rifare” le nostre città, come afferma Henri Lefebvre nel suo “Il diritto alla città”, con riappropriazione e partecipazione attraverso un’azione costante e quotidiana. Il tempo si è fermato, tutto intorno è sospeso ma tu sei andato lo stesso; hai fatto avanti e indietro oppure sei rimasto qui nonostante l’arida terra. La nostra battaglia è contro quella lancetta ferma, contro quei freddi spazi vuoti. Foggia è una grande cicatrice territoriale, è una mamma un po’ bigotta difficile da contraddire ma con la quale non ti stancherai mai di litigare. Attraverso la rielaborazione sempre nuova di questo sentimento Foggia sopravvive contro il nulla, contro questo lento disintegrarsi.


Arcangela Dicesare


Alfonso Galluzzo


Alfonso Errico

Il mio sangue Che non è il tuo Gira solo in un verso E mai smette Gonfia un cuore che quasi scoppia E da esso è spinto A cercare estremità in affanno Non è il tuo e cola o sporca Questo mio sangue non cerca pace E vuole il debito per ogni goccia Pretende Questo mio sangue E chiama altro sangue che non sia il tuo Che col tuo nulla vuole in comune Questo mio sangue è geloso del suo gruppo Sanguineo sanguigno Ci si confonde indissolubile Ma se il tuo sangue tocca marcisce E diventa tuo Questo mio sangue è vivo e libero Finché è il mio sangue Ma mai il tuo.


Alfonso Galluzzo


Alfonso Galluzzo


Triste, solitario y final da Pallone, asfalto e betoniere, Francesco Berlingeri Professionisti del disincanto, fomentatori del basso profilo, distruttori seriali degli entusiasmi infantili. O degli entusiasmi in genere. Noi foggiani non ci prendiamo la briga – e non ci accusiamo il costo vivo – di nutrire speranze. Le speranze sono un vizio pernicioso, come il tabacco, come l’alcool. Alimentare un vizio è da suicidi. E noialtri, liberi dal gioco della credulità, diventiamo presto vecchi, con le voci impastate e i segni attorno agli occhi e sulla fronte. A vent’anni. Pratichiamo tutto ciò che c’è da praticare, a volte anche bene, benissimo, meglio degli altri, ma senza quello slancio ideale che, in presenza di un ideale, ci farebbe eroi e martiri. Niet. Nessun martirio. A noi piace la vita così com’è, senza sogni, semplice, come una colata di bitume traslucido e opaco sulla strada di casa. Nell’estate del 1987 erano successe un bel po’ di cose. Giuseppe Marchioro aveva preso il difficile posto di Zdenek Zeman, il quale aveva già aperto una voragine di nostalgia nel cuore di chi l’aveva visto all’opera l’anno prima. Aveva allestito, il Foggia, la squadra per tentare finalmente la scalata. In precampionato, il Parma di Zeman superò 2-1 il Real Madrid. Noi, finimmo per essere eliminati nel gironcino a quattro di Coppa Italia di C. In serale, durante la partita con la Fidelis Andria, un signore grasso dietro di me mangiava frutta secca. E sputava le scorze di lato. Sibilando. Senza remore. Apparentemente disinteressato a tutto senza mai distogliere lo sguardo dall’evento sportivo. Il Foggia costruito per salire non andava.


Me ne rendevo conto anche io, agitandomi dall’impazienza. Tra gli adulti della Nord serpeggiava un malumore evidentissimo, che finiva per essere più di una presenza fisica. Ad ogni alleggerimento sbagliato, ad ogni apertura fuori misura, ad ogni stop mancato, ad ogni lancio lungo, si sentiva rumoreggiare. Non era contestazione, non ancora. Il calcio d’agosto è calcio d’agosto. E, anche se la Coppa è comunque una competizione ufficiale che finisce negli almanacchi, non è da qui che deve partire il giudizio. Pensavo. Ma quello, il Boemo, aveva già cominciato col piede giusto, a Parma. E che piede! Aveva battuto il Real. Sì, anche noi avevamo giocato col Real. E avevamo giocato bene. “Ma abbiamo perso”, dicevano gli adulti, impermalositi. Come se battere il Real Madrid fosse il minimo sindacale richiesto al precampionato di una squadra di C1. Fatto sta che si sbuffava. E più uno davanti sbuffava, più quello dietro sputava; più davanti si borbottavano recriminazioni, più quello dietro faceva sibilare i suoi ordigni. L’Andria faceva la sua solita partita in maglia bianca. E col tempo prendeva coraggio. Gli adulti, si muovevano come ippopotami in una riserva angusta, e agitavano le mani, gridando – con un tono strozzato adatto all’occasione estiva – cose tipo: “Ma come si fa? Come si fa? Dimmi tu come si fa?”. E quello dietro – il signor Stukas – dardeggiava semenze. Ad un certo punto, stanco di quella sfiducia che mi stava facendo salire il magone, proruppi in una frase palustre e irrevocabile. Dissi: “Ma tanto adesso compriamo Traini”. Pasquale Traini era un attaccante venticinquenne che tanto bene aveva fatto l’anno prima a Cesena. Era, a quanto si mormorava, nel mirino del Foggia da un po’ e, garantivano tutti, avrebbe fatto la differenza, se solo avesse optato per la discesa di categoria. Dissi quella cosa per tirarmi su il morale e infondere speranza agli adulti che circondavano la mia postazione.


La dissi per gli amici di mio padre e di mio zio, in sostanza. Mi guardarono tutti. I loro sguardi acquosi e vacui, il loro sottile disprezzo per gli illusi, erano tutti elementi che mi giunsero, perfettamente leggibili. Ma rimasero in silenzio, per educazione e rispetto per la mia giovanissima età. Bloccarono persino le critiche. Solo un uomo parlò. Uno che non c’entrava niente. Che non era stato interrogato. Che non era stato interpellato. Che nessuno conosceva. Che stava dietro a magiare frutta secca da settanta e passa minuti. “Seh – esordì, allargando di triste irrisione la acca – e così con Ciucci e Traini ci andiamo a fare il giro all’Incoronata!”. Disse. Senza mai distogliere lo sguardo dal campo di gioco. Poi sputò, di nuovo. È una città difficile, la mia. Una volta, in un b&b di Matera, il gestore ci chiese: “Da dove venite?”. Io risposi. E quello fece un: “Aaaaaaaaah, ho capito” che suonava tanto di commiserazione. Provai a chiedere a cosa fosse dovuto quel tono. Replicò: “Voi siete tristi. Come noi. I baresi no. I leccesi no. Persino Potenza non è triste. Solo noi e voi”. Era, in fondo, la stessa convinzione di una mia antica titolare d’azienda che, dinanzi allo scarno fatturato mensile, mi offriva non richieste spiegazioni antropologiche sulla nostra mancanza d’allegria. Strano. Che l’idea della tristezza – che in sé è un sentimento complesso, pieno di sfumature e svolte, nobile e persino reconditamente piacevole – si sposi quasi sempre col l’idea del mancato mercimonio. Seguendo il crinale dei cliché, i baresi tutti commercianti, i leccesi tutti operatori turistici, noi-


altri saremmo tristi in quanto incapaci di fare impresa. In sostanza. Non perché, magari, a mezza sera i nostri sguardi profughi finiscano per vagare verso i monti dove i nostri avi briganti infliggevano perdite rimarchevoli ai piemontesi; o verso il mare, guidati dall’odore pungente delle erbe aromatiche. Non perché, come i brasiliani, affetti da una nostalgia implacabile, una saudade di grandezza perduta, una solitudine da seconda pianura più estesa d’Italia nella seconda provincia più estesa d’Italia. Dopo Sassari. No. Per i topi esiste solo il formaggio. E ai topi non puoi spiegare che non si vive di solo formaggio. Per loro se non produci utile non sei povero, sei triste. Nella prima stagione foggiana di Zeman c’era un giocatore biondo. Aveva la faccia di uno di quelli che nei western trovi al bancone di un saloon. Aveva una specie di caschetto. E, da queste parti, specie nel 1986, se avevi il caschetto biondo eri Nino D’Angelo. E chi altri? Si chiamava Gianluca Baldini ed era un centrocampista ravennate di venticinque anni. Da noi, prese a segnare come un attaccante. Realizzò undici reti, un paio delle quali al Licata nel giorno in cui dissi a me stesso che quel biondino lì aveva tutte le carte in regola per diventare un idolo. Zio Franco aveva una 126. Nel mese di marzo, prendemmo ad andare ogni sera in maternità. Zia Serafina era prossima al parto e c’era grande attenzione al riguardo, soprattutto considerando che quella stagione sperimentale partita come interlocutoria aveva sì regalato gioie insperate, ma non aveva più granché da offrirci. Se non l’esonero inglorioso di Zeman. Ma questo sarebbe avvenuto dopo la nascita di Mariangela. Per il momento, si andava in maternità. Si parcheggiava dentro. Avevo letto di un interessamento del Mantova. Ma, diamine,


il Mantova era in C2. Noi – come sempre – da settembre avremmo puntato alla B. Non poteva che essere una boutade, una cosa detta per dire, un sensazionalismo giornalistico. Di dubbio gusto nei miei confronti, tra l’altro. Fatto sta che decisi di buttarla lì. Aspettai zio al varco e gli dissi: “Dicono che Baldini se ne va…”. Zio, di spalle, rispose: “Sì, se ne va”. Io rallentai. Ma invece di chiedere quel che avrei dovuto chiedere – e cioè: perché? – dissi: “No, io non penso”. Edificando il mio “pensiero” sul nulla più disarmante. Zio replicò: “E mo che vedi…”. Al che, scosso fino alle fondamenta, provai a far valere la ragione: “Ma il Mantova è in C2. Perché uno dovrebbe andare in C2?”. E zio, senza alcun riguardo per i contraccolpi in agguato, rispose: “Per soldi”. Il mondo non fu più lo stesso, da quella sera. E il Mantova, per me, è diventato quello che il Milan è per i granata, dopo Lentini. Eppure, la nostra malinconia andrebbe osservata meglio. Dovremmo, da foggiani, chiedere un supplemento d’indagine al magistrato istruttore. Perché se è vero com’è vero quanto già detto – professionisti del disincanto, fomentatori del basso profilo, distruttori seriali degli entusiasmi infantili e degli entusiasmi in genere – è altresì vero che da noi nessuno dovrà mai aspettarsi prematuri “frat’mo” o salamelecchi che eccedono la quota parte di confidenza già investita, condensata, sedimentata. Noi siamo di quelli che, se gli chiedi: “C’è posto da voi?”, risponderanno sempre: “Mo vediamo, vieni, vediamo che si può fare”. Laddove altri ti garantiranno: “Come no? Vieni, porta gli amici, vi diamo i letti migliori. Ma prima vi offriamo un primo, un secondo, il dolce, il caffè e l’ammazzacaffè”. E poi, a conti fatti, da noi trovi l’accoglienza di cui gli altri si fregiano. Ma è così. È la leggenda di una terra che, come diceva Modugno, è amara e bella.



Andrea Stegaru


Alfonso Errico Angelica Ferrara

Le rughe che circumnavigano Impietose il tuo sguardo stanco Quegli occhi invinti Ma manco sulla via del trionfo Lo sguardo di chi pareggia di professione Ma non lo vuole come impiego stabile Come i graffi sul legno Tutto attorno alla serratura Della porta di un appartamento In un condominio senza ascensore Raccontano di mazzi di chiavi Numerose come gli oneri E portate da lavoro a casa Come ospiti insistenti Ricorsivo come un dado di piombo Che dopo il tonfo rotola Un altro scalino E sceglie la via meno breve Per raggiungere il piano terra.


Andrea Stegaru



Alice Marchesino


Alice Marchesino


Nadia Errico



Antonio Berlingeri


Rich girls don’t cry Giovanni Bucci Mi stavo preparando per uscire. Avevo conosciuto una ragazza e da un po’ ci stavamo frequentando. Una tipa carina ma ricca, troppo ricca per me, parlava a raffica di borse e vestiti, di scarpe e di viaggi. Non sapevo cosa avesse a che fare con me, nè il motivo per il quale volesse conoscermi. Aveva appena rotto con il suo fidanzato, voleva cambiare aria e io ero troppo annoiato da tutto per lasciarla perdere. Si era scocciata delle stronzate superficiali che il suo tipo le comprava ma in realtà sia io che lei sapevamo volesse solamente farsi una scopata diversa. Voleva un’avventura in una stradina tra le case popolari, sentirsi ribelle e trasgressiva per qualche notte con un mezzo sconosciuto incontrato al supermercato. Ha fatto tutto lei, mi ha scritto ambigui messaggi su Instagram, si è fatta tirare un po’ la calzetta e poi è riuscita a portarmi a letto senza troppo sforzo; sono annoiato ultimamente, ve l’ho detto. Mi stava riempiendo di messaggi tanto che il mio cellulare si era trasformato in un vibratore, io ero in ritardo e lei aveva una sfilza di appuntamenti che iniziava con un accurato ma diabolico trattamento dall’estetista e finiva con una lezione di tennis. Telefono, chiavi, sigarette, portafogli. C’era tutto, anzi no, cosa mancava? Ero in ritardo. Fare nervosamente il giro di tutta la casa non funziona mai. Andavo avanti e indietro, cercavo nelle altre stanze, cosa cazzo mancava? Entro nel soggiorno, mio padre parlava al telefono con un collega di questioni che non mi interessavano, urlava come al solito. Quella poltrona aveva ormai la forma del suo culo flaccido, era sempre chiuso in questa


stanza a litigare, il suo secondo ufficio, a volte non si sedeva a tavola neanche per il pranzo, quando c’eravamo tutti, preferiva il suo lavoro a tutto. Niente, nel soggiorno non c’era quello che cercavo, il mio telefono squillava, mio padre urlava, io ero in ritardo… avrei tanto voluto mi scoppiasse il cervello. Ricontrollo le tasche: chiavi, portafogli, sigarette, vibratore. Niente. Giro velocemente per casa, è difficile lasciar perdere, anche se non sai cos’è quella cosa ti serve e questo lo rende la ricerca ancora più importante. -Si può sapere dove cazzo sei?- tuonava la riccona al telefono, non risposi. <<Papà esco, torno tardi>>. Fece finta di ascoltare e mi liquidò annuendo con il capo. Aprii la porta d’ingresso e non feci neanche due passi che ricordai. L’accendino! cazzo! Era l’accendino! Recupero il mio clipper nero sulla scrivania, ripasso davanti alla stanza dove mio padre stava urlando al telefono ma non sentivo sbraitare. Strano, indugiai nel corridoio. Non mi aveva sentito rientrare. Rimasi sul ciglio della porta socchiusa cercando di carpire la conversazione. <<Hai ragione, ho dimenticato di chiamarti. Se vuoi possiamo incontrarci adesso, non ho nulla da fare>> Il tono di mio padre era stranamente pacato, non sentivo quella voce così rilassata da anni. Purtroppo sapevo che la persona dall’altra parte del telefono non poteva essere mia madre, dato il poco interesse che mostravano l’uno per l’altra. A stento si guardavano. Quelle rare volte che si chiamavano le conversazioni prevedevano nell’ordine le seguenti domande: dove sei? quando torni? Cosa c’è per pranzo? Questa telefonata era diversa; lui sembrava dispiaciuto di non averla chiamata prima, lei sembrava parecchio incazzata. Le parole che si scambiavano lasciavano intendere che quel rapporto durava da un po’ -ricordi l’ultima volta- ero


paralizzato. Non riuscivo a crederci, mio padre conosceva il suo passato e lei ironizzava sui suoi difetti. Mio padre aveva un’altra donna, era riuscito a crearsi una relazione duratura all’insaputa di tutti, lui, a sessant’anni suonati scambiava smancerie con una donna che non fosse mia madre. Rimasi scioccato per un attimo, poi realizzai che la cosa non mi sorprendeva affatto. I due conclusero la telefonata dandosi appuntamento poco dopo, decisi allora che la riccona poteva aspettare, dovevo seguirlo e vedere con i miei occhi di chi si trattasse. Mio padre lasciò la poltrona e mise il cappotto, mi nascosi nella mia stanza aspettando scendesse. Mi sentivo in un film, mi appostai sul balcone così da capire quale direzione prendesse, non sarebbe andato lontano dato che aveva lasciato le chiavi della macchina sulla scrivania. Lo vidi attraversare il cortile di casa fino a raggiungere un punto dove l’incontro di due palazzi creava un piccolo vialetto oscuro. In quella strada non passavano macchine, nessuno la usava, ci andavamo a pisciare o a fumare le cannette da ragazzini, ottimo anche per imboscarsi a quanto pare. Scesi di casa velocemente, con il cuore che mi batteva in gola, mi nascosi dietro una macchina a pochissimi metri dall’imbocco del vialetto, riuscivo a vedere a malapena l’ombra di mio padre riflessa dall’unico lampione poco distante. Aspettai. Passarono pochi minuti, quando un’altra ombra si avvicinò a quella di mio padre, non riuscivo a vedere chi fosse da dove ero nascosto perchè i due piccioncini erano nel mezzo del vialetto... avrei dovuto sporgermi dal muro che divideva le due estremità del passaggio, con il rischio di essere visto. Pensai che non fosse giusto quello che stavo facendo, ma ormai ero lí, non potevo tirarmi indietro quindi decisi che dovevo capire chi era. Arrivai a pochi metri da loro, e capii che non mi sarebbe servito più affacciar-


mi, sentii nettamente una voce maschile parlare con lui. Avevo preso un granchio, era un amico che conosce da anni, parlavano delle solite cazzate di lavoro. Sono un coglione pensai, accesi una sigaretta e feci per allontanarmi poi però ripensai alla telefonata, a quelle parole che i due si erano scambiati... magari non era lui che stava aspettando, magari lo ha incontrato lì per sbaglio mentre raggiungeva quella donna. Mi fermai, buttai la sigaretta, tornai indietro verso l’imbocco del vialetto e mi affacciai di scatto. I due uomini si stavano baciando. Rimasi senza fiato, girai i tacchi e corsi a gambe levate nella direzione opposta. Ok, il mio cervello dovette in pochi istanti realizzare due cose: la prima, mio padre aveva tradito mia madre... la seconda, mio padre era nettamente omosessuale. Mano mano che la mia testa elaborava queste nuove informazioni, mi rendevo conto che nessuna delle due mi turbasse realmente, avrei dovuto essere quantomeno incazzato invece ero sereno, anzi quel gesto mi fece sorridere. Capisco che dopo quarant’anni di matrimonio mal riuscito, logoro e disinteressato si voglia e si possa cercare altro, almeno per svagarsi un pò, per un’avventura nuova. Cercai dentro di me qualcosa per essere arrabbiato, una sorta di bigottismo o omofobia con la quale potessi condannare quel gesto e invece non trovai niente. Li vidi baciarsi in un vicolo come due ragazzini spaventati e provai quasi tenerezza. Ero confuso, c’era una parte di me che avrebbe voluto condannare il bacio in qualche modo ma l’altra parte di me vedeva in quel bacio un gesto rivoluzionario; sia per l’età avanzata dei due uomini sia per il contesto di una città retrograda come la nostra che sicuramente non li avrebbe capiti. In quei vicoli foggiani avevano acceso un fuoco, la piccola rivoluzione di mio padre.


La riccona nel frattempo aveva deciso che aspettarmi era troppo faticoso, troppo estenuante e degradante, lei ad aspettare me. Mai successo che aspettasse qualcuno. Mi scrisse che tornava con l’ex. Scrisse che erano troppe le cose che la legavano a lui e che stare con me le aveva fatto capire quanto in realtà tenesse a lui. Che noia. Chiamai i miei amici, decisi di raggiungerli e bere qualcosa per dimenticare questa serata inaspettata, a loro ovviamente non raccontai niente di mio padre, sarebbe stato il nostro piccolo segreto. Ritornando a casa, decisi che ero felice, perché malgrado fossi un ragazzo ventenne cresciuto in una città del sud Italia, con le sue tradizioni e le sue arretratezze culturali, un gesto del genere non mi aveva provocato rabbia o schifo o repulsione, anzi lo ritenevo un gesto d’amore più alto, controcorrente. Ricevo una chiamata, ancora lei, pensai di rifiutare la chiamata ma risposi. <<Ciao, dimmi>> dissi io. <<Ciao, spero non ci sia nessun rancore tra noi>> Ma che rancore, chi se ne frega <<No figurati, va bene così e poi da quello che mi hai raccontato state benissimo insieme>> era vero. <<Comunque sai che ho appena visto tuo padre accompagnare il mio a casa, tu sapevi che si conoscevano?>> Scoppiai a ridere <<Si conoscono molto meglio di noi, fidati>>.


Angelica Ferrara



Pietro Latiano



Cristina Comparato


Nadia Errico


«Esistono infatti quattro umori nell’uomo, che imitano i diversi elementi; aumentano ognuno in stagioni diverse, predominano ognuno in una diversa età. Il sangue imita l’aria, aumenta in primavera, domina nell’infanzia. La bile gialla imita il fuoco, aumenta in estate, domina nell’adolescenza. La bile nera, ovvero la melanconia imita la terra, aumenta in autunno, domina nella maturità. Il flegma imita l’acqua, aumenta in inverno, domina nella vecchiaia. Quando questi umori affluiscono in misura non superiore né inferiore al giusto, l’uomo prospera.»


tatarigami sangue Prodotto, rilegato e distribuito da Ruggine Giugno 2021


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