TEMPO PRESENTE
n. 373-376 gennaio-aprile 2012
euro 7,50
veRSO unA nuOvA cOStituente? * L’ARGentinA DOPO LA MORte Di n. kiRSchneR * DALLA cADutA DeL MuRO AD OGGi: un MOnDO Di “eX” * teStiMOniAnZA Di unA OttAntenne “ceRchiOBOttiStA” * iL cORPO Di MORO * Le MeMORie Di MASSiMO RenDinA * inteRviStA A eRMAnnO ReA * OttO MARZO * cOStituZiOne e nuOve GeneRAZiOni * L. PiRAnDeLLO: unA FiGuRA Di inteLLettuALe “PuRGAtO” DAL FASciSMO
Angeloni Anselmi e Esposito Cantarano De Raffaele Jannuzzi Micheli Matvejevich Paolini Giachery Sabatini Vallauri Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA
DiRettORe:
Angelo G. SABAtini - viceDiRettORe: Attilio ScARPeLLini cOMitAtO eDitORiALe
Dario BuZZeLLi - L. Rino cAPutO - Antonio cASSuti Girolamo cOtROneO - Giuseppe De veRGOttini emmanuele F. M. eMAnueLe - Walter PeDuLLà - carlo vALLAuRi cOnSiGLiO Dei GARAnti
hans ALBeRt - Alain BeSAnçOn - enzo BettiZA karl Dietrich BRAcheR - natalino iRti - Bryan MAGee Pedrag MAtvejevic - Giovanni SARtORi ReDAZiOne
Coordinamento: Salvatore nASti Paola BeniGni - Giuseppe cAntARAnO - Matteo MOnAcO - Francesco Russo Marco SABAtini - Guido tRAveRSA - Andrea tORneSe - Sergio venDitti Responsabile: Angelo G. SABAtini Grafica: Adriano MeRLO
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TEMPO PRESENTE
Rivista mensile di cultura N. 373-376 Gennaio - Aprile 2012 PRIMA PAGINA GIUSEPPE CANTARANO, Verso una nuova Costituente?, p. 2 OSSERVATORIO JANNUZZI , L’Argentina dopo la morte di Nestor Kirchner, p. 4 M ATVEJEVICH , Dalla caduta del muro ad oggi: un mondo di “ex”, p. 10 CORSIVO NOEMI PAOLINI GIACHERY, Testimonianza di una ottantenne “cerchiobottista”, p. 12 MINIMA MORALIA ANGELO G. SABATINI, Il corpo di Moro, p. 20 UOMINI E IDEE CARLO VALLAURI, Le memorie di Massimo Rendina, p. 23 R. ANSELMI - E. D. ESPOSITO, Intervista a Ermanno Rea, p. 25 ANGELO ANGELONI, Otto marzo, p. 31 ALESSANDRO DE RAFFAELE, Costituzione e nuove generazioni, p. 33 LE MASCHERE DELL'ARTE SERGIO MICHELI, Luigi Pirandello: una figura di intellettuale “purgato” dal fascismo, p. 36 LETTURE CARLO VALLAURI, Di Nucci, Lo stato fascista, p. 40 CARLO VALLAURI, MarcelloFlores, Storia dei diritti umani p. 41 CARLO VALLAURI, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, p. 42 CARLO VALLAURI, Cianci, L’IRI dalla nascita al ruolo dominante nell’economia italiana , p. 44 CARLO VALLAURI, Pier Luigi Battista, Conformisti e nemici della libertà, p. 44 CARLO VALLAURI, Luciano Violante, Magistrati, p. 46 CARLO VALLAURI, La tragedia della schiavitù, p. 47 1
PRIMA PAGINA
Giuseppe Cantarano
Verso una nuova Costituente?
Il nostro sistema politico sembra ormai entrato in una nuova “fase costituente”, diciamo pure così. Almeno in prospettiva. Quello che ora sembra certo, invece, è la fine di un ventennio caratterizzato dalla “novità” di Berlusconi. E del suo aziendalismo mediatico applicato alla politica. A concludersi sembra essere un’epoca. Durante la quale l’antipolitica si è tradotta interamente in politica. Sostituendosi ad essa. Ancora non riusciamo ad intravvedere un nuovo futuro politico ed istituzionale per la nostra Repubblica. Appare ancora tutto incerto e indeterminato. Cosi come incerti sembrano essere gli esiti della crisi economica e sociale. Si ripete - più o meno, con qualche variante – quello che avvenne vent’anni fa. Con la decomposizione del vecchio sistema dei partiti per opera di Mani pulite. Che avrebbe dovuto seppellire la cosiddetta “prima” Repubblica. E inaugurare la “seconda”. Ma tale discontinuità politico-istituzionale, come sappiamo, non è mai avvenuta. Per la semplicissima ragione che, in questo ventennio, nessuna riforma costituzionale è stata varata. Nonostante i proclami demagogici e populistici di Berlusconi e del suo amico “padano” Umberto Bossi. Insomma, è come se l’orologio del sistema politico fosse tornato indietro di un ventennio. Con la sola eccezione del Partito democratico, le altre forze politiche sono letteralmente allo sbando. E
non solo per la “solita” questione morale. Ma anche perché non sono state in grado di interpretare la voglia di cambiamento che percorreva la nostra società. Quella voglia di cambiamento alla quale diciamo pure la verità - neanche il Partito democratico è riuscito a dare una chiara e persuasiva espressione politica. Malgrado ciò, è il partito di Bersani a costituire, in questa fase, l’asse attorno al quale far ruotare una nuova stagione politico-istituzionale. Che metta finalmente fine alla disaffezione dei cittadini verso la politica. E verso i partiti. Senza i quali – è bene ricordarlo sempre – non starebbe in piedi nessuna idea e nessuna pratica della democrazia. Che ha bisogno – non smetteva mai di ripeterlo Norberto Bobbio – della fisiologica mediazione dei partiti. Che vanno riformati, rivitalizzati, modernizzati. Non “rottamati”, per usare l’ormai celebre slogan del sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Che però – è bene precisarlo – non intende “rottamare” il Partito democratico. Ma la sua vecchia classe dirigente. Proveniente ancora dalle fila della vecchia Democrazia cristiana e del vecchio Partito comunista. Ecco perché il movimento Cinque stelle di Beppe Grillo - sebbene dia sfogo al sentimento di indignazione dei cittadini verso la politica dei partiti corrotta, autoreferenziale ed inefficiente – rischia di rimanere inghiottito dal rancore antipolitico. A cui dà evidentemente espressione.
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Verso una nuova Costituente?
Ma che, nello stesso tempo, pure alimenta. Giacché, un conto è prendersela legittimamente con la classe politica che ha devastato il sistema dei partiti. E le istituzioni democratiche. Altro conto, invece, sparare a zero sui partiti e le istituzioni stesse. Grillo, insomma - soprattutto alla luce dei clamorosi consensi che fa registrare il suo movimento un po’ ovunque in Italia – è di fronte ad un bivio. Da un lato può continuare ad alimentare il disprezzo populistico dei cittadini verso la politica, in generale, e i partiti, in generale. Oppure può tradurre questo disprezzo verso una politica migliore. Maggiormente partecipata. Più pulita. E sorretta da efficaci e trasparenti pratiche istituzionali. Che è quello che già avviene, del resto, in tante amministrazioni locali. Dove operano politicamente tanti suoi rappresentanti. Noi tutti, evidentemente, auspichiamo che Grillo svolti in questa seconda direzione. Per il bene della nostra democrazia, soprattutto. Anche perché non può continuare a gestire il consenso alimentando ancora l’antipolitica. Un sentimento non certo estraneo al suo movimento delle origini. Ma che è ormai del tutto inadeguato ad esprimere gli umori, le passioni, le motivazioni delle centinaia di migliaia di cittadini – soprattutto giovani – che oggi lo seguono. E che rischierebbe di perdere per strada, se decidesse di
continuare a premere l’acceleratore sconsiderato e spregiudicato del populismo. Non a caso, è verso il Partito democratico che ora Grillo scaglia i suoi strali incendiari dell’antipolitica. Giacché è l’unico partito - quello di Bersani - che può restituire dignità e nuova legittimazione democratica alla politica. E ai partiti. E’ l’unico partito che può riattivare e ampliare una maggiore e autentica partecipazione dei cittadini alla vita politica. All’insegna della trasparenza, per quanto riguarda la selezione del gruppo dirigente. E tutto questo grazie alle primarie. Fortemente volute da Bersani. Sulle primarie il giudizio politologico – diciamo così – resta aperto. In ogni caso, esse rappresentano una novità nel panorama politico e istituzionale della nostra democrazia. Non solo per la modalità con cui vengono scelti i gruppi dirigenti di un partito. Ma soprattutto per la mobilitazione civile che si attiva. E la nostra democrazia, mai come adesso, è soprattutto della partecipazione di massa dei cittadini che ha bisogno. E’ del protagonismo diretto dei cittadini alla vita politica – mediante la mediazione dei partiti – che il nostro paese ha oggi maggiormente bisogno. Ecco perché il partito di Bersani ha una responsabilità politica non solo verso i suoi militanti. Ma verso l’intero paese.
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OSSERVATORIO
Giovanni Jannuzzi
L’Argentina dopo la morte di Nestor Kirchner
L’Argentina non é un paese facile da capire: é un Paese latino-americano, visto che é parte del sub-continente, o europeo, dati il clima temperato e la composizione etnica della grande maggioranza della sua popolazione (italiana e spagnola in prevalenza)? É un paese ricco – considerando l’immensitá del suo territorio e l’abbondanza delle sue risorse naturali, comparata con una popolazione che, su una superficie pari a quella dell’India, non supera i 40 milioni di abitanti – o é un paese economicamente del Terzo Mondo, sia pure tra i piú avanzati, como suggeriscono il Prodotto annuale pro-capite (attorno ai 9 mila dollari), l’esistenza di ampie sacche di povertá e le ricorrenti crisi finanziarie? É un Paese moderno e civile, come suggerisce la qualitá dei servizi, il livello culturale e, in generale, l’importanza della classe media, o un Paese arretrato, come si potrebbe pensare per certe carenze educative e sociali e la pesantezza dell’apparato burocratico? La veritá é che l’Argentina é un pó di tutto questo e, secondo i momenti e le circostanze, un aspetto appare piú in vista e prevalente rispetto a un altro. Quando fui nominato Ambasciatore d’Italia a Buenos Aires, nel 1998, l’Argentina governata da Carlos Menem appariva lanciata in un’ espansione senza precedenti, all’insegna
delle privatizzazioni, della modernizzazione dei servizi e della piena apertura al mondo globale. Il Presidente del Consiglio Prodi, nella visita di congedo che gli feci nell’aprile di quell’anno, mi disse con entusiasmo che l’Argentina – ove egli aveva appena compiuto una visita ufficiale – era veramente il modello di una economia moderna e aperta, del resto elogiata e sostenuta dal FMI e, pienamente inserita nel Mercosur, rappresentava la piattaforma ideale per la nostra penetrazione economica nel subcontinente. Fu egli stesso a decidere due iniziative, di diverso segno ma di notevole importanza simbolica: l’apertura di una sede dell’Universitá di Bologna a Buenos Aires e la tenuta di una grande mostra dell’ICE a Buenos Aires nel maggio del 1999. La mostra (“Due Paesi in movimento”) fu in un certo senso il punto piú alto di una euforia economica (fondata tra l’altro sulla crescente presenza di nostre grandi imprese, come TELECOM, FIAT, Pirelli, Generali di Venezia, Ferrero. Olivetti, Benetton, BNL, Commerciale) e sull’intercambio in costante aumento. Da allora, le cose iniziarono a precipitare: nel 2000 si rese evidente la forte crisi finanziaria, che a fine del 2001, colle forzate dimissioni del Presidente De la Rua, sboccó nella ces-
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L’Argentina dopo la morte di Nestor Kirschner
sazione del pagamento del debito. nell’uscita dalla convertibilitá “un dollaro un peso” e nel blocco dei depositi bancari. Nel 2002 il PIL caló del 14%, gli investimenti cessarono e si ebbe la sensazione di un baratro senza fondo. Che era successo? Ho provato ad analizzarlo in un mio libro, “Servizio di Stato”, di cui Tempo Presente ha dato conto: la ricetta economica menemista ispirata dal Ministro dell’Economia Domingo Cavallo (di origine piemontese) era basata su alcuni elementi del c.d. “consenso di Washington”: privatizzazioni, apertura al mondo, convertibilitá della moneta. Durante i cinque anni della gestione di Cavallo, le cose andarono bene: la convertibilitá “un peso-un dollaro” stroncó l’inflazione e lo squilibrio della bilancia dei pagamenti che, assieme all’aumento esponenziale delle importazioni, essa causó (la paritá essendo sin dall’inizio irealistica), fu coperto dal grande afflusso di capitali stranieri investiti nelle privatizzazioni. Il bilancio statale si mantenne abbastanza sotto controllo e, comunque, il largo credito di cui l’Argentina godeva sui mercati e l’attrazione degli alti tassi di interesse pagati, permisero di finanziare agevolmente il fabbisogno. Poi Cavallo, nel 2005, se ne andó, e Menem, rieletto Presidente, mantenne la politica generale, ma non il ferreo controllo, del suo ex Ministro. Crebbero corruzione e indebitamento, aggravate dall’intento di Menem (fallito) di postularsi per una terza rielezione e quindi dalla sua incontrollata propensione alla spesa. Nel 2000 il credito cominció a scarseggiare, le agenzie di rating dettero all’Argentina la classifica peggiore, nell’agosto 2001 i mercati si chiusero all’Argentina e il FMI chiuse i cordoni della borsa (ricordo una drammatica telefonata che mi fece il 15 agosto Cavallo, ritornato a dirigere l’Economia, per invocare l’aiuto italiano a
Washington). E Cavallo, considerato “l’ultima spiaggia”, dovette ricorrere a misure disperate: taglio di stipendi e pensioni, blocco generale della spesa, blocco dei depositi bancari. La crisi fu economica e politica. De la Rua dovette andarsene, dopo appena due anni di governo e i Presidenti eletto dal Parlamento per rimpiazzarlo, prima Adolfo Rodriguez Sáa e poi Eduardo Duhalde, dovettero dichiarare default e uscita dalla convertibilitá. Fu un durissimo risveglio: il Paese scoprí di avere un debito altissimo (14 miliardi di dollari soltanto coll’Italia) e nessuna possibilitá di pagarlo o di attingere nuovo credito sui mercati. Fu il punto piú basso. Peró il nuovo Ministro dell’Ecomia, Roberto Lavagna, adottó una politica saggia e di basso profilo: dollaro alto, per favorire le esportazioni e incoraggiare la produzione locale “di sostituzione delle importazioni”; mantenimento della sospensione del servizio del debito fino a un negoziato generale coi creditori. L’economia riprese a ritmo accellerato, generando persino un consistente superavit fiscale, la disoccupazione cominció a rientrare. Il Presidente eletto nel 2003, Nestor Kirchner, ereditó questa politica e la applicó con molta coerenza. Nel 2005 fu raggiunto un accordo col 74% dei creditori esterni, con uno sconto di quasi il 70%. Il Paese crebbe al ritmo del 6 o 7%, il servizio del debito riprese, fino a che la collaborazione tra Kirchner e Lavagna venne meno. Da allora, durante la sua presidenza propria o quella successiva, a partire dal 2007, di sua moglie Cristina, la politica economica del governo conobbe una inflessione abbastanza marcata (anche se in nulla comparabile a quelle arruate da altri Paesi latinoamericani nella stessa epoca) Per capirne la natura, bisogna riandare per un attimo alle origini del peronismo,
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Giovanni Jannuzzi
questo movimento politico ispirato dalla figura carismatica del generale Juan Domingo Peron (di origine sarda), che ha dominato l’Argentina, al potere o all’opposizione, nel bene e nel male, dal 1946 ai giorni nostri. Molti analisti e politologhi hanno cercato di definirlo: il peronismo, plasmato per sempre dalla personalitá complessa del suo fondatore, sfugge a definizioni precise: ispirato inizialmente dai fascismi europei (che Peron vide da vicino e ammiró, in Italia sopratutto), autoritario nella concezione della societá peró del tutto rispettoso delle forme democrati che; tendenzialmente statalista nell’economia, soprattutto nei servizi pubblici e nelle industrie strategiche (piú sul modello italiano dell’IRI, tuttavia, che su quello del socialismo reale); nazionalista e popolare,conservatore sotto l’aspetto morale, fortemente anticomunista ma profondamente innovatore nel settore sociale. In realtá nel peronismo si ritrovano tutte o quasi le motivazioni e le spinte che caratterizzano il secolo XX e si ritrovano nella psicologia collettiva di un Paese latino, a mezzo via sul cammino dello sviluppo, con un misto di pragmatismo e illusioni, di concretezza e velleitá: con elementi, tuttavia, che ne fanno un fattore quasi indispensabile di equilibrio di governo: il suo rapporto strettissimo coi sindacati e la istintiva e diffusa capacitá di controllare le multiple reti del potere locale attraverso una infiltrazione capillare e diffusa in tutto il Paese. Il fatto é che nel peronismo (come – nonostante le differenze – nella DC di un tempo) si ritrova un pó tutto e il contrario di tutto: peronista era Menem, conservatore, liberale e ardentemente filooccidentale; peronisti erano i “montoneros” che al ritorno di Peron negli anni 70 furono i protagonisti di un sanguinoso terrorismo che a sua volta provocó la spietata reazione militare; peronista la “Triplice A”, una terribile organizzazio-
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ne terrorista di estrema destra. Kirchner apparteneva, per la sua storia giovanile, alla sinistra peronista, e cosí l’attuale Presidente, e sua consorte. Cristina. Uomo pragmatico nella gestione degli affari della provincia di Santa Cruz, di cui fu a lungo un efficiente governatore, e nel primo periodo della sua presidenza, una volta allontanatosi Lavagna dal Ministero dell’Economia la sua linea si orientó verso le radici peronisti a cui ideologicamente egli e la moglie si rifacevano e soprattutto a un forte intervento dello Stato nell¿economia, Stato gestore, regolatore e redistributore di ricchezza, per contrastare le innegabili e pesanti diseguaglianze di reddito: e quindi, rinazionalizzazione delle imprese privatizzate, nessun favore al capitale straniero, forte aumento della spesa sociale, controllo dei prezzi e delle tariffe amministrate (con conseguenti trasferimenti di risorse alle imprese gestrici di servizi), e, all’estero, liberazione dal controllo del FMI, accentuazione dell’indipendenza e della collaborazione latino-americana, collaborazione preferenziale col venezuelano Chavez, affidamento sul capitale e l’impresariato nazionale per gli investimenti. Non puó dirsi che le cose abbiano funzionato male, anche perché i prezzi internazionali delle commodities esportate dall’Argentina si sono mantenuti alti (specie per la soia), generando un costante superavit della bilancia commerciale, un netto e continuo aumento delle riserve e molti anni di avanzo fiscale, oltre a una costante progressione economica. La crisi del 20082009 ha avuto effetti limitati sull’Argentina, quasi per nulla inserita nel giro della finanza internazionale. La carenza di investimenti produttivi, tuttavia, ha cominciato ad avere qualche effetto sulla quantitá dell’offerta, che, assieme all’aumento della spesa pubblica, stá generando un’inflazione attestatasi ormai attorno al 25% annuale, ció che
L’Argentina dopo la morte di Nestor Kirschner minaccia di scatenare la vecchia e nota dei prodotti agricoli, soia in special spirale di conflitti sociali, limitata soltan- modo. Il conflitto sorto allora si é, dalle to dal buon rapporto che il Governo due parti, radicalizzato, assumendo tinte conserva colle grandi centrali sindacali. ideologiche forse antistoriche. E ha conIl debito pubblico resta, inoltre, molto dotto a una sconfitta politica del alto: recenti iniziative del Ministro Governo, quando il decreto-legge é stato dell’Economia, Boudou, hanno inteso bocciato al Senato col voto decisivo del riportare l’Argentina sui mercati finan- Presidente dell’Assemblea e Vicepresidente ziari, ma é presto per sapere se avranno della Nazionale quindi alleato dei successo (restano insoluti molti nodi, tra Kirchner–JulioCobos. cui i portatori di buoni del debito pubCome conseguenza, la popolaritá dei blico argentino restati fuori dei regola- Kirchner é calata e le elezioni legislative menti successivi – crica 25 miliardi di di medio termine, nel giugno 2009, dollari – e il debito di oltre 7 miliardi col hanno segnato una sconfitta per il Club di Parigi.) Tuttavia, nell’insieme , la Governo. situazione economica é migliore che in A questo punto alcuni preconizzavano altre parti del mondo, il Paese seguita a che si aprisse una fase nuova, di apertucrescere e, a prezzi internazionali inva- ra al dialogo tra Governo e opposizione, riati, crescerá anche nel 2011. Il nodo ormai in maggioranza, ma ció avrebbe della situazione, tuttavia, piú che econo- portato a un ovvio annacquamento di mico, é politico: durante la sua gestione, una linea politica ed economica a cui né diretta o indiretta, Nestor Kirchner era Nestor Kirchner né sua moglie volevano stato accusato di avere una concezione o potevano rinunziare, senza con questo conflittuale del la politica, volta a riunire tradire le radici stesse delle proprie connelle mani del governo federale e nelle vinzioni. E cosí non é infatto stato: il sue proprie le leve essenziali del potere, Governo ha seguito per la sua strada, senza troppa cura per i normali contrap- pur pagando un alto costo di immagine: pesi democratici e repubblicani. Sarebbe rinnovo dei poteri speciali in materia lungo esaminare qui le tante, forse in economica, gestione libera del bilancio, parte fondate, e in altra parte pretestuo- uso delle riserve della Banca Centrale se, polemiche vicende di questi anni. per il finanziamento del debito, nuova Resta il fatto che, sul versante opposto legge sulle emissioni radio e TV che corall’esecutivo, malgrado tutto coerente e regge quella introdotta in tempi di regicompatto e con una sua chiara visione me militare. Il costo politico, come ho delle cose, l’opposizione, che pure é ora detto prima, é stato alto, ma al maggioranza nel Congresso, dimostra Governosi poneva la scelta tra affrontargravi divisioni e una complessiva ineffi- lo e rinunciare alle basi della propria esicienza. Resta il fatto che l’Argentina é un stenza politica. Di fronte alle resistenze Paese complesso e articolato dove, a dif- diffuse, alcuni potevano parlare, fino a ferenza di altri Paesi del Sud America, un mese fa, di un declino irreversibile del l’opinione pubblica é preparata e atten- ciclo kirchnerista, ció anche per le notita a difendere le libertá repubblicane zie largamente riprese dalla stampa di faticosamente riconquistate dopo le dit- scandali veri o presunti a carico di memtature militari. La sua capacitá di mobili- bri dell’Amministrazione. L’impressione, tazione é indubbia e ha praticamente in sostanza, era che l’ex-Presidente paralizzato l’iniziativa piú discussa e con- Kirchner, colla sua figura forte e conflitflittuale del Governo, cioé l’aumento nel tiva di leader indubbio, catalizzasse con2008 delle ritenzioni sull’esportazione tro di sé forze di rigetto che alla fine 7
Giovanni Jannuzzi
avrebbero potuto abbatterlo. E tuttavia, la sua recente, drammatica morte ha cambiato tutti i dati del problema, sollevando tra l’altro un’onda di emozione popolare che ha dimostrato quanto la sua figura godesse ancora di appoggi e affetto diffusi e togliendo all’opposizione un facile catalizzatore e bersaglio, capace di unificarla al di lá delle sue profonde e forse insanabili differenze (un pó come in Italia per l’antiberlusconismo). Certo, in un Paese che nella sua storia bicentenaria ha conosciuto a varie riprese un sistema di leader forti, la scomparsa del leader riconosciuto potrebbe significare la disgregazione del movimento che a lui faceva capo. Ma Kirchner ha lasciato un’erede politica, sua moglie Cristina Fernandez, compagna di tuttomil suo percorso politico e Presidente del Paese dal 2007 e a cui nessuna norma costituzionale interdice la candidatura nel 2011: una persona convinta, determinata e in grado di condurne avanti l’ereditá politica, rafforzata ora dall’emozione, dal compianto e dalla solidarietá per la scomparsa del compagnp, che hanno riportato la sua popolaritá attorno a quota 40%: percentuale, questa, cruciale ai fini dell’elezione presidenziale, giacché, se la Costituzione argentina prevede che per essere eletti al primo turno occorra il 45% dei voti, consente anche l’elezione col semplice 40% se il secondo piú votato non arriva al 30% (il che, nell’attuale frazionamento dell’ppposizione, apparee almeno ptobabile). É presto per predire il futuro, ma qualche congettura ragionevole puó certo farsi: come accade dal 1946 in poi (salvo i periodi di dittatura militare) la contesa elettorale si definisce tra uno o piú candidati peronisti e almeno un candidato del vecchio, storico Partito Radicale di Irigoyen e Alfonsin.
Nelle elezioni del 2003 i candidati peronisti erano tre (Menem, Rodriguez Sáa e lo stesso Kirchner e, accanto a loro, candidati di altri gruppi: nessuno si impose al primo turno, Menem ottenendo il 26% e il secondo votato, Kirchner, il 22%, e l’elezione fu definita a favore di quest’ultimo per l’abbandono di Menem). Altrettanto nel 2007, ma allora Cristina Kirchner vinse al primo turno con il 46%. Nel 2011, una prima ipotesi (molto probabile) é che la Kirchner sia candidata, ma in questo caso é piú che verosimile che si presentino contro di lei altri candidati del peronismo dissidente, rendendole piú difficile raggiungere il 40%. Sul versante radicale, i precandidati sono due: Riccardo Alfonsin, figlio dell´ex-Presidente del ritorno alla democrazia, defunto nel 2009, e l’attuale Vicepresidente Cobos. É pensabile che tra i due si dirima la questione in una sorta di primaria, per non arrivare divisi al voto, che sarebbe un suicidio perché precluderebbe con certezza il passaggio al secondo turno. Va considerato che sui radicali pesa ancora il clamoroso fallimento del Governo di De la Rua, e in genere la percezione che i radicali, intellettualmente e moralmente preparati, si dimostrano alla prova dei fatti incapaci di governare, come storicamente é per lo piú accaduto, anche per l’incapacitá di contropllare sindacati e forze profonde della societá. Vi sono poi alcune incognite: il giovane Sindaco di Buenos Aires, Maurizio Macri (figlio di italiani ), le cui ambizioni presidenziali sembrano incontrare ascolto in una parte non indifferente dell’opinione, specie tra i giovani, ma opera al di fuori delle strutture organizzative consolidate e quindi in svantaggio (per non considerare alcuni problemi giudiziari che potrebbero paralizzarlo). É poi sempre possibile che nel peronismo, per ora diviso tra kirchneristi e antikirchneristi, prevalga il ten-
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L’Argentina dopo la morte di Nestor Kirschner
tativo di ricomporre l’unione attorno a un candidato di consenso (che non sarebbe presumibilmente la signora Kirchner. Ma, personalmente, ritengo non facile fare da parte la Presidente attuale, forte del peso del settore kirchnerista che ad essa fa capo e che, pur essendo minoritario nel Paese, controlla il necessario “zoccolo duro” del 30% di voti, oltre alla spesa pubblica sempre importante in un anno elettorale; e forte di essere il punto di riferimento certo e visibile di una parte dell’opinione, pronta a mobilitarsi anche nelle piazze, di fronte a una molteplicitá di possibili candidati ancora indefiniti e in aspra contesa tra di loro. La battaglia, é presuminile, sará per la vittoria al primo turno, ché in caso di ballottaggio i risultati sogliono essere per definizione imprevedibili.e, naturalmente, molto dipenderá dall’andamento delle cose, e dei sondaggi, nei mesi decisivi da qui a marzo marazoaprile prossimi e dalla percezione che avranno delle possibilitá di successo di questo o quel candidato i leader piú importanti del peronismo (Governatori provinciali, Sindaci etc.). É certo comunque che, coll’elezione del 2011, non si definirá soltanto la scelta di una persona chiamata a reggere i destini del Paese, ma l’orientamento della politica interna ed estera e dell’economia nei successivi quattro anni. O l’Argentina é a un bivio o proseguirá coll’attuale politica di economia sociale ed autoctona (magari quá e lá corretta secondo le esigenze) o tornerá a un modello basato sugli investimenti esteri e l’apertura al mondo globale. Nel primo caso, non credo vi siano da temere in alcun modo la radicalizzazione e gli eccessi di tipo venezuelano (l’Argentina e la sua Presidente hanno troppo buon senso per questo). Nel secondo, é almeno da sperare che siano evitati gli errori
manifesti della gestione menemista, primi fra tutti l’indebitamento incontrollato e l’asservimento di fatto al capitale straniero. Alcune cose dovrá comunque fare il prossimo Presidente, chiunque esso sia: 1. In primo luogo dovrá affrontare con decisione il problema della sicurezza nelle aree urbane, diventato realmente pressante e che suscita sempre maggiori reazioni tra la gente. 2. Dovrá superare l’impressione, vera o falsa, di incertezza giuridica in materia di proprietá e di investimenti produttivi, e ridare fiato alla libera fissazione di prezzi e tariffe, soli mezzi per garantire il finanziamento futuro delle grandi infrastutture del Paese: 3. Sviluppare una politica dell’energia diretta ad assicurare il crescente fabbisogno futuro di un Paese in crescita. 4. Mantenere la politica dei diritti dell’uomo ripresa dai Governi Kirchner, lasciando finalmente alle spalle le tristi ereditá della dittatura. 5. Reinserire maggiormente l’Argentina nel giro dei normali rapporti internazionali, riprendendo la vecchia amichevole consuetudine con i principali Paesi occidentali e tra questi con l’Italia, colla quale essa si é di fatto interrotta dal 2003 ad oggi. Le responsabilitá a questo riguardo vanno egualmente ripartite tra i due Governi; ma quanto a noi italiani non possiamo scordare che questo Paese é un grande pezzo di Italia, dove vivono almeno 15 milioni di persone col nostro sangue, oltre 600 mila cittadini e 500 mila elettori nostri. Basterebbero questi dati, e il peso e l’attrazione della nostra cultura qui, e la presenza della nostra industria, a giustificare uno sforzo, se non di spesa, almeno di attenzione da parte nostra che da anni mi sembra venuto meno.
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Pedrag
Matvejevich
Dalla caduta del muro ad oggi: un mondo di “ex”
Fino a qualche tempo fa osservavamo in primo luogo I'EST europeo e un sistema sociale che crollava in questa parte della pianeta. Da meno di un anno fa, nel 2008- 2009, non guardiamo solo in questa direzione. I nostri sguardi s'incrociano e si perdono in lontananza, creando una paura quasi universale. Essa sembra unirci più di una globalizzazione che cercava, a modo suo, di "avvicinarci" gli uni agli altri. Oggi, quasi tutto il mondo diventa più o meno "ex". L’unisce la nostra inquietudine. La caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda hanno visto una parte del mondo vivere un’esistenza in qualche modo postuma: un ex-impero, numerosi ex-stati ed ex-patti tra stati, tante ex-società ed ex-ideologie, ex-cittadinanze ed ex-appartenenze, e anche ex-dissidenze ed ex-opposizioni. Era legittimo domandarsi cosa significasse, in realtà, essere o dirsi «ex». Essere stato cittadino di un'ex-Europa più o meno affrancata, di una ex-Unione Sovietica disgregata, di una ex-Iugoslavia distrutta? Essere diventato un ex-socialista o ex-comunista, ex-tedesco dell'Est, excecoslovacco – ciò è solo ceco o solo slovacco, membro di un ex-partito o partigiano di un ex-movimento? L’Est non aveva diritto esclusivo sullo statuto di «ex». In Occidente e altrove, si conoscono bene degli ex-stalinisti, degli ex-colonialisti, degli ex-sessantottini (tanti, dappertutto), tutta una ex-sinistra diventata nuova destra, una vecchia destra convertita al «neo liberalismo», una ex-democrazia cristiana suddivisa tra destra e sinistra, che ha talvolta impoverito il cristianesimo senza arricchire per contro la democrazia; una ex-
socialdemocrazia imbastardita sulla quale si sono innestati alcuni ex-progressisti pentiti; un ex-socialismo occidentale che si è tagliato via dalle sue stesse radici, un ex-franchismo o un exsalazarismo diventati "europeisti”. Probabilmente, domani si parlerà di una ex Unione europea che avrebbe rinnegato un vecchio continente inerte ed indeciso, colpevole per molti motivi. C'è un odore di ancien régime attorno a noi, odore d'infezione o di avaria. La morale sembra si adatti alle mille e una maniera di voltare gabbana, pronta a considerare qualsiasi rigore come una sopravvivenza. Siamo anche testimoni di tante cose inattese e sorprendenti: quasi nessuno pensava che il "capitalismo finanziario" potesse fare tanto male al capitalismo stesso, metterlo in questione in questo modo. Si pensava – e si prevedeva una volta – che la lotta di classe facesse questo lavoro, radicalmente. Tanti di noi erano ingenui. La "crisi" che stiamo vivendo non permette più ipotesi scolastiche o riferimenti partitici. Dobbiamo viverla, non tutti nello stesso modo, ma coinvolti spesso malgrado noi stessi. Dalla nostra esperienza precedente (penso a noi che abbiamo vissuto nell' ex Europa dell'Est), sappiamo che lo statuto di «ex» è più grave di quanto non sembri a tutta prima: quell'«ex» è visto e vissuto come un marchio, talvolta come delle stimmate. È di volta in volta un legame, involontario, o una rottura, voluta. Può trattarsi di un rapporto ambiguo, quanto di una qualità ambivalente. Essere «ex» è, da una parte, avere uno statuto mal determinato e, dall'altra, provare un sentimento di disagio. Tutto ciò concerne tanto gli individui
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che la collettività, tanto la loro identità quanto le modalità della loro esistenza: una specie di ex-istanza, a un tempo retroattiva e attuale. Il fenomeno è nello stesso tempo politico (o geopolitico se si preferisce), sociale, spaziale, psicologico. Pone più di una questione morale e mette in causa una morale precedente. Non si nasce «ex», lo si diventa. Tanti rinnegamenti, rimaneggiamenti del passato o del presente sono in atto, autogiustificazioni o aggiustamenti di percorso, fughe in avanti o all'indietro, modi di rifare o di disfare, se non la propria vita, almeno il nostro sguardo sulla vita. Lo choc per quanto è accaduto e sta accadendo sembra tanto violento quanto imprevisto. Le transizioni, per quanto male assicurate all'Est, prevalgono ancora sulle trasform a z i o n i . L'Occidente guarda innanzi tutto agli affari suoi. La democrazia proclamata in vari paesi del mondo appare più spesso con le caratteristiche di una “democratura” (ho coniato questo termine all'inizio degli anni 90 del secolo scorso per definire un ibrido tra democrazia e dittatura, non solo nei paesi detti dell'Est). Un populismo penoso è sempre stato pronto a sostenere quasi tutti i regimi dubbiosi. La laicità è stata poco popolare in gran parte dell'Est e dell'Occidente, senza parlare del cosiddetto "Terzo mondo". Il «giocattolo nazionale» non ha mai perso la sua attrattiva. La cultura nazionale si converte facilmente in ideologia della nazione e sbocca spesso su progetti nazionalisti. L'idea di emancipazione scompare dall'orizzonte, "invecchiata" o "utopica". I nostri discorsi sono quasi inevitabilmente sfasati, il loro centro di gravità sembra spostato. Il mondo «ex» è pieno di eredi senza
eredità, di svariate mitologie che si escludono reciprocamente: riedizioni del passato e del presente, immagini disparate e rimesse insieme alla leggera, schermi frapposti in fretta o griglie di lettura mal applicate, paradigmi messi in questione dalla loro stessa definizione. Le utopie e i messianesimi si vedono sistemati tra gli accessori di un passato irrecuperabile. Un aggiornamento della fede e della morale non sembra essere perseguito che in ambienti limitati ed occasionalmente. Fino a poco tempo fa un post-modernismo cercava, senza troppa fortuna, di imporsi sull'arte e sul pensiero per rimpiazzare ciò che nell'epoca precedente era stato acclamato come «moderno»: un ex-modernismo criticabile, certamente, ma non insignificante. Le avanguardie, che hanno proclamato e svolto i loro ruoli sono ormai «classificate». Le fonti della grande letteratura, generatrice di simboli, sembrano esaurite. Forme di decostruzione tendevano a sostituirsi a sintesi poco soddisfacenti. Una nuova storia rifiutava di sottoporre la lunga durata, come faceva la precedente, al vaglio degli avvenimenti. La vecchia università non è riuscita a riformarsi. L'invocazione dell'«immaginazione al potere» è già da tempo dimenticata. Tutta una ex-cultura non riusciva, se non con gravi difficoltà, a impadronirsi in un modo giusto e utile di quelle innovazioni che erano offerte o richieste non solo dalla tecnologia. Le alternative non sono state create né dalla destra né – ahimè! – dalla sinistra. Cerchiamo almeno di superare la paura. So che questo slogan sembra troppo modesto, ma non ne vedo un altro più affidabile.
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CORSIVO
Noemi Paolini Giachery
Testimonianza di una ottantenne “cerchiobottista”
Sembra che in questi ultimi tempi qualcuno abbia tentato di riabilitare l’“ambivalenza”. In un articolo di Viviana Mazza pubblicato sul “Corriere della sera” del 30 gennaio 2011 si citano filosofi e psicologi di varie nazionalità (tra cui gli italiani Nicoletta Cavazza, Fabrizio Butera, Marco Mazzeo e il tedesco Zygmund Baumann autore di Modernità e ambivalenza recentemente tradotto in italiano ) per i quali “le persone ambivalenti non sono dei poveretti che non sanno cosa decidere o dare dei giudizi. Sono persone che hanno molte cognizioni ed emozioni nei riguardi dello stesso oggetto. Non sono indecisi, ma hanno una visione più differenziata”. L’ambivalenza avrebbe dunque qualche pregio: “la creatività, l’empatia, la capacità di ridurre il favoritismo per il gruppo di appartenenza”, “la capacità di vedere la realtà non in bianco e nero ma in sfumature di grigio: segno di sviluppo cognitivo, di apertura percettiva, di sensibilità”. A questo punto mi sono piacevolmente sentita riabilitata, anche se non avvertivo un estremo bisogno di questa assoluzione. Mi è venuto in mente di tirar fuori dal cassetto uno scritto di nove anni fa (che prendeva spunto da un precedente articoletto) in cui, come sempre, cercavo di analizzarmi per chiarire a me stessa le mie idee sapendo che dietro le mie stesse idee al di là dell’esperienza vissuta operano motori segreti che appartengono alla struttura profonda della mia identità. Così si spiega il mio vagare liberamente (a ruota libera, dico sempre immaginando una bicicletta che va avanti e indietro e a zig zag come la porta l’estro un po’ bizzarro del guidatore) da un tema all’altro cercando collegamenti
azzardati che dovrebbero dimostrare una coerenza di fondo delle mie scelte in campi diversi. Una coerenza nella duplicità (ecco il primo della lunga serie di ossimori che mi accompagnerà per tutto il percorso).Con questo strano criterio ho potuto mettere insieme verso la fine il “cerchiobottismo” (molto vicino all’idea di ambivalenza espressa nei passi citati, anche se da me inteso all’inizio in senso solo politico) con il mio amore per Turgenev, con l’ossimoro poetico, con il Purgatorio, con la legge elettorale e così via. Avverto fin da ora che “il cerchiobottista”, protagonista del mio vecchio articoletto che qui riporto, sono io. “Ogni mattina a Radio Tre un etimologo interviene a spiegare un neologismo della lingua italiana. Il linguista è molto zelante nel concludere regolarmente con uno spiritoso fervorino socio-politico. Ultimamente ha illustrato con molta personale partecipazione il termine cerchiobottista, nato circa tre anni fa con accezione negativa nell’ambito del giornalismo di sinistra. Dove in quel tempo, ricordo, si professava pubblicamente e trionfalisticamente il diritto alla informazione tendenziosa fino allora affermato solo nell’indottrinamento esoterico di certe scuole di partito. L’obiettività non esiste, si sosteneva con giusto ma tardivo superamento dell’oggettivismo positivistico e materialistico, dunque si deve essere faziosi. Ricordo che anche un noto giornalista che ritenevo moderato si offese quando qualcuno lo definì, credendo di elogiarlo, interprete equilibrato dei fatti. Nessuno si poneva il problema di una possibile differenza tra la normale prospettiva soggettiva da cui non si può uscire
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nell’interpretazione del reale anche quando si è mossi da un sincero e coscienzioso desiderio di verità, e il programmatico, machiavellico manipolare l’informazione per fini di parte. È chiaro che, nella pratica, tra i due estremi esiste tutta una gamma di gradi intermedi che possono interessare a chi questo problema, di natura non solo etica, si pone. Ma chi intendeva proporre come valore, come diritto-dovere, la prassi, comune, dell’alterazione dei dati certi o fortemente probabili (perché ne esistono pure) attraverso le censure, le illazioni arbitrarie fornite come fatti verificati, e tutti gli altri espedienti che ormai ben conosciamo, non ammetteva che qualcuno, pur avendo un proprio orientamento di pensiero, potesse in buona fede e per puro desiderio di onestà e di verità riconoscere i demeriti e i limiti della propria parte e i meriti e le ragioni della parte avversa. Un tale strano, e certamente raro, personaggio, visto entro un orizzonte senza luce come quello in cui resta chiuso il dominante machiavellismo di bassa lega, non può che apparire un caso di più sottile e pericolosa mistificazione (come si considera, non di rado, più subdolamente e pericolosamente repressivo un potere politico che tenda a dimostrarsi tollerante e mite e non ricorra alla deportazione e alla soppressione di milioni di dissidenti). Costui è appunto il cerchiobottista (in quanto, come si usa dire, dà “un colpo al cerchio e uno alla botte”), oggetto di diffidenza e di derisione anche per il nostro etimologo al quale ritorno dopo una lunga digressione. Per concludere non senza aver ricordato che anche Montanelli è stato tentato, in una sua rubrica, dall’ipotesi che l’imparzialità sia solo questione di mestiere, ma nella sua onestà ha subito ammesso, rispondendo a una mia lettera, che non chiedevo troppo se, in mancanza di una impossibile obiettività, aspiravo almeno a una informazione regolata da “una sincera e onesta volontà di approssimazione al vero”. La passione con cui ho difeso questo tipo umano spingendomi eccezionalmente anche a scrivere su
questo argomento a un grande giornalista mi fa capire che qui si può trovare il motore essenziale delle mie posizioni politiche. Da tempo, del resto, desideravo spiegare le ragioni che nel corso della mia vita hanno fondato il mio rapporto con la realtà politica e, in particolare, della mia costante impossibilità di aderire al comunismo. Parlo a me stessa ma, lo confesso, su questo tema in fondo è come se volessi farmi capire dagli amici di sinistra, di quella sinistra dove avrei voluto collocarmi per esprimere le mie esigenze di giustizia sociale se non fosse stata occupata dall’integralismo e dal fondamentalismo comunista. In realtà con la cultura di destra non ho mai cercato nessun confronto perché mi pareva che non esistesse. Non riuscivo a darle nessuna importanza. Mi piaceva solo parlare, e ancora è così, con persone più o meno appartenenti come me alla categoria dei “cani sciolti”. Che poi coincide con quella dei cosiddetti “cerchiobottisti”. Dovrò forse tornare un po’ indietro per trovare un mio confronto col problema politico un po’ meno vago e acerbo del rifiuto, più che altro estetico, della mia adolescenza nei confronti del cattivo gusto e della rozzezza fascista, anche se non ero certo rimasta insensibile di fronte al trattamento degli ebrei, trattamento di cui per altro ignoravo gli aspetti più efferati, e sentivo il fastidio dello stato-caserma, per altro certamente meno repressivo di quello sovietico. (Tanto che oso affermare sfidando lo scandalo, forte della convinzione che nessuno potrebbe attribuirmi con qualche ragione una nostalgia del fascismo, che mi sembra un male minore esser vissuta nella Roma di Mussolini che nella Mosca di Stalin). Mi rivedo nell’immediato dopoguerra, alle prese con il problema della scelta democratica di un partito che potesse rappresentare le mie posizioni. In primo piano tra le mie esigenze risaltava quella di valorizzare le garanzie di libertà individuale conquistate con la sconfitta delle dittature nazista e fascista. Per questo fin
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da quel tempo un partito come quello comunista che proponeva come modello la caserma sovietica mi sembrò inaccettabile e pericoloso. I socialisti di Nenni, associati nel comune Fronte Popolare, mi sembravano destinati a un ruolo secondario e ininfluente di fronte alla preponderanza non solo numerica del partito estremista. Le mie scelte elettorali furono sempre condizionate da questo rifiuto e si fondarono sempre sul criterio del “meno peggio” (secondo, naturalmente, le mie personali, non infallibili, valutazioni). Una costante antipatia mi ispirò sempre anche il partito democristiano del quale non mi sfuggivano il dogmatismo ideologico, l’indebita contaminazione di ragioni laiche e di ragioni confessionali e il conseguente intervento censorio (non ancora la corruzione) [nota del febbraio del 2011: debbo tuttavia riconoscere oggi che la pressione del Vaticano sullo Stato trovava allora qualche freno] . Mi sarebbe piaciuto un socialismo democratico di tipo europeo ma anche il partito socialdemocratico italiano, quando si formò con la scissione di Saragat, non ebbe modo di farsi apprezzare per vera autonomia ed efficienza e neppure per onestà. Il mio “meno peggio”, dovendo escludere i liberali in quanto poco aperti al problema sociale, fu il partito repubblicano, almeno finché al bravo La Malfa padre non succedette il figlio. Il mio interesse politico, comunque, fu abbastanza marginale e superficiale (quanto a preparazione, specialmente per quanto riguarda l’ economia da cui non può prescindere una responsabile presa di posizione politica in vista del bene comune, le cose non sono tuttora molto migliorate). Cominciai a drizzare le orecchie con allarme quando, intorno agli anni Sessanta, si fece più diffusa e sonora da sinistra la propaganda a favore della cosiddetta “rivoluzione globale”, e mi resi conto che bastava mostrare qualche perplessità sulla necessità di una soluzione così radicale – e certamente non incruenta – per sentirsi definire reazionari. Ora so che le posizioni
all’interno della sinistra erano già allora più articolate ma quelle che si imponevano con voce più perentoria erano, come sempre, le estreme. Mi accorgevo anche che la sinistra, benché esclusa dal potere istituzionale, aveva però acquistato, dopo la fase censoria dei primi governi democristiani, per tacita concessione del centro, una sorta di monopolio culturale. Si tende a spiegare questa egemonia con l’argomento che, se ci fosse stata un’altra cultura autorevole, in uno stato democratico come il nostro si sarebbe fatta valere. Io penso piuttosto che a sostenere la cultura comunista nella sua intransigente e quasi intimidatoria affermazione operasse quella ferrea macchina da guerra costituita dall’integralismo politico organizzato e compatto in un’azione di propaganda capillare cui poteva contrapporsi, se mai, solo il dogmatismo dell’altra chiesa, la cattolica. Nessuno spazio per l’individualismo liberale e per il pensiero dei “cani sciolti”, vasi di coccio tra vasi di ferro. Sono solita riferirmi a un episodio particolare che mi sembra quanto mai significativo di quella situazione. A un incontro al Teatro “Eliseo” in occasione dei famosi “Martedì letterari” si presentò Rolf Hochhuth, che nel dramma in versi Il Vicario aveva affrontato polemicamente il problema della posizione di Pio XII al tempo della Shoa. La tesi che in quell’occasione sosteneva con monotona insistenza era la necessità della partecipazione dell’esercito alla rivoluzione globale. Nel momento del dibattito mi imposi con grande sforzo di domandargli se non c’era pericolo di aprire la via a un “governo di colonnelli” (memorizzai un numero minimo di parole per la mia domanda dopo la quale ripiombai stremata sulla poltrona). La risposta, “ Das ist eine grosse Frage” (E’ un grande problema) restò isolata e non influì sulle parole successive. Ma quello che mi sembrò rilevante in questa circostanza (e qui volevo arrivare) è il fatto che nessuno, né dalla vasta e affollata platea né dalla galleria, si alzò per domandare: “Ma è proprio indispen-
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sabile la rivoluzione globale? Non se ne potrebbe fare a meno e cercare di intervenire con legali riforme senza mettere tutto a ferro e fuoco?”. Erano tempi in cui il semplice dubbio sui dogmi imposti dalla cultura vigente era avvertito nella coscienza della maggioranza degli intellettuali come una debolezza, se non come una colpa e anche i meno convinti preferivano tacere, Così, come sempre, trionfavano i forti non sfiorati dal dubbio. Nessuno reagì neppure quando, nel liceo dove insegnavo, un giovane soldato convocato in un’assemblea di studenti promise l’appoggio dell’esercito alla prossima rivoluzione, salutato da un bel coro: “Rivolta! Rivolta! / Rivolta militare! / La classe operaia / saprà su chi contare!”. I docenti, rassicurati da questo annuncio, assistevano nella sala o ascoltavano deambulando in una sorta di matroneo-biblioteca. Anche io tra questi. E anche io non aprii bocca. Benché l’intervento del soldato fosse un caso da denuncia al tribunale militare. Ma i tribunali militari non mi sono mai stati simpatici. Una vera e propria insurrezione interiore che ha dato luogo a continui interventi polemici, se non a una vera e propria battaglia, è stata suscitata poco dopo in me da una mia assoluta intolleranza. Non ho potuto accettare che, quando si sono manifestati i primi segni di una adesione fattiva e sanguinosa da parte di gruppi isolati all’insistente propaganda rivoluzionaria, tutta la sinistra, comprese la frange estreme, abbia escluso che potessero esserci implicate frange estreme del comunismo. “Cui prodest?” era la domanda, per altro di difficile risposta, che avrebbe dovuto dimostrare che la rivoluzione non poteva venire da sinistra perché non giovava alla sinistra (osservavo di solito che, se un tempo avessero dovuto, in mancanza di indizi, attribuire i moti mazziniani domandandosi a chi potevano giovare, sul momento avrebbero dovuto pensare a una trovata dei regimi asburgici o borbonici). Una rigorosa censura scattò immediatamente sulla formula, da qualcuno avanzata, di
“opposti estremismi” (formula ancora oggi rifiutata da qualcuno nell’analisi di quei fatti). Avevo modo di scoprire l’intolleranza di certo conformismo dilagante, di uno spirito gregario che si affermava sempre più nell’adesione acritica a questo integralismo marxista. Si trattava infatti di una forma di integralismo politico – per me addirittura repellente come ogni forma di integralismo e di fondamentalismo –: la dipendenza di ogni scelta, di ogni opinione sulle questioni più varie, ventiquattro ore su ventiquattro, dal pregiudizio politico. Ricordo il mio stupore quando in un dibattito televisivo sentii lo stesso Luigi Pintor negare che esistesse un estremismo di sinistra (la registrazione dell’episodio esiste ancora in uno dei miei “quaderni neri” che ora non trovo). Inutile dire che mi sentivo abbastanza sola in queste mie reazioni. Non potevo certo sentirmi solidale con la politica dei conservatori arretrati e faziosi, anche se la loro faziosità risultava meno operante, o più sommersa, almeno nell’ambiente degli intellettuali. Solo orrore provavo per le stragi dei neofascisti. Con loro, come con Calibano, non avrei potuto neppure scambiar parola. Non subito compresi che dietro alcune stragi agivano i Servizi Segreti e, per loro, lo Stato. I tempi sono passati ma questo potere dell’integralismo acritico e spersonalizzante mi sembra che in sostanza non si sia del tutto esaurito [ oggi pare rappresentato nella sua forma più compatta dal partito berlusconiano]. Mi sembra che, almeno nella estrema sinistra, certe rigidezze intransigenti siano, più che superate, dissimulate dal momento della caduta, con relativo smascheramento, dei sistemi politici di stampo marxista. Dopo il crollo del muro di Berlino, solo dopo, il PCI sentì la dura necessita di cambiar nome mettendo in evidenza, nella formula PDS, poi DS [oggi PD], il rispetto dei valori democratici che, a dire il vero, anche prima, dissociandosi dagli extraparlamentari favorevoli alla rivoluzione, aveva mostrato di accettare per lo meno in termini istituzionali (il
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realismo di Togliatti si era reso conto fin dalla fondazione della Repubblica che non si poteva ignorare Yalta). Questa accettazione conviveva naturalmente con un sostanziale, e anche fanaticamente passionale almeno per la base, legame con l’URSS di cui si coprivano sistematicamente tutte le mostruose magagne – ma i partiti al governo non erano in ciò molto più vigili – e si ricevevano, anche dopo la cosiddetta svolta di Berlinguer, i vitali finanziamenti sovietici. Del resto basterebbe considerare come all’interno del partito vigeva un rigido principio di sottomissione totale alle direttive, o meglio al diktat vigente, con conseguenti censure e espulsioni al minimo indizio di dissenso, per capire che la tolleranza democratica era del tutto estranea allo spirito dello stesso P.C.I. Cominciava allora nell’informazione ufficiale qualche primo tentativo di revisione storiografica inteso a correggere le impostazioni innegabilmente tendenziose della precedente storiografia controllata dalla supervisione marxista. Si portavano alla luce i massacri stalinisti – e non solo stalinisti – e, per quanto riguardava l’Italia, le foibe o le uccisioni non solo di fascisti ma anche di alleati non comunisti da parte della Resistenza comunista, che costituiva la maggioranza e che – contro gli attuali luoghi comuni – non progettava certo un’Italia democratica e nazionale. Ma la vecchia intolleranza marxista reagiva contestando ogni revisione con l’etichetta negativa di “revisionismo” (come se la più seria e onesta ricerca storiografica non dovesse consistere in una continua revisione di dati e interpretazioni!). Sembrava che ogni riconoscimento di violenze e stragi avvenute da sinistra intendesse solo offuscare l’importanza, l’eccezionale gravità della Shoah e degli orrori nazisti. Si pretendeva – e si pretende talvolta ancora – di sostenere che in confronto a quei casi estremi ogni altro caso di grave violazione dei diritti umani impallidisce talmente che è proibito parlarne [il paragone è stato poi riproposto solo a proposito
della politica israeliana nei confronti dei palestinesi]. Da notare poi che le due parti del conflitto politico ogni volta che si scopre qualche loro altarino ricorrono immediatamente al ridicolo slogan che non si devono strumentalizzare gli scandali, intendendo con ciò che per non strumentalizzarli bisogna non parlarne, o anche all’argomento che “c’è di peggio” o che “anche gli altri...”). La buona fede non è richiesta in politica. Ed è forse per questo che non amo la politica e rivendico il diritto al poco politico “cerchiobottismo” che significa per me pensare e parlare con sincerità e buona fede ed esigenza di “verità”. In un articolo sul “Corriere” Severino dichiarava in questi giorni che la civiltà europea si imposta sullo “spirito critico” nato ad Atene: e su questo mi sembra di essere proprio d’accordo. Forse il mio amore per l’Europa, quell’Europa che ha radici anzitutto greco-romane e poi giudaico-cristiane (o tutte o nessuna), guarda molto a questa prerogativa che è non solo capacità di mettere in discussione ogni certezza ma anche conseguente capacità di libera e personale ricerca positiva, creazione che mette a frutto le doti individuali anche per un avanzamento collettivo. Solo la libera iniziativa dell’individuo produce evoluzione storica. Mi riferisco, è ovvio, a un referente trascendentale che la nostra civiltà specialmente nei suoi geni greco-romani ha fruttuosamente presente. La realtà, come sappiamo, non è certo idillio. Tutti i valori alti, a cominciare dalla libertà, si fanno strada faticosamente, dialetticamente, affrontando infiniti contrasti e rischi tra cui il loro stesso fraintendimento: nel caso della libertà, è sempre in agguato la sua degenerazione in licenza. Per non dire che la coscienza democratica è ancora di pochi. Come, del resto, la sensibilità estetica a proposito della quale devo riconoscere che la libera creatività del cattivo gusto anche negli interventi sull’ambiente mette talvolta in crisi la mia granitica fede libertaria; che è in sofferenza anche quando mi sembra che in alcuni paesi
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prevalgano nelle elezioni maggioranze poco illuminate e poco democratiche. Ma che fare? Mi pare che non esistano alternative. Tornando alla situazione politica italiana, noto che l’esasperarsi ed estremizzarsi delle tensioni opposte fa emergere un’insoddisfazione che, a mio parere, si manifesta oggi come bisogno di una terza forza, di un centro, per intenderci, di cui si parlava già in anni lontani ed è nata – o riemersa – la parola “terzismo” che sarebbe poi la versione positiva e non da tutti avversata del “cerchiobottismo”. [il problema è ancora oggi avvertito e io penso, con Sartori, che, nella urgente riforma della abominevole legge elettorale, occorrerebbe introdurre il democratico doppio turno]. Il “cerchiobottista, confuso talvolta anche con il “qualunquista”, sarebbe tale per indifferenza, quell’indifferenza condannata da Gramsci, e per mancanza di una personale prospettiva. Non credo che possa esser considerato comodo qualunquismo lo stato di disagio con cui, non potendo ormai più eludere quella riflessione politica per cui sono poco portata, debbo perennemente dibattermi tra la fedeltà alle mie esigenze di fondo che mi hanno portata e mi portano a preferire l’Occidente (e, più che altro, l’Europa democratica) a quei mondi antitetici (prima rappresentati dal mondo comunista, ora prevalentemente dal mondo islamico), e la coscienza delle gravi magagne di questo nostro mondo, delle colpe storiche e attuali del capitalismo, da ascriversi comunque, a mio parere, più ai potentati (perché anche in democrazia esistono e vigono potentati economici in combutta con la politica) che alla società dei comuni cittadini. Comprendo però, ma non condivido, i nobili scrupoli di una comunista come Natalia Ginzburg che, come altri generosi intellettuali comunisti, di fronte alle esigenze primarie delle masse sfruttate e affamate, considerava un illegittimo privilegio, un lusso da individualisti non voler rinunciare a quella aspirazione alla lib-
ertà di pensiero che sembra congeniale a un rappresentante dell’élite intellettuale. Il regime poliziesco, la soppressione delle libertà che io considero primari e universali diritti umani non fanno bene a nessuno. Si è visto e si continua a vedere. E non si può dimenticare che senza il, più o meno libero, percorso dialettico del pensiero occidentale la stessa coscienza dei diritti umani da cui nascono le rivendicazioni sociali prima dell’illuminismo, poi del marxismo non avrebbe potuto risvegliarsi. Né sarebbe stata possibile quella disposizione autocritica che oggi solo questa nostra cultura – al di là delle infinite diversità che la caratterizzano – ha dimostrato e dimostra in forme talvolta addirittura sbilanciate a favore delle culture altre. So che le mie scelte cui non potrei mai rinunciare hanno un valore soggettivo. Forse una certa tendenza alla conservazione (che io mi riconosco insieme con un tenace individualismo) appartiene al mio codice genetico ed è stata inoltre coltivata nel mio ambiente familiare. Non la considero però una colpa anche se qualche volta, come ho già detto, nel confronto con amici “progressisti” non manca un certo disagio dovuto anche al mio bisogno di piacere a tutti o almeno di non dispiacere a nessuno, bisogno che, stranamente, convive con uno spirito polemico.. Per concludere e passare al tempo stesso ad altri piani, dirò che non ho mai amato l’aut aut, che – tanto per fare un esempio minimale – oggi come criterio politico alla base della legge elettorale italiana può portare l’elettore moderato a dover scegliere tra due rappresentanti di posizioni estreme. Per questo mi pento di aver votato a favore di quella legge nella speranza di governi più stabili. Non ho amato e non amo l’aut aut come criterio per qualsiasi scelta. Non amo chi dice: “tertium non datur”. In nessun campo. La verità mi appare sempre molto più complessa, ambigua, sfaccettata di quanto sembra a chi l’affronta con l’accetta in mano, si tratti di scienziati, di filosofi, di giudici. Spesso esistono
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Noemi Paolini Giachery
due o più verità, due o più ragioni di solito valutabili su piani diversi. L’incontestabile verità, per citare un esempio di questi giorni, che lo Stato Italiano avrebbe il dovere di intervenire in Campania a impedire una violazione multipla di leggi da parte della folla che occupa per giorni i binari ferroviari, e che non farlo è una grave e pericolosa inadempienza, non significa che quella folla non abbia importanti giustificazioni per questo comportamento e che io stessa nelle loro condizioni non approfitterei dell’impunità per unirmi alla loro azione. Mi piace il giudice che non di rado si trova ad applicare la legge con sofferenza. Detesto e disprezzo quel giudice che, dopo la sentenza del processo d’appello per l’uccisione di Marta Russo, ha solennemente proclamato, in pubblico, che da quel momento si doveva bandire ogni dubbio, “perché il dubbio – come dice Sant’Agostino – è diabolico”. A parte l’assurda e imbecille citazione, un giudice dopo un’affermazione del genere dovrebbe essere sospeso dalle sue funzioni. Così, per passare con una disinvoltura spericolata a un tema teologico – le escatologia non mi lasciano indifferente –, noto che, a voler condividere la fede cristiana nella sopravvivenza dell’anima e nel giudizio divino, dovrebbe sembrare molto difficile da accettare e addirittura scandaloso l’aut-aut di Inferno e Paradiso posto dalla teologia cattolica, e dovrebbe quindi risultare più comprensibile l’ipotesi, storicamente tardiva, di un Purgatorio, come percorso evolutivo oltre la fine del corpo fisico. Ma il Purgatorio, a questo punto per me non costituirebbe un tertium in quanto verrebbe a sostituire l’inaccettabile “pena eterna”. Del resto nella teologia cristiana già poteva essere confortante per chi non ama i poco concilianti aut aut, l’idea di Dio come coincidentia oppositorum. Ma è nel campo dell’estetica come parte della teoria della conoscenza che il mio rifiuto dell’aut-aut è gratificato dalla consolante ipotesi di salvare i contrari nel felice ossimoro che è il cuore stesso della conoscenza poetica. Per questo
la natura ossimorica della poesia è un tema su cui ritorno quasi maniacalmente. Nella poesia e in genere nella letteratura mi accorgo, del resto, di preferire l’espressione di universi personali nei quali la domanda esistenziale costituisca il lievito primario e questa domanda non si risolva in risposte perentorie e definitive ma porti con sé dubbio, trepidazione, speranza e disillusione, voli e cadute. Cerco il miracolo del volo anche quando l’autore sembra più ancorato a un terragno pessimismo. Cerco dunque, in questi casi,“barlumi” (anche per il mio scettico Svevo ho messo in luce i rari, ma più che mai suggestivi, punti luce che si manifestano “a sprazzi e istanti”). Dall’altra parte, nel caso di ben strutturate posizioni di fede (religiosa o politica) mi attirano le incrinature, i momenti di titubanza, di ineludibile contraddizione, di esigenza di cercare oltre, oltre il pensiero, oltre la stessa parola. Di recente, sentendo leggere alla radio il più noto romanzo di Turgenev, Padri e figli, ho ripensato al mio antico amore, quasi una predilezione, per questo autore, tra i grandissimi romanzieri russi tutti molto amati. Ho desiderato indagare sulle ragioni di questa predilezione per meglio capirmi, meglio conoscermi. Ho ritrovato così con tenerezza quell’occhio che guarda con pacata commozione, senza ombra di partigianeria, i diversi e fatalmente conflittuali destini umani comprendendo le ragioni del rivoluzionario, a cui pure poco rassomiglia, e le ragioni del conservatore, cogliendo debolezza e nobiltà nelle scelte più diverse, desiderando per tutti gli umani un’“eterna riconciliazione”. Mi è venuto incontro lo straordinario finale del libro. Dove i poveri genitori del nichilista Bazarov, soli in un cimitero abbandonato, vanno a trovare la tomba del figlio: “Scambiano una breve parola, spolverano la pietra, aggiustano un ramo dell’abete e pregano di nuovo e non sanno decidersi a lasciare quel luogo dove sembra loro di essere meno lontani dal figlio, dal ricordo di lui... È possibile che
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Testimonianza di un’ottantenne “cerchiobottista”
siano vane le loro preghiere e le loro lacrime? È possibile che l’amore, il santo amore devoto non sia onnipotente? Per quanto appassionato ribelle e provocatore sia il cuore celato nella tomba, i fiori che la coprono guardano sereni con i loro occhi innocenti, e non ci parlano soltanto del riposo eterno, del riposo della natura ‘indifferente’, ci parlano anche di una eterna riconciliazione... e di una vita eterna...” Anche questa che sembra una affermazione è in realtà, nella sua sospensione, una trepida domanda. Una domanda senza risposta. Una voce fuori campo pretende l’ultima parola: proviene dal terzo mondo ed è la voce dei milioni e milioni di morti o di moribondi per fame, per malattia, per sterminio, per schiavitù. È forte come un tuono. Accusa la cerchiobottista, così fiera della sua imparzialità, di non aver lasciato spazio nel suo excursus politico alla tragedia apocalittica che si consuma alle porte di casa nostra e di cui non possiamo ormai esser più inconsapevoli. Troppo evasivo l’accenno alle responsabilità del sistema capitalistico. Evasivo
e, per così dire, pilatesco. Con voce fievole l’accusata prova a ripetere che per combattere questi mali prima bisognerebbe cominciare a ribellarsi ai tiranni locali, bisognerebbe cominciare a prendersela con loro che si appropriano degli aiuti che pure l’Occidente fornisce (anche se non si può negare che dall’altra parte non rinunci a sfruttare la situazione); che bisognerebbe anche limitare le nascite e così via. Ma il tuono spegne questa già incerta voce o forse l’accusata stessa sceglie di tacere: troppo evidente è la verità che “una feroce / forza il mondo possiede e fa chiamarsi / dritto”. Forse oggi questa feroce forza rinuncia spesso a ogni alibi e si annuncia semplicemente come potere, ostentando un valore, una dignità intrinseci al potere. Ma il potere è forse l’ultimo alibi. Il nome vero che dovrebbe essere pronunciato è il nome di Mammona. A questo punto la nostra accusata che si abbandonava a sogni di unificazione, di conciliazione degli opposti scopre in sé un’insanabile SCISSIONE.
“Ultimamente ha illustrato con molta personale partecipazione il termine cerchiobottista, nato circa tre anni fa con accezione negativa nell’ambito del giornalismo di sinistra. Dove in quel tempo, ricordo, si professava pubblicamente e trionfalisticamente il diritto alla informazione tendenziosa fino allora affermato solo nell’indottrinamento esoterico di certe scuole di partito.” 19
MINIMA MORALIA
Angelo
G. Sabatini
Il corpo di Moro
Ci si domanda cosa dire ancora di Aldo Moro che non sia stato già detto e che prima o poi non verrà detto: ogni volta che ci avviciniamo a lui, magari con l’intenzione di parlare del suo pensiero e della sua azione politica siamo costretti inesorabilmente a entrare in contatto con quel corpo simbolico – o con quel “corpo di stato” come lo ha chiamato il regista Marco Baliani – attorno al quale l’identità e l’immaginario di questo Paese si raccolgono periodicamente. Dobbiamo parlare del suo sacrificio ed accostare lo statista ucciso dalle Br nel 1978 al Matteotti che i fascisti trucidarono nel 1924? Dire come in molti hanno fatto in questi anni che dal suo corpo passa una rigenerazione politica che ha permesso alla democrazia italiana di superare senza dissolversi la stagione dell’emergenza e del terrorismo? Credo di no: la complessità della situazione in cui il presidente della Dc è stato ucciso non ce lo permette e l’ombra della sua morte si allunga sulla storia della Repubblica coinvolgendo responsabilità politiche e morali più ampie di quelle ristrette e puntuali dei suoi singoli assassini, degli uomini che hanno deliberatamente scelto di uccidere lo statista democristiano. Badate bene: ho detto responsabilità non colpe, le colpe ricadono tutte e direttamente sui suoi assassini. E’ un fatto, ma ogni volta che Moro è chiamato in causa come vittima, la classe politica italiana di quell’epoca – e in primo luogo la Dc e il Pci – si ritrovano chiamati in causa: un riflesso condizionato che ha spinto molti esponenti ex Dc (a cominciare da Francesco Cossiga) negli ultimi anni a ripetere una delle sue frasi più laconiche e più profetiche: quel “non ci lasceremo processare in Piazza” pronunciato dopo lo scandalo Lokheed che rispondeva a distanza a un famoso
articolo di Pier Paolo Pasolini. Il ceto politico italiano che non era ancora percepito come una “casta” è poi stato processato in piazza: ma in una piazza completamente diversa di quella che sia lo scrittore che lo statista avevano immaginato. In questa nuova piazza il discredito dei partiti non coinvolgeva soltanto il monopolio di quel singolare e contraddittorio partito-stato, di quella specie di partito di raccolta che è stata la Democrazia Cristiana – l’epitome di un sistema monopolistico di potere secondo la sinistra extraparlamentare degli anni ’70 ma anche la forza di garanzia dello sviluppo democratico italiano come poi ha riconosciuto anche Walter Veltroni – ma coinvolgeva ormai la rappresentanza politica in quanto tale che tradotta in un’era di identità liquide e post-ideologiche appariva ormai completamente autoreferenziale rispetto alla capacità di rappresentare interessi che esprimevano i vecchi partiti popolari. Su questa piazza mediatica, populista ma assai poco popolare, su questa piazza antipolitica, né Moro nelle vesti dell’avvocato difensore né Pasolini in quelle dell’accusa si sarebbero trovati a loro agio: entrambi avrebbero visto crollare in essa i punti di riferimento, non solo comunitari (il popolo cattolico e quello comunista non esistevano più) ma intellettuali in cui la moralità del loro impegno si radicava. C’è insomma un’epoca che abbiamo alle spalle ed Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini, nella loro dialettica a distanza, ne rappresentano due immagini: per essere del tutto onesti dovremmo chiederci come mai si tratta di due immagini non solo così sofferte ma così tragiche. Ma c’è un altro motivo, più profondo, che ci dovrebbe spingere a diffidare dei martirologi in chiave di celebrazione
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Il corpo di Moro
politica e dunque a sottrarre Moro da quella luce ambigua in cui il suo assassinio – e la lunga torturante agonia che l’ha preceduto in 55 di detenzione nella sedicente prigione del popolo – l’ha proiettato. Potrei esprimerlo con una considerazione storico-politica generale: è esistita per lungo tempo una religiosità laica e come direbbero i francesi “repubblicana” – il “culto” di Matteotti presso la classe operaia e l’antifascismo ne è stato un buon esempio – ma la parabola ideologica del Novecento, tra altre verità amare, ci ha fatto comprendere che un “sacrificio laico” in termini rigorosi non può esistere. Dirò di più: se dovessimo scegliere come misura morale quella che un grande filosofo dei nostri tempi, Réné Girard, ci propone per leggere la novità cristiana come origine dirompente del pensiero moderno, dovremmo concluderne che anche l’essenza del cristianesimo consiste nel rifiuto del sacrificio e dell’etica che è ad esso correlata. Secondo Girard, infatti, il messaggio cristiano interrompe e demistifica il meccanismo sacrificale su cui si fondavano le religioni arcaiche e il loro modello sociale: dietro ogni vittima trascinata sull’altare si nasconde un capro espiatorio che la società ha individuato per sfogare su di esso la sua crisi interna. Violenza e sacrificio in questo paradigma sono intrinsecamente legate, l’una nasconde l’altra, almeno fin quando un estremo sacrificio – quello del Figlio di Dio secondo il cristianesimo – non viene a rivelare che nessuna vittima è sacra (nel senso arcaico del termine per cui sacer indica nel contempo ciò che è benedetto e ciò che è maledetto) perché nessuna violenza lo è. Ogni vittima sacrificale è invece innocente, la sua immolazione è un atto ingiusto e la sua consacrazione non è altro che un tentativo per sublimare in un’ apoteosi la violenza che continua ad annidarsi nella società. Per Girard, in altre parole, bisogna uscire dall’ordine a un tempo brutale e consolatorio del mito. Questa lunga premessa solo per dire che la sacralizzazione del
corpo di Moro sia pure in forma di religiosità democratica, la trasformazione del suo corpo privato in “corpo di stato” (uso la definizione di Baliani in senso diverso dall’evidente gioco di parole tra corpo e colpo di stato che contiene), rischiano di consacrare assieme alla sua memoria la necessità della violenza di cui lui e, non dimentichiamolo, gli uomini della sua scorta sono rimasti vittima. Chi rifiuta questa violenza – e chi come me l’ha intellettualmente contrastata lungo tutto l’arco dei cosiddetti anni di piombo – non può accettare la sua necessità nemmeno come forma di legittimazione a posteriori di un sacrificio che avrebbe finito col rigenerare la democrazia italiana minacciata dal partito armato. Non si tratta affatto di tornare sulla dialettica tra lo Stato e le Brigate Rosse, per stabilire se quelli in cui Moro fu ucciso fossero anni di guerra o di guerriglia, di emergenza democratica o di attacco portato al cuore dello Stato, di violenza diffusa o di servizi deviati, e per rinfocolare, come puntualmente accade, il non eccelso scontro tra il cosiddetto partito della fermezza e il cosiddetto partito della trattativa umanitaria: misteri e illazioni, inchieste e narrazioni, accuse e sospetti si sono inseguiti nell’arco di questi trenta anni in cui il “caso Moro” non ha smesso di accendere le coscienze e di provocare le immaginazioni, ma da tutta questa produzione giornalistica e mitografica, politica e fantapolitica – fatta forse eccezione per il libro di Sciascia che però era ancora troppo vicino a quel cadavere – non siamo fino ad ora riusciti a trarre una sola lezione morale che si possa dire condivisa. Si tratta di rispondere alla domanda: Aldo Moro doveva morire perché lo stato democratico sopravvivesse e cioè il suo corpo è la cartina di tornasole del sacrificio sui cui ogni sovranità – prima o poi – necessariamente si edifica come corpo trascendente rispetto ai soggetti che lo compongono, come istanza ultima e per dirla in termini giuridici quod superiorem non recognoscens? E i termini in cui pongo
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Angelo G. Sabatini
la domanda non sono casuali o arbitrari, li ho mutuati da una celebre quanto icastica domanda che Sain-Just pose alla Convenzione che discuteva dell’opportunità i mettere a morte o di risparmiare Luigi XVI: “quest’uomo – disse l’esponente della Montagna che fu il vero teorico del giacobinismo – deve morire perché la Repubblica sopravviva.” Questo discorso non ha più valore rispetto al momento storico della morte di Moro: lo stato d’eccezione che il rapimento e la prigionia del Presidente della Democrazia Cristiana avevano imposto alle istituzioni democratiche con la “geometrica potenza” di un attacco anche simbolicamente senza precedenti determinò la risposta che tutti conosciamo e l’esclusione di ogni trattativa che sia settori del mondo cattolico sia il Partito Socialista avevano (va detto, generosamente) ipotizzato. Ma tranne a non voler essere schmittiani (e noi non lo siamo, non potremmo esserlo) non credo che ci si possa rassegnare a suggellare il carattere fondativo dello stato d’eccezione (“sovrano – diceva Carl Schmitt – è chi decide dello stato d’eccezione”) senza rimeditare il valore attuale di quella risposta. Perché è ora che ricordiamo Aldo Moro. E perché ricordandolo dobbiamo cercare di riportare a noi, assieme alla sua figura di statista e di politico (per altro molto lungimirante, alcune delle intuizioni di Moro come quella sul bipartitismo sono ancora all’ordine del giorno della politica), quella voce che in questi anni è stata invece più spesso rimossa – o per converso rovesciata contro le istituzioni – provenendo da quelle lettere scritte durante la sua detenzione sulla cui autenticità morale si è così lungamente discussa. E’ una voce dolorosa, inquietante, familiare, talvolta reticente – di certo non una voce istituzionale, non una voce di Stato, ma la voce soffocata di un prigioniero. Era sua o non sua questa voce? Credo che oggi si possa dire con tranquillità che era sua e non sua al tempo stesso perché era la voce di un uomo condizionato da un’alterazione
coatta della sua condizione umana – appunto la voce di un prigioniero e di un condannato – ma non fino al punto di essere completamente irriconoscibile o semplicemente plagiata dai suoi carcerieri: la sindrome di Stoccolma può spiegare qualcosa ma non spiega tutta, ad esempio non alcune forme di lucidità politica che Moro sembra aver comunque mantenuto fino alla fine e soprattutto non i lancinanti accenti di vicinanza alla famiglia (alla moglie al nipote) delle ultime lettere. Questa voce – inutile negarlo – ha anche allontanato da sé il calice del sacrificio che si approssimava operando più che una separazione uno stacco rispetto a quell’identità organica in cui secondo un immaginario piuttosto diffuso (almeno nel Novecento) l’uomo e il politico dovrebbero confondersi. Verso la fine, Moro sembrava dissociarsi persino dal lessico della politica e dei politici del suo tempo – una lingua nella quale aveva come è noto introdotto alcune innovazioni destinate a fare epoca – come se, sulla soglia della morte, si stesse ritraendo da un’identità pubblica che culminava con il suo calvario: molte ragioni della politica sono state messe in discussione dalla sua morte e per cominciare quella di un’identificazione esclusiva, totalitaria tra uomini e partiti che è stata una delle maggiori malattie morali del secolo appena trascorso dove le appartenenze politiche facevano aggio sulle esistenze singole di intere masse di individui. E’ insomma al lato umano, se non troppo umano, di questo sacrificio che bisogna cominciare a guardare per comprendere il vero valore del suo tributo alla nostra democrazia: rifiutando il ruolo di vittima designata che gli era stato assegnato dal fanatismo nichilista del partito armato, Aldo Moro ha rotto una solidarietà tra politica e violenza, tra stato e antistato che ha segnato dolorosamente molta parte del nostro passato. E ci ha lasciato sperare in un futuro politico da cui violenza e sacrificio dell’altro possano essere drasticamente esclusi.
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UOMINI E IDEE Carlo Vallauri
Le memorie di M.Rendina. Una lettura autentica della “Prima Re pubblica”
Massimo Rendina, prima di essere quel grande giornalista affermatosi nell’appena nata TV italiana, è stato combattente partigiano, vice-comandante di una divisione garibaldina in Piemonte ed ha vissuto intensamente la stagione della “prima repubblica” alla quale dedica queste “cronache” (edizioni Odradek) che meritano di essere particolarmente segnalate, perché delineano un quadro preciso e accurato di un periodo fondamentale della nostra storia, e dal quale ancora non tutte le verità sono venute alla luce. Leggere così questo libro può rappresentare una salutare immersione nel nostro recente passato, fuori d’ogni pregiudizio, perché l’autore riesce a cogliere in ogni fase di quell’esperienza storica i tratti essenziali, capaci di rivelare ed indicare il positivo di quegli anni pur nel groviglio di contrapposizioni forti e di vicende amare, come di intense vibrazioni ideologiche e politiche. Così Massimo rievoca in pagine chiare e lucide le percezioni che un giovane poteva avvertire dei sentimenti del paese, quando la dittatura gettava l’Italia nella infausta guerra con precisi riferimenti alle fibrillazioni dei giovani come lui scaraventati sui campi di battaglia di Russia, insofferenti di fronte alle violenze ed ai crimini compiuti dai nazisti e poi al rientro in Italia, presto trovatisi di fronte all’occupazione tedesca. Come reagire ai nuovi soprusi, al servizievole comportamento di non pochi italiani di fronte alla violenza dei nazisti? Ebbene: Rendina riesce a spiegare, con
poche note essenziali, la situazione di “vuoto” creatasi dopo l’8 settembre 1943, e racconta con stringate parole, lo sbigottimento generale, le prime reazioni, poi la nascita dei gruppi di resistenza nelle montagne piemontesi, ed egli è proprio uno dei primi organizzatori delle formazioni partigiane, tra le quali presto assume un ruolo di responsabilità e di comando. Nessuna retorica, nessuna sopravalutazione, ma la storia autentica, semplice, vera scelta coraggiosa, che è compiuta da una minoranza rappresentativa tuttavia di tutta quella grande parte del paese che non intendeva sottostare alla volontà dispotica dello straniero. Nella tragicità di eventi, sui quali riferisce con precisi richiami anche per i momenti più aspri, emergono le energie migliori del paese. Le “cronache” proseguono con il successivo passaggio alla vita della repubblica democratica, i rapporti tra cattolici e comunisti, la nuova dialettica politica nell’atmosfera della guerra fredda, con la crisi, i contrasti, le minacciose pressioni degli ambienti conservatori, le divergenze nella D.C. e infine la tragedia di Moro. La personalità del Presidente – così viva nella memoria d’ognuno di noi – è esposta dall’ autore con mano sicura, in una serie di osservazioni acute oltre che di personali ricordi. A questo proposito, con la sincerità che gli è propria, Massimo ammette di aver “probabilmente sbagliato” quando non volle riconoscere l’autenticità delle lettere scritte dal prigioniero delle brigate rosse. Momenti terribili vissuti con particolare
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Carlo Vallauri
emozione. E infine ricco di considerazioni di spessore etico e politico lo “sguardo sull’Italia di oggi” con le sue miserie e “la nebbia che sembra avvolgere il nostro presente”. Consapevole e memore testimone di un Italia che sembra quasi scomparire, Rendina sa additare i fattori di coesione e di forza, ai quali ancora oggi si può fare appello per riannodare una comune volontà di ripresa e speranza. La circostanziata e precisa ricostruzione è preceduta da un interessante studio di Giovanni Conzi che cerca di mettere in luce varie vicende dell’Italia repubblicana, e specie alcuni aspetti significativi – e non sempre rilevati – del “compromesso storico”. Così il disegno berlinguerniano viene analizzato nei suoi svol-
gimenti e nei suoi esiti in relazione alle vicende internazionali, sottolineando in particolare il senso che quella “convergenza” avrebbe dovuto rappresentare nella prefigurazione di Moro che, egli afferma, avrebbe comunque dovuto mantenere il PCI in una posizione subalterna. Una interpretazione che – a nostro avviso – merita di essere considerata e discussa, giacché – come è evidente – l’intera operazione venne interrotta dagli eventi ancora in corso quando si compì – deliberatamente, a nostro modesto avviso – il sacrificio di un uomo tanto più alto e meritevole dei suoi critici. La cecità del “rigore” scelto dai dirigenti della D.C. e del P.C.I. pesa ancora sul destino di tutti noi.
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INTERVISTA
Roberto Anselmi - Emiliano Dario Esposito
Intervista a Ermanno Rea
Come è stata affrontata la dismissione da un punto di vista politico? Vorrei dire solo una cosa, in anticipo. E cioè che, dopo aver scritto la dismissione, non mi ricordo esattamente quanto tempo dopo, avevo un incarico a Napoli, ho avuto un incarico, proprio in seguito, anzi alla scrittura della dismissione. E sono stato a Napoli per un certo tempo. Poi mi sono dimesso da questo incarico. Che era la presidenza della fondazione Premio Napoli. Poi mi sono dimesso da questo incarico e per la verità come succede spesso in questi casi specialmente quando le dimissioni, come dire, avvengono in un clima di sfiducia nella situazione, di delusione, di senso di impotenza eccetera, succede che uno finisce un po’ per rimuovere: sono tornato a vivere a Roma completamente e quindi ho perduto il contatto con la situazione napoletana. Ma segnatamente con quella di Bagnoli. Bagnoli è uscita dal mio orizzonte. Quindi se voi volete da me notizie più recenti, più attuali, io non sono in grado di darvene. Quello che posso dirvi è che è che quella che doveva essere e che in qualunque altro paese europeo sarebbe stato una riconversione piuttosto rapida a Napoli soprattutto mi riferisco alla bonifica a tutto questo tormentoso dopochiusura dello stabilimento è una cosa di indicibile lentezza e non ho capito bene quali questioni abbiano ritardato in modo spaventoso una soluzione. Io credo che una delle piaghe di Napoli sia anche questa quella poi di non, come dire. Intanto le cose vengono organizzate e realizzate a di fuori di ogni programmazione, di ogni idea di quello che accadrà dopo. Cioè l’importante è realizzare l’obiettivo che sia immediatamente designato, che si è deciso di raggiungere, poi quello che accadrà dopo non frega a nessuno. O
perlomeno a coloro i quali decidono. Questo è stato uno degli elementi, perché si è chiuso bagnoli e poi c’è stato un lunghissimo dibattito su quello che doveva succedere, come doveva essere reinventata quest’area e via discorrendo con opinioni molto spesso in conflitto fra di loro ma senza nessun approdo concreto e positivo. Poi, dio mio, delle cose per carità sono state fatte, però a che punto è la vicenda io non sono in grado di dirlo. Il suo rapporto con Napoli è un rapporto in cui la distanza ha un ruolo importante, il tema del ritorno, di uno sguardo esterno sia da un punto di vista geografico che temporale. Qual è il suo rapporto con la nostalgia e la distanza da Napoli. Certi rapporti si strutturano sulla base degli avvenimenti, di ciò che accade. Se io non me ne fossi andato da Napoli nel 1957 e non avessi cercato di vivere un’esperienza completamente nuova, le cose si configurerebbero in termini completamente diversi. Io invece me ne sono andato. Le ragioni per le quali me ne sono andate, come sempre, sono poi difficili da individuare. Erano molteplici, e in gran parte le ho raccontate in Mistero napoletano. Me ne sono andato da Napoli diciamo, fondamentalmente perché prima si era consumata una certa esperienza che era stata un’esperienza umana innanzitutto, poi politica, intellettuale mettetela giù come volete; poi perché diciamo io mi sono trovato a fare il giornalista in un certo senso mio malgrado. Perché la mia aspirazione non era questa. Io volevo fare il professore. Il mio progetto era questo. Poi è accaduto che questo impegno politico mi ha assorbito, sono entrato a far parte dell’Unità sempre pensando che dessi una mano provvisoriamente, poi torna-
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Anselmi - Esposito
vo all’università a studiare, a laurearmi eccetera. Poi in realtà poi sono stato preso dentro al meccanismo. Capita che la vita decida per conto nostro, molto spesso. Quindi diciamo che ecco, quello che si può dire è che il mio rapporto con la città era un rapporto sin dall’inizio forte. Un rapporto ricco di elementi di vario genere. Napoli è una città che marchia i propri figli in maniera abbastanza forte e profondo. Questo va da sé. Io la chiamo un’etnia pesante, un’etnia che uno si porta dietro e che difficilmente si scrolla di dosso anche quando magari vorrebbe liberarsene. Poi figuriamoci nel caso in cui uno non intende liberarsene. E anzi costituisce una specie di punto fisso di grande tormento. Io non mi ricordo in quale di questi libri racconto una cosa che mi viene in mente in questo momento, ho 82 anni e mezzo, quindi potete immaginare quanta gente cara se n’è andata all’altro mondo, io scrivo una frase in cui dico Ragazzi è mai possibile, rivolgendomi a questi amici defunti, ma è mai possibile che per tutta la vita non abbiamo fatto altro che parlare di Napoli. Io ricordo di amici miei carissimi, napoletani, emigrati a loro volta, a Milano soprattutto ma anche a Roma, con i quali ci incontravamo e parlavamo del caso Napoli. Ma il caso Napoli era un logorante sviscerare i temi della condizione napoletana di questa come dire di questa entità, di questa identità così particolare eccetera. Il paesaggio naturalmente ha avuto sempre un significato molto forte e il degrado del paesaggio è un elemento, una componente non secondaria eccetera, perché è stato come una lenta continua ferita che si allarga progressivamente e via discorrendo. Questo per dire il tipo di rapporto, insomma. Un rapporto difficile fatto di ritorni frequenti soprattutto quando erano ancora in vita i miei genitori, poi dopo c’è stato il momento in cui quando tornavo a Napoli dovevo andare in albergo, perché non avevo più una casa, una sorella una zia dove alloggiare. Quindi c’è anche questo momento par-
ticolare. Il momento in cui tu dici: adesso parto, vado e devo prenotare un albergo che già di per sé diventa un fatto traumatico. Quindi diciamo questa condizione, questo vincolo in genere mi ha accompagnato per tutta la mia vita e diciamo è stato un momento di confronto continuo con quelli che erano rimasti, un confronto continuo con quelli che come me erano partiti e con cui si discuteva. Si discuteva di questo elemento fondamentalmente: la difficoltà, incapacità impossibilità per questa città di accedere alla modernità, ecco. Il tema di fondo era questo, perché questa città non riesce, pur essendo una delle più significative metropoli italiane di tipo europeo per molti versi, che riguardano la cultura, riguardano l’urbanistica riguardano la stessa industrializzazione eppure questa città non riesce a realizzare quella che è la sua aspirazione di fondo, e cioè a diventare una città moderna a diventare una città con una sua macchina produttiva efficiente, una sua capacità autonoma di produrre lavoro, ricchezza per gli abitanti, senza nessun rapporto di dipendenza con il resto d’Italia. Quindi fondamentalmente se andiamo a scavare il motivo di questa ossessione di questo discorso che non finiva mai, di questo confronto continuo era l’Unità d’Italia mancata. Se andiamo al nocciolo. Perché l’Italia non si è unificata. Io giusto per dare una sintesi a un discorso a questi discorsi che sono fatalmente di grande respiro, per ancorarli un po’, io ho una mia precisa idea che posso riassumere soprattutto con una citazione che taglia la testa al toro che è una citazione gramsciana. La fondazione Premio Napoli mi ha chiesto, io non appartengo più a quella esperienza però ho un rapporto amicale con loro, e il presidente, quello che è stato vicepresidente con me, giacché mi chiamarono insieme a tanti altri per il maggio dei monumenti a parlare, in particolare di Mistero napoletano, in una chiesa addirittura, nella chiesa di San Ferdinando, poi hanno deciso di pubbli-
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Intervista a Ermanno Rea
care tutti questi interventi, c’è stato La Capria, addirittura cinquanta autori, non so dove li abbiano trovati, un esercito, non so che cavolo di libro verrà fuori, ma comunque la cosa non mi interessa, e allora mi hanno chiesto di scrivere questa cosa e io l’ho scritta e gliel’ho mandata, è una specie di racconto, in cui rievoco la figura di Francesca, come se incontrassi il suo fantasma e racconto quello che è avvenuto in questa chiesa proprio a Francesca e in questo racconto io cito, per dire quanto mi è essenziale, cito questa frase di Gramsci che suona così: “L’egemonia del Nord sarebbe stata normale e storicamente benefica se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale) anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale”, cioè al Nord. Cioè in sostanza se il capitalismo settentrionale fosse stato, diciamo, capace di guidare… che significa realizzare l’unità nazionale, l’unità nazionale si realizza non tanto sul piano della burocrazia quanto sul piano della sostanza, dell’economia: un’economia generale unica, compatta per cui le varie parti giocano un ruolo unico, allora dice Gramsci, l’egemonia del Nord sarebbe stata utile se fosse stata alla guida, la locomotiva per creare un’economia generale, unica di tutto il paese. Cioè se il paese si fosse unificato, unito nella sostanza. Quindi: se il mondo contadino del sud fosse stato coinvolto, se ci fosse stata una fusione reale, profonda in modo che il paese diventasse un paese unico: poi ognuno recitava la sua parte. E lui dice: questo tipo di egemonia sarebbe stata “normale” e storicamente benefica se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo
ritmo i suoi quadri, per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate, cioè per assimilare e quindi promuovere lo sviluppo e l’intreccio, la fusione del resto del paese. Un processo progressivo, in nuovo, in cui il positivo la vinceva sul negativo. Gramsci continua: “Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presento come condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente perpetua per l’esistenza di una industria settentrionale.” Non so se è chiaro il discorso: l’Unità d’Italia non si è realizzata nei fatti. Già se vogliamo dirla tutta questo era già evidente nel processo del Risorgimento italiano, un evento elitario in cui le masse contadine del sud non sono state mai coinvolte. In fondo tutto il dramma di Napoli è il dramma della mancata realizzazione in profondità dell’unificazione. Il fallimento dell’unità. Tant’è che quando io personalmente nasco all’impegno civile, sociale eccetera nella città, a Napoli negli anni ’50, fine anni ’40, il nostro sogno, il nostro obiettivo di fondo, non è tanto il socialismo, ma la modernizzazione di Napoli. La nostra battaglia più sentita, più forte, più vissuta era la liberazione di Napoli dalle sue eredità negative di un lungo passato. In questa vicenda, se volete, entra molto la storia poi dell’Ilva. L’Ilva viene creata agli inizi del ‘900 dopo una vicende estremamente complessa e tormentosa perché la Napoli di fine ‘800 è dominata, come racconta lo storico Francesco Barbagallo, da una sorta di triade: c’è un deputato al parlamento che si chiama Casale, c’è il sindaco della città che si chiama Summonte e c’è il direttore del Mattino di Napoli che si chiama Scarfoglio. Questa triade, legata a filo doppio alla Camorra fa il buono e il cattivo tempo. In particolare l’uomo più corrotto e più con le mani in pasta in mille faccende sporche è questo deputato, Casale. (08.00) . È in atto intanto una
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Anselmi - Esposito
polemica di tipo intellettuale e giornalistico. C’era Nitti che sosteneva che il futuro di napoli era nell’industrializzazione. Scarfoglio, da buon reazionario qual’era la chiamava la chimera industrialista. E diceva che Napoli doveva restare la città del terziario, del commercio e del turismo. Contemporaneamente un gruppo di giovani socialisti fonda un giornale, “La propaganda”. Ripeto, siamo alla fine dell’800. Questi giovani iniziano ad attaccare la famosa triade Casale-Summonte-Scarfoglio a spada tratta. Facendo nomi e cognomi, denunciando in modo violento. E scrivendo sul giornale che il personaggio più compromesso è Casale. Il deputato, nonostante avrebbe preferito non farlo, è costretto a querelare questi giovani socialisti. Ne nasce un processo. Un processo clamoroso. I ragazzi continuano nella loro campagna ma nonostante questo, dati i tempi, tutto lasciava presagire che sarebbero usciti con le ossa rotte da questa vicenda. Invece accade che la magistratura condanna il Casale che è costretto a dimettersi. Ne nasce uno scandalo a livello nazionale e il governo che fino a quel momento era restato alla finestra per vedere come si mettevano le cose, è costretto a fare qualcosa. E che cosa fa? Promuove una inchiesta parlamentare che è un vero e proprio monumento: l’inchiesta Sareido che indaga su tutte le amministrazioni napoletane post unitarie mettendo a nudo malversazioni e intrighi vari. A questo punto, dai risultati di questa inchiesta viene prodotta la legge speciale su Napoli. Che a sua volta produce l’Ilva di Bagnoli. Nitti spiega che da che mondo è mondo le acciaierie nascono per ragioni belliche. E la borghesia italiana è impaziente di conquiste in Africa. Allora Nitti ritiene che almeno la fabbrica venga fatta a Napoli così che accanto a questi scopi guerreschi, abbia anche una funzione positiva: il lavoro, il lavoro, il lavoro. L’Ilva nasce confunzioni salvifiche fin dalle origini. Da una parte deve produrre cannoni. Ma Nitti gli assegna una fun-
zione salvifica: deve liberare Napoli dalla malavita organizzata, dalla Camorra. Questo non accadrà o accadrà in maniera limitata: con Bagnoli che sarà un grande presidio di democrazia a Napoli però quella modernizzazione che era nelle aspettative e nelle speranze di tutti noi, generazione del dopoguerra, non ci fu. Tanto che quando si parlerà un’eventuale delocalizzazione della fabbrica noi diremo di no. Il nostro slogan era che “La fabbrica deve entrare nel vicolo e bonificarlo”. LA modernità, l’industria, la classe operaia, un’etica del lavoro dovevano entrare nel vicolo e modificarne, gli assetti e i rapporti sociali. Un compito troppo grande per la sola Ilva. Tornando a Gramsci, non c’è nella classe dirigente italiana l’idea di una vera e propria unificazione. Il mezzogiorno deve restare una colonia, una riserva di manodopera, un mercato sia pure limitato in grado di assorbire i prodotti del nord ma non deve verificarsi un’integrazione vera e propria. Non deve esserci un’economia unica. Mancando il presupposto di fondo, una vera unità italiana, quella modernizzazione che auspicavamo per Napoli, non avrà mai luogo. Perché poi che cos’è che è accaduto? Che le fabbriche funzionano in una logica di efficienza, se sono capitalisticamente sane. Se l’azienda diventa un colabrodo, il luogo dove vanno a scaricarsi tutte le clientele e i piaceri dei notabili, le diseconomie fanno della fabbrica non un motore di progresso ma un amplificatore delle diseguaglianze. Forse noi non abbiamo bisogno di ricorrere a Marx e Engels. Abbiamo come maestri, bandiere, esponenti del grande liberalismo come Nitti. Chiaro c'è Gramsci. Ma in prima linea c'è l'industrializzazione, la liberalizzazione di Napoli. Ecco, credo sia questo il nocciolo del discorso. Tutto il resto, tutti i problemi del mezzogiorno, ruoteranno intorno a questo asse principale. L'emigrazione, la miseria di chi è rimasto, il malaffare politico: tutto ha origine da lì.
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Intervista a Ermanno Rea Una frattura che ha origini lontane, quindi. Pensa possa essere sanata? Credo l'Italia sia l'unico paese europeo ad essere spaccato nel suo interno. No, la divisione a me pare insanabile. Certo il mondo è imprevedibile e la speranza non deve mai abbandonarci, ma stando al concreto, di motivi di ottimismo sulla breve, ma anche sulla media distanza - ce ne sono ben pochi. Dirò di più. Che io sia mosso da spirito unitario lo attestano i miei sentimenti, la mia biografia. Ma arrivo a dire che forse, ad un certo punto, sarebbe giusto il mezzogiorno ed in particolare Napoli trovassero la forza di risalire la china da per conto proprio.
Una secessione al contrario? Una traversata in solitario, diciamo, piuttosto che prolungare quest'agonia di unità. Potrebbe essere addirittura auspicabile. Lo dico con la rabbia delle tante speranze sconfitte. E lo dico come un ammonimento: il mezzogiorno dovrebbe essere capace di mobilitarsi. Non si tratta cedere al fascino di quei movimenti autonomistici che spesso fanno capo a settori crimine organizzato. Parlo di una mobilitazione degli stati generali. Le intelligenze giuridiche, economiche, politiche, dovrebbero vincere quel sentimento di sconfitta in cui sono scomparse. La gente dovrebbe superare la chiusura in se stessi, la loro frustrazione. La continua regressione del sud ha dato luogo ad una produzione di pregiudizi contro il mezzogiorno infinita. Ultimamente, sul Corriere della Sera – a proposito della vicenda dei rifiuti – un giornalista si chiedeva come mai la società civile napoletana non si fosse ribellata. Affermazioni semplicistiche, che non stanno ne in cielo ne in terra rispetto ad un'analisi profonda della situazione. Anche Giorgio Bocca – persona che io stimo e del quale mi considero amico – in un suo libro ha collegato la napoletanità al mito di Cerere, quasi fosse portatrice di una sorta di violenza naturale.
Tutto questo umilia e ha umiliato, ha creato una condizione psicologica non facile nelle genti del sud. I problemi sono tanti, e riuscire a venirne fuori non è facile. L'economia ed il lavoro sono temi fondamentali: io, oggi, non saprei dire di che cosa vive Napoli. È stato un gioco a perdere eterno.
Eppure prima dell'unità d'Italia la situazione al Sud non era quella di oggi. Quando si realizzò l'unità, la città partenopea non arrivò all'appuntamento a mani vuote. Pare che la seconda flotta per importanza dopo quella inglese, in Europa, fosse proprio quella napoletana. Avevano inventato la trazione a vapore nella marineria, e avevano un'enorme quantità di cantieri navali. Napoli si presenta, oggi, piena di problemi. Ma a ben vedere un secolo e mezzo fa non era così, c'è stato un depauperamento continuo delle sue ricchezze da allora a oggi. Possiedo un grande censimento della popolazione e delle attività degli anni '40 del 1800. A leggere bene, si trattava di una città piena di risorse, certo con la sua plebe ed i suoi drammi, ma con una struttura produttiva di notevole portata. Ed ora, di tutto questo, non ce ne è più traccia. Bisognerebbe indagare ancora più a fondo su quello che c'era e non c'è più. Le fabbriche scomparse, il capitale umano costretto a migrare. Furono in milioni a spostarsi al nord. L'unità d'Italia si forma parallelamente su due binari. Lo sviluppo industriale al nord e l'espatrio dal sud. Un'emigrazione di manodopera, certo, ma anche di intelligenza. Oggi si parla tando dell'Italia che si va privando di tante intelligenze che sono costrette a trasferirsi all'estero...beh, questo fenomeno che oggi si lamenta, e che viene indicato come uno dei fattori di regressione del paese, Napoli l'ha vissuto in termini drammatici. 29
Anselmi - Esposito Perché tutto questo non si conosce? Perché non si sa quanto è accaduto? L'ho sempre detto e scritto, l'ho mossa anche come accusa agli amministratori pubblici ed ai politici. Una rivoluzione a Napoli dovrebbe cominciare da un momento conoscitivo del proprio passato, dalla promozione di una conoscenza settore per settore, campo per campo, di tipo esaustivo. Napoli è una città che non conosce se stessa. Non la conosce l'uomo della strada, non la conosce il professionista, non la conosce il politico. Tant'è vero che arriva uno scrittore giovane, un ragazzo, scrive Gomorra, e tutti cascano dalle nuvole. Ma come? Dieci anni sono un'epoca al giorno d'oggi, ed era da dieci anni che venivano scaricati rifiuti tossici nel napoletano. Possibile nessuno ne sapesse niente? Ogni sera file di camion andavano nelle discariche chiave, scavavano, riversavano. Questo l'ho scritto in Napoli Ferrovia. Il presidente della regione, il sindaco di Napoli, gli assessori, gli architetti, gli urbanisti, i giornalisti, possibile non sapessero? Delle due l'una: o si tratta di professionisti incapaci, o di persone che fingevano di non conoscere per il proprio tornaconto.
del consenso: offrire impunità. Vuoi costruire abusivamente un intero quartiere? L'importante è che tu mi assicuri un'adeguata contropartita, che era l'inamovibilità dalla cabina del potere. Del resto tutto malaffare dei rapporti tra politica e malavita organizzata nasce – a parte altre possibili e prevedibili ragioni di collusione - fondamentalmente intorno alla vicenda della guerra fredda. La camorra, la mafia, strumenti di governo del territorio, che soprattutto la Democrazia Cristiana utilizzava per svolgere il suo ruolo. La contrapposizione dei blocchi è durata grossomodo cinquant'anni: se per un tempo così lungo si svende legalità per consenso, è facile immaginarne le conseguenze devastanti. Intanto la magistratura, tutta al servizio del potere, non muoveva un dito. Poi, con la caduta del muro di Berlino si rompe il giocattolo. Scoppia Mani Pulite. Quando si parla di quell'inchiesta si pensa soprattutto a Milano, ma quanto accadde a Napoli aveva dell'inaudito: per i vari Gava, Pomicino, De Lorenzo, Poggiolini era finito il regime di protezione, si era chiuso l'ombrello.
E poi? Ha creduto nel "rinascimento napoIn Mistero napoletano dico: si apre a letano" di Bassolino? quel punto la possibilità di nuovi giochi, No, mai, ne ho parlato in Mistero napo- non c'è più vincolo, impossibilità al camletano. biamento. Ecco, fino a quel punto non c'era stata storia a Napoli, l'avevo paraEppure quella della metà degli anni gonata ad un acquario in cui l'ossigeno '90 è stata una fase molto particolare lentamente viene meno, e in cui i pesci a per Napoli. poco a poco muoiono. D'un tratto Partiamo dalle sue origini. Con la cadu- Napoli vive una stagione di speranza, ta del muro di Berlino e la fine della che si trova ad essere incarnata – per guerra fredda, è terminato anche lo stato puro caso – da Antonio Bassolino e dal di privilegio di cui godeva un certo ceto Pds, che riescono a vincere le elezioni politico. Prima si sentivano protetti, comunali. Inizialmente Bassolino interintoccabili, coperti com'erano sotto preta questa speranza, ma il "rinascimenl'ombrello dell'Occidente. Durante que- to" era un'enorme cazzata. Il potere, gli anni, la democrazia italiana era – qualunque sia la sua etichetta, si muove come dicono in molti – "bloccata". Ma sempre alla stessa maniera. Quando arricome si fa a bloccare la democrazia? Da va nella stanza dei bottoni ferma ogni un lato lo si può fare con la dittatura, slancio. "Lasciatemi lavorare", dice. Così dall'altro svendendo la legalità in cambio fa Bassolino, ed anzichè dare uno slan30
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cio di rottura alla speranza che incarnava, anzichè mettersi in gioco, sceglie la linea della prudenza a tutela della sua poltrona. Per rompere una crosta di tale spessore, bisognava promuovere una campagna conoscitiva, trasformare le speranze in entusiasmi fattivi, forti. Ma Bassolino ha fatto da pompiere. Ha messo sotto controllo la sfera emotiva, gli entusiasmi, spegnendoli di conseguenza. Certo, mi rendo conto che la partita era di una difficoltà enorme, ma poteva essere tentato qualcosa di straordinario. Sarebbe potuta essere una bella esperienza. Quindi un fallimento? Ma prendiamo anche solo il modo in cui ci si è mossi in fatto di politica urbanistica. Capisco l'importanza di rinnovare delle piazze, ripavimentare, ma quante cose non sono state fatte? In Napoli Ferrovia racconto di Piazza Mercato, da tempo in mano alla camorra. Ecco, perché non sgominarla e restituire la piazza al commercio all'ingrosso, com'era fin dal 1400? Perché non rianimare il porto piuttosto che ripavimentare Via Toledo o Piazza del Plebiscito? Fino ad arrivare allo scandalo dei rifiuti, il punto più basso.
Ma intanto dov'era la società civile, dov'erano le voci autorevoli capaci di denunciare la situazione? È l'intera Italia che si è impoverita dal punto di vista intellettuale. C'è una crisi generale in atto, che a Napoli è soltanto più evidente che in altri luoghi del paese. Quando ero giovane vi era una classe borghese di notevole spessore. Si pensi all'Istituto di studi filosofici di Benedetto Croce. Ma anche a riviste come Nord Sud, Compagnia, a Cronache Meridionali. C'erano personaggi come Giorgio Amendola, Mario Palermo, Maurizio Valenzi,Gerardo Chiaromonte, Giorgio Napolitano. Adesso persino l'alta borghesia napoletana è quasi scomparsa. Sarebbe interessante confrontare i ceti dirigenti degli anni '50 e '60 e quelli di oggi. Persone di tutt'altro peso specifico, qualità umane, intellettuali, vicende bigrafiche. Terracini era Terracini, Pajetta era Pajetta, Di Vittorio, Pietro Nenni. Ma non parlo solo di sinistra, vi erano anche i vari Malagoti, Mattioli, Mattei, De Gasperi. Dov'è, oggi, qualcuno di paragonabile? Berlusconi?
Angelo Angeloni
Otto marzo
Sappiamo che la celebrazione della “Giornata della donna” si lega a un evento preciso: la morte di un centinaio di operaie americane, avvenuta nel 1908 in un incendio nelle fabbriche del Washington Square, durante uno sciopero. Due anni dopo, nel 1910, Clara Zetkin (militante della Spd – il partito socialdemocratico tedesco – donna che dedicò tutta la sua vita alla politica), nella seconda Conferenza Internazionale delle Donne Socialiste, a Copenagen, e fissò l’8 marzo come giorno della memoria di quell’evento.
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Ma, intorno a questa data c’è stata molta confusione nel corso della storia e nei diversi paesi del mondo – comviene accuratamente spiegato nel libro di Tilde Capomazza e Marisa Ombra, 8 marzo – una storia lunga un secolo (Iacobelli ed., Pavona di Albano Laziale, 2009): imprecisioni, assenza di notizie relative in importanti testi storiografici e in organi di stampa, che delle lotte operaie fecero il loro cavallo di battaglia, crearono come un mistero intorno a quell’avvenimento. Non se ne parlò nemmeno nella “mozione” del 27 agosto 1910, con la
Angelo Angeloni
quale Clara Zetkin istituiva la “Giornata internazionale della donna”. La mozione, infatti, a un certo punto recita: «le donne socialiste di ogni nazione organizzano nei loro paesi, ogni anno, una giornata delle donne, che in primo luogo serve come agitazione per il diritto di voto femminile. La richiesta deve essere considerata alla luce del suo rapporto con l’intera questione femminile dalla concezione socialista» (1). Una data, comunque, era stata istituita. Ma, quando si trattò di scegliere una data comune in tutto il mondo per la celebrazione della giornata della donna, le cose andarono diversamente: essa venne spiegata nell’ambito della Terza Internazionale Comunista, che nacque a Mosca nel 1919, all’interno della quale si creò un “segretariato per le donne”. Sempre a Mosca, nel giugno 1921, si svolse la seconda Conferenza delle donne comuniste (82 delegate da venti paesi europei). In questa occasione, venne chiarito che, sebbene la Giornata delle donne fosse stata istituita nel 1910, in molti paesi veniva celebrata per la prima volta nel 1921. Ed ecco cosa stabilì la Conferenza a proposito della giornata della donna: «la Conferenza adotta la data dell’8 marzo come giornata internazionale dell’operaia, giorno della prima manifestazione delle operaie di Pietroburgo contro lo zarismo». La data, dunque, è quella della rivolta di operai e soldati scoppiata, appunto, a Pietrogrado l’8 marzo 1917: rivolta che segnò la fine del potere zarista (zar Nicola II) e l’inizio della rivoluzione russa. Oltre questa data, in molti paesi la Giornata della donna viene associata a un altro 8 marzo: quello del 1857, giorno in cui «le lavoratrici tessili invasero le strade di New York per far conoscere le loro richieste» (2). Ma, «i giornali americani del 1857 non riportarono nessuna manifestazione o sciopero di donne l’8 marzo che, tra l’altro, cadeva di domenica. Nessun riferimento a questo evento è reperibile nelle storie del movimento operaio degli Stati Uniti o nelle storie del femminismo» (3).
1857, 1908, 1917: date legate tutte alla lotta delle donne operaie. Credo sia questo, alla fine, ciò che conta: in un momento dell’Ottocento o del Novecento, le donne prendono coscienza della loro presenza e del loro ruolo nella storia – esse, che fino ad allora non ne avevano fatto parte (o solo marginalmente). Da allora, non hanno più cessato di lottare. Pertanto, qualunque sia stato l’anno d’origine della giornata della donna, l’8 marzo rimane una data simbolo; e la sua storia, è la storia di queste lotte: la battaglia per la conquista del voto, la partecipazione delle donne all’Assemblea Costituente (2 giugno 1946), dove venne sottolineata l’importanza di quella ricorrenza, e che «fece emergere il tema della partecipazione attiva delle donne alla costituzione della nuova democrazia» (pag. 39). Poi ancora, la lotta per l’emancipazione nel periodo 1954-1968 ; il “femminismo” del decennio 1970-1980, movimento che si lega strettamente a quello giovanile del Sessantotto. Ma – affermano le autrici – «fu proprio allora che le donne – ancora una volta nella storia – si resero conto che anche quella rivoluzione non le comprendeva; che in ogni caso le militanti erano sempre escluse dai momenti delle decisioni fondamentali; che tutta la loro carriera politica era consistita nel diventare da “angeli del focolare”, “angeli del ciclostile”» (pag.116). E ancora: la lotta per il divorzio e l’aborto; la partecipazione ai sindacati, ecc. Insomma, ogni volta l’8 marzo viene celebrato con intenzioni diverse. Per esempio, l’8 marzo 1978, «le donne scendono in piazza più per senso di responsabilità, perché avvertono l’importanza della tenuta democratica del Paese, che per il desiderio spontaneo e gioioso di ritrovarsi» (pag. 147). Come ogni festa ha dei simboli e dei riti, anche quella della donna ha i suoi: la mimosa, il riunirsi da sole senza gli uomini, come «una sera di vacanza. E l’idea che gli uomini devono arrangiarsi da soli e badare ai bambini e alla cena» – racconta una donna – «dava loro tanta soddisfazione. Una volta sole, esplodeva 32
Costituzione e nuove generazioni
tutta le repressione e le serate erano allegre e perfino sboccate» (pag.37). In una società che spettacolarizza tutto (e che, quindi, rende banale tutto, togliendo spessore alle azioni individuali e sociali più importanti), non dobbiamo ridurre a semplice rito una ricorrenza come quella dell’8 marzo: le feste (religiose o civili che siano) devono suscitare il ricordo degli avvenimenti per cui sono state istituite. Esse, allora, sono la storia di un popolo, o di una società, o di un movimento. Si parla – a proposito e a sproposito – di dignità e di uguaglianza. Voglio citare un pensiero di M.K.Gandhi (18691948): «Credo nella conveniente educazione delle donne. Ma credo che la donna non porterà il suo contributo al mondo scimmiottando gli uomini e facendo a gara con loro. Può correre la sua corsa, ma non potrà elevarsi alle grandi altezze di cui è capace, scimmiot tando l’uomo. Ella deve essere il complemento dell’uomo». La donna deve
continuare a fare tutte le battaglie possibili per la sua dignità e uguaglianza sociale. Ma dobbiamo essere consapevoli tutti, che la vera uguaglianza è nello spirito: che è lo stesso nell’uomo e nella donna; entrambi hanno gli stessi sentimenti, la stessa vita interiore. Note:
(1) La seconda conferenza internazionale socialista si tenne a Copenagen il 27 agosto 1910. La “mozione di Clara Zatkin venne pubblicata su “Die Gleichheit” (organo di stampa delle socialiste tedesche) il 29 agosto 1910. (2) Dichiarazione della Féderation Démocratique Internazionale des Femmes. – V. pag. 85 di questo libro. (3) R. Coté, La journée internazionale des femmes; Montreal, 1984. – V. pag. 9 di questo libro.
Alessandro De Raffaele
Costituzione e nuove generazioni La Giunti di Firenze ha commercializzato “La Costituzione della Repubblica Italiana”, edizione pregevole, ed economica al contempo (€ 8), della nostra Carta fondamentale. Iniziativa da lodare, considerato il rinnovato interesse verso la nostra “Bibbia civile”, naturale reazione agli impropri orientamenti che spesso se ne discostano con la giustificazione, infondata, dell’esistenza ormai di una “Costituzione materiale”. Infatti, c’è un’unica Costituzione: quella formale. Ed è bene conoscerla e divulgarla presso
chi ne avesse sottovalutato il valore tanto da non occuparsene sufficientemente finora. Il pregio di questa edizione è la completezza (un altro editore nel febbraio 2009 ritenne addirittura non necessario riportare le “Disposizioni transitorie” salvo la VII!). Giunti riporta il nuovo testo per ogni articolo modificato con leggi costituzionali successive al 1947 e in nota il testo originario, per consentire il confronto tra le disposizioni. A voler sofisticare, avrei aggiunto i nomi e i rispettivi ruoli istituzionali di
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Alessandro De Raffaele
chi firmò il documento vitale della nostra democrazia: Enrico De Nicola (Capo provvisorio dello Stato), Umberto Terracini (Presidente dell’Assemblea Costituente), Alcide De Gasperi (Presidente del Consiglio dei Ministri), Giuseppe Grassi (Guardasigilli). Vincenzo Cuoco sosteneva che le costituzioni sono come i vestiti: quando un popolo è gobbo occorre fare in modo che esista una cupola in grado di accogliere la gibbosità. Ebbene, la nostra non prevede “cupole”: evidentemente i Costituenti avevano constatato che, posto di fronte alla drammatica ferocia della guerra e nella lotta di Liberazione, il nostro popolo non aveva mostrato gibbosità. Essa ci è invidiata dalle democrazie europee, e non solo, perché i membri dell’Assemblea (scorrerne l’elenco dà emozione a chi dispone di un minimo di conoscenza della nostra storia e della nostra cultura*) seppero infondere al testo un respiro talmente moderno e lungimirante da risultare attualissimo ancora oggi, soprattutto nei “Principi fondamentali”. Questa edizione di Giunti sembra destinata alla diffusione nelle scuole, preziosa occasione per tornare a parlare agli studenti dei temi del vivere civile in una società moderna, che non è soltanto esteriorità, globalizzazione, egoismi, mercato, aggressività … modelli rappresentatici incessantemente dalla popperiana “cattiva maestra televisione” e da gran parte del ceto politico attuale, le cui idealità sono ben lontane da quelle che ispiravano, per esempio, Piero Calamandrei: “Quando i voti si danno non più per fedeltà alle proprie opinioni, ma per calcoli di corridoio in contrasto colla propria coscienza, il sistema parlamentare degenera in parlamentarismo e la democrazia è in pericolo.” (Piero Calamandrei “ART. 7: STORIA QUASI
SEGRETA DI UNA DISCUSSIONE E DI UN VOTO”, «Il Ponte», anno III, n. 4, aprile 1947); “…il Parlamento può tutto meno che fare leggi in contrasto colla Costituzione. Questo però significa non solo limitazione del potere legislativo nel fare leggi in contrasto colla Costituzione, ma limitazione anche dei poteri del governo, il quale non può proporre leggi in contrasto colla Costituzione…. se la propone, il Parlamento non può approvarla; se l’approva, la legge è inefficace.” (Piero Calamandrei “QUESTA NOSTRA REPUBBLICA” Il Ponte Anno XII – N. 10 Ottobre 1956);
e Arturo Carlo Jemolo : “…la libertà, come tutti i beni della vita, come tutti i valori, non basta averla conquistata una volta per sempre, ma occorre conservarla con uno sforzo di ogni giorno, rendendosene degni, avendo l’animo abbastanza forte per affrontare la lotta il giorno in cui fosse in pericolo. Sarebbe pericolosa illusione quella di aver posto fuori discussione una volta per sempre certe conquiste, perché consacrate da un articolo della Costituzione. Né la pace dei popoli, né la giustizia sociale, né alcun altro bene è suscettibile di conquiste definitive: ogni generazione deve dare la sua prova; che la nostra sia all’altezza del suo compito e possa essere d’esempio a quelle che seguiranno.” (Arturo Carlo Jemolo Che cos’è la Costituzione, 1946) Per dare attuazione a questo severo monito del luminare del diritto ecclesiastico è indispensabile eliminare gli elementi di vera e propria barbarie che sempre più coinvolgono oggi la nostra vita (se un neonato viene lasciato morire di freddo al terzo giorno di vita perché la famiglia non ha una casa, il paese in cui ciò accade può ritenersi civile?), occorre una formidabile opera educativa delle nuove generazioni sul fronte della bilità e dei sentimenti. 34
Costituzione e nuove generazioni
Credo perciò che l’impegno prioritario di ogni cittadino responsabile verso giovani e giovanissimi sia proprio quello di parlare della Costituzione, di generare in loro curiosità per un documento di tutti, non legato alla “politica per mestiere”, che narra di libertà di pensiero, di espressione, di libertà di religione, di libertà dalla paura, di libertà dal bisogno, di uguaglianza senza condizionamenti; spiegare loro il profondo spirito di collaborazione tra i Costituenti che, pur
nella diversità di ideali e di culture, permise di elaborare un testo tale da infondere coraggio e fiducia, per affrontare con rinnovato spirito le macerie, non solo materiali, làscito della criminale guerra in cui il fascismo aveva trascinato il Paese. Soltanto così potremo sperare che la nostra generazione sia stata all’altezza del suo compito e d’esempio a quelle che seguiranno. E confidare nel rinnovamento civile della nostra società.
Alcuni componenti l’Assemblea Costituente * Basso Lelio, Gruppo Socialista * Binni Walter, Gruppo Socialista dei lavoratori italiani * Calamandrei Piero, Gruppo autonomista * Croce Benedetto, Gruppo dell'Unione Democratica Nazionale * De Gasperi Alcide, Gruppo Democratico Cristiano * Di Vittorio Giuseppe, Gruppo Comunista * Dossetti Giuseppe, Gruppo Democratico Cristiano * Einaudi Luigi, Gruppo dell'Unione Democratica Nazionale * La Malfa Ugo, Gruppo Repubblicano * La Pira Giorgio, Gruppo Democratico Cristiano * Lombardi Riccardo, Gruppo autonomista * Lussu Emilio, Gruppo autonomista * Marchesi Concetto, Gruppo Comunista * Martino Gaetano, Gruppo dell'Unione Democratica Nazionale * Matteotti Matteo, Gruppo Socialista dei lavoratori italiani * Moro Aldo, Gruppo Democratico Cristiano * Mortati Costantino, Gruppo Democratico Cristiano * Nenni Pietro, Gruppo Socialista * Pacciardi Randolfo, Gruppo Repubblicano * Parri Ferruccio, Gruppo Repubblicano * Pastore Giulio, Gruppo Democratico Cristiano * Pertini Sandro, Gruppo Socialista * Preti Luigi, Gruppo Socialista di Unione proletaria, indi Gruppo Socialista dei lavoratori italiani * Ruini Meuccio, Gruppo misto * Saragat Giuseppe, Gruppo Socialista dei lavoratori italiani * Scalfaro Oscar Luigi, Gruppo Democratico Cristiano * Silone Ignazio, Gruppo Socialista dei lavoratori italiani * Terracini Umberto, Gruppo Comunista * Valiani Leo, Gruppo autonomista * Zaccagnini Benigno, Gruppo Democratico Cristiano
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LE MASCHERE DELL’ARTE
Sergio Micheli
Luigi Pirandello: una figura di intellettuale “purgato” dal fascismo
Entrare nel merito della presenza nel campo dello spettacolo, del cinema in particolare, di Luigi Pirandello durante il ventennio fascista, significa avere presente la situazione in generale in cui si trovava la produzione filmistica in Italia. Lo stato confusionale, agitato in cui si dipanava la realtà italiana subito dopo la prima guerra mondiale, l'arrivo di un “duce” come Benito Mussolini che prometteva pace e tranquillità al popolo stanco di una guerra disastrosa (anche dopo i patti, sfavorevoli all'Italia, delle potenze vincitrici di Versailles), poteva raccogliere, come raccolse, adesioni plenarie specie da parte dei benpensanti e degli agnostici. Pirandello fu uno che, insoddisfatto dell'andamento giolittiano, aderì con entusiasmo alla politica del fascismo che, intanto, aveva reso vivibile la complicata situazione politica. Scrisse perciò, nel 1924, una lettera a Mussolini chiedendo l'iscrizione al Partito Nazionale Fascista. “Eccellenza, scriveva Pirandello nella lettera a Mussolini, questo è il momento più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita in silenzio. Se l'Eccellenza Vostra mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario- Luigi Pirandello”. Il delitto Matteotti insieme a tante altre violenze con le quali Mussolini aveva preso il potere, doveva far riflettere Pirandello, al di sopra delle sue concezioni, in merito al significato di democrazia. Senonchè quando il fascismo ,” oltre che come manifestazione rivoluzionaria, si presentò contro il ritorno all'ordine: un ordine che rispondeva in tutto e per tutto agli interessi borghesi dell'età di Giolitti ma che, tuttavia, pareva avere una diversa
matrice, un'origine ibrida nella quale concetti come rivoluzione e restaurazione si incrociavano e si confondevano “ ( in “Pirandello fascista” di Gian Franco Venè, pag.41-42, Sugar Editore, 1971), Pirandello decise di non rinnovare la tessera d'iscrizione al Partito. “Il fascismo, mediato dalla guerra e dagli eventi che ad essa immediatamemte succedettero (la nuova crisi industriale provocata dalla impossibilità di convertire la produzione bellica in produzione di pace, il rinvigorimento del socialismo rivoluzionario e sopratutto la reazione contro questo degli stati intermedi della borghesia) sigillò l'alleanza di comodo tra i medi e gli alti strati borghesi volti a rinsaldare la struttura capitalista: e questo avvenne, come si sa, attraverso la finta rivoluzione mussoliniana, presto trasformatasi in tirannia” (Gian Franco Venè, op. cit., pag. 41). Lo scrittore agrigentino non aveva previsto, probabilmente, che la situazione sarebbe degenerata con la politica con la quale veniva condotto l'esercizio del potere. E allora, quando tornò a Roma dopo la consegna del premio Nobel, nessuno era ad aspettarlo alla stazione. Può darsi che l'iscrizione di Pirandello sia stata suggerita da uno stato di inconscio che lo metteva al sicuro sul fatto di realizzare il suo tanto sospirato Teatro d'Arte: cosa che potè, effettivamente, portare a termine. Perchè in quello stesso anno dell'iscrizione Pirandello ricevette da Mussolini 50.000 lire con la promessa di un'erogazione suppletiva di lire 200.000. Quando il Teatro dell'Arte chiuse i battenti, Pirandello si trovava in un periodo di purga così come dimostrò il fatto che, di ritorno dalla consegna del Premio Nobel, non c'era nessuno ad aspettarlo alla stazio-
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Luigi Pirandello: una figura di intellettuale “purgato” dal fascismo
ne di Roma, poi, a causa del suo ostentato laicismo (se non addirittura ateismo) in un clima di ritorno dello Stato alla religione, dopo il Concordato con la Santa Sede, dell'11 febbraio 1929 quindi del suo persistente affiorare nelle sue opere del senso dell'inutilità della vita e il suo ricorrente pessimismo che non poteva legare con i principi portati avanti dal fascismo: tutte cose che non deponevano a favore delle scrittore siciliano nonostante la sua persistente adesione al Partito con il gesto munifico della consegna alla Patria della medaglia d'oro ricevuta in occasione del Premio Nobel. ( A proposito del pessimismo pirandelliano basti avere presente quelle liriche giovanili scritte nella solitudine di Bonn nel 1890 dove (per esempio v. “la fune”) emerge un forte senso di un'esistenza triste e disperata). Tuttavia la sua opera, teatrale e letteraria, non venne del tutto ignorata: sarebbe stato troppo drastico un autaut del fascismo attraverso il Min.Cul.Pop. (Ministero della Cultura Popolare). Così i film derivati dalle sue opere furono, né tanti né pochi, comunque i seguenti, a partire dall'applicazione della colonna sonora al film : La canzone dell'amore (1930) di Gennaro Righelli, Acciaio (1932) di Walter Ruttmann, Ma non è una cosa seria (1936) di: Mario Camerini, Pensaci Giacomino (1936) di Gennaro Righelli, Il fu Mattia Pascal (1937) di Marcel L'Herbier, oltre a Come tu mi vuoi (1932)- As you desire me, di Georg Fitzmaurice e Cinci (1939), un film a passo ridotto del cinegufista Michele Gandin, tratto dalla commedia omonima. Ognuno di questi film sta a denotare un segno particolare del cinema italiano. Si tratta di campioni i quali assumono importanza di una vera svolta nell'ambito della produzione nazionale. Cinci, ad esempio, rappresenta un campione di trasgressione nei confronti delle
finalità dei cine-guf. Il finale pieno di problemi e di incertezze per il piccolo Cinci che ha ucciso incidentalmente un compagno di giochi, è quanto di più aborrito potesse essere fatto contro le disposizioni del regime fascista: un regime che coltivava idee del tutto opposte a quelle del regista, il quale volle sfidare il giudizio della giuria ai Littoriali del 1939. Dove il film, dopo una serie di aspre discussioni fra i giurati, le fu assegnato solo il terzo premio. A questo film, tendenzialmente neorealista, faranno seguito I bambini ci guardano(1942) di De Sica, 4 passi fra le nuvole (1942) di Blasetti,Ossessione (1943) di Visconti. La canzone dell'amore (tratto dalla novella “In silenzio”), primo film, ufficialmente, sonoro non viene apprezzato in toto da Pirandello, nonostante il grande successo mondiale. Perchè? Perchè nel rispondere su “Kines” n°1 del 23 nov. 1930 (pag.11), dichiara : “ Ho visto La canzone dell'amore. Tecnicamenet non si potrebbe domandare di meglio.Questo film è la prova delle capacità e delle possibilità di fare il film parlante in Italia. Bisogna però che alla Cines si forniscano i soggetti intelligenti, e che i soggetti intelligenti siano rispettati. Non sono contento della riduzione che è stata fatta della mia novella. (...) Dite chiaro e tondo che io non rispondo affatto né del dialogo, né della riduzione, né delle alterazioni che sono state fatte alla mia novella nella Canzone dell'amore”Ma quale è stata la ragione principale di questo intervento di Pirandello sulla manomissione della sua novella? E' stata principalmente la soluzione finale della storia che, da realistica passa ottimistica: una prassi sconosciuta nel teatro e nella narrativa di Pirandello. Ma il lieto fine faceva parte di una concezione abbastanza radicata nel cinema di
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tutti i tempi, tanto più con il fascismo imperante che voleva che tutto fosse rivolto verso un luminoso e chiaro lieto fine. Ancora non c'erano le “veline” del Min.Cul.Pop. Ma i finali dei film dovevano lasciare lo spettatore soddisfatto e contento, solamente per una maggiore accoglienza di pubblico, quindi per i più lauti incassi al botteghino, non davanti ai problemi, non amareggiato, non con le lacrime agli occhi. Quindi questo film determinò la linea del successivo cinema nazionale pieno e stracolmo di esempi sulla cosiddetta “commedia all' italiana”.
Acciaio del tedesco Walter Ruttmann è un film la cui sceneggiatura è stata scritta dallo stesso Pirandello con l'aiuto del figlio Stefano e di Corrado Alvaro. Questo originale lavoro annuncia un'altra linea del cinema italiano: quella del neorealismo che si verificherà subito dopo la seconda guerra mondiale, con la liberazione di Roma da parte degli alleati, nel 1945, con Roma città aperta di Roberto Rossellini. Acciaio, infatti ha tutte le connotazioni per qualificarsi neorelista. Gran parte delle riprese sono in esterni comunque in ambienti reali (le acciaierie di Terni), gli attori sono tutti , o quasi, presi dalla strada, la vicenda è popolare, spontanea,vera. Senza contare le qualità di ordine estetico come l'accoppiamento della colonna musicale all'immagine in funzione onomatopeica.
Ma non è una cosa seria di Mario Camerini è un film che rappresenta un campione di come da un testo teatrale (o d i narrativa) si debba procedere per il passaggio in film. Non è questa la sede per continuare su questo argomento, Ci basti dire che, una volta analizzato Ma non è una cosa seria da questo punto di vista, apparirà come un esempio da tenere presente ogni volta che capiti l'occasione. E' da considerare che i film tratti da testi letterari sono frequentissimi nel cinema italiano del ventennio. Non a caso in questo film vi è sulla scena
piazzato un telefono bianco a significare che siamo davanti ad una commedia sofisticata e che tutto è luminoso, pulito e splendente.
Pensaci Giacomino! interpretato da Angelo Musco diventa un prototipo di cinema comico a tutti gli effetti. Qui appare rispecchiata, più che altro, nei testi pirandelliani, la forma dell'umorismo di cui Pirandello è anche teorico oltre che scrittore. Questa piece sta comunque a testimoniare la presenza sullo schermo il primo personaggio teatrale uscito dalla fantasia del grande commediografo siciliano, pronto a farci sorridere e a divertirci con la sua mimica, con quei suoi tipici gesti, con le sue parole.. Da notare che Angelo Musco è uno dei pochi attori ai quali venne concesso di parlare con il suo dialetto siciliano.
Il Fu Mattia Pascal è importante, forse più di tutti gli altri, perchè Pirandello, ormai convinto sulla funzione del cinema in quanto spettacolo di massa, assisterà addirittura alle riprese suggerendo via via al regista L'Herbier, le sue opinioni. Ma ciò che è essenziale in merito alla traduzione di un romanzo in un film, è che il regista riesca a conservare i caratteri del testo originario, cioè che l'ambiente, con la sua tipicità, la psicologia degli interpreti, la finalità e la morale del libro siano, nel film, le stesse. E su questo piano le cose funzionano abbastanza bene. Senonchè è il finale del film che tradisce tutto il senso del romanzo stesso. E la cosa nuova consistè nel fatto che lo stesso Pirandello fu d'accordo per dare al film una conclusione ottimistica rispetto a quella del suo romanzo di tutt'altro significato e di tutt'altro respiro. Ma, si sa, specie a quell'epoca il romanzo era una cosa, cioè una materia destinata agli alfabetizzati e ad una classe elevata non certo popolare, mentre il cinema era esattamente il contrario. Pirandello si rese conto di questa differenza e lasciò che il regista andasse per la sua strada: quella
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della fine piena di speranze. Terra di nessuno fece molto scalpore quando si decise di iniziare la lavorazione. Tutti i giornali di cinema parlarono di questo avvenimento la cui sceneggiatura era stata scritta da Stefano Landi, il figlio di Pirandello e Corrado Alvaro. Quandoil film uscì tuttavia ebbe pochi consensi sia di critica sia di pubblico: nonostamte che il cast deglia gttpori sia stato diprim'ordine: Mario Ferrari, Nelly Corradi, Umberto Picasso, Tina Pica. In effetti la trama, estratta da due novelle di Pirandello “Dove Romolo edificò” e “Requiem aeterna” non fecero altro che alterare il significato dei testi pirandelliani. Mentre, pur svolgendosi la storia, in terra di Sicilia, ognuno parla un italiano scrupolosamente standard! secondo le direttive del Partito Fascista. E' questo un altro aspetto del cinema italiano di quel periodo quando era assolutatamente proibito, salvo nel caso di alcuni attori dialettali (i De Filippo, A n g e l o M u s c o, Gilberto G o v i , Macario e pochi altri secondari), di usare alterazioni della lingua italiana che doveva invece seguire una dizione che non avesse nessuna inflessione dialettale.
Enrico IV di Giorgio Pastina, che ha per protagonista Osvando Valenti (ucciso con la sua donna Luisa Ferida dai partigiani a Milano nell'aprile dle '45), una interpretrazione veramente straordinaria, rientra nel filone di quei film, e ne furono tanti, che, per non incorrere nel genere che prediligeva il racconto di propaganda del regime e della guerra, attinsero i loro soggetti ai testi di letteratura nota e meno nota. Su questa linea può considerarsi il film di
Pastina, qui al suo debutto come regista. In questo film il regista effettua un'operazione del tutto originale e funzionale nel contesto. Il quale viene disinvoltamente alterato per adattarlo meglio al cinema. Risulta così una storia, quella di Enrico IV, che conserva iil suo significato originario e con agganci diretti al presente in modo che il film possa essere meglio partecipato dal pubblico di oggi.
Si può dire che il cinema su Pirandello durante il regime fascista non abbia dato prova di partìticolare sensibilità da parte dei nostri registi (salvo, semmai, il caso dell'Enrico IV). Probabilmente la mancanza di libertà di espressione toglieva la possibilità agli autori di manifestarsi secondo le proprie idee: e Pirandello, specie negli ultimi anni di potere fascista, era lasciato a se stesso (e lui ne sentiva un vanto) a causa di una serie di cose (fra politica e cultura) che denotavano la poca disciplina dell'intellettuale di fronte alla non poche imposizioni del regime. Il suo pessimismo, che è quello ricorrente dei grandi scrittori, non poteva passare inosservato di fronte alle disposizioni del Min.Cul.Pop. Si dovrà aspettare la fine della guerra e la restaurazione di un regime di (eppure falsa) libertà perchè il cinema si accorga di nuovo dell'opera di Luigi Pirandello, perchè si riprenda ad attingere dai suoi lavori, fino a quando non arriverà sugli schermi il capolavoro di Kaos (1984) dei fratelli Taviani a rialzare le quotazioni di una narrativa che non ha conosciuto eguali da quando Pirandello ci ha lasciati.
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LETTURE A cura di Carlo Vallauri
Lorenzo di Nucci, Lo Stato-partito” del fascismo. Genesi, evoluzione e crisi. 1919-1943 (Il Mulino) Si segnala come il libro più completo sinora pubblicato sulle vicende interne ed organizzative dal partito mussoliniano sia nella fase creativa del movimento, in quella ascendente della presa del potere e del suo consolidamento, sia in quello opaco che prevale nella stessa fase del trionfo (1936-40) sia infine nella decadenza dello Stato fascista sino alla dissoluzione conclusiva. L’identità fascista emerge man mano che dal carattere prevalentemente provinciale – agrario – squadrista la “macchina” si trasforma quando deve fare i conti non più solo con l’esterno avversario che viene colpito attraverso l’azione violenta ma con le incertezze del parlamento e poi il passaggio alle funzioni di governo. Rapido nel disporre gli adeguamenti e le nuove strutture proprie
(come l’istituzione della milizia), il novello duce si trova di fronte l’oltranzismo, quello presuntivamente rivoluzionario dei propri intransigenti sostenitori del programma originario sia quello operativo sia quello della Ceka, pronta a “liquidare” il maggior oppositore. L’uccisione di Matteotti rompe ogni dubbio sui reali intendimenti di un partito che rafforzava, nelle nuove vesti, la sua impronta di “combattimento”. Si avvia così quel processo alterno di fasi si collaborazione tra partito e Stato e fasi di “aperta concorrenza” come le denomina l’autore. Il tentativo di “legalizzare” la “rivoluzione” dà luogo alla sistemazione giuridica, a cui Federzoni cercò di dare parvenze di stabilità in nome dell’autorità statale. Smantellate le casematte del fascismo provinciale, la nuova disciplina punta all’ “educazione dei giovani” per uscire dalle pene quotidiane dei contrasti interi,
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Letture
affinché il partito possa farsi “esercito civile della nazione”, cioè dallo Stato. A questo punto la “contraddizione” si pone come un punto irrinunciabile, senza però che riesca a superare il “dualismo” nell’apparente “parallelismo” tra le due istituzioni perché il partito – a modo suo – tende a mostrare una certa vitalità nell’illusione di “immettere il popolo” nella vita dello Stato. A quel punto si pongono decisioni fondamentali, a cominciare dalla politica economica. I condizionamenti internazionali non sembravano preoccupare troppo Mussolini, deciso a superare la congiuntura con scelte improvvise che promuove cercando di dare tuttavia l’impressione di una sicurezza nelle decisioni presto contrastanti con la realtà. La svolta “staraciana” – di cui si era già occupato un altro studioso, presto scomparso, Niccolò Zapponi – si riduce – se andiamo a vedere sino in fondo i fatti reali – alla creazione di una serie di “sovrastrutture” che creano l’illusione di un edificio largo e composito che però quando i tempi diventeranno duri all’interno e all’esterno, rivelerà tutte le sue crepe e debolezze. Tanto ricco nell’approfondimento sino alla prima metà degli anni Trenta, la descrizione particolareggiata del Di Nucci si verrà a trovare con minori elementi di valutazione nel periodo decisivo, quando la proiezione esterna del fascismo verso i grandi avvenimenti internazionali mostra, a nostro avviso, la caducità ed improvvisazione dell’intera costruzione. Avendo troppo a lungo immaginato di risolvere i problemi non risolti con la semplice volontà di lasciarli sviluppare naturalmente, diremmo meccanicamente, la successione degli eventi ha luogo senza che né Mussolini né tanto meno il partito sappiano imprimere su di essi una effettiva volontà di obiettivi e di scelte, il “secondo fascismo” – quello della generazione bruciata prima dalla illusione della “mistica” poi dalla prova tragica della guerra – resterà travolto dalla incapacità di reagire, soprattutto a causa della fragilità degli organismi creati e della superficialità dei nuovi attori sulla scena. Ecco allora perdersi il partito nelle diatribe in ogni provincia, tra prefetture e
federazioni. Ma sin dalla fase della “tessera” obbligatoria il partito aveva perso sé stesso e la propria “forza”. Il preteso “motore della vita nazionale” non sa assicurare alcun indirizzo preciso, tanto da restare inebetito quando giunge – quasi improvvisa, per le gerarchie interne – la bufera. Inutilmente gli anziani nazionalisti programmano l’unica bandiera “quella della Patria”, come dice Federzoni. Ormai il male è stato compiuto e infesta l’intera struttura, quella statale e quella del partito. Così si giunge alla stretta finale, con un crollo incredibile per chi viveva la vicenda nell’irrealtà della finzione continuata e colpevole. Siamo – come scrive Di Nucci – al “caos sistematico”. Non erano più possibili ripensamenti o salvamenti perché un tumore profondo aveva già distrutto dall’interno l’intera impalcatura che nella disfatta porta con sé lo Stato, dopo che gli italiani sembrano essersi risvegliati da un sogno funesto. L’analisi del Di Nucci contiene, nell’ampiezza dello studio, una sua asciutta visione. È questo il merito principale del libro: l’autore ha scelto uno studio sostanzialmente interno all’istituzione che già da tanto tempo aveva dimostrato la propria estrema vulnerabilità, a causa della leggerezza e del clima contraddittoriamente “totalitario” nel quale si era perduto, indifferente di fronte al malessere profondo della popolazione, sulla via inclinata nella quale la nazione tutta veniva trascinata.
Marcello Flores, Storia dei diritti umani (Il Mulino, Bologna, 2008) Costituisce un punto fermo nella storiografia italiana sulla “scoperta”, l’evoluzione, la realtà e la più recente “riscoperta” dei diritti che solo negli ultimi decenni hanno trovato una configurazione giuridica attraverso l’apposita dichiarazione delle nazioni Unite (1948). Lo storico dell’Università di Siena ripercorre in oltre 300 pagine il lungo cammino che dalle leggi di natura attraverso religioni e morali si sono affermate nella filosofia classica e nel diritto. Ma proprio come studioso dei fenomeni di violenza negli ultimi secoli, Flores è riuscito a tratteggiare con piena padronanza la materia e considerazioni via via
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nascenti dagli eventi accaduti in senso contrario a questi valori. Lo Stato moderno ha funzionato da acceleratore dell’inserimento dei diritti nelle legislazioni ma contemporaneamente ha allargato a dismisura i propri poteri, con l’effetto di violare i diritti umani quanto più si estendevano le proprie potestà illimitate. E, come egli sottolinea, dall’habeas corpus a Beccaria (e specificatamente già la legislazione settecentesca in quella Toscana dove adesso Flores insegna) si è andato sviluppando il principio della difesa dei corpi. Ma il “terrore” in forme nuove e più distruttive, è sempre restato in agguato, da Robespierre a Stalin. Quando si fa strada un senso “umanitario” nelle coscienze, questo stesso sentimento stenta a trovare applicazione, anche se nell’Ottocento Florence Nightingale e John Stuart Mill, dalle due sponde dell’Atlantico, indicano l’applicazione di regole adeguate come presupposto per la democrazia liberale dalla Francia ai primi vagiti di una legislazione internazionale contro schiavitù e restrizioni d’ogni genere. L’esperienza della Società delle Nazioni servì a far riconoscere alcuni principi ma non riuscì a trovare modo di applicare sanzioni ai contravventori a norme elementari di convivenza pacifica. La pace rimaneva un miraggio per sognatori. Certamente – come si fa rilevare nel libro – il passaggio all’ONU ha segnato una più definita possibilità di interventi. Viene così avanti l’idea dei “diritti universali” riconoscibili da tutti e da rispettare, da parte dei singoli Stati, sia al loro interno che nel contesto più ampio. Le nuove dichiarazioni e le “convenzioni” di garanzia a tutela dei diritti fondamentali inseriti all’interno delle costituzioni statuali, a cominciare dai paesi di nuova indipendenza, hanno spinto verso una più organica visione, dalla quale vengono chiaramente sollecitate quelle iniziative capaci di dare, in particolare al terzo mondo, strumenti legittimi di tutela. Anche se le stesse precise descrizioni riportate nel libro su massacri in ogni continente mostrano quanta distanza vi sia tuttora tra principi e loro attuazione. L’ampio panorama qui offerto fornisce utilissime informazioni su temi delicati
(e di cui troppo spesso si parla invece in modo troppo generico e confuso) e, grazie ad una approfondita ricerca, consente di valutare i maggiori nodi irrisolti, ed anzi aggravati dalla comparsa di nuove, devastanti forme di terrorismo. Le norme emanate a proposito negli Usa e nel Regno Unito offrono punto di riferimento limite, sui quali l’autore si sofferma con perizia ed intelligenza, sottolineando le differenze oggi evidenti tra guerra e terrorismo. E Flores si chiede di fronte a fenomeni ripetuti di violazioni dei diritti su grandi scale: quando si deve fermare un genocidio? Il caso del Darfur presenta al riguardo, insieme ai fatti avvenuti nelle ex Jugoslavia, una serie di esempi di quanto grandi siano tuttora i pericoli gravanti sulla realtà, al di là dei tentativi di “commissioni di verità” o di speranze di “riconciliazione”. Elementi diversi confluenti per ottenere di fatto il riconoscimento dei diritti trovano contrasto negli interessi sia di potenze sia di gruppi operanti nel traffico di droghe come nello sfruttamento sessuale. Pagine aperte, e che ogni giorno la TV mostra nelle sue pieghe più doloranti. Questa attenta ricognizione di Flores offre una nuova opportunità di riflettere sulla base di dati recenti e di sollecitazioni, aggiungendosi così agli studi di Antonio Cassese, al complesso delle opere sui diritti umani dell’Utet e al ricco studio americano di Micheline Ishay sull’analogo argomento, dall’antichità alla globalizzazione.
Lucio Villari, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento (Laterza, 2009) Si pone all’attenzione, in questa stagione di memorie storiche rinnovate, per tre aspetti fondamentali. Il primo è il forte radicamento che viene dato alla nascita del movimento per l’indipendenza, l’unità, la libertà della nazione, sull’esperienza giacobina dell’epoca napoleonica, quando cioè dalla Lombardia a Genova, all’Emilia, a Roma, a Napoli si sprigionò autonomamente un vitale sforzo per rompere le vecchie strutture feudali ed ecclesiastiche e dare al popolo la possibilità di autogovernarsi, naturalmente – in quelle circostanze – all’ombra delle bandiere francesi ma che erano vessilli rivo-
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luzionari per l’intera società. Così emerge subito la dimensione ampia di quelle iniziative come la presenza contemporanea della borghesia attiva in formazione e del “popolino”. Da rilevare altresì la prontezza ed originalità delle iniziative costituzionali rappresentative messe in atto in Emilia da Compagnoni e nella repubblica partenopea da Mario Pagano. Ed entrambi questi fattori sociali e democratici consentono di passare al secondo punto importante, cioè il carattere veramente unitario che assumeranno dal ’20-’21 sino al ’48-’49 i gruppi capaci di mettere in atto la loro tenace volontà di liberarsi dalle barriere oppressive e localistiche stringenti città e regioni in nome di ideali chiaramente mirati. Così dalla “penombra della Restaurazione” prende avvio l’incitamento di Mazzini per una Giovine Italia in grado di guidare quel “risveglio” che da Messina a Firenze, da Torino ai Ducati, da Bologna a Venezia, pone le premesse di un più chiaro ed evidente programma “nazionale”. In particolare il biennio ’48-’49, dalla Costituzione albertina alla Repubblica romana, nella diversità delle iniziative e delle forze in campo, mostra all’Europa un’Italia civile e attrezzata ai tempi nuovi che da sola può redimersi da un passato di servitù e porre le basi di un vincolo bagnato dal sangue di Mameli e di tanti combattenti del Gianicolo, delle terre padane, di Venezia, espressione di quel carattere “volontaristico” proprio di tutta l’esperienza risorgimentale. E quando, nell’intero continente, prevale il ritorno alla forza del potere autoritario, la battaglia è tutt’altro che perduta perché da Garibaldi a Pisacane, dall’esercito piemontese, dai volontari toscani e meridionali è emersa una profonda unità d’intenti, che permetterà nel decennio successivo di maturare la definitiva scelta politica della saldatura tra le due componenti principali del movimento nazionale. E Villari (terzo punto da sottolineare) mostra, passo per passo, come si formano i collegamenti, si definiscono intenti e posizioni, si superano i particolarismi cosicché Cavour può tessere la duplice trama in politica interna (con l’appoggio della Sinistra e senza alcun “inciucio”) ed in
politica internazionale l’alleanza con la Francia, dalla quale scaturisce nel ’59 l’unione della Lombardia, cui si aggiunge l’opera fondamentale dell’unificazione nel ’60 con il decisivo miracolo dei Mille. Ebbene: in ciascun momento si avverte la complementarietà tra un moto che è politico e sociale nello sforzo di unire il paese ma che non prescinde da un suo più intimo contenuto etico e culturale, nella coscienza dei fini da perseguire, quarto aspetto illuminante tratteggiato da Villari con particolare cura e ricchezza di richiami. Non è infatti una “invenzione” l’identità civile e culturale italiana, ma il frutto di un lungo percorso di menti ed intelligenze come di realtà via via affioranti sino al pronunciamento indiscutibile della volontà popolare. È proprio invece un intreccio concreto, un legame che affonda nelle pieghe storiche della nazione tutta che Villari sa descrivere con rara capacità di penetrazione nella psicologia collettiva risultante da una serie di fattori finalmente congiunti. Ecco una prova autentica di identità nazionale, richiamata dall’autore pur nel turbinare dei contrasti e delle diversità, da Gioberti a D’Azeglio, da Cavour a Minghetti e Rattazzi. E le citazioni di Foscolo, Manzoni e Leopardi non sono mai sovrapposte ma vengono lucidamente inserite in un percorso contraddistinto dagli inconfondibili segni della cultura e della vita civile. Poi tante “perle” nelle citazioni, da Marx che nel 1847 scrive al piccolo giornale fiorentino “L’alba” per uno scambio con la sua rivista londinese, a Ibsen, il quale teme nel 1870 che Roma, conquistata all’Italia, possa non essere più tanto “degli umani”. In questa fusione di elementi è la peculiarità dello studio che tiene lontano ogni luogo comune per richiamare alla chiarezza delle idee, degli obiettivi, alla coerenza degli atteggiamenti e degli indispensabili sacrifici. Da questo insieme di valori e di fatti attraverso il martirio di tanti martiri fucilati e uccisi in combattimento nasce – sottolinea Villari – quell’Italia moderna e civile che spesso, oggi sembra messa in ombra da politici, ma qualche volta anche da studiosi che non sanno comprendere la umanità e civiltà di un passato da rivendicare e da onorare.
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Carlo Vallauri Ernesto Cianci, L’IRI dalla nascita al ruolo determinante nell’economia italiana (Rocco Carabba editore) La storia dell’economia fascista è stata variamente interpretata nel corso degli anni. Dall’esaltazione aprioristica nel farsi di quell’originale esperienza alla denigrazione sistematica si è pervenuti, più di recente, ad una analisi più precisa e meno pregiudiziale. In questo corso s’inserisce il volume di Ernesto Cianci, dirigente dell’IRI dai tempi della sua nascita, già pubblicato nel 1977 da Mursia ed ora ripreso in una bella edizione dalla casa editrice Rocco Carabba a Lanciano, e curata da un giovane studioso attento e preciso, Alessio Gagliardi. Già il titolo è accattivante Nascita dello Stato imprenditore in Italia, che riconduce alle grandi dispute degli anni Trenta in Europa ed oltre Atlantico. Ed in effetti l’autore, sulla base di una esperienza vissuta giorno dopo giorno con tenace ed umile lavoro, ricostruisce gli eventi che portarono in Italia alla crisi delle banche negli anni ’20 e che indussero a cercare una stabile sistemazione. Il regime allora ritenne di intervenire dapprima creando l’Istituto mobilitare italiano allo scopo di assicurare alle attività produttive una continuità di finanziamenti sulla base delle impellenti necessità delle imprese. Il passo successivo fu la sistemazione di numerose aziende di interesse pubblico (dalla Terni alla SIP). Principale punto di riferimento divenne per il governo Mussolini un apprezzato operatore di formazione socialista, Beneduce, al quale venne affidata – in una fase in cui la Borsa era al livello più basso – la creazione di un ente per regolare la sistemazione delle imprese in difficoltà. Con quell’atto si avviò così lo Stato imprenditore, che sarebbe andato avanti, valorizzando i consorzi industriali e disciplinando nuovi impianti. C’era all’origine una chiara volontà di dar vita a una soluzione finanziaria ed industriale statalista? Dalla descrizione di chi visse dall’interno quell’avvenimento la risposta appare negativa. Gli ambienti più strettamente fascisti vollero subito vedere in quell’atto una precisa scelta di economia programmata, ma in effetti si
pensò principalmente ad una opportunità di riorganizzazione tecnica e finanziaria. Secondo Cianci in effetti si trattava di assistere imprese in una fase delicata e di incertezza nell’economia internazionale, in proseguimento della crisi americana. La sistemazione bancaria si rivelà utile, e così l’IRI si troverà proprietaria dalla grande maggioranza delle azioni della Banca Commerciale, del Credito Italiano e del Banco di Roma. Seguiranno ulteriori interventi per ripulire “rami secchi”. Dalla fase di smobilitazione si passò a interventi più mirati che permisero di dar vita in Italia ad una specie di new deal. Per l’autore dello studio, “deformazioni” successive snaturarono gli scopi prefissati inizialmente. Egli comunque esclude un disegno preordinato e mette in rilievo come gli stessi propagandisti dell’economia corporativa non attribuivano eccessiva importanza (basta rileggere gli Atti del noto Convegno di Ferrara) alla sistemazione data con l’apporto determinante del ministro delle finanze Jung. Interessanti le osservazioni del prefatore sia nell’osservare il contesto economico nel quale si svilupparono quelle scelte degli anni ’30 sia nel sottolineare la rilevanza, sul piano della nostra storia economica, di quelle decisioni che fecero così trovare all’Italia del dopoguerra un sistema organizzato d’operatività finanziaria, del quale – aggiungiamo – i governi della Repubblica si sono avvalsi sino alla svolta più recente che ha portato alla accelerata e confusa serie di privatizzazioni.
Pier Lugi Battista, Conformisti e nemici della libertà (Rizzoli, 2009) Seguire gli articoli sulla “Stampa” e poi sul “Corriere della Sera” di Pier Luigi Battista è sempre stato un piacere, al di là della condivisione o meno delle sue tesi, grazie alla incisività dei suoi argomenti sostenuti con indubbio anticonformismo specie nei confronti delle mode intellettuali più chic e pretestuose. E adesso questo insieme di osservazioni sul mondo politico e culturale italico e dintorni I conformisti, L’estinzione degli intellettuali d’Italia (Rizzoli, 2009) riprende argomenti già svolti in passato, o altri di rilevante e pungente polemicità
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Cerchiamo di individuare esattamente le motivazioni che sollecitano la sua critica. Egli si riferisce sia a pensatori di grandi livello, rivisitati nelle loro contraddizioni, sia minori polemisti dei quali mira a sottolineare l’incoerenza dei ragionamenti, la superficialità dei giudizi, soprattutto il furore ideologico palesemente esercitato. Principali punti di riferimento – in negativo – sono coloro che, pur dotati di intelligenza e capacità ragionativa e/o creativa, si sono abbandonati ad affermazioni e posizioni che mal celavano un sostanziale rifiuto dei valori di libertà e di tutela dei diritti individuali e personali. In particolare vengono chiaramente denunciati scrittori nostrani che non esitavano a biasimare la pubblicazione di opere come “Il Dottor Zivago” di Pasternak. L’ortodossia verso l’ufficialità sovietica impediva di comprendere il valore liberatorio – storico e letterario – di una simile opera di demistificazione su quel regime. C’è stato, e c’è ancora, il “pensiero doppio”, di coloro cioè (viene citato il caso di Saramago), che non esitano a rivendicare da un lato la libertà di espressione e dall’altro rifiutano di riconoscerne la forza etica, uno sdoppiamento – scrive Battista – dettato dal “piegarsi alla convenienza ideologica”, con una “perentorietà oracolare”, presentata quale fosse una “saggezza superiore”. Ecco in questi richiami l’essenza di una visione ferma, non disposta a soggiacere alle compiacenze politiche del momento manifestate nelle varie forme di potere politico ed editoriale. Caso emblematico fu quello emerso in occasione della Biennale veneziana sul dissenso nell’Urss, voluta da Craxi e organizzato da Ripa di Meana, ma fortemente contestata da illustri esponenti culturali, e pertanto Battista si limita ad enumerare i pochissimi che non condivisero quel boicottaggio promosso dagli intellettuali comunisti e paracomunisti: tra essi, non si arresero al conformismo Melograni, Settembrini, Moravia e Franco Venturi, e ne lodarono il coraggio Sacharov e il patriarca di Venezia Luciani. Come si vede, pagine dolenti di “Soccorso rosso” ma anche di rivendicazione dell’autonomia di pensiero. Altro delicato punto
toccato è il truce Novecento di Bertolucci che, esalta, “con epica solennità” i “processi ai padroni” compiuti nella Padania subito dopo la liberazione, e la cui realtà è stata poi documentata nelle sue nefandezze da Pansa. Nello scorgere tutto quel pesante carico di irresponsabilità mostrato da tanti “chierici”, Battista è implacabile, ma soprattutto emerge in lui l’inaccettabilità di tutto il giustificazionismo per le violenze commesse in nome di una “bella utopia”. Viene tra l’altro richiamato il caso di un professore di storia nei licei alle prese con programmi scolastici non condivisi dai genitori degli alunni. Problema questo che, ben oltre le personali opinioni, è tuttora delicatissimo. Abbiamo avuto modo di constatare come sia diffusa tra gli insegnanti di storia e filosofia nei licei oppure di materie letterarie in altre scuole, l’assoluta mancanza di conoscenza di pensatori liberali, come B. Constant e J. S. Mill, giacché in maggioranza gli attuali professori di quelle discipline sono impregnati di conoscenze esclusivamente di marca cattolica o comunista che ha condotto a non tenere presenti gli autentici sostenitori, sin dall’Ottocento, dei valori di libertà ed eguaglianza, critici della pervasività sfociata poi nel totalitarismo, perché spesso sono intellettuali non aperti alle interpretazioni autentiche del significato profondo dell’illuminismo. E come faranno ad illustrare il significato della libertà se si limitano ad esaltare pensatori che l’hanno negata in varie maniere? Ad avviso di chi scrive queste note si tratta attualmente di una delle più gravi lacune nel campo educativo che si ripercuote sulla formazione delle giovani generazioni. Tornando al nostro autore, vanno inoltre segnalati pertinenti richiami al diffuso antisionismo come all’assoluzione sommaria di Cuba e Bielorussia dove pure i diritti umani sono costantemente calpestati. Non condividiamo invece il suo accenno ai sostenitori delle ragioni del pacifismo perché se è vero che in quel movimento vi sono stati falsi amici della pace, è anche vero che quella predicazione ha educato al riconoscimento del valore primario di idee internazionaliste. Un
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movimento di indubbia rilevanza a livello mondiale, da non confondere con il travisamento della realtà messa in atto da certe parti politiche. Né pare esatto, tra l’altro, una specie di irrisione ai cineclub dei tempi andati, già oggetto delle fulminanti e godibili parole del nostro Fantozzi, giacché in quella fase quegli incontri rappresentarono una oasi di tutela dal conformismo che si voleva imporre attraverso la parte più retriva del mondo cattolico, sostenuto allora dalle istituzioni pubbliche. Non ricordiamo la censura teatrale di quel tempo poi abolita dal primo governo di centrosinistra, o la televisione bigotta e disinformativa imperante per tanti anni? Non dimentichiamo che furono le sinistra laiche (dal “Mondo” a “Tempo Presente” all’”Astrolabio”) a denunciare quell’ “andazzo” di volgare ignoranza e a spiegare ai governi quanto pericolosa fosse quella linea politica e culturale. Infine un accenno alla radiografia del privato, minacciato dalle intercettazioni: in questo campo la violazione del segreto giudiziario è oggi sempre più evidente, mentre in effetti costituisce uno dei gravi pericoli per il rispetto della nostra vita individuale e civile. Ormai comunque, come osserva Battista, la stagione dell’ “innocenza” è del tutto superata perché prevalgono ipocrisie, menzogne e violenze: per difendersi non rimane che la dignità della coscienza da preservare per tutti, anche per i colpevoli. La lettura del libro di Battista può essere utile per far conoscere a chi non ha vissuto il tempo della “doppia verità”, quanto pesante sia stato, ed ancora sia, quel condizionamento.
Luciano Violante, Magistrati (Einaudi, Torino, 2009) Mentre emerge, in uno dei momenti più delicati, il confronto tra politici e magistratura, la lettura di Magistrati di Luciano Violante (Einaudi, Torino, 2009) può aiutare a comprendere come sia sorta e si sia sviluppata, negli ultimi decenni, una contrapposizione tanto deleteria ai fini della evoluzione del nostro sistema politico. L’insigne alto magistrato – “prestato”, come suol dirsi, all’impegno politico, svolto con massimo senso di responsabilità – spiega infatti molto bene lo
svolgimento di una prassi giudiziaria che, in base alle norme contenute nella Carta Costituzionale, ha sollecitato i depositari del compito istituzionale di “fare giustizia” a non limitarsi alla mera applicazione delle leggi ma ad esercitare la loro funzione assumendo un ruolo di “attivismo” diretto ad assicurare pienamente la realizzazione dei principi contenuti nell’art. 3 della nostra magna charta, attraverso la sua attuazione in tutte le circostanze processuali in cui si riteneva non adeguata la stessa legislazione formale ancora vigente, assicurando così la messa in atto di una nuova costituzione “materiale”. Cioè viene rovesciata l’accusa spesso rivolta alla magistratura di essere andata oltre la lettera delle norme vigenti per rifarsi a criteri che, abbandonando la neutralità del diritto, hanno condotto a scelte discusse, e talvolta criticate, e che, invece, secondo l’autore, costituiscono la più diretta applicazione delle regole democratiche stabilite nel 1948 dai costituenti. Ed oltre a riportare con grande precisione, le più importanti innovazioni via via fissate dal legislatore per adeguare le norme vigenti nei vari campi alla carta costituzionale, Violante ha sottolineato come si sia prodotta una serie di scelte – per via giudiziaria – che hanno esercitato una vera e propria legittimazione “politica” delle trasformazioni in corso, per assicurare la migliore tutela dei diritti dei cittadini. Naturalmente emergono le contraddizioni esistenti tra il complesso dispositivo da modificare e i valori costituzionali da affermare: tutta una serie di azioni che si sono realizzate non solo attraverso nuove leggi bensì mediante l’intervento diretto dei magistrati per applicare le leggi contrastanti all’art. 3 sulla parità ed eguaglianza di condizioni e status dei cittadini, rimuovendo gli ostacoli che si frapponevano quindi alla piena attuazione della Carta fondamentale. Come si vede, una interpretazione autentica di un corso giudiziario, oltre che legislativo, che ha cambiato molte antiche incrostazioni, permettendo, attraverso comportamenti coerenti, una decisa svolta nella lotta contro il terrorismo. Una lunga marcia che ha incontrato ostacoli e soprattutto incompren-
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sione, ma che certamente ha rappresentato una fase evolutiva del nostro ordinamento. Per chi, quale storico, ha studiato il lungo percorso dello Statuto albertino e della sua collocazione nelle vicende istituzionali e politiche dal regno del Piemonte all’Italia unita e poi nei successivi svolgimenti legislativi non desta sorpresa questa lettura che il Presidente Violante rivendica circa l’azione svolta dalla Magistratura. Infatti tra il 1848 e tutta la fase operativa del liberalismo sino alla prima guerra mondiale, un fenomeno simile ha avuto luogo in Italia, con la differenza – sostanziale – che quel primo atto del Re di Sardegna (marzo 1848) conteneva limiti molto precisi: basti pensare al mancato riconoscimento del diritto di associazione, dipendente dalla preoccupazione, derivata dagli stessi autori della rivoluzione in Francia, che attraverso una generica ammissione della piena libertà di associazione, potesse riprodursi la nascita delle “corporazioni” di origine medievale, ritenuta pericolosa per la libertà d’intrapresa e di commercio, fondamento della nuova realtà sociale. Ebbene: fu allora che gli esponenti del liberalismo autentico, aperto alla crescita dei principi basilari della nuova era, ritennero di applicare in senso evolutivo le norme di libertà, consentendo ulteriori perfezionamenti in sede legislativa e, in qualche altra occasione, nella prassi giudiziaria. Così, dal Codice Pisanelli (1865) che riconobbe agli stranieri gli stessi diritti previsti per i cittadini italiani, al progressivo riconoscimento del diritto di associazione non indicato nella Costituzione, come poi del diritto di sciopero, vennero stabilite una serie di norme portate avanti da Zanardelli tra il 1878 e il 1903, in una lettura estensiva ed evolutiva dello Statuto in contrasto con precedenti divieti e con la prassi in atto da parte dei governi conservatori della Destra o della Sinistra trasformista (Crispi). A maggior ragione allora si può comprendere significato e importanza dell’atteggiamento della magistratura repubblicana, che ha ritenuto di compiere una serie di passi in avanti intervenendo con atti che hanno resi effettivi i diritti costituzionali. Siamo in presenza
quindi di una volontaria e motivata scelta politica che, nel caso della nostra esperienza repubblicana, ha consentito ai magistrati di rendere il dispositivo dell’ordinamento pienamente conforme ai principi regolatori della Carta del ‘48. Tuttavia non va dimenticato l’ammonimento di Hamilton – sul “Federalist” – ai giudici di non invadere la sfera propria del potere rappresentativo. Tante altre osservazioni vengono suggerite dalla lettura dell’interessante libro che conferma le qualità di un magistrato che ha saputo portare nella vita politica il segno di un alto magistero morale.
La tragedia della schiavitù in un documentato libro L’editrice milanese Epoche presenta una storia della "schiavitù spiegata ai nostri figli" di Joseph N. Diaye. La prefazione di Koïchiro Matsuuka, direttore generale dell’Unesco, pone in rilievo il valore della testimonianza resa, con quest’opera, da una persona di grande valore ed umanità che nell'isola di Gorée, a largo di Dakar, è “conservatore della casa degli schiavi”, un’esemplare attestazione del fenomeno della schiavitù perché offre uno straordinario spaccato della tratta dei negri nel corso di tre secoli. Nei vari capitoli l’autore si sofferma sugli aspetti dell'esperienza del Senegal e degli altri popoli travolti in un dramma che vide i rappresentanti dei maggiori regni europei (Portogallo, Inghilterra, Olanda, Francia) fare a gara nell’opera di distruzione di vite umane. Mentre nell’antichità ebrei, greci e romani non negavano agli schiavi – afferma poi Diaye – la natura di essere umani, gli europei dal XV al XIX secolo sono stati dei “padroni” terribili. Ogni etnia africana aveva il proprio prezzo e la propria specificità; sistemati in colonie, gli schiavi dovevano avanzare ad uno ad uno “per essere valutati dal compratore”. Degli schiavi affrancati venivano palpati i muscoli: un dente mancante, un’infezione agli occhi, una imperfezione delle gambe ne abbassavano enormemente il prezzo: poiché i negri così comprati dovevano poi attraversare l’Atlantico e quindi dovevano essere esenti da qualsiasi imperfezione.
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L’inferno della traversata costituisce poi una fase agghiacciante di disumanizzazione: i prigionieri completamente nudi, con il cranio rasato, esposti al mercato: quello che accadeva allora è ancora in parte una realtà – osserviamo – nel XX secolo al centro dell'Europa tecnologizzata. Molti particolari qui riferiti meritano di essere studiati quali metodi coercitivi esemplari. Una serie di racconti impressionanti di comportamenti ed episodi che danno al “grande mercato” il suo aspetto autentico: le donne massacrate dal lavoro, la vita quotidiana osservata nei momenti del lavoro, del sonno, della doccia, delle fruste. Interessanti anche le informazioni sui gravami imposti come a bestie da soma, sui trattamenti punitivi in caso di fuga, le punizioni, le bande ribelli, le violente repressioni nei luoghi di lavoro.
Un’America che solo a metà Ottocento troverà persone forti e coraggiose disposte a fare propria la causa degli schiavi. E sull’abolizione dell’“infamia” vi sono pagine rievocative: il primo paese ad abolire la tratta fu la Danimarca nel 1791 all'epoca di Cristiano VII, riformista religioso e sociale, ma la cui iniziativa non trovò per lungo tempo imitazioni perché i regimi europei trovano così grandi profitti da non pensare ad eliminare l'obbrobrio. Nella breve post-fazione Marco Aime ricorda Rosa Parks che in USA nel 1955 rifiutò di obbedire al divieto disposto per i negri negli autobus, primo segno della ribellione, una fase che si è conclusa con Barack Obama alla Casa Bianca.
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