antonio rostagno
Verdi fra Gioberti e Manin. Dal liberalismo moderato alla Società nazionale italiana
i. introduzione Si potrebbe parlare di contenuti politici per quasi tutte le opere di Verdi. Qui concentrerò l’attenzione su due titoli: Attila (1846) e Un ballo in maschera (1859); due momenti che delimitano grosso modo il cosiddetto «decennio di preparazione», ossia quel periodo che precede la Seconda guerra d’indipendenza italiana e l’Unità. Le due opere rappresentano momenti molti diversi dello sviluppo intellettuale dell’autore e testimoniano un importante aspetto dell’evoluzione politica italiana prima dell’Unità. La prima, Attila, è comunemente considerata come una delle opere del cosiddetto «canone risorgimentale verdiano»; la seconda è invece letta da molta storiografia verdiana come testimonianza del periodo del disimpegno, successivo alle delusioni del biennio rivoluzionario 1848-’49. Si tratta di luoghi comuni storiografici, che contengono verità e approssimazione, superficialità e correttezza. Vorrei riflettere anzitutto sul luogo comune storiografico secondo cui Verdi dopo il 1849, a partire da Luisa Miller, avrebbe abbandonato l’impegno politico per volgersi ad argomenti intimi, di etica personale e non di morale collettiva; reazione, si sostiene, al tramonto degli entusiasmi collettivi per il democratismo mazziniano, all’indomani della caduta delle Repubbliche Romana e Veneta. Credo piuttosto che l’impegno eminentemente politico, la fondamentale idea che il melodramma debba avere significato civile, sociale e morale insieme, non abbia mai abbandonato le intenzioni di Verdi, fino a Otello compreso. E persino la sua estrema produzione, i Quattro pezzi sacri, credo sia una trasposizione del medesimo impegno morale sul piano della spiritualità, un commento personale, laico, pessimistico e pieno di terrore sul mistero della vita dopo la morte (Stabat mater, con la raggelante, lontana, vuota immagine finale della «Paradisi Gloria»; Te Deum, con la conclusiva invocazione «in te Domine speravi», che cade nel silenzio cosmico senza luce divina).
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ii - attila, opera risorgimentale? si, ma perché? Allora guardiamo anzitutto ad Attila, opera scritta per Venezia, dove va in scena il 17 marzo 18461: è realmente un’opera che rappresenta un’approfondita riflessione politica, ma non tanto nel senso dell’ingenuo patriottismo fatto di belle frasi, grandi sì, ma povere di contenuti concreti. L’opera rispecchia un importante momento del confronto fra il rivoluzionarismo democratico mazziniano e il liberalismo moderato e riformista italiano; più precisamente qui vorrei attirare l’attenzione sulla forte analogia della geometria drammatica, delle relazioni che stringono i personaggi, della pianificazione della trama nell’Attila verdiano, con quanto scrive negli stessi anni Vincenzo Gioberti, nel Primato morale e civile degli italiani (Bruxelles, 1843; 1845 seconda edizione). Non nascondo che i temi della congiura e del tirannicidio, certamente fondamentali nella rappresentazione simbolica proposta da quest’opera, ci portino piuttosto vicino agli ambienti mazziniani, soprattutto del Mazzini precedente la «tempesta del dubbio»; tengo subito a precisare tuttavia che anche i liberali moderati come Gioberti, dato il clima acceso di quegli anni, non escludevano affatto lo spargimento di sangue dove necessario. Attila era sceso in Italia per conquistarla nel 452, e si era fermato alle porte di Roma per l’intervento di papa Leone Magno (la scena è ritratta dagli affreschi di Raffaello nella Stanza di Eliodoro, una della Stanze Vaticane); in realtà Attila fu trattenuto dalla paura del contagio malarico e dal fatto che era profondamente superstizioso; morirà l’anno dopo, nel 453, esattamente per quella malattia. Anche l’altro protagonista dell’opera verdiana, il generale romano Ezio (Ezio Flavio per la precisione), è figura storica reale; ma anche in questo caso il personaggio di Verdi si discosta molto dalla verità storica. Gli altri personaggi verdiani sono invece di fantasia, in parte tratti dal dramma omonimo di Zacharias Werner, a cui dichiaratamente Verdi s’ispira, in parte creati ex novo dal compositore e dal suo librettista Temistocle Solera. D’altronde è 1. Dato lo scopo di questo saggio mi limito a fornire qui in nota le date essenziali del processo compositivo dell’opera: la prima idea risale al 12 aprile 1845 (non 1844 come si credeva fino agli studi di m. conati, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, il Saggiatore, Milano 1983, pp. 143-144) e a fine agosto Solera ha completato la prima stesura del libretto (versione provvisoria). Il 12 settembre Verdi inizia il lavoro compositivo (a Maffei, ivi, p. 158; ciò significa che sta riflettendo in astratto e inizia a porre su carta alcuni abbozzi più o meno prolungati); l’8 ottobre il libretto è presentato alla Censura veneziana. Da una lettera di Piave sappiamo che in novembre si è concentrato molto lavoro su Attila (a Jacopo Ferretti, 5 novembre 1845, ivi, p. 162); ma ancora il 25 dicembre, da Venezia, Verdi chiede a Solera chiarimenti proprio sulla frase «patriottica» di Ezio di cui parlerò fra poco, «Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me» (ivi, pp. 168-169). Una malattia indebolisce Verdi in gennaio e la composizione va a rilento per due mesi, finché nella data indicata nel testo l’opera va in scena con «esito lietissimo» (Verdi alla contessa della Somaglia, ivi, p. 173).
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ancora viva nell’Italia del 1845 la polemica sul romanzo e sul dramma storico, se l’arte abbia diritto di reinventare e modificare la storia a scopi morali o politici attualizzanti, o se la storia vada rispettata nella sua integrità; è la polemica avviata decenni prima dal Conciliatore, da Manzoni, da Berchet, da pittori di argomenti storici come Francesco Hayez (v. Fig. 3); una discussione che proprio negli anni Quaranta, con il riscaldarsi della temperatura politica nella Penisola, tornava attuale. Il significato risorgimentale di Attila di solito viene individuato dalla storiografia verdiana in un momento solo dell’opera, nel duetto fra due voci gravi maschili (come sarà nel Don Carlo) della scena v del Prologo, quando il capo degli Unni Attila incontra il magister militum (o magister belli) romano Ezio (attenzione: nella realtà storica il generale romano Ezio non era un italiano, ma di origine illirica, nato a Durosturum nella odierna Bulgaria presso l’odierna Silistra; non è un particolare irrilevante, come vedremo). In questa scena Ezio propone ad Attila di divedersi l’impero, ossia il cadente Impero romano sotto il giovane Valentiniano iii (nella realtà storica quest’ultimo farà uccidere Ezio nel 454, accusatolo di tradimento, e a sua volta sarà ucciso da due ex-ufficiali di Ezio; eventi che avviarono il processo di dissoluzione dell’Impero): Attila, propone Ezio, potrà regnare sui vastissimi confini, ma il territorio italiano rimarrà «libero» sotto la reggenza di Ezio stesso. Nel libretto di Solera, Ezio recita così: ezio Tardo per gli anni, e tremulo È il regnator d’Oriente [Marciano, 450-457] Siede un imbelle giovine Sul trono d’Occidente [Valentiniano iii, non poi così giovane, era del 419]; tutto sarà disperso quand’io mi unisca a te … Avrai tu l’universo, Resti l’Italia a me2.
Si racconta che nelle rappresentazioni dell’opera vicine al biennio rivoluzionario-repubblicano questa frase scatenasse l’entusiasmo degli astanti, pronti a scattare ogni volta che sentivano la parola «Italia», «Patria» ecc. Bella favola, ma è appunto una favola! Uno dei tanti aneddoti che hanno creato un’immagine del Risorgimento come un’età quasi di adolescenti coraggiosi e turbolenti, pronti a infiammarsi al sentire alcune parole-segnale (patria, fratelli, stra2.
t. solera, g. verdi, Attila (1846), Prologo, scena v.
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niero, sia tutti una famiglia e chi vuole continui) senza mai fermarsi a pensare (e fra parentesi questa immagine degli Italiani pronti all’emozione ma poco capaci di riflessione arriva fino ai giorni nostri, chissà perché). Se Attila ha un significato politico (e lo ha, eccome!) non è questo. Anzitutto quella frase tradotta nella melodia verdiana, per quanto sia bellissima musica, è un puntino in un’opera che ha molte altre situazioni estremamente effettistiche; e alla fine quel duetto non rimane neppure nella mente dell’ascoltatore, davanti a scene come il sogno-delirio di Attila, la grande uscita di Odabella, la festa notturna, l’apparizione del corteggio pontificale davanti a cui Attila rimane come pietrificato, o l’uccisione finale dell’unno. E infatti il significato patriottico di Attila era sì sottolineato sin dalle prime recensioni dopo la prima veneziana, ma non per quella frase, come appare chiarissimo dalla seguente memoria della Gazzetta privilegiata di Venezia, che segnala precisamente il duetto dei bassi, ma non per il suo contenuto: Il duetto fra i due bassi tanto più piacque quanto più udissi, come la cabaletta del Guasco [il tenore che impersonava Foresto, l’italico-pelasgico], che s’è già fatta popolare, e si cantava più o men dolcemente all’uscir del teatro ogni sera. La facile e soave melodia ha qualche cosa che ti tocca, massime quand’entra il coro a ripetere la nota di que’ bei versi rivolti alla patria: «Rivivrai più superba, più bella/ della terra e dell’onde stupor»; dove la larga e piena armonia, che seconda la parola, par che t’allarghi e innondi l’anima, come la speranza da’ versi cantata3. Non dovrebbe stupire, nel contesto che sto ripercorrendo, che le parole patriottiche che avevano «toccato» l’uditorio non erano quelle del traditore Ezio, ma quelle cantate dall’italico Foresto; né dovrebbe stupire che queste parole declamate nell’eroico registro tenorile facciano riferimento al mare, all’elemento caratterizzante i pelasgi di Gioberti, appunto. Ma, oltre al fatto che quella frase di Ezio viene sommersa da molti altri punti di scena più efficaci, essa significa esattamente l’opposto di quanto potrebbe entrare in un vocabolario eroico-patriottico, nulla a che fare con i grandi cospiratori alla Ernani o Procida, Arrigo, o ancora il Faliero di Donizetti, pronti al sacrificio per le proprie idee di libertà e giustizia. Ezio sta proponendo una transazione eminentemente politica: «io capo delle milizie imperiali non ti faccio guerra, come mi è stato ordinato, e tu potrai prendere Roma senza sangue, sedendoti sul trono dell’impero; ma per questo lascerai a me il governo dell’Italia», ed è un illirico immigrato che ha fatto carriera fino ai vertici. Dov’è la rivendicazione di indipendenza? Dove il fondamento di emanci3. S.n., Bulletino degli spettacoli di Quaresima - Gran teatro la Fenice. Ultime rappresentazioni dell’Attila: termine degli spettacoli, in «Gazzetta privilegiata di Venezia», 68 (26 marzo 1846).
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pazione e libertà da poteri stranieri che dovrebbe essere la base dello spirito risorgimentale? Sembra possibile che questa sia la figura del patriota in cui Verdi crede in questi anni fiammeggianti? Sono persone così che due anni dopo saliranno sulle barricate a Milano,Venezia, Roma, Napoli? Ha qualcosa della figura di Mazzini e del mazziniano, che in questi anni sono all’apice della loro influenza sulle giovani generazioni (Mameli, Attilio ed Emilio Bandiera e i loro sette compagni della Esperia, Manin, ecc.)? La risposta è semplicemente no: Ezio non può essere figura della mitopoiesi patriottica italiana; quel significato dell’Attila come opera di riscatto nazionale non sta in piedi, è una fantasia senza alcun senso. E infatti subito Attila, con una risposta melodica di quelle davvero imponenti, che atterrano l’interlocutore come una tonnellata di granito scaricatagli sulle spalle, risponde: attila Dove l’eroe più valido È traditor spergiuro Ivi è perduto il popolo È l’aere stesso impuro4.
Allora: qual è il significato politico di Attila, torno a chiedere? Ho già accennato al Primato di Gioberti: ebbene, in questo ampio saggio il sacerdote filomazziniano poi cattolico-liberale torinese scrive una sua immagine del popolo italiano, della sua storia e dei suoi caratteri naturali e culturali. Potrebbero gli autori del libretto Temistocle Solera e della musica Giuseppe Verdi aver tratto elementi politici dal Primato giobertiano? Credo di si, e su questo punto occorre qualche riflessione: 1) Anzitutto immediatamente e per anni il Primato rimane il best-seller del pensiero politico italiano, e se è possibile che Verdi non lo conoscesse (e comunque è poco probabile), dobbiamo ritenere ragionevole e quasi certo che lo avesse letto invece il suo librettista Solera, un cattolico liberale esattamente come Gioberti (lo testimoniano moltissimi particolari dei libretti per Verdi, soprattutto Nabucco e Lombardi, ma ancor più la raccolta di sue liriche dal titolo che è tutto un programma: L’arpa cattolica). Inoltre in questi anni Verdi è vicinissimo ad Andrea Maffei, il quale è uomo di vasta e aggiornata cultura, non vicino a Mazzini anzi piuttosto anti-rivoluzionario, ed è da escludere che Maffei ignorasse i contenuti del Primato giobertiano; 2) in secondo luogo, Gioberti ricostruisce una genealogia, una origine storica del ceppo etnico italiano, risalendo a origini italiche dirette e al tempo 4.
Ibidem.
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stesso proponendo una panoramica delle componenti nazionali che nella storia si sono intrecciate per formare l’attuale società italiana; secondo Gioberti la debolezza dell’Italia deriva dal separatismo, dalla autonomia dei piccoli Stati non confederati, dalla divisione in gruppi non «naturali» ma «culturali», senza che nessuno abbia una prevalenza, secondo una degenerazione che ha origini dal tardo Impero romano, quando gli imperatori barbarici favorirono l’ingresso di gruppi egemoni non indigeni, avviando una commistione di popoli sul territorio italiano, che avrebbe indebolito il ceppo italico originario; 3) in terzo luogo Gioberti propone la via che da questa degenerazione, da questo indebolimento determinato dalla fusione di caratteri razziali diversi senza alcun ordine, possa avviare il processo di rigenerazione dell’Italiano e dell’Italia. Non per caso la sua successiva opera politica si intitola Del rinnovamento civile d’Italia (a questa altezza cronologica i termini «rigenerazione» e «rinnovamento» sono più frequenti del termine «Risorgimento» che si afferma più tardi5); 4) in quarto luogo Gioberti, come poco dopo Cesare Balbo, non credono che il popolo da solo abbia la capacità di questa rigenerazione, né che possa avere alcuna volontà propria; e qui la spaccatura più profonda con Mazzini6. Nell’Attila di Verdi, infatti, i popoli sono assenti, tutto si riduce a una vicenda privatissima, di pochi capi militari e pochi congiurati segreti. Siamo ben lontani da opere corali dai Lombardi a La battaglia di Legnano. Gioberti propone allora una sua storia sociale, una sua ricostruzione della formazione storica dell’attuale società italiana, nella quale due sono gli elementi in base ai quali «rigenerare» il primato degli Italiani; il primo è di ordine storico e guarda all’indietro, il secondo è di ordine politico e guarda avanti: il primo è l’affermazione che in Italia esiste un ceppo etnico autoctono, quello Italico o Pelasgico, il popolo del mare, appunto gli «Italici». Questa radice etnica, dice Gioberti, è stata marginalizzata da una progressiva mescolanza cosmopolita nell’età romano-barbarica, che ha ovviamente annullato il senso di nazione, di popolo e di autonomia. Il secondo elemento è la proposta di Gioberti per ricuperare quel naturale primato perduto; e questo potrà avvenire grazie alla presenza del Papa sul suolo italiano, un’autorità investita da Dio, che per questo ha legittima funzione di equilibrare e sovrastare i regnanti locali. Gio5. Per quest’argomento si rimanda a a.m. banti, Risorgimento, in a. m. banti, a. chiavistelli, l. mannori, m. meriggi (a cura di), Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal Settecento all’Unità, Laterza, Roma-Bari 2011, pp, 33-39. 6. s. patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 33-34.
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berti parla infatti di re che rimangono legittimi sul territorio (anche gli Austriaci nel nord), ma sotto la suprema guida del Papa. Ebbene tutto questo si ritrova esattamente nella geometria drammatica dell’Attila verdiano, sebbene la soluzione del dramma così come la sua temperatura conflittuale siano del tutto estranee allo spirito di Gioberti. La realtà ritratta dall’opera, se letta attraverso il sistema simbolico della scena, si direbbe un Gioberti ideale, ma con la temperatura emotiva di Verdi e la violenza del rivoluzionarismo mazziniano-cospirativo di quei decenni. Come Verdi è arrivato a questo soggetto? Sappiamo che la scelta in larga parte fu sua, e ne scrisse a Solera il 12 aprile 1845, perché rileggesse De l’Allemagne della M.me De Staël, nella quale è contenuto un riassunto del dramma di Zacharias Werner7. L’idea venne a Verdi dopo che, insieme al librettista di Ernani, Francesco Maria Piave, aveva meditato fin dal 1844 su un Lorenzino de’ Medici8. Questo libretto, che Piave portò a termine in fretta realizzando una delle sue prove migliori di questo periodo, ha almeno due temi che ritroviamo in Attila: in primo luogo il tirannicidio, legato al più grande tema dell’anticesarismo, che proprio alla vigilia del 1848 tornavano in primo piano9; in secondo luogo la congiura come strumento di coalizione positiva. Verdi fu sinceramente interessato; non potendo subito dedicarsi a questo progetto, che evidentemente lo attirava, chiese però a Piave di non darlo ad altri compositori e di riservarlo a una prossima occasione. Poi lascerà perdere e il libretto verrà musicato da Giovanni Pacini nella stagione fenicea 1844-’45. Si tratta quindi di un precedente importante per capire cosa Verdi stesse cercando, quali argomenti lo occupassero in questo biennio 1844-’46. Sul7. I Copialettere di Giuseppe Verdi, a cura di G. Cesari e A. Luzio, Commissione esecutiva per le Onoranze a Giuseppe Verdi, nel primo centenario della nascita, Milano 1913, pp. 437-438 [con data errata «12 aprile 1844»], poi m. conati, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, cit., pp. 143-144 [che rettifica l’anno]. 8. La prima a portare l’attenzione su questo importante libretto, e in generale sull’argomento, è f. russo, Lorenzino de’ Medici e la sua Apologia nell’Ottocento, fra fortuna editoriale, ricostruzione storica e creazione di un personaggio per il teatro e per il melodramma, in f. bissoli, n. ruggiero (a cura di), “Viva Italia forte ed una”. Il melodramma come rappresentazione epica del Risorgimento, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli 2013, pp. 201-223. Sono recentemente tornato sull’argomento, sia pur di sfuggita, in Temi del dibattito politico-costituzionale nell’opera risorgimentale. Il processo e la separazione dei poteri, in e. imbriani (a cura di), Sud e nazione. Folklore e tradizione musicale nel Mezzogiorno d’Italia, Atti del convegno Corigliano d’Otranto, 14-15 ottobre 2011, Università del Salento, Lecce 2013, pp. 265-311. 9. Già nel 1831 il mazziniano Antonio Gallenga aveva progettato un attentato a Carlo Alberto, appena insediatosi, non difficilmente riconducibile a questi ideali; poi il 28 luglio 1835 Giuseppe Fieschi attentò alla vita di Luigi Filippo d’Orleans. Infine il 14 gennaio 1858 Felice Orsini, da poco staccatosi dai mazziniani, tentò di uccidere Napoleone III e famiglia. Nessuno di essi riuscì nell’intento, ma il segnale politico fu sempre molto forte.
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l’anti-cesarismo occorre qualche riflessione; anzitutto abbiamo la conferma che questo fosse nell’intenzione di Solera e Verdi. Attila muore, trucidato da Odabella con i congiurati, recitando la frase: «E tu pure, Odabella» (parola scenica, declamata con estrema nitidezza e perfettamente comprensibile, quasi recitata), che richiama senza minimi dubbi la celebre frase di Cesare morente riportata da Svetonio. Sono gli anni in cui anche il Giulio Cesare di Shakespeare torna sui palcoscenici italiani grazie ad attori politicamente attivi come Gustavo Modena, dichiarato mazziniano, e Adelaide Ristori. Nel Lorenzino progettato e mai realizzato, poi, questo è il tema centrale, forse addirittura troppo chiaramente esposto e a rischio di censura. Il personaggio storico assai ambiguo di Lorenzino è nel libretto di Piave una figura eroica, un «infiltrato» nella cerchia perversa del cugino Alessandro, del quale conquista la fiducia per poi ucciderlo. Il suo grande monologo «politico» è il cuore della vicenda: Gabinetto in casa di Lorenzo, con due porte laterali. Sonvi busti, statue, strumenti di fisica, manoscritti posati su varie tavole. Un grande candelabro rischiara la stanza
lorenzino L’ora bramata appressa; Godine pur Lorenzo!... L’abbominio De’ tuoi più non sarai!... Vedran se un vile, un traditor io sono … Vile mi finsi onde accostarmi al vile Di Fiorenza tiranno … E come un ferro io tratti ben vedranno … Filippo Strozzi è spento!... […]10.
Altrettanto importante è la figura di Filippo Strozzi, che dall’esilio veneziano congiura con Lorenzino: le intenzioni di Piave e Verdi si chiariscono, quando si sappia che appunto «Filippo Strozzi» era lo pseudonimo che in quegli anni Mazzini usava dal suo esilio nella corrispondenza della Giovine Italia. Che il personaggio di Strozzi del melodramma sia la più esplicita rappresentazione del grande cospiratore italiano, mi sembra quindi indiscutibile e di grandissimo significato. Queste considerazioni permettono di comprendere il travaglio ideale di Verdi, che come molti intellettuali italiani, in questi turbolenti anni che precedono il 1848, passa al vaglio le diverse opzioni politiche in campo: il pessimismo foscoliano-hugoliano (nell’Ernani), il ribellismo byroniano indi10. f.m. piave, Lorenzino de’ Medici (1844), Atto ii, Parte prima, scena prima.
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vidualista (nel Corsaro), il mazzinianesimo (nell’ipotesi poi naufragata del Lorenzino), infine la proposta neoguelfa nazionalista di Gioberti (nell’Attila). La congiura, l’altro tema fondamentale in Attila, era già uno dei temi centrali dell’Ernani, come lo sarà dieci anni dopo dei Vespri siciliani; proprio sulla figura del congiurato, del cospiratore, come vedremo, Verdi condurrà una radicale evoluzione, che indurrà nella sua opinione al riguardo un netto capovolgimento con Un ballo in maschera. Abbiamo già fatto menzione dell’idea di Gioberti secondo la quale i pelasgi sono i veri depositari del carattere italiano, non i romani che nascono da una contaminazione di popoli diversi. Nell’originale dramma di Werner non c’era alcun personaggio che avrebbe potuto identificare questa ideale «razza italica», non compariva alcun possibile «pelasgico» con autonoma funzione teatrale-narrativa: Odabella era Hildegonde di Borgogna, non una «donna italica» come la protagonista di Verdi definisce se stessa; e Foresto è addirittura un personaggio inventato dal librettista per volontà di Verdi: «ci sarebbe d’inventare un quarto carattere d’effetto, e mi pare che quel Gualtiero [diverrà Foresto] che crede morta Ildegonda [Odabella] fosse scampato e potresti farlo figurare o tra gli Unni, o tra i Romani […] ma sopratutto nel quarto atto d’intelligenza con Ildegonda per far morir Attila»11. Quindi i due «pelasgi» dell’Attila verdiano non esistono nella fonte germanica e sono completa invenzione di Verdi e Solera, evidentemente per il nuovo significato della modificata geometria drammatica. Certo si può pensare che Verdi abbia ritenuto necessaria questa quadrangolazione (Attila-Ezio-Odabella-Foresto) per motivi materialisticamente artigianali, perché la Fenice disponeva di quattro grandi cantanti. Ma sappiamo che tutti i grandi artisti fanno della necessità materiale una trasfigurazione artistica, e questo è il caso: i due ruoli tradizionalmente protagonistici, soprano e tenore ovviamente legati da un rapporto amoroso, sebbene contrastato, sono i rappresentanti della «razza italica» originaria, i pelasgi di Gioberti, appunto. Inoltre l’aspirazione alla rigenerazione dell’italiano da un lungo periodo di degenerazione morale e civile era materia di un altro trattato di quegli stessi anni, che conteneva anche una giustificazione di quella decadenza molto vicina al tema dell’Attila verdiano. Parlo della Storia degli stati italiani dalla caduta dell’Impero Romano fino all’anno 1840, di Heinrich Leo (Società editrice fiorentina, Firenze 1842): Leo rileva la grande diversità regionale e la frammentazione etnica degli italiani e registra anche nei suoi contemporanei 11. Quando Verdi inizia a riflettere su questo soggetto il librettista in pectore è ancora Piave, che cambierà per via; quindi è a lui che Verdi scrive questa lettera del 12 aprile 1845 già citata qui sopra alla nota 4.
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un «carattere d’indipendenza individuale». Questo carattere individualistico (la «scioltezza» come si diceva allora) contraddistingue l’etnotipo italiano nella percezione di molti osservatori stranieri attraverso tutto il primo Ottocento, fino appunto a questi anni quaranta: l’individualismo, contrariamente alla vecchia tesi di Jakob Burkhardt12, è visto come ostacolo alla costruzione di un’unità nazionale; l’italiano è accusato di essere incapace di tenere i patti e di sottomettersi a contratti sociali e a leggi. Questo carattere etnotipico era dovuto, secondo Leo, solo in parte alla mitezza del clima che non poneva esigenze di unione fra uomini, ma soprattutto alla storia, in particolare alla onda lunga avviata nel tardo Impero romano e soprattutto nel periodo di anarchia succeduto alla caduta dell’Impero romano. Ed è proprio in questo momento che si colloca la vicenda narrata da Werner; quando Verdi decide di portarla in forma di melodramma capovolge proprio quel carattere etenotipico e fa dei due giovani Italici-Pelasgi due opposti etnotipi: coraggiosi e pronti a qualsiasi sacrificio, donne e uomini indistintamente. Il tema della «scioltezza», nelle due varianti dell’individualismo e del regionalismo/separatismo è molto diffuso e molti storici tornano a tematizzarlo, da Sismondi nel primo Ottocento fino a Michele Lessona, Guizot, Pasquale Villari, Pasquale Turiello, Giuseppe Sergi. L’individuo al centro del mondo sociale, com’è intuitivo, sarà poi il tema su cui rifletteranno le varie correnti e varianti del liberalismo italiano, quindi stiamo parlando del tema assolutamente principale e fondativo, ben al di là di immagini di risorgimento da cartolina. L’Attila verdiano si inserisce al centro di questo panorama; per questo l’ho sopra definita l’opera politica più che ogni altra precedente, fra quelle di Verdi. Riflettiamo ancora su questi due nuovi personaggi verdiani: Odabella è una delle donne verdiane più coraggiose e capaci di realizzare scelte autonome e azioni anche violente. La donna attiva, non eroina vittima che subisce gli eventi e le decisioni prese dai maschi, ma contribuisce alla giusta causa con l’azione anche violenta, è figura non frequente nel melodramma italiano (e unica in Verdi): o incontriamo vittime come Maria Stuarda, o carnefici come Elisabetta d’Inghilterra, Leonora o Abigaille, Elvira e Gilda o Eboli. Odabella è la donna italica, la donna pelasgica, donna guerriera e pronta a tutto per l’autonomia-libertà del proprio popolo:
12. Come nella sua opera Civiltà del Rinascimento in Italia, 1860, celebre tesi del rinascimento italiano quale reazione al Medioevo in senso individualista.
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odabella Ma noi, noi donne italiche Cinte di ferro il seno Sul fumido terreno Sempre vedrai pugnar13.
Questa figura è del tutto assente in Werner, dove la sola figura femminile guerriera è Hildegonde (che è borgognona e non italica, come già detto), alla quale l’autore conferisce elementi di disorientamento psichico, di odio rabbioso e maniacale, a tratti vicino allo squilibrio mentale; in tal modo la Hildegonde di Werner si colloca in una tradizione di personaggi femminili completamente diversa dalla Odabella del melodramma italiano. Quest’ultima è quindi tutta e solo invenzione di Verdi e Solera: elemento che ancor più fa pensare a lei come alla vera protagonista dell’opera, il nuovo personaggio simbolico dello spirito italico liberale. Certo, Gioberti non pensava a una rivolta-congiura per l’indipendenza guidata da una donna; e certamente non pensava nulla del genere Cesare Balbo, che nelle Speranze d’Italia (1844) assegnava alla donna (aristocratica) un ruolo «di retroguardia», ossia quello di tessere relazioni sociali e dedicarsi alla famiglia. Ma anche questa aggiunta della donna italica Odabella rispetto all’originale di Werner è un dato che rafforza l’ipotesi per cui il nazionalismo giobertiano sia stata una deliberata volontà di Verdi e Solera, una presa di posizione in questo momento storico. E poi, la «donna attiva» potrebbe essere una proiezione scenica di un passo della Corinne ou l’Italie di M.dme de Staël (che Verdi certamente conosceva, dato che suggerì a Piave di rileggere il suo De l’Allemagne per il soggetto di Zacharias Werner), dove si legge: «In Italia gli uomini valgono molto meno delle donne, perché hanno sia i difetti delle donne che i propri». Se non che nell’Attila di Verdi anche gli uomini pelasgici-italici sono valorosi, e in più gelosi, smaniosi, coraggiosi, instancabili; insomma non affatto effeminati come voleva il luogo comune anti-italiano del primo Ottocento. Altrettanto importante, proprio per quest’ultima motivazione, è l’aggiunta del personaggio di Foresto, figura tutta positiva e guida del suo popolo sbandato da Aquileia; nell’originale di Werner, Hildegonde aveva solo un fratello, non un promesso sposo. Il pelasgico Foresto quindi è tutta invenzione, ancora, di Verdi e Solera; e questo rafforza l’ipotesi che questa geometria drammatica sia del tutto voluta, per rispecchiamento della nuova tendenza politica italiana-giobertiana. 13. t. solera, g. verdi, Attila, Prologo, scena terza.
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Altra figura rilevante, che però Verdi capirà subito di aver mal realizzato, è quella di Leone, che avrebbe dovuto essere il papa Leone Magno, ma per motivi di censura divenne «Leone, vecchio romano». È il tema del Papa, del potere politico del Papa, indipendente da belligeranze alla Giulio ii, ma garante super partes della concordia sotto la comune fede, alla quale anche il monarca nordico Attila (per simbolo: l’Austria?) si piega con timore reverenziale: è questo il senso della grande scena vi del i atto, quando secondo la storia e i dipinti di Raffaello14 papa Leone Magno andò incontro ad Attila e lo fermò con il solo potere della autorità spirituale: leone (circondato di vergini e fanciulli) Di flagellar l’incarco Contro i mortali hai sol T’arretra … or chiuso è il varco Questo de’ Numi è il suol15. Per quest’ultimo fattore, che Gioberti auspica nel 1843-1845, l’Attila di Verdi e Solera rappresenta una testimonianza di quel clima che andava via via riscaldandosi. Più o meno negli stessi mesi cade anche l’elezione al soglio pontificio di Pio ix (16 giugno 1846) che, non possiamo dimenticarlo, fino all’allocuzione del 29 aprile del 1848 (Non semel) è da tutti considerato (Mazzini compreso) il nuovo Papa liberale tanto a lungo atteso, quasi una materializzazione degli auspici di Gioberti. E in effetti leggere un legame fra il ruolo pacificatore del Papa nell’opera di Verdi e le aspettative dei giovani italiani nel nuovo papa liberale Pio ix è per lo meno attraente e interessante; e non credo si possa trascurare l’ipotesi senza riflessione. In sintesi, se si accetta la lettura che ho proposto, Attila è sì opera politica, e più precisamente opera risorgimentale, ma non certo per un presunto (e inesistente) appello alla libertà d’Italia da parte del bulgaro Ezio. Precisamente all’opposto, invece, cattolicesimo e coraggio pelasgico, alla fine, saranno i veri motori della tragedia, e fondamenti del messaggio di Verdi in questo momento della sua evoluzione politico-intellettuale.
14. L’incontro fra Leone Magno e Attila è raffigurato da Raffaello nella cosiddetta Stanza di Eliodoro, nei Musei Vaticani (1513-1514). 15. t. solera, g. verdi, Attila (1846), Primo Atto, scena vi.
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iii - intermezzo di inni Dopo il 1848 la parabola evolutiva del pensiero politico di Verdi, come di molti suoi coetanei, subisce una brusca cesura; il mazzinianesimo, toccato l’apice nei mesi delle repubbliche, va via via sfumando e, dopo il 1853, può dirsi definitivamente declinante; e così anche il repubblicanesimo democratico16. Ma emerge un liberalismo moderato, sempre più incline ad appoggiarsi a monarchi esistenti, come garanzia di solidità. E molti intellettuali e uomini politici prima attivi nella Giovine Italia si spostano su posizioni diverse, per lo più monarchiche, neo-guelfe o ancor federaliste, sebbene tutti concordi sul costituzionalismo ormai irrinunciabile. Verdi non fa eccezione, sebbene la sua linea di sviluppo ideologico non debba essere considerata dalle parole quanto dai fatti; e per un compositore i fatti sono le composizioni, la musica, sia nella sua conformazione tecnica sia nella sua destinazione d’uso. Verdi compone poca musica d’occasione, di solito non prendendo parte ai grandi movimenti d’opinione, se non attraverso la mediazione del palcoscenico. Ma se osserviamo la sua produzione di inni, o numeri d’opera in forma e carattere di inno, possiamo trarrae qualche utile conclusione proprio sul cosiddetto «decennio di preparazione». Nel 1848 scrive una breve composizione, su richiesta di Mazzini: è l’«Inno popolare» (così il frontespizio) Suoni la tromba, su testo di Goffredo Mameli17. 16. Verdi aveva conosciuto e frequentato Mazzini durante la sua permanenza a Londra nel 1847, mentre lavorava alla messinscena dei Masnadieri, quando aveva avuto anche la funzione di intermediario fra alcuni corrispondenti italiani a Parigi e Mazzini stesso (se ne trovano numerose tracce in Protocollo della Giovane Italia, vol. v (1847), Galeati, Imola 1921, pp. 38, 40, 42, 44, 46, 149, 151, 153, 157 et passim. Non è questa la sede per approfondire questo argomento, che non ha ancora ricevuto l’interesse degli storici se non l’utile ma episodico e a volte un po’ parziale g. rausa, Latomistica. Giuseppe Verdi, Alessandro Luzio, il Risorgimento italiano e la Massoneria, in aa.vv., O Verdi addio. Bilanci di un primo millennio, La Finestra, Trento 2001) 17. Per notizie sulla commissione, la composizione, la destinazione si può oggi consultare l’utile Introduzione all’edizione critica, r. montemorra marvin (a cura di), The Works of Giuseppe Verdi/Le opere di Giuseppe Verdi, Serie IV: Inni, vol. i, The University of Chicago Press – Ricordi, Chicago and London - Milano 2007. Per le vicende successive, per le quali Verdi e Mazzini si allontanarono l’un l’altro per mai più tornare a rapporti più stretti, e per una più ampia riflessione sul contesto storico-sociale si veda il mio breve scritto Popolo, popolarismo, populismo e i “cori risorgimentali” di Verdi, in Canto “popolare” e canto corale. Atti della terza giornata di studi in ricordo di Domenico Cieri, a cura di G. Monari, Feniarco, San Vito al Tagliamento, 2008, pp. 35-54 (scritto quando non era ancora disponibile l’utile edizione critica). L’Inno fu immediatamente stampato nelle sole parti vocali probabilmente in poche copie, poiché oggi quest’edizione risulta rarissima: Inno popolare di Goffredo Mameli musicato da G. Verdi, Gian Gualberto Guidi, Firenze, n. 1, 1183; sul frontespizio si legge: «La Associazione Nazionale proprietaria inibisce qualunque ristampa; e risguarderà contraffazione tutte le Copie che
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Verdi è sinceramente convinto che la musica possa essere strumento di aggregazione, che abbia una utilità extra-artistica necessaria. È ciò che intende quando afferma di aver voluto intenzionalmente essere «popolare e facile», affinché l’inno «possa, fra la musica del cannone, essere presto cantato nelle pianure lombarde», essere nel cuore di sprone a chiunque affronti il rischio della guerra patriottica18. Ma non passa molto e questa convinzione lascia spazio all’incertezza, al disincanto, se non alla delusione: sia nel Simon Boccanegra (prima versione, 1857), sia nel Ballo in maschera (1859) Verdi scrive un grande finale con inno popolare, rispettivamente al doge e al re (poi per motivi di censura divenuto un conte). Sono due inni apparentemente encomiastico-celebrativi, dove tuttavia non è difficile percepire il significato sottilmente ironico-antifrastico. L’inno al Doge «Viva Simon» è rigido e senza vita, pomposo ed esteriore, se paragonato non dico al fiammeggiante «Si ridesti il leon di Castiglia» dell’Ernani, ma anche ai cori patriottici della Battaglia di Legnano o all’appena ricordato Inno per Mazzini. Né d’altronde dovrebbe stupirci il fatto che Verdi stesso, nel rivedere l’opera, partisse proprio dalla eliminazione di questo coro. L’inno del Ballo, con cui la popolazione saluta Riccardo «O figlio d’Inghilterra», è certo più elegante e risente della generale atmosfera raffinata che circola attraverso la partitura, il «gusto parigino» a cui allude Verdi stesso; e tuttavia non manca neppure qui la nota falsa, ironica, distaccata; come una forma vuota che viene guardata senza reale partecipazione. È quindi piuttosto logico e condivisibile quanto si è visto in una recente messinscena del Ballo alla Scala (giugno 2013), nella quale il regista Damiano Michieletto ha enfatizzato in questa scena precisamente i tratti della falsità, dell’insincerità e dell’inganno reciproco. La scena infatti rappresentava non la corte di Boston, come nel libretto di Antonio Somma, ma un moderno ufficio in cui si riunisce il gruppo organizzatore della campagna per le elezioni presidenziali, i sostenitori di Riccardo, certo non limpidi e fidati come le apparenze darebbero a intendere. In questa attualizzazione, quel coro inneggiante assume un aspetto ambiguo e falso, una radicale negazione della reciproca fiducia che animava quel momento non portino il marchio qui impresso» (Fig. 9) (per notizie su questa preziosa editio princeps si veda a. palazzolo, Verdi ritrovato. L’unico esemplare sopravvissuto della versione originale dell’Inno popolare di Giuseppe Verdi, Accademia nazionale d’arte antica e moderna, Roma 2013; su questa edizione fu condotta l’esecuzione del 31 dicembre 2000, con un’orchestrazione scritta per l’occasione, alla presenza del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, da parte dell’orchestra e del coro del Teatro dell’Opera di Roma diretto da Gianluigi Gelmetti). Nel 1865 l’editore De Giorgi ristampò l’Inno aggiungendo un accompagnamento pianistico; nella Fig. 1 si riporta il frontespizio di questa seconda edizione, sulla quale è stata condotta la prima ricordata edizione critica. 18. Di Verdi a Mazzini, Parigi, 18 ottobre 1848 (I copialettere cit., pp. 469-470).
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«facile e popolare» del democratismo repubblicano intorno al 1848. E con questo siamo entrati nel clima di Un ballo in maschera, forse l’opera più politica di Verdi, almeno quanto Les Vêpres siciliennes e Don Carlos, a dispetto di una tradizione interpretativa che la identifica come opera del disimpegno, come un ritrarsi di Verdi dalla politica al dramma di individui, dopo le delusioni del biennio rivoluzionario-repubblicano. Occorre quindi approfondire la lettura in chiave strettamente storico-politica del Ballo in maschera.
iv - perché “w v.e.r.d.i.”? Tutti sanno che l’acronimo nacque nel 1859 per il Ballo in maschera a Roma; ma chi saprebbe dirne il perché? Più precisamente perché non prima e perché a Roma? Vittorio Emanuele II era re del regno sabaudo sin dal 1849, dopo Novara; perché allora solo nel 1859 e a Roma? La risposta merita una ricostruzione più approfondita, anche perché non sembra che finora la storiografia, verdiana e non, si sia posta il problema. Prima di tutto conviene rendersi conto della novità del carattere del protagonista del Ballo in maschera, Riccardo conte di Warwich. Il Ballo è preceduto da La traviata (1853-54), Les Vêpres siciliennes (1855) e Simon Boccanegra (1857, prima versione), e per certi aspetti ne rappresenta una sintesi. Violetta nella dimensione privata sceglie il «principio responsabilità» di Hans Jonas19, sacrificando ciò che per lei è più prezioso a favore di una persona (la sorella di Alfredo) che lei neppure ha mai visto; similmente Simone Boccanegra porta il medesimo «principio responsabilità» di Jonas nella sfera pubblica, a favore dell’intera comunità genovese, a favore dello Stato di cui è a capo (e qui riprende un vecchio tema di Donizetti nell’Assedio di Calais seppur trapiantato nella nuova situazione dell’Italia del 1857). Riccardo nel Ballo in maschera riassume i due casi precedenti, e rappresenta il più alto esempio di quel «principio» di Jonas: responsabilità personale verso il suo popolo, verso la donna altrui, verso i sudditi fedeli, verso il proprio ruolo politico. E desidero sottolineare con la massima chiarezza che questo «principio responsabilità» è il più alto insegnamento che Verdi dovrebbe trasmettere allora come oggi, perché è la conseguenza della storia della «rigenerazione morale» dell’Italia, ben al di là dei grandi e vuoti proclami del «discorso risorgimenta19. h. jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1979 (tr. it., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1979-1990). Jonas trovava radici in alcune idee di Max Weber, e la sua riflessione sulla responsabilità verrà proseguita da Jürgen Habermas.
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le» ufficiale, quello dei monumenti di piazza e delle grandi frasi a effetto. La rigenerazione, ricordiamo Gioberti e Mazzini, era precisamente nella reazione alla «scioltezza» individualistica di cui si è parlato a proposito dell’Attila; appunto «responsabilità», ossia quella qualità dell’uomo che consiste nel preoccuparsi degli effetti che ogni proprio atto, scelta, decisione può avere sugli altri, direttamente o no, secondo le idee di Jonas. Verdi rappresenta, attraverso il suo teatro come attraverso la sua vita, un simbolo del liberalismo moderato ma fattivo e pronto all’azione contro ogni forma di condizionamento, compreso ovviamente quello religioso, in modo simile a quanto è stato visto dagli storici politici nella figura di Cavour. Mi riferisco alle parole di Marco Meriggi secondo cui il liberalismo italiano post ’48 avrebbe avuto difetti costitutivi, soprattutto «poca fiducia nell’individuo e nel suo senso di responsabilità personale, che rappresenta l’autentico fulcro del grande liberalismo europeo»20. Ebbene, la tragicità della visione del mondo di Verdi deriva proprio dalla distanza fra la sua idea di responsabilità individuale verso la collettività, e la realtà della «scioltezza» atavica, che l’unificazione politica non sarà sufficiente a ricomporre, e alla quale le parole di Meriggi alludevano. Che il Ballo sia opera di svolta nella drammaturgia di Verdi è l’unico dato su cui tutti concordano, dal vecchio Basevi (Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Tofani, Firenze 1859) a Massimo Mila e Gabriele Baldini. Già dal punto di vista puramente statistico emerge un dato eloquente: fino al 1859 Verdi compone 21 opere in 20 anni; dopo il Ballo seguiranno solo 5 opere in 42 anni (6 comprendendo la riscrittura del Boccanegra). Dal punto di vista strettamente artistico, escludendo i contenuti sociali e politici, il Ballo è caratterizzato più che ogni altra opera precedente dal pluristilismo, dall’alternanza di stili e di registi comico, grottesco, tragico, leggero. Ma ciò che più di tutto è cambiato è il contesto storico e culturale; e come sempre Verdi ha una chiara intenzione di legarsi a esso, di offrire una interpretazione-trasfgurazione di questo contesto nazionale in rapida evoluzione, di rispondere a questo cambiamento contestuale alla vigilia dell’Unità. Esattamente in questo momento, all’inizio del 1859, inizia ad emergere vistosamente un nuovo «discorso» politico del Risorgimento, in cui vengono risemantizzate le precedenti parole chiave, come patria, unità, risorgimento stesso. Inizia l’opzione monarchica sabauda, che sostituisce i precedenti indirizzi, tanto la pratica cospirativa quanto il dichiarato repubblicanesimo; iniziano i nuovi luoghi comuni poi entrati nella mitologia 20. m. meriggi, Liberali/Liberalismo, in a.m. banti, a. chiavistelli, l. mannori, m. meriggi (a cura di), Atlante culturale del Risorgimento. Lessico del linguaggio politico dal settecento all’Unità,, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 101-114, in part. p. 113.
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patriottica unitaria su Vittorio Emanuele ii: il «re galantuomo», il «padre del popolo italiano». E allo stesso tempo inizia l’uso popolare, dal basso, dell’acronimo «w v.e.r.d.i.». Il motivo di questa contemporaneità di sviluppi si trova nelle vicende che circondano l’origine dell’opera di verdiana. Quando Verdi inizia il progetto del Gustavo III (il dramma originario di Eugène Scribe, che più volte modificato dalla censura diverrà Una vendetta in domino e finalmente Un ballo in maschera) la situazione politica dell’Italia è enormemente complessa, e senza una sua conoscenza mi sembra difficile comprendere perché le censure di Napoli e di Roma si accanirono così sul libretto di Antonio Somma; un accanimento poco comprensibile, dato che il soggetto era già ampiamente conosciuto grazie al dramma omonimo di Antonio Gherardi del Testa, che sin dai primi anni Cinquanta era rappresentato anche sulle scene romane, e le cui vicende sono molti simili all’opera di Verdi senza che nessuna censura alzasse scudi contro il modesto drammaturgo. L’esempio massimo di questo acceso clima spirituale è la spedizione su Napoli di Carlo Pisacane nel 1857; fermatosi a Sapri, la spedizione fu un fallimento e una carneficina, che conseguiva a fallimenti di consimili tentativi mazziniani, sebbene meno sanguinosi, nel 1853 a Genova e Milano (il famoso «6 febbraio»)21. In quello stesso momento Daniele Manin sferra un attacco frontale contro la «teoria del pugnale» di Mazzini con il celebre articolo del 25 maggio 1856, uscito sul Times di Londra, dove entrambi vivevano esuli. Questi fatti, uniti al fallito attentato a Napoleone iii da parte di Felice Orsini, determinano un capovolgimento degli atteggiamenti di molti italiani verso Mazzini e verso la lotta cospirativa mazziniana. La figura stessa del cospiratore, legato a una lunga tradizione di tenebroso romantico che risale a figure monumentali come Carl Moor e Hernani, perde fascino tanto nella realtà storica quanto nella trasfigurazione artistica. Ed è sul terreno preparato da questi eventi, che si verifica un radicale mutamento negli animi di molti degli Italiani più influenti, fra cui Verdi: un crescente sfavore nei confronti di Mazzini e del suo nuovo Partito d’Azione, che realmente in questi anni colleziona diversi fallimenti. Lo spazio lasciato vuoto dal mazzinianesimo tramontante, viene abilmente riempito da alcuni ex-mazziniani, ora ripiegati su posizioni liberali-moderate. Daniele Manin (presidente), Cavour, Giorgio Pallavicino-Trivulzio e Giuseppe La Farina, con l’appoggio di Garibaldi, Costantino Nigra, Camillo Casarini (sarà il primo sindaco delle sinistre a Bologna, primo in Italia) e molti altri, fon21. Sia la rivolta di Milano sia la vicenda di Pisacane videro una spaccatura fra mazziniani e proto-socialisti; cfr. r. sarti, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 215-216.
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dano nel 1856 a Torino, dopo il trattato di Parigi, la Società nazionale italiana (Fig. 2), che sosteneva l’idea annessionista sabauda, non rivoluzionaria, non repubblicana, non federalista, non neoguelfa, ma sotto la corona del giovane re Vittorio Emanuele ii22. Non stupisce che Antonio Somma, il librettista del Ballo in maschera, fosse vicino a questa idea, lui che era stato stretto collaboratore di Daniele Manin durante la Repubblica di S. Marco del 1849, il quale Manin era ora il presidente della neo-fondata Società; come vicino a quell’idea era il salotto Maffei, Clarina e Carlo Tenca, amici storici dello stesso Verdi. Cosa c’entra la Società nazionale con il Ballo in maschera? C’entra al punto che, quando se ne sarà approfondito un poco il programma, l’opera di Verdi risulterà quasi una proiezione programmatica della Società, e la tragedia finale suonerà come dimostrazione dell’errore in cui altri indirizzi politici, più precisamente la anacronistica congiura («teoria del pugnale»), possono indurre. È in questo clima che Verdi e Somma iniziano il progetto sul Gustavo III per Napoli. Per essere più precisi: nell’estate 1856 Manin fonda a Torino la Società nazionale, la spedizione di Pisacane salpa a fine giugno 1857 e segnerà lo stadio più basso del favore mazziniano; nell’ottobre dello stesso 1857 Somma e Verdi decidono il soggetto del Gustavo III, che diverrà appunto Un ballo in maschera. Mi sembra che questa cronologia minima lasci poco spazio a dubbi. Come già detto, la censura napoletana vietò radicalmente l’opera, anche dopo le modifiche imposte agli autori. E a questo punto cade un’ulteriore conferma del disegno politico di Verdi e Somma: Tito Ricordi propone di mettere in scena l’opera a Milano, dove la censura più larga l’avrebbe probabilmente concessa. Verdi si oppone e propone di tentare a Roma perché, dice, intende far vedere ai Napoletani che neppure la pur severa censura pontificia raggiunge la chiusura retrograda di quella borbonica. Insomma: un dispetto? Chissà perché la storiografia verdiana, che da molto tempo è consapevole che non bisogna mai fidarsi quando Verdi parla di se stesso, in questo caso ha sempre dato cieca fiducia a questa motivazione. Ma è possibile che Verdi, ormai già il grande Verdi, avesse bisogno di queste infantili ripicche? Non ci sarà un altro motivo un po’ più serio di questa testardaggine? Non ho prove certe, ma credo che la risposta sia precisamente nella Società nazionale italiana: Manin, Cavour, Pallavicino e La Farina avevano grandi contatti nel settentrione, soprattutto a Torino e Milano; ma la Società nazionale contava ancora assai pochi affiliati e sostenitori nel Centro-Sud, soprattutto perché mancava di con22. Il Programma del 1856 presentava in testa al frontespizio le parole «Unificazione» e «Indipendenza»; la prima di queste parole provocò l’opposizione del Partito d’Azione di Mazzini, che pretendeva di affermare l’idea dell’«Unità» come collegialità di tutto il popolo; mentre secondo Mazzini il concetto stesso di «unificazione» era opposto all’egualitarismo, avendo in sé, com’era realmente, un velato pregiudizio centralista.
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tatti nelle due capitali Roma e Napoli. Al Nord della penisola gli animi erano già pronti alla guerra (del 1859) e propensi alla unificazione sotto la corona di Vittorio Emanuele ii. Assai più recalcitranti il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio, restaurato e reazionario dopo la Repubblica del 1849. Il Ballo porta in scena diverse situazioni (re galantuomo, congiurati da operetta grotteschi e inconcludenti) che rispecchiano il nuovo discorso che la Società nazionale italiana portava avanti nell’Italia del Nord, ma che stentava a penetrare nel Centro-Sud (e infatti l’avversario Mazzini soprattutto qui cercava giovani pronti al suo reclutamento e alla sua azione). Se si accetta la lettura politica del Ballo, ecco che la cocciuta insistenza di Verdi dapprima per Napoli (dove già aveva accettato imposizioni censorie che altrove non avrebbe digerito), poi per Roma prende tutt’altro significato, e tutt’altro valore: non certo un capriccio di amor proprio offeso, ma ancora quel principio di responsabilità per cui Verdi pur sapendo che la sua creazione sarebbe stata eseguita peggio che a Milano volle che la prima avvenisse con mezzi artisticamente inferiori ma a Roma, dove occorreva fare proselitismo politico per le nuove idee di Manin e Somma. È un sacrificio dell’amor proprio ossia della individualità del creatore, quello stesso che Verdi porta in scena, a favore di una causa collettiva; ed è conseguenza della convinzione di essere dalla parte giusta, dalla parte che farà la storia. E anche in questo Verdi ha visto giusto. Verdi e Somma, apportando sostanziali cambiamenti rispetto alle precedenti narrazioni del medesimo fatto (quella di Scribe e quella di Gherardi del Testa), raffigurano nel Ballo in maschera un re (il primo re democratico di Svezia, che diviene nei passaggi delle censure figura di più modesto lignaggio, governatore britannico nella lontana Boston) amato dal suo popolo, da una parte; dall’altra, gli antagonisti sono una cricca di congiurati incapaci e grotteschi, che se non ricevessero l’aiuto a tradimento di Renato, il «più fido amico» del governatore, mai riuscirebbero nei loro disegni, nelle loro vane «teorie del pugnale». Non ci vuole troppa fantasia per vedere l’opposizione valoriale fra il giovane re Vittorio Emanuele (il re-conte Riccardo) e i congiurati mazziniani e cospiratori ormai fuori tempo (Tom e Samuel, con seguito), figure un tempo romantiche e oscuramente attraenti come Ernani, che la storia stava mettendo ai margini. Eppure nel 1855, solo due anni prima della decisione di portare in scena il Ballo con il nuovo librettista Somma, Verdi aveva tratteggiato ancora un figura affascinante e positiva di cospiratore ribelle, in lotta sanguinosa ed estrema contro il potente governatore locale, nelle Vêpres siciliennes, dove Procida cantava una cabaletta davvero trascinante ed emozionante, traendo dall’incertezza e dall’oscurità del dubbio i suoi congiurati:
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coro Nell’ombra e nel silenzio Maturiam la vendetta; Non teme e non l’aspetta Il crudel oppressor.
procida Santo amor, che in me favelli, Parla al cor de’ miei fratelli; Giunto è il fin di tanto duolo, La grand’ora al fin suonò23!
È quindi nello strettissimo lasso di due anni, dal 1855 al 1857, che Verdi cambia idea; alla «teoria del pugnale» di Procida subentra il «re galantuomo» Riccardo. E la Società nazionale viene fondata esattamente in mezzo a queste due opere, fra cui Verdi compie la sua svolta politica. Con una situazione così chiara, l’ipotesi che Verdi condividesse queste scelte mi sembra plausibile, anche se al momento non è noto alcun documento che attesti la sua adesione ufficiale alla Società nazionale. D’altronde le figure del nuovo discorso risorgimentale monarchico-annessionista si diffondono in fretta: soprattutto al padre della patria Vittorio Emanuele viene riservato un rispetto composto e accorato, che subito ci porta nella medesima atmosfera della conclusione del Ballo in maschera. Ecco come Somma chiude il libretto, deprecando implicitamente l’errore politico dei congiurati (leggi «mazziniani»): Cor sì grande e generoso Tu ci serba o Dio pietoso: Raggio in terra a noi miserrimi È del tuo celeste amor24.
Quando Vittorio Emanuele ii morirà, nel 1878, il necrologio fatto da Edmondo De Amicis riprende quella figura del re legato al suo popolo da un affetto reciproco, circondato dall’armonia fra popolo e re, che era un sogno di altri tempi sotto la spinta delle classi inferiori: «Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del suo popolo finché splenderà il sole sopra l’Italia». Non è an23. e. scribe, ch. duveyrier, g. verdi (trad. it. di Arnaldo Fusinato), Les Vêpres siciliennes - I Vespri siciliani, atto ii, scena prima. 24. a. somma, g. verdi, Un ballo in maschera, Atto iii, scena settima.
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data proprio così, poi; ma De Amicis (il socialista De Amicis) allora stava interpretando i sentimenti comuni di tutte le classi dell’Italia borghese, sentimenti che altro non erano se non il frutto delle idee della Società nazionale italiana. E che questa sia creazione intenzionale di Somma e Verdi, che il misto di passione e nobiltà diventi la caratteristica del loro personaggio, come trasfigurazione di Vittorio Emanuele, si chiarisce dalla differenza fra Riccardo e la battuta finale del Gustavo III di Gherardi del Testa pronunciata dal suo fido Adelberth: «O Gustavo, il tuo genio ti schiuse la via della gloria, le tue passioni ti aprirono la tomba (tutti s’inginocchiano attorno al re. Quadro, e cala la tela)»: dove Somma fa un nuovo eroe della «responsabilità» individuale, Gherardi porta in scena poco più che un libertino. Siamo in un momento, alla metà dei Cinquanta, in cui cresce il favore per il giovane re galantuomo, ricco di vitalità, appassionato, ma al tempo stesso responsabile e vicino al suo popolo, sensibile ai «gridi di dolore» degli italiani; nello stesso momento, all’opposto, dopo il 1853 e il fallimento dei moti a Milano, il mazzinianesimo, fatto di cospirazioni segrete, di ideali democratici repubblicani messianici, ma poco concreti sul piano dell’azione politica, perde quota e favore (solo nelle classi operaie sembra conservare qualche diffusione). Il congiurato che trama nell’ombra, nel silenzio, nel segreto notturno, per poi uscire improvvisamente alla luce e scoprirsi vittorioso diventa una figura fuori tempo e fuori del reale; quasi un rudere di tempi passati, davanti appunto al «re galantuomo» che è accolto con favore nelle grandi corti e negli ambienti della diplomazia internazionale. E d’ora in poi lo slogan patriottico non sarà più «Dio e Popolo», ma «Vittorio Emanuele e Italia» (questo era infatti uno dei motti della Società nazionale): appunto «w v.e.r.d.i.». Il «re galantuomo» contro la «teoria del pugnale»: non sembra di vedere il re-conte Riccardo e i congiurati da commedia del Ballo in maschera? Ed ecco il motivo per cui così tante censure hanno accolto con ostile durezza quest’opera, una durezza altrimenti poco comprensibile. È vero che le situazioni del libretto sono scabrose, ma in fondo non più di altre trame simili con intrecci marito moglie amante assai prossimi a questo: Beatrice di Tenda, il Pirata, Marin Faliero, Roberto Devereux solo per indicarne alcuni. Erano molto più rischiosi semmai Rigoletto e Traviata, se guardiamo alla esclusiva morale pubblica; né le situazioni (patibolo, magia, superstizione, assassinio in scena) erano poi così inedite da suscitare problemi insormontabili. La questione, credo, è ancora da ricercarsi sul piano politico e strettamente legato alla situazione dell’Italia del momento. Il cammino del pensiero politico di Verdi, quindi, si misura con l’evoluzione della figura del re-governatore: se nelle opere giovanili tale figura è sempre negativa, autoritaria, spesso usurpatrice (pur con eccezioni come Carlo v
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nell’Ernani, che sceglie la magnanimità del perdono), con Simon Boccanegra e Un ballo in maschera emerge una nuova figura positiva del governatore, non più tiranno, come Nabucco o Monforte, né libertino, come il duca di Mantova, ma nobile cuore appassionato e sprezzante di pericoli e superstizioni. Speculare all’elevazione di questa figura a nuovo eroe positivo, è la degradazione della figura del congiurato: il cospiratore perde fascino, non è più come nelle opere precedenti il depositario, tragico perché spesso sconfitto, della giusta causa. Ecco allora a confronto il suono del cospiratore, un tempo positivo e coinvolgente, e la nuova figura di congiurato da commedia, leggero e ironico, pronto a volgere tutto in ironia, beffardo e totalmente privo di ispirazione politica o di ideali sociali, che subentra dopo il 1856 nel melodramma verdiano. Il primo esempio coglie «il suon di chi sprezza i perigli» dal Faliero di Donizetti (1835) israele bertucci Odo il suon di chi sprezza i perigli, viva i prodi, miei liberi figli, grazie al nume che premia il valor25.
Ecco poi i celeberrimi versi dei congiurati, nobili e commoventi, del verdiano Ernani (1844), dove Solera e Verdi, come già Ruffini e Donizetti nell’estratto precedente, hanno ritenuto necessario ricorrere agli ormai tradizionali decasillabi anapestici manzoniani: coro Si ridesti il Leon di Castiglia, E d’Iberia ogni monte, ogni lito Eco formi al tremendo ruggito, Come un dì contro i Mori oppressor26.
Ai congiurati di Acquisgrana Verdi assegna un’impronta ritmico-melodica non lontana dalla cabaletta di Procida dei Vespri sopra ricordata. Ed ecco invece la 25. g.e. bidera, g. donizetti, Marin Faliero, Atto iii, scena sesta (nel libretto originale di Bidera quest’aria del Baritono Israele Bertucci, con l’oscuro coro dei condannati che la precede («Sii maledetta, o terra»), non compariva; si tratta di un’aggiunta probabilmente dovuta ad Agostino Ruffini, che collaborò con Donizetti a Parigi per gli ultimi aggiustamenti poetici durante le prove della prima esecuzione al Théâtre Italien; Ruffini era vicinissimo a Mazzini; il fratello Giovanni era in quello stesso momento esule in Svizzera con lo stesso Mazzini e l’altro fratello Jacopo era morto suicida dopo essere stato catturato e accusato di cospirazione dalla polizia a Genova). 26. t. solera, g. verdi, Ernani, Parte iii (La clemenza), scena quarta.
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corrosiva ironia, grottesca a disincantata, dei congiurati da commedia del Ballo in maschera: samuel, tom Ve’ se di notte qui colla sposa L’innamorato campion si posa, E come raggio lunar del miele Sulle rugiade corcar si sa!
coro Ve’ la tragedia mutò in commedia Piacevolissima – ah! ah! ah! ah! E che baccano sul caso strano Andrà dimane per la città27!.
Se questi sono i malridotti esponenti di una teoria del pugnale ormai da commedia, al contrario il giovane re-conte Riccardo, che come Sigfrido non conosce la paura, come Sigfrido capitola davanti a una donna; ma diversamente dall’eroe wagneriano sente il senso della responsabilità e rinuncia a lei. E questa rinuncia provoca una delle melodie più nobili del teatro di Verdi; il nuovo re, pieno di vitalità e di coraggio, non è però né libertino, né un incosciente senza criterio, né incapace di nobili sensi. Forse un’immagine addirittura eccessivamente immacolata, irrealisticamente dotata di ogni qualità e merito; ma occorreva questo capovolgimento del regnante in figura assolutamente positiva, dopo i ritratti musicali di uomini potenti profondamente negativi come Monforte, Nabucco (fino al fulmine che gli toglie la ragione), il conte di Walter nella Miller o il libertino duca di Mantova: riccardo Ma se m’è forza perderti Per sempre, o luce mia, A te verrà il mio palpito Sotto qual ciel tu sia, Chiusa la tua memoria Nell’intimo del cor28.
27. a. somma, g. verdi, Un ballo in maschera, Atto ii, scena quinta [l’ultimo verso in partitura viene modificato così: «e che commenti per la città!»]. 28. Ivi, Atto iii, scena quinta.
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giuseppe verdi e il risorgimento
Ancora il «principio responsabilità» dunque, che diventa in questo modo tratto caratteriale distintivo della nuova figura di «re galantuomo», testimone del nuovo «discorso» della Società nazionale italiana. Non stupisce più, a questo punto, che il re-conte Riccardo presenti in questo cantabile forti analogie con la più memorabile aria di Manrico, il cantabile del finale terzo «Ah si, ben mio, coll’essere» nell’Atto terzo del Trovatore. Considerare oggi il teatro di Verdi solo come cornice per bella musica, o come sequenza di situazioni a disposizione della fantasia immaginifica dei giovani registi «creativi», o all’opposto considerare i suoi messaggi solo luoghi comuni, frasi fatte o anacronistici proclami di patriottismo, credo sia un grave fraintendimento del ruolo di Verdi nella storia intellettuale dell’Italia ottocentesca, tale da impedirne la comprensione dei contenuti, dei substrati significativi ancor oggi attivi. La sua attualità infatti non risiede nel solo paradigma artistico, ma è dovuta a profondi radicamenti morali e a contenuti eminentemente politici, che hanno ancora una vitalità comunicativa e che mostrano la sua attiva partecipazione alla storia del pensiero nell’Italia risorgimentale. È appunto grazie alla sua musica, non alle situazioni del libretto o alle parole del poeta, che lo spettatore può avvertire in tutta la sua profondità il capovolgimento di valori relazionali fra re-governanti e congiurati loro avversari; grazie alla musica del Ballo in maschera, come ho spiegato sopra, Verdi partecipa da protagonista a un nuovo discorso risorgimentale monarchico-annessionista, il discorso anti-mazziniano portato avanti dalla Società nazionale di Manin, nel quale la figura del giovane re diventa il nuovo verbo da diffondere a discapito della figura, ormai screditata, del cospiratore segreto. E a questo Verdi arriva dopo aver attraversato diverse fasi del pensiero politico, sempre in sintonia con quanto il contesto nazionale andava esprimendo, come abbiamo visto a proposito della convergenza fra il mazzinianesimo e la fase verdiana dal progetto del Lorenzino all’Inno popolare, poi fra i contenuti di Attila in parallelo con il Primato morale e civile degli Italiani di Gioberti, infine fra le istanze della Società nazionale italiana e Un ballo in maschera. E se la musica di Verdi vive oggi come un’inossidabile esperienza estetica, anche questi fondamenti morali e politici hanno ancora molto da insegnare. Quanta strada, quanto impegno dai tempi dell’Attila, dell’impegno giobertiano a favore della soluzione neoguelfa! Certo, a ripercorrere a volo cinquant’anni di storia risorgimentale, se proseguissimo oltre il Ballo in maschera alle grandi opere della tarda fase (Don Carlos, Aida e Otello) Verdi apparirebbe come il tragico eroe di una disillusione, non certo come il vigoroso retore con tanta buona volontà ma poco pensiero, il contadino semplice e un po’ grossolano, l’umile che parla agli umili, che certa propaganda della prima metà del Novecento aveva strumentalmente creato. Se procedessimo, vedremmo Verdi
verdi fra gioberti e manin
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sprofondare dopo il Ballo in maschera in una lunga fase di pessimismo sempre più nero, diventando l’eroe tragico del Risorgimento, il testimone più di un fallimento che della gloriosa rigenerazione sperata, che attraversa continue disillusioni sull’Italia e sugli italiani. Ora non vorrei finire con un tratto retorico, non vorrei suscitare l’impressione di ricorrere a luoghi comuni, ma questo del «principio responsabilità» è forse l’insegnamento maggiore che i personaggi di Verdi ci consegnano ancor oggi; dai più semplici e impulsivi, come Arrigo della Battaglia di Legnano o Manrico, ai più maturi, sofferenti, consapevoli, veri eroi tragici sconfitti eppure ancora altissimi modelli di responsabilità civile: Simone Boccanegra anzitutto, ma anche Don Carlo e l’amico marchese di Posa, il Don Alvaro della Forza, fino ad Aida, senza dimenticare Violetta, non certo una semplice figura scandalistica, da guardare con la curiosità morbosa per il diverso, ma una forza della natura nell’esercizio della rinuncia e nell’anteporre il dovere e la responsabilità verso gli altri al protervo e unilaterale egoismo. Un principio, la responsabilità individuale davanti alla collettività, che dal Mazzini dei Doveri dell’uomo passa al re immaginato e auspicato dalla Società nazionale, poi fino al De Sanctis dei saggi politici come La scienza e la vita; quasi una costante di quella generazione che ha passato i periodi più oscuri del processo risorgimentale. A chi, come Verdi, ha creato un mondo interiore così profondo e nobile (non ho altro termine), quanto deve essere sembrata profonda la decadenza dell’Italia davanti a un’Europa che l’ha continuamente umiliata, allora come oggi!
Indice dei nomi
Abba, Giuseppe Cesare 81 Abbate, Carolyn 98 n90 Abbiati, Franco 54 n13, 68 n41 Adorno, Theodor Wiesengrund 88 Alberti, Annibale 151 e n1, 152 e n3, 153, 154, 155, 156 e n12, 157 e n15, 158, 159 e n22, 160, 161, 162, 163, 167 Aleardi, Aleardo 56 Alessandro i, zar di Russia 129 Alessio, Giulio 151, 153 Algardi, Zara Olivia 113 n45 Andrea ii, re d'Ungheria 148 Antolini, Bianca Maria 58 n24, 67 n38 Antonietti Porzi, Colomba 112 Antonovič, Cezar 99 n92 Appiani, Giuseppina 107, 113, 114 n47 Árpád re d’Ungheria 147 n17 Arrivabene, Opprandino 109, 151, 160, 161, 162, 163, 164 n36 n38, 165 n41 n42, 166 e n44 n45 n46 n47 n48 n49, 167 n50 n51 n52 Ashurst, famiglia 64 n30 Attila 26, 27, 36 e n14, 115 n53, 141 Auerbach, Erich 95 n80 Austen, Jane 78 Bagnoli, Paolo 59 n25 Baioni, Massimo 158 n18, 160 n24, 162 n30 Balbo, Cesare 30, 35, 160 Baldini, Gabriele 40
Bandiera, Attilio 29 Bandiera, Emilio 29 Banti, Alberto Mario 30 n5, 40 n20, 66 n36, 107 n4, 111 n30, 112 n34, 167 n54 Barbarossa, Federico (Friedrich der Rotbart, Federico i Hoenstaufen, imperatore del Sacro Romano Impero) 86, 87 Barezzi, Antonio 52 n3 Barezzi, Margherita 108 Bargnani, Rosa 107 e n2 Barrili, Anton Giulio 57 n21, 59 n25 Basevi, Abramo 40 Basso, Maria Luisa 88 n53, 100 n95 Batisti, Alberto 85 n40 Battistotti, Luigia 112 Beatles (The) 18 Beauharnais, Hortense de 66 n35 Beethoven, Ludwig van 89 Belinskij, Vissariòn Grigòr’evič 95 Bellini, Vincenzo 13, 17, 20, 92, 105, 132, 137, 138, 139 Beonio Brocchieri, Vittorio 17 e n5, 18, 22, 24 Berchet, Giovanni 27, 79 Berdjaev, Nikolaj 88 Berlioz, Hector Louis 74, 89, 142 n10 Bertocchi, Diego 88 n49 Bertolo, Bruna 111 n25 Betri, Maria Luisa 110 n20, 111 n24 n26 n28 n29 n30, 113 n46
170 Bihari, János 142 n10 Bissoli, Francesco 31 n8 Bixio, Nino 51, 52 n2, 53 e n9 Bloch, Ernst 88 n52 Blume, Friedrich 85 e n39 Bonacina, G. 77 n14, 97 n86 Bonaparte, Napoleone 74, 141 Bon-Compagni, Carlo 122 n15 Bonetti, Paolo 59 n25 Bonfigli, Vittore 153 e n5 Borkowska-Rychlewska, Alina 133 n9, 134, 136 n11 Boulez, Pierre 88 e n51 Bourgeois, Eugene 103 Bovio-Silvestri Paulucci, Giulia 112 Brambilla, Elena 110 n20, 111 n24 n26 n28 n29 n30 Brevan, Bruno 74 n6 Budden, Julian 13 e n2 Burkhardt, Jakob 34 Caddeo, Rinaldo 66 n35 Caglioti, Daniela Luigia 111 n26 Calame Modena, Giulia 112 Calvi, Pietro Fortunato 68 Cammarano, Salvadore 102 Camus, Albert 22 Canale, Michel Giuseppe 57 n21 Cannizzaro, Stanislao 124 Capuzzo, Ester 160 n24 Carcano, Giulio 109, 110, 153 n5 Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna 21, 31 n9, 54, 112 Carlo v d'Asburgo, re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero, 45 Carnesecchi, Riccardo 110 n16 Caruso, Barbara 153 n7 Casanova, Eugenio 160 Casati Confalonieri, Teresa 111 Casertano, Antonio 154 Casini Nicosanti, N. 113 n44 Casu, Antonio 164 Cattaneo, Carlo 7, 66 n35
giuseppe verdi e il risorgimento Cavour, Camillo Benso conte di 7, 15, 21, 23, 24, 40, 41, 67, 105, 114, 118, 121, 158, 163, 164, 165, 166 Cernuschi, Enrico 66 e n35 Černyševskij, Nikolaj 98 n92 Cervani, Giulio 113 n44 Cesari, Gaetano 31, 56 n17 Cessi, Roberto 151 n1, 156, 159 Chęciński, Jan 133, 136 Chestakova, Lioudmila 89 n56 Chiappini, Simonetta 108 n5 Chiarpa, Giuseppe 118, 119 Chiavistelli, Antonio 30 n5, 40 n20 Chop, Max 88 n51 Ciampi, Carlo Azeglio 11, 38 n17 Cillei, Ulrich 145, 146 n14 Cima, Vittoria 115 Claudel, Paul 102 Codignola, Arturo 55 n15, 57 n21, 64 n30, 65 n34 Colombati, Claudia 74 n4 n6 n9, 80 n21, 81 n27 n28 Cometa, Michele 84 n38 Conati, Marcello 26 n1, 31 n7, 82 n31 Congestrì, Marika 108 n8 Cornelius, Peter 96 Cornu, Sebastian 66 n35 Costa, Michele 52 Cui, Cezar Antonovič 99 n102 D’Amelia, Marina 107 n1 Dahlhaus, Carl 78 e n17, 95 e n80, 96, 97 e n85 n87 n80, 98 n92, 99, 100 n94 Dargomyžskij, Aleksandr Sergeevič 98 e n92 De Amicis, Edmondo 44, 45 De Giorgi, Paolo 38 n17, 51, 58, 59, 63 n27, 65, 67 e n38 n39, 68 e n40, 69 e n43, 70 e n47, 71 De Longis, Rosanna 112 n35 De Lorenzo, Enrichetta 111 De Sanctis, Cesare 70 e n46 De Sanctis, Francesco 49, 70 e n46
indice dei nomi De Staël, Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein 31, 35 de’ Vecchi, Cesare Maria 158 Del Bianco, Nino 66 n35 Del Corno, Nicola 110 n21 Delacroix, Eugène 100 Della Peruta, Franco 54 n11, 164 n37, 166 n44, 166 n49, 167 e n53 Della Seta, Fabrizio 67 n37 Dembowski Viscontini, Matilde 111 Depretis, Agostino 120, 166 e n47 Diodati, Giovanni 101 e n2 Doni, Elena 110 n22, 115 n56 Donizetti, Gaetano 13, 17, 20, 28, 39, 46 e n25, 92, 131, 132, 137, 138, 139 Dosi 117 Dostoevskij, Fëdor 83 Dranhet Bey, Paul 113 e n43 du Locle, Camille 82 Dumas, Alexandre (padre) 83 Duveyrier, Charles 44 n23, 82 Egressy, Béni 138, 147 n16 Eősze, László 140 n7 Erkel, Ferenc 138 e n2, 139, 140, 142, 144, 146, 147 e n16, 148, 149 Erkel, Sándor 140 Eschilo 83 Everist, Mark 76 n12, 97 n88 Falcone, Ugo 160 n26 Farini, Luigi Carlo 117, 123 Federzoni, Luigi 155 Ferdinando i d'Asburgo-Lorena (Ferdinando v re d'Ungheria) 145 Ferdinando ii di Borbone, re delle Due Sicilie 11 Ferrari Zumbini, Romano 155 n9 Ferretti, Jacopo 26 n1 Fichte, Johann Gottlieb 74 Fieschi, Giuseppe 31 n9 Filippini, Nadia Maria 112 n36
171 Filippo ii 23, 82 Filippo Strozzi, pseudonimo di Giuseppe Mazzini 32 Finelli, Michele 51 n1, 66 n36 Fioruzzi, Carlo 117 Fletcher, Aspasia Lega 53 e n6 Flora, Francesco 79 n20, 80 n23 n25, 81 n28, 92 e n66 Florimo, Francesco 20 Fogazzaro, Antonio 124 Fomin, Evstignej Ipatovi 98 n91 Fulcher, Jane 97 n88 Galeotti, Giulia 112 n33 Galimberti, Claudia 110 n22, 115 n56 Gallenga, Antonio 31 n9 Garibaldi, Giuseppe 7, 15, 21, 41, 81, 83 n32, 107 n1, 120 Garibaldi, Luigi Agostino 52 n3 Gastel Chiarelli, Cristina 113 n39 Gelli, Piero 107 n1 Gelmetti, Gianluigi 38 n17 Gentile, Egildo 159 Gentile, Giovanni 158, 159 Gertrude di Merania (Gertrud von AndechsMeranien) 147, 148 Gervasoni, Marco 164 n37 Gherardi del Testa, Antonio 41, 43, 45 Ghisalberti, Alberto Maria 158, 160 n28 Ghislanzoni, Antonio 105 Giannone, Pietro 59 n25 Gigli Marchetti, Ada 65 n33 Gili, Antonio 108 n8 Gioberti, Vincenzo 7, 25, 26, 28, 29, 30, 31, 33, 35, 36, 40, 48, 51, 79, 160 Giulio ii, pontefice 36 Giuriati, Giovanni 155 e n11 Giusti, Giuseppe 14, 81 e n17 Glinka, Michail Ivanovič 89, 98 Goethe, Johann Wolfgang von 74, 84, 104 n6 Gogol, Nikolaj Vasilievič 90
172 Golénichtchev-Koutouzov, Arséni 91 n64 Gossett, Philip 63 n27, 104 n7 Goya, Francisco 100 Graffigna, Angelo 69 Graziani, Carlo 165 n43 Grisi, Giulia 52 Grossi, Tommaso 110 Grosso, Maria 110 n22, 115 n56 Guiccioli, Alessandro 159 n22 Guidi, Giovanni Gualberto 58 e n24, 61, 63 e n27, 64, 65, 68 n43 Guidi, Laura 112 n32 Guizot, François Pierre Guillaume 34 Gurgul, Monika 132 n7, 136 n12 Habermas, Jürgen 39 n19 Halévy, Jacques François Fromental 96 e n84, 104 Hayez, Francesco 27, 100 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 77 n14, 89 n54, 97 n86 Heine, Heinrich 96 Herder, Johann Gottfried 84 Honegger, Arthur 102 Hopkinson, Cecil 70 n 45 n47 Huebner, Joseph Alexander (von) 22 Hugo, Victor 83, 100 Hunyadi 89 n55, 91 n63 Hunyadi, János 145, 146 n14 Hunyadi, Mattia Corvino, re d’Ungheria 146 n14 Iannuzzi, Lina 110 n19 Imbriani, Paolo Emilio 31 n8 Infelise, Mario 65 n33 Interlandi, Telesio 153 Ipatovi Fomin, Evstignej 98 n91 Isastia, Anna Maria 114 n49 Isotta, Paolo 93, 94 n71 Jabłoński, Maciej 131 Jamme, Christoph 84 n38
giuseppe verdi e il risorgimento Jasiński, Jan 132, 133, 136 Jonas, Hans 39 e n19, 40 Jurek, Lidia 129 n1 Katona, József 147 Klein, Alessandro 73 n1 Kölcsey, Ferenc 145 Lacroix, Hortense 66 n35 Lamarra, Anna Maria 112 n 32 Lamberti, Giuseppe 51, 52 n2, 53 Lanza, Giovanni 121 László v d’Asburgo, re d’Ungheria e di Boemia (Ladislaus Postumus) 145 e n14 Lazzaroni, Giuseppina 112 Leibowitz, René 92 e n67 Lennon, John 18 Leo, Heinrich 33, 34 Leonardi, Andrea 113 n44 Leone Magno, papa 26, 36 e n14 Lessona, Michele 34 Levi, Lia 110 n22, 115 n56 Lincoln, Abraham 160 Liszt, Ferenc (Franz) 73 e n1 n2, 75, 142 e n10, 144 Livi, Angelo 154 n8 Lo Gatto, Ettore 95 n78 Long, Gianni 101 n1 Luigi Filippo d’Orleans, re di Francia 31 n9, 54 Luigi ii Jagellone, re d’Ungheria e Boemia 148 n18 Lumley, Benjamin 52, 53, 54 Lupo, Salvatore 155 n10 Luzio, Alessandro 31 n7, 56 n17, 70 n46, 160 e n25, 161, 162 e n31, 163, 167 Luzzatti, Luigi 157 Mack, Dietrich 88 n52 Macry, Paolo 107 n4 Maestri, Pietro 59 n25, 122 n15 Maffei, Andrea 29, 109 e n14, 110
indice dei nomi Maffei, Clara 12, 21, 26 n1, 42, 66 n35, 107, 108, 110 e n19 n23, 111, 112, 113 e n40 n42, 114 e n48 n51, 115 e n52 n53 n54 n55 n56 Magnani, Luigi 74 n8 Maldini Chiarito, Daniela 107 n4, 110 n20, 111 n24 n28 Mameli, Goffredo 19, 29, 37, 54 e n14, 55 e n15 n16, 56, 57 n21, 59 e n25, 60, 63 n27, 64 e n31, 65 e n31 n34, 67, 68 n43, 69, 70, 103 Mamiani, Terenzio 122 Manara, Luciano 109 Manfredi, Giuseppe 117 Manin, Daniele 29, 41, 42, 43, 48 Mann, Thomas 88 Mannori, Luca 30 n5, 40 n20 Mantovani, Costantino 59 n25 Manzoni, Alessandro 27, 79, 80 e n23 n24, 83, 100, 115 n56, 122 n15, 124 Manzotti, Michele 164 n37 Maraini, Dacia 110 n22, 115 n56 Marcora, Giuseppe 152, 157 Marcucci, Luisa 159 Marica, Marco 67 n37 Maroncelli, Piero 19 Martini, Giovanni Battista (Padre) 98 n91, 100 Martini, Giuseppe 107 n1, 164 n35 Mascilli Migliorini, Luigi 65 n33 Matejko, Jan 100 Matinski, MikhaĂŻl 98 n91 Matteotti, Giacomo 153, 154 Maturi, Walter 160 e n25 Mazzini, Giuseppe 7, 15, 16, 19, 24, 26, 29, 30, 32, 36, 37 e n16 n17, 38 e n18, 40, 41, 42 n22, 43, 46 n25, 49, 51 e n1, 52 e n4, 53 e n6 n7 n9, 54 e n14, 55 e n16, 57, 58 e n22, 61, 63, 64 e n30 n31, 65, 66, 67 e n39, 68, 70, 79, 83, 103, 105, 160, 163 Mazzini, Maria 51, 52
173 Mazzola, Maria Rosa 16 e n4 Melloni, Macedonio 160 Meloni, Ilaria 109 n14 Merelli, Bartolomeo 141 Meriggi, Marco 30 n5, 40 e n10 MÊry, Joseph 81 Metternich, Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-WinneburgBeilstein 145 Meyerbeer, Jakob (pseudonimo di Liebmann Meyer) 96 e n83, 97, 98, 104 Michiel Giustiniani, Elisabetta 112 Michieletto, Damiano 38 Migliore, Benedetto 153 e n5 Mila, Massimo 22 n8, 23 e n9, 40, 81 n29, 82, 85 n40, 87 e n48, 92 e n65, 99, 102 n4, 106 n10, 107 n1, 114 n50 Milesi Mojon, Bianca 111 Milza, Pierre 11 n 1, 13 n 3, 18 n 6, 20, 21, 109 n 13 n 15, 164 n 37 Minghelli Vaini 118 n4, 164 n37 Mioli, Piero 102 n3 Mischi, Giuseppe 117 Miszalska, Jadwiga 132 n7, 136 n12 Mittner, Ladislao 83 e n33 Modena, Gustavo 32, 59 n25 Moleschott, Jakob 123 Monari, Giorgio 37 n17 Mondini, Antonio 59 n25 Moniuszko, Stanisław 133, 134 e n10, 135 Monsagrati, Giuseppe 66 n35 Montalcini, Camillo 151, 152 e n2 n3, 153, 154, 157 e n13, 159 Montanelli, Giuseppe 59 e n25, 114 Montemorra Marvin, Roberta 37 n17, 64 n31, 65 n31, 67 n37 Monteverde, Giulio 124 e n24 Montorfani, Pietro 107 n1 n2, 108 n6 n8 n9, 109 n11 Mori, Maria Teresa 107 n3, 111 n29 Morosini Negroni Prati, Giuseppina 107 e n1 n2, 108, 112
174 Morosini, Annetta 107, 109 Morosini, Carolina 107, 109 Morosini, Cristina 107, 109 Morosini, Emilia 107 e n1, 108, 109 Morosini, Emilio 107 n1 Mosconi Papadopulis, Teresa 112 Municchi, Carlo 122 n15 Musiedlak, Didier 155 n9, 155 n11 Mussolini, Benito 153, 155 Mussorgskij, Modest 77, 85, 91 n63 n64, 100 Muti, Riccardo 105 n9 Muzio, Emanuele 52 n3 Napoleone iii, imperatore dei Francesi (Carlo Luigi Napoleone Bonaparte detto anche Luigi II d’Olanda) 31 n9, 41, 52, 66 n35, 83 n32, 114 e n52, 167 n50 Nattiez, Jean-Jacques 76 n12 Negrelli, Luigi 113 Negroni Prati, Gerolamo conte 108 Németh, Amadé 144 n13 Neri, Achille 56 n19 Nicola i Romanov, zar di Russia 129 Nievo, Ippolito 79 Novaro, Michele 19, 70 Oberdorfer, Aldo 82, 83 n32, 112 n38, 114 n47 n51, 115 n52 n55 Omero 89 Orsini Angelo 56 n19 Orsini, Felice 31 n9, 41, 68, 83 n32 Pacelli, Mario 152 n2, 153 n6 Pacini, Giovanni 31 Palazzolo, Antonello 38 n17, 58 n23 Palazzolo, Maria Iolanda 65 n33 Palieri, Maria Serena 110 n22, 115 n56 Pallavicini-Trivulzio, Anna donna 68 Paolucci, Raffaele 154 Parker, Roger 98 n90 Patriarca, Silvana 30 n6, 107 n1
giuseppe verdi e il risorgimento Pecchioli, Alessandra 105 n8 Pellico, Silvio 20, 79, 83 Pertici, Roberto 160 n25 Pestalozza, Luigi 118 n3, 121 n13 Petőfi, Sandor 146 n15 Petruccelli della Gattina, Ferdinando 120 n6 Piave, Francesco Maria 13, 16, 17, 18, 19, 20, 22, 24, 26 n1, 31, 32 e n10, 33 n11, 35, 54 n13, 67, 68 e n41 n42, 70, 82 n31, 103, 118, 120, 144 n12, 164 n36 Pierantoni, Augusto 123 Pio ix, pontefice 36 Piroli, Giuseppe 164 Piscitelli, Enzo 151 n1 Pistrucci, Scipione 64 e n30 Pizzigalli, Daniela 110 n18 Poniatowska, Irena 131, 134 Porati, Alessandra 110 n21 Portinaro, Pier Paolo 39 n19 Pozzi, Carlo 58 Prati, Giovanni 79 Puškin, Aleksandr Sergeevič 90, 96, 98, 99 Radziszewski, Maksymilian 132, 136 Raffaello Sanzio 26, 36 e n14 Rákóczi ii, Ferenc 142 n10 Ramorino, Gerolamo (err. Remorino) 53, 54 n10 Rattazzi, Urbano 120 Rausa, Giuseppe 37 n16, 53 e n8 Rescigno, Eduardo 101 n2, 104 n6, 109 n14, 112 n37, 113 n40, 115 n53 n54 Revoltella, Pasquale 113 Ricasoli, Bettino 120 Ricordi, Casa 58, 67 e n38, 68 Rimskij-Korsakov 89 Ristori, Adelaide 32 Rizzi, Giovanni 109 Rizzi, Vincenzo 65 e n33 Robespierre, Maximilien-François-MarieIsidore de 74 Rolland, Romain 74 e n5
175
indice dei nomi Romani, Gabriella 110 n17 Romano, Carlo 118 n4, 164 n37 Ronconi Madame, moglie di Giorgio Ronconi 52 Ronconi, Giorgio 52 Rosen, Charles 74 n7 Rosen, Egor 98 Rosmini, Antonio 79 Rossini, Gioacchino 20, 92, 96, 131, 132, 137, 138, 139 Rotondo, Loredana 110 n22, 115 n56 Rubistein, Ida 102 Ruffini, Agostino 46 e n25 Ruggiero, Nunzio 31 n8 Ruspanti, Roberto 146 n15, 147 n16 Russo, Francesca 31 n8 Saint-Saëns, Camille 96 Salvemini, Gaetano 16 Sanadzé, Dora 89 n55 Sancin, Francesca 110 n22, 115 n56 Sand, George 73 e n1, 76 e n13 Santoro, Maria Rosa 115 n57 Sanvitale, Luigi 118 Saracco, Giuseppe 124 Sarti, Roland 41 n21 Sarti, Telesforo 118 e n4, 120 n7, 123 e n20 Savoia, Casa 7, 21, 66, 67, 118 Sawall, Michael 67 n37 Scaraffia, Lucetta 112 n33 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph 73 e n1, 76 e n13 Schiller, Friedrich 74, 83, 84, 89 e n54, 100, 102, 105, 109 Schlegel, Wilhelm 73, 83 Schopenhauer, Arthur 73 e n3, 85 Schumann, Robert 96 n83 Scialoja, Antonio 122 n15 Scioscioli, Massimo 53 n6 Scott, Walter 78 Scribe, Eugène 41, 43, 44 n23, 82, 97 Sella, Quintino 119, 165, 166
Senici, Emanuele 84 n37, 88 n52 Sergi, Giuseppe 34 Serra, Bartolomeo 122 n15 Serri, Mirella 110 n22, 115 n56 Shakespeare, William 19, 32, 83, 89 Shaw, George Bernard 88 e n50 Sichirollo, Livio 77 n14 Sismondi, Jean-Charles-Léonard Simonde de 34 Sivert, Tadeusz 130 n2, 136 n11 Soldani, Simonetta 107 n3 n4 Solera, Temistocle 26 e n1, 27 e n2, 29, 31, 32, 33, 35 e n13, 36 e n15, 46 e n26, 101 n2, 107 n2, 140, 141 e n8 Solimano i il Magnifico 148 n18 Somaglia, Gina contessa della 26 n1, 107 Somma, Antonio 38, 41, 42, 43, 44 e n24, 45, 47 n27 Sorba, Carlotta 111 n27, 113 e n46, 144 n12 Sorbelli, Albano 117 n1 Souvestre, Emile 103 Spaepen, Bruno 109 n16 Spini, Daniele 105 n8 Spini, Giorgio 103 e n5 Stansfeld (famiglia) 64 n30 Stassov, Vladimir Vassiliévitch 90 e n57 n59 n60 Stefan, Paul 22 n7, 118 n3, 120 n8, 121 n14 Stendhal, pseudonimo di Beyle, Marie-Henri 111 Stęszewski, Jan 131 Strepponi, Giuseppina 109 Surma-Gawłowska, Monika 132 n7, 136 n12 Svetonio 32 Sviridov, Guéorgui 89 n55, 90 n58, 95 n79 Szabolcsi, Bence 143 e n11 Tagliaventi, Federica 110 n22, 115 n56 Tagliaventi, Simona 110 n22, 115 n56 Talamo, Giuseppe 160 n24 Tatarska, Janina 131 Tenca, Carlo 42, 110 e n19 n23
176 Tittoni, Tommaso 155 Toccagni, Luigi 108, 109 Tolstòj, Lev Nikolàevič 90, 100 Tommaseo, Niccolò 79, 92 Tornaghi, Eugenio 68 Tóth, Lőrinc 145 Trivulzi, S. 56 Turi, Gabriele 65 n33 Turiello, Pasquale 34 Valentini, Chiara 110 n22, 115 n56 Vannucci, Atto 59 n25 Várnai, Péter 138 n3, 139 n4 Verdi, Icilio 108 Verdi, Virginia 108 Vico, Giambattista 87 Villari, Pasquale 34 Violante, Luciano 152 n4
giuseppe verdi e il risorgimento Vittorio Emanuele ii 12, 15, 21, 22, 39, 41, 42, 43, 44, 45, 66, 67, 70, 114, 118, 166 Volpe, Gioacchino 158, 163 Voltaire, pseudonimo di Arouet, FrançoisMarie 102 Wagner, Richard 14, 77, 84, 85, 86 n42, 87 e n48, 88 e n52, 93 e n69, 94 e n71 n73, 96, 99, 100, 143 Weber, Max 39 n 19 Werfel, Franz 22 n7, 120 n8, 121 n14 Werner, Zacharias 26, 31, 33, 34, 35, 140 Williams, Gavin 163 n34 Woolf, Stuart J. 158 n17 Woźniak, Monika 132 n7, 136 n12 Zanetti, Ferdinando 59 n25
stampato in italia nel mese di dicembre 2014 da Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) www.rubbettinoprint.it