TEMPO PRESENTE
n. 377-380 maggio-agosto 2012
euro 7,50
MA quAle AntipOliticA * due FORMe deBOli di OppOSiziOne pOliticA * lA leziOne di giAcOMO MAtteOtti * eRneStO ROSSi, un deMOcRAticO euROpeO * MARiO pAnnunziO cent’Anni dOpO * AtteSA d’un tRAMOntO * iROniA diSSAcRAziOne e AtOMiSMO nARRAtivO in dAnte MAFFiA * levinAS Al di là dellA gueRRA * cRiMinAlità FinAnziARiA A livellO glOBAle * cOSSigA e lA ReAltà pOliticA * lA FORMAziOne dellO StAtO unitARiO
Cantarano Cotroneo Paternostro Pecora Sabatini Teodori Thomas Vallauri Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA
diRettORe:
Angelo g. SABAtini - vicediRettORe: Attilio ScARpellini cOMitAtO editORiAle
dario Buzzelli - l. Rino cAputO - Antonio cASSuti girolamo cOtROneO - giuseppe de veRgOttini emmanuele F. M. eMAnuele - Walter pedullà - carlo vAllAuRi cOnSigliO dei gARAnti
Hans AlBeRt - Alain BeSAnçOn - enzo BettizA Karl dietrich BRAcHeR - natalino iRti - Bryan MAgee pedrag MAtvejevic - giovanni SARtORi RedAziOne
Coordinamento: Salvatore nASti paola Benigni - giuseppe cAntARAnO - Matteo MOnAcO - Francesco Russo Marco SABAtini - guido tRAveRSA - Andrea tORneSe - Sergio venditti Responsabile: Angelo g. SABAtini Grafica: Adriano MeRlO
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TEMPO PRESENTE
Rivista mensile di cultura N. 377-380 Maggio - Agosto 2012
PRIMA PAGINA GIUSEPPE CANTARANO, Ma quale antipolitica, p. 2 G IROLAMO
OSSERVATORIO C OTRONEO, Due forme deboli di opposizione politica, p. 4
UOMINI E IDEE ANGELO G. SABATINI, La lezione di Giacomo Matteotti, p. 21 GAETANO PECORA, Ernesto Rossi, un democratico europeo, p. 26 MASSIMO TEODORI, Mario Pannunzio cent’anni dopo, p. 32 POESIA HENRY THOMAS, Attesa d’un tramonto, p. 36
LE MASCHERE DELL'ARTE ROCCO PATERNOSTRO, Ironia dissacrazione e atomismo narrativo in Dante Maffia, p. 37
LETTURE CARLO VALLAURI, Levinas al di là della guerra, p. 42 CARLO VALLAURI, Criminalità finanziaria a livello globale, p. 43 CARLO VALLAURI, Cossiga e la realtà politica, p. 45 CARLO VALLAURI, La formazione dello Stato unitario, p. 46
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PRIMA PAGINA
Giuseppe Cantarano
Ma quale antipolitica
Ora è diventato il comico Beppe Grillo il perturbante sintomo dell’Antipolitica. Ci risiamo, dunque. Ogni volta che i nostri governanti di turno diventano consapevoli che non sono in grado di mantenere le promesse fatte ai cittadini, ecco che puntualmente agitano lo spettro dell’Antipolitica. Non riescono a realizzare le palingenetiche Grandi Riforme? O addirittura stentano semplicemente a governare l’ordinaria amministrazione dello Stato? Basta evocare lo spettro dell’Antipolitica che minaccia la democrazia e il gioco è fatto. State attenti, ci ammoniscono con toni enfaticamente allarmati i nostri governanti. E’ vero che, nonostante il nostro illuminato governo, le famiglie italiane sono diventate più povere. Come ci ha dettagliatamente informato l’ultimo rapporto Istat. E’ vero che piuttosto che realizzare le riforme, moltiplichiamo allegramente amene comunità montane nelle località marine. E’ vero che siamo una casta di privilegiati che, per mantenersi, preleva dalle vostre tasche ben duecento milioni di euro all’anno. Che equivalgono al “costo della politica” di Germania, Francia, Spagna e Regno Unito. Si badi bene: messi insieme. Però state attenti, ci avvertono accigliati. Perché se tutto questo è vero, è altrettanto vero che il pericolo più insidioso che minaccia la nostra democrazia è l’Antipolitica. Che rischia di liquidare le basi della nostra convivenza civile. La minaccia più incombente ora sarebbe insomma rappresentata dal giullare Beppe Grillo. Con il suo Blog virtuale e qualche centinaio di migliaia di suoi fans. Che lo acclamano estasiati nei suoi pirotecnici spettacoli nelle piazze d’Italia. Suvvia, non lasciamoci incantare da questa rituale favola dell’Antipolitica. Una astuta invenzione della politica. Di quella politica arrogante, cialtrona e inefficiente
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che ha invaso le istituzioni e ha sostituito il potere dello Stato con il potere delle oligarchie dei partiti. Una Casta – come ora si dice – che ormai “se ne frega del popolo che l’ha eletta e tutela solo se stessa”, come ha scritto Piero Ostellino sul Corriere. E la Casta, quando l’opinione pubblica diventa insofferente e comincia a mugugnare per una politica che si accartoccia in se stessa, preoccupandosi soltanto di consolidare il suo potere, si sente minacciata. Ecco allora che salta improvvisamente fuori l’Antipolitica. Un antidoto sempre molto efficace per neutralizzare la traduzione del mugugno sociale in fuga di consensi elettorali. Ora – soprattutto dai politici di sinistra - viene agitato lo spettro dell’antipolitico Beppe Grillo. Pronto, più o meno consapevolmente, a trascinare la nostra democrazia verso cupe derive neoautoritarie. Dietro l’angolo, insomma, c’è sempre accovacciato lo spettro del Fascismo. Pronto a ingoiarsi la democrazia. E’ un vecchio adagio della storia dell’Italia repubblicana. Se ne evoca, a fasi alterne, il fantasma minaccioso, per mettere la museruola alla protesta dei cittadini verso le oligarchie dei partiti. Cosicché la Casta può continuare, indisturbata, ad esercitare il suo “dispotismo democratico”, come lo chiamava Tocqueville. Sarebbe invece opportuno che i nostri politici – soprattutto i politici di sinistra – la smettessero una buona volta di evocare lo spauracchio dell’Antipolitica per conservare le loro poltrone. Che pensassero piuttosto a ben governare. E se non sono in grado di farlo, Prodi e compagni salgano senza scrupoli al Quirinale. Per trarre le dovute conseguenze politiche. Si tratterebbe semplicemente della fine preannunciata di un governo che non riesce a governare. Non della fine antipolitica della politica. Non della fine antipo-
Ma quale antipolitica
litica della nostra democrazia, come sostiene D’Alema. Appare, tuttavia, quantomeno curioso che sia la sinistra a temere oggi il dissenso sociale. Che adesso lo riconduce alla categoria dell’Antipolitica. Ma non sono forse anche alcuni esponenti del suo governo – ministri della Repubblica – a scendere in piazza a fianco dei cittadini? E a dissentire contro i provvedimenti del governo di sinistra di cui essi fanno parte? Se allora di Antipolitica vogliamo parlare, dobbiamo prendere atto che è paradossalmente la stessa sinistra ad alimentarla. E tuttavia, una volta che la alimenta, inevitabilmente rischia di diventarne vittima. Il fatto è che l’attuale governo non solo non dispone di una sufficiente maggioranza per governare, come eloquentemente ci dicono i numeri. Soprattutto al Senato. Non solo non riesce a governare per la sua troppo variegata – diciamo pure così – composizione interna. Ma non può governare perché è del tutto assente, nella sua agenda politica, un chiaro disegno riformista. Nonostante le trecento e passa pagine del suo famigerato programma elettorale. Un iningurgitabile pastone dentro cui c’è scritto tutto e il contrario di tutto. Altro che chiamare in causa l’Antipolitica. Ci troviamo invece in presenza di una sinistra – meglio: di un centrosinistra – che ha incollato insieme una coalizione non per governare. Ma esclusivamente per vincere le elezioni. E per
sconfiggere evidentemente Berlusconi. Certo, le alleanze rappresentano una componente irrinunciabile per la conquista del consenso elettorale. Ce lo ha insegnato Antonio Gramsci. Ma appartengono al momento della tattica. E fare affidamento esclusivamente alla sola tattica, senza incorporarla dentro una strategia politica di riforme, vuol dire rinunciare consapevolmente a governare. Si tratterebbe, invece, di porre fine – e al più presto – alla lunga e tormentata transizione italiana. Che non implica, evidentemente, la sola semplificazione morfologica della rappresentanza parlamentare. Facendo magari ricorso a riforme elettorali in direzione di sbarramenti vari. O a taumaturgiche ingegnerie istituzionali. Che vanno pur fatte, beninteso. Ma implica una riarticolazione fisiologica dei partiti rispetto a quel vettore che, nelle democrazie europee, taglia storicamente in due la topografia politica. E che vede collocato su un fronte un grande partito di sinistra, di ispirazione socialista, progressista e riformista. Mentre sul fronte opposto un altrettanto grande partito di destra, di ispirazione neoliberale e conservatrice. Lungo questa direzione bisognerebbe speditamente muoversi. Dovrebbero muoversi soprattutto gli esponenti della sinistra. Per poter assicurare alla nostra democrazia non solo le salutari alternanze di governo. Ma per mettere finalmente in atto un concreto ciclo di riforme.
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OSSERVATORIO
Girolamo Cotroneo
Due forme deboli di opposizione politica
1. Autorità e libertà - In una delle più belle pagine della sua opera più nota, La crisi della coscienza europea, Paul Hazard racconta che nel 1678 il celebre teologo cattolico Jacques-Bénigne Bossuet, «entrava in conferenza» con il pastore protestante M. Claude; quando, nel corso della discussione, «si venne ai diritti della coscienza individuale, il Bossuet incalzò il Claude: la libertà che quei signori della Chiesa riformata reclamano, sin dove arriva? E’ senza limite? E dunque, un individuo qualsiasi, una donna, un ignorante può credere, e deve credere, di poter intendere la parola di Dio meglio di un intero Concilio, fosse pur raccolto dalle quattro parti del mondo, e di tutto il resto della Chiesa? Il Claude rispose: Si, è così». (1) Il conflitto tra l’autorità delle istituzioni e la libertà individuale, nato nel corso delle guerre di religione che sconvolsero l’Europa tra la seconda metà del XVI secolo e la prima metà del XVII, si trasferì soltanto più tardi nel campo della vita politica e civile. La subordinazione dell’individuo alla comunità, prima ancora che allo Stato, nel mondo antico era praticamente scontata. Lo provano, ad esempio, le parole che nella famosa tragedia di Euripide, Ifigenia rivolge alla madre, Clitennestra – la quale, a differenza del padre, Agamennone, non vuole accettare che sua figlia sia sacrificata agli dèi – spiegandole la ragione per cui accoglie serena il proprio destino, il sacrificio della sua vita, richiesto dagli dèi per la buona riuscita della spedizione contro Troia: Vedi com’è giusto madre? Via considera con me:/ è su me che tiene gli occhi tutta quanta l’Ellade/ e da me dipende il varco, la conquista, il fatto che in futuro,/ se si tenti mai da genti barbare/di rapire donne ai Greci, questi
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non consentano, /vendicando l’oltraggioso rapimento d’Elena./Sarà questo il contributo che darà la morte mia,la salvezza della Grecia gloria eterna mi darà./Troppo amante della vita non è giusto poi ch’io sia./Tu la vita me la dèsti per i Greci, non per te. (2) Come prima dicevo, l’età moderna mette in crisi questi radicali convincimenti: dapprima con il rifiuto dell’auctoritas in materia di religione, che abbiamo visto attraverso il testo di Hazard, poi con il rifiuto dell’assolutismo politico, il cui principale testo di riferimento sono stati i famosi “trattati” sul governo, di John Locke, apparsi per la prima volta nel 1690, che volevano essere la replica polemica al Patriarca di Robert Filmer, dove veniva rivendicato il diritto divino del sovrano, apparso postumo dieci anni prima(3); un evento che, soprattutto per il contenuto del Secondo Trattato di Locke – dove si introduceva la prima volta nella cultura politica il concetto di “divisione dei poteri” (4) – segnò la comparsa del “liberalismo”. Circa un secolo dopo, precisamente nel 1792 Wilhelm von Humboldt portava a termine la sua teoria sui limiti dello Stato, che tuttavia sarebbe entrata soltanto nel 1851 nel dibattito politico europeo; una teoria fondata sul convincimento che «il più alto ideale della coesistenza umana» era «quello in cui ognuno si sviluppasse esclusivamente da se stesso e per se stesso».(5) La tendenza a privilegiare l’individuo rispetto allo Stato non trova una forte manifestazione in un Europa, dove il dibattito politico su questo tema, nonostante la presenza di opere come L’esprit de lois di Montesquieu e la Democratie en Amerique di Tocqueville, il privilegio dell’”universale” sul “particolare” – si pensi alla “volontà generale” di Rousseau o allo “Stato etico” di Hegel –
Dur forme deboli di opposizione politica
è, si potrebbe dire, dominante, bensì in un testo che avanzava una proposta etico-politica – la “disobbedienza civile” – che, ha scritto nel 1970 Hannah Arendt, «pur essendo oggi un fenomeno mondiale, [….] resta, per sua natura e origine, prettamente americana»(6), Si tratta di un problema molto particolare, la cui veste giuridica non è tra le più semplici da definire(7), proposto per la prima volta, come è noto, non da un filosofo della politica o del diritto, ma da un celebre scrittore del Massachusetts, Henry David Thoreau, che la espose per la prima volta in un celeberrimo saggio, On the Duty of civil disobedience, scritto nel 1848 e pubblicato negli Aesthetic Papers nel 1849; un saggio in cui Thoreau chiariva le ragioni – la politica schiavista e imperialista degli Stati Uniti – del suo rifiuto di pagare l’imposta prevista per finanziare la guerra con il Messico; motivo per cui aveva trascorso una notte in prigione. Il gesto, poco più che simbolico, di Thoreau è stato tuttavia un esempio, il primo esempio, di quella che John Rawls ha chiamato la “disobbedienza civile diretta”, dove viene infranta la norma che si rifiuta, diversa da quella ”indiretta”, che «non richiede che l’atto di disobbedienza infranga la medesima legge che viene contestata». Si può, ad esempio, proseguiva, «disobbedire ai regolamenti del traffico o alle norme sulla proprietà», non perché ritenuti ingiusti, ma soltanto «allo scopo di far conoscere il proprio caso», che può riguardare tutt’altra questione (8). Dirò più avanti, ovviamente, di Rawls. Per ritornare a Thoreau, il suo testo segna una tappa certamente importante, e non soltanto a livello concettuale, nella storia dei rapporti tra il cittadino e le leggi, più ancora che con lo Stato. La sua tesi circa il diritto di disobbedire a una legge ingiusta, si collocava infatti all’estremo opposto di un celebre discorso di Platone – fondamentale per intendere come si è configurato quel rapporto nella cultura e vita morale dell’Occidente – che si incontra nelle pagine del Critone (9), dove Socrate pone-
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va al suo interlocutore, Critone appunto, il quale gli diceva di aveva trovato un modo per farlo evadere dal carcere, sfuggendo così alla sentenza di morte, questa severa domanda: «Credi possa vivere […] e non essere sovvertita da cima a fondo quella città in cui le sentenze pronunciate non hanno valore, e anzi, da privati cittadini sono fatte vane e distrutte?» (10) Non è certo il caso di riproporre qui gli argomenti di Platone a sostegno di questa tesi, che ha pure un a sua legittimità. Ma uno almeno di essi lo vorrei ricordare in quanto rappresenta la più radicale negazione della moderna “disobbedienza civile”. Sono le parole che le “Leggi”, personificate nel dialogo, avrebbero – secondo il dettato di Platone – il diritto di rivolgere a un abitante della polis, il quale, a seguito di una condanna anche se ingiusta come quella inflitta a Socrate, cercasse di sottrarsi ad essa: «Perché noi che ti generammo, noi che ti allevammo, noi che ti educammo, noi che ti mettemmo a parte di tutti quei beni che erano in nostro potere, e te e tutti gli altri concittadini; noi, dico, nonostante ciò, ti abbiamo fatto capire in tempo […] che se a taluno queste leggi non piacciono è libero di prender seco le cose sue e di andarsene dove vuole. E a questo nessuna di noi frappone ostacoli; né a chiunque dei cittadini voglia recarsi per fastidio di noi e della città, in qualcuna delle nostre colonie, o voglia addirittura andar a vivere altrove in paese forestiero, nessuna di noi gli impedisce di andar dove gli piaccia e portar seco tutte le cose sue. Ma chi di voi rimane qua, e vede in che modo noi amministriamo la giustizia e come ci comportiamo nel resto della pubblica amministrazione, allora diciamo che costui si è di fatto obbligato rispetto a noi a fare ciò che noi gli ordiniamo»(11). La condanna ante-litteram della disobbedienza civile non poteva essere più radicale e definitiva. Ma nel testo di Platone appare un argomento di non secondaria importanza ai fini del mio discorso: le “leggi” dell’antica polis lasciavano il cittadino “libero” di recarsi altrove, di
Girolamo Cotroneo
abbandonare la città, se scontento di loro. Diversamente il totalitarismo moderno – presso il quale è possibile osservare la presenza e le ragioni di quella forma di opposizione “debole” che è il “dissenso”, non sempre identificabile con la “disobbedienza civile” (12) – ha creato immensi stati-prigione, cancellando anche quella miserevole chanche, che è l’abbandono del proprio paese, l’esilio volontario. Ma di questo, degli spazi che il totalitarismo del Novecento ha sottratto agli individui, dirò più avanti. Prima di riprendere il discorso sul concetto di disobbedienza civile e dei suoi rapporti di somiglianza e diversità con quello di dissenso e con altri analoghi(13), va rilevato che, per quanto forti fossero già le tesi che privilegiavano i diritti del singolo cittadino di fronte allo Stato, alla legge positiva, per quanto vigorosi potessero essere dopo il 1789 i discorsi, come ad esempio la Rivendicazione della libertà di pensiero di Johann Gottlieb Fichte apparsa nel 1793 (14), si trattava in ogni caso di problemi che riguardavano i cittadini di uno Stato nella loro totalità, le libertà collettive, non la libertà individuale intesa nella sua accezione più rigorosa. Proprio Fichte, nel Contributo per rettificare i giudizi sulla Rivoluzione Francese, scriveva che quando si deve valutare una rivoluzione si possono porre soltanto due domande, l’una sulla legittimità, l’altra sulla saggezza di essa. Riguardo alla prima questione si può o domandare in generale «Ha un popolo in linea di massima il diritto di mutare di sua iniziativa la propria costituzione politica?», oppure in particolare: «Ha esso il diritto di farlo in un certo determinato modo, valendosi di certe persone, con certi mezzi e secondo certi principi?». La seconda questione – la “saggezza” di una rivoluzione – comporta la domanda: «I mezzi prescelti, pel raggiungimento che ci si prefigge, sono i più appropriati?». Una questione che, a volerla porre corretta-
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mente, implica di chiedersi: «Erano quelli i mezzi migliori nelle circostanze date? (15)». Come si vede, in questo contesto si parla di rivoluzione, non già di disobbedienza civile o di dissenso, perché il “popolo” è inteso come qualcosa che trascende i singoli individui, e la cui volontà non sempre coincide con la quella di questi ultimi. Ma non per questo ho ricordato Fichte. Il quale, quando si chiedeva da dove la rivoluzione traesse la propria legittimità, dopo avere detto che la questione non era «di pertinenza del tribunale della storia», così proseguiva: «Noi desideriamo […] giudicare i dati di fatto secondo una legge che non può esser desunta da alcun fatto né essere contenuta in alcuno. Donde pensiamo […] di attingere questa legge? Dove pensiamo di trovarla? Senza dubbio nel nostro Io, poiché fuori di noi è impossibile incontrarla: e, si badi, nel nostro Io in quanto esso non è conformato e modificato dalle cose esterne mediante l’esperienza […], bensì nella pura ed originaria forma di esso: nel nostro Io quale sarebbe senza alcuna esperienza» (16). Il seguito di questo discorso, soprattutto là dove Fichte parla di questa “forma originaria dell’Io”, la cui “legge”, il cui comando, «si chiama in generale un giusto e un dovere», per cui noi, «in quanto esseri ragionevoli […] siamo assolutamente e senza alcuna eccezione sottoposti a questa legge», e «non possiamo, in quanto tali, essere sottoposti ad una’altra»(17); il discorso di Fichte, dicevo, riecheggia senza alcun dubbio il Kant del “foro interno”, il Kant della Critica della ragion pratica, sotto la cui suggestione Fichte scriveva (18). Questo forte richiamo alla “interiorità”, alla “coscienza”, quali giudici supremi di ogni nostra azione, rappresenta – anche se a prima vista potrebbe non sembrarlo – un momento determinante nella tormentata storia dei rapporti tra l’individuo, o, forse meglio, il cittadino e il potere politico (19) Alla “coscienza”, ma alla coscienza individuale, che decide in merito a una situazione empirica, e sulla base di convincimenti altrettanto “empirici”, senza
Due forme deboli di opposizione politica
appellarsi a generici, talora equivoci, principi universali, si richiamava invece Thoreau, quando rifiutava di obbedire, lui solo, senza chiedere la solidarietà altrui, senza organizzare una resistenza o un’opposizione collettiva, alle leggi di uno Stato, la cui politica in quel momento giudicava inaccettabile sul piano della morale comune.
2. Il “forum conscientiae”e la legge positiva Quale era la premessa da cui Thoreau prendeva le mosse? Ritengo importante ricordarlo, altrimenti qualsiasi discorso sulla “disobbedienza civile” rimarrebbe, se non incomprensibile, privo di un importante punto di riferimento. Questa premessa, infatti, consisteva nella radicale contestazione del “principio di maggioranza”, un meccanismo certamente difettoso, ma allo stato attuale della scienza e della prassi politiche, difficilmente sostituibile senza rischi per la libertà e la democrazia (20). Non è infatti del tutto casuale che John Rawls, proprio nel capitolo del suo opus maius in cui affronta il problema della disobbedienza civile, dedichi subito un denso paragrafo allo status della “regola di maggioranza”: «A che punto», scriveva, «il dovere di rispettare leggi poste in vigore da una maggioranza legislativa (o atti esecutivi sostenuti da una tale maggioranza), cessa di essere vincolante, alla luce del diritto di difendere le proprie libertà e del dovere di opporsi all’ingiustizia? Questo problema coinvolge la natura e i limiti della regola di maggioranza. Per questa ragione il problema della disobbedienza civile è una prova cruciale per qualunque teoria delle basi morali della democrazia» (21). Come si vede, siamo di fronte considerazioni senz’altro suggestive, che pongono problemi non del tutto secondari sui rapporti tra la coscienza del cittadino e la legge scritta. Nel 1970, nel saggio già ricordato, Hannah Arendt scriveva: «Per tutti coloro che sono stati educati nella tradizione occidentale della coscienza […] è del tutto ovvio che l’accordo con l’opinione altrui sia di secondaria importanza rispetto alla decisione presa in soli-
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tudine, in foro conscientiae, come se non potessimo condividere con gli altri un’ opinione o un giudizio, ma solo una presa di coscienza comune» (22). Ma non sempre ciò che è del tutto “ovvio”, è per questo anche vero. Nel momento infatti in cui si osserva con maggiore attenzione «l’intero problema del peso politico da accordare alle decisioni morali», dice ancora la Arendt, la difficoltà più seria nasce dal fatto che il privilegio accordato alle decisioni prese in foro conscientiae, discende dalla discutibile convinzione «che l’uomo possieda la capacità innata di distinguere il bene dal male» (23). Non a caso Hegel, che amava poco la coscienza individuale, affrontando la questione non sul piano etico, ma su quello teoretico, scriveva queste parole: «Seguire la propria convinzione val certo più che arrendersi all’autorità; ma invertendo la credenza fondata sull’autorità in quella fondata sulla propria convinzione, non ne viene necessariamente mutato il contenuto, né la verità subentra all’errore. Resta abbarbicato al sistema dell’opinione e del pregiudizio per autorità altrui o per convinzione propria, differisce soltanto per la vanità che si annida nella seconda maniera» (24). Sono parole forti, e non facilmente confutabili; né, per rimanere ancora su questo argomento, può essere sempre accettata la tesi che «la trasgressione della legge si giustifichi solo nel caso in cui il trasgressore accetti, e persino solleciti, la sanzione penale del suo atto», perché, dice ancora la Arendt, potrebbe essere una «forma di fanatismo», o, comunque, essendo «propria di animi eccentrici […] non consente una discussione razionale del problema»(25). Tutto ciò sembra condurre in un vicolo cieco: se il “foro interno”, la coscienza individuale non è il tribunale supremo, ma può essere essa stessa fonte di errore, che cosa giustifica una gesto di di-sobbedienza alla legge, il dissenso che intende delegittimare un’autorità politica? La verità è, lo vedremo più avanti, che per Hannah Arendt una libertà soltanto
Girolamo Cotroneo
interione, ha ben poca, o nessuna, consistenza. In ogni modo, per tentare una risoluzione, almeno provvisoria e certamente parziale del problema, potrebbe essere utile riproporre la distinzione tra “disobbedienza civile” e “dissenso”, spesso considerati identici dal momento che entrambi rivendicano la superiorità della morale individuale sul diritto positivo, e appellandosi – senza chiedersi, soprattutto nel primo caso, se in quel momento stiano fondando una “norma universale” – al “foro interiore” per giustificare il rifiuto opposto alla legge, o contestando – ma qui siamo sul versante del “dissenso” più che su quello della “disobbedienza” – l’autorità stessa che emana la legge. Ha scritto Leonardo Morlino che il dissenso «si esprime solo nell’esortare, persuadere, criticare, far pressione, sempre con mezzi non violenti, per indurre i decision-makers a preferire certe scelte al posto di altre o a modificare precedenti decisioni o direttive politiche», e che «può spingersi fino a mettere in crisi la legittimità dei governanti mai quella del sistema e della comunità politica», per cui «è il più moderato tra i comportanti negativi verso il sistema politico» (26). Se però osserviamo da vicino il più clamoroso caso di “dissenso” del Novecento – quello degli intellettuali dei paesi dell’Est europeo, soprattutto dell’Unione Sovietica, da Andrei Sacharov a Aleksandr Solženicyn a Yuri Daniel a Andrei Sinyavski - non è difficile darsi ragione che il loro era un radicale rifiuto – si pensi per tutto all’Arcipelago Gulag di Solženicyn – dell’intero sistema comunista, non di questa o quella classe dirigente, non di questa o quella legge. Ritornerò sull’argomento. Riprendendo intanto il tema della disobbedienza civile, si potrebbe dire con Norberto Bobbio che si tratta di «un atto di trasgressione della legge che pretende di essere giustificato e quindi trova in questa giustificazione la ragione della propria differenziazione da tutte le alte
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forme di trasgressione» (27); un atto che pur se delegittima i governanti che hanno promulgata quella legge, non coinvolge però fino in fondo la struttura politica, istituzionale di uno Stato. John Rawls ha inaugurato la sezione di Una teoria della giustizia dedicata a questo problema con una discussione intorno al «dovere di rispettare una legge ingiusta», che era poi, come abbiamo visto, il problema del Critone, dove quel “dovere” era fortemente ribadito. Da parte sua Rawls sosteneva che «il nostro dovere naturale di sostenere le istituzioni giuste ci vincola a rispettare leggi e politiche ingiuste, o perlomeno a non opporci ad esse con mezzi illegali, almeno sino a quando non valichino certi limiti di ingiustizia» (28). Questo convincimento gli faceva definire la disobbedienza civile «come un atto di coscienza pubblico, non violento, e tuttavia politico, contrario alla legge, in genere compiuto con lo scopo di produrre un cambiamento nelle leggi o nelle politiche del governo». Aggiungeva poi «che la disobbedienza civile è un atto pubblico. Essa non soltanto si indirizza a principi pubblici, ma si compie in pubblico. Ci si impegna in essa in modo evidente e dandone regolare avviso; essa non è né segreta né riservata» (29). Il momento forse più interessante di queste pagine è quello in cui Rawls segnala il carattere soprattutto, o soltanto, politico della disobbedienza civile. Per questa ragione, le pagine da lui dedicate all’argomento – che tra l’altro consentono di stabilire la differenza esistente tra quest’ultima e il dissenso – sono soprattutto intese a fondare una sorta di “teoria costituzionale” di essa (30); una teoria che, ha scritto, vale «solo per il caso speciale di una società quasi-giusta, che risulta per la maggior parte bene ordinata, ma in cui però accadono alcune gravi violazioni della giustizia». In altre parole, si tratta di una teoria che cerca di legittimare «il ruolo e l’appropriatezza della disobbedienza civile nei riguardi di un’autorità democratica legit-
Due forme deboli di opposizione politica
timamente istituita», e che «non si applica ad altre forme di governo, né, se non incidentalmente, ad altre forme di dissenso o di resistenza». Il problema della disobbedienza civile, dunque, «sorge soltanto all’interno di uno Stato democratico più o meno giusto, e per quei cittadini che riconoscono e accettano la legittimità della costituzione»(31). Tutto ciò, insieme all’ulteriore dichiarazione secondo cui quando ci si impegna nella disobbedienza civile «ci si rivolge al senso di giustizia della maggioranza della comunità e si dichiara che, secondo le proprie opinioni ponderate, non vengono rispettati i principi della cooperazione sociale tra uomini liberi ed uguali»(32); tutto ciò, dicevo, consente a Rawls di individuare il limiti e gli spazi della disobbedienza civile (33). Se infatti assumiamo che «una generale disposizione a impegnarsi in un disobbedienza civile giustificata, introduce stabilità in un società bene-ordinata, o in una quasigiusta»; se riconosciamo che pur se «in senso stretto questo modo di agire è contrario alla legge, esso rappresenta tuttavia un modo moralmente corretto di sostenere un regime costituzionale»(34); se condividiamo tutto ciò, allora non si può non convenire con le conclusioni cui perviene il filosofo americano. Il quale scrive: «Assumo quindi che esiste un limite in cui è possibile impegnarsi nella disobbedienza civile, senza che ciò conduca a un crollo del rispetto per il diritto e la costituzione, mettendo così in moto conseguenze negative per tutti»(35). Queste parole e la successiva affermazione secondo cui se tutti esercitassero contemporaneamente e con «la medesima forza in ciascun caso» la disobbedienza civile, «potrebbe risultarne un danno permanente per la costituzione giusta verso cui ciascuno […] riconosce un naturale dovere di giustizia»(36), indicano che, in quanto concentrata su precisi e limitati obiettivi, in quanto diretta a imporre a una autorità “riconosciuta” la modifica di una singola legge o norma,
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questa particolare forma di opposizione non sembra avere come scopo il sovvertimento della struttura giuridico-politica di un Stato: e questo consente di segnalare un’ulteriore differenza tra questa forma di opposizione “debole” e l’altra, altrettanto “debole”, che indichiamo come il dissenso: dove “debole” non significa sterile, inutile, inefficace, senza conseguenze rilevanti, ma soltanto il decorso più lento di un progetto, di una proposta, perché prodotto individuale, spontaneo, privo di quell’organizzazione che una lotta politica esige. Una delle caratteristiche della disobbedienza civile, ha scritto ancora John Rawls a proposito della sua “teoria”, è che si tratta di un atto rigorosamente politico, perché «guidato e giustificato da principi politici, cioè dai principi di giustizia che regolano la costituzione e le istituzioni sociali in genere», e che in nessun punto aveva fatto ricorso a principi che non fossero politici, perché nella elaborazione di essa non sono essenziali concezioni religiose o pacifiste(38). Altra caratteristica della disobbedienza civile sta nel suo concentrarsi non su un radicale mutamento di governo, per rigettare una legislazione, ma nel concentrarsi su obiettivi mirati, precisi: «Tutta la legislazione del lavoro ormai codificata», ha scritto Hannah Arendt, come «il diritto di negoziare convenzioni collettive, il diritto sindacale e il diritto di sciopero», non è stata forse negli Stati Uniti «preceduta da lunghi periodi di disobbedienza, a volte anche violenta, a leggi che, alla fine dei conti, si erano rivelate obsolete?»(39). Tutto ciò sembra indicare che la disobbedienza civile, privilegiando la “politica”, privilegia l’immediato, l’individuale, rispetto al momento “etico”, alla norma “universale”. Ha osservato giustamente Hannah Arendt che lo stesso Thoreau che pure ha introdotto «il termine “disobbedienza civile” nel nostro vocabolario politico, si sia posto sul terreno della coscienza individuale e degli obblighi morali della coscienza, senza invocare il problema dei rapporti morali del cittadino
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con la legge» (40). Non certo senza la piena consapevolezza del significato e del peso delle sue parole, Thoreau scriveva: «Naturalmente, un uomo non ha il dovere di consacrarsi a raddrizzar torti (fossero questi anche i più gravi); può aver altri problemi che lo preoccupano; in tal caso, però, è suo dovere almeno lavarsi le mani di tutto ciò e, se non vi pensa più, negare il proprio appoggio a ciò che è ingiusto»(41). E ancora: «Venni a questo mondo non per trasformarlo in un luogo buono dove vivere ma per vivervi buono o cattivo che sia. Un uomo non deve far tutto, ma qualche cosa; e poiché non può far tutto, non è necessario che faccia qualcosa di sbagliato» (42). Sarebbe troppo facile definire questo un atteggiamento, per dirla con Hegel, da «anima bella»: ma non sarebbe una definizione appropriata, in quanto quelle scelte particolari, non certo prive di conseguenze, dimostrano che a colui che le compie, non manca, come alla “figura” hegeliana, «la forza dell’alienazione, la forza di farsi cosa e sopportare l’essere» (43). Semmai dimostra che la disobbedienza civile opera, anche se mossa da un valore, dal senso di giustizia, ad esempio, su un piano empirico, sul terreno della contingenza, non nel dominio dei principi: così che il suo richiamo al “foro interiore” riguarda la legittimità, sul terreno della morale corrente, di questa o quella norma, non già la dimensione universale, che impegna l’uomo in tutto il suo essere.
3. La questione degli “spazi” - Se è davvero così, appare in qualche misura contraddittorio quanto sostenuto da Hannah Arendt, quando scrive che se fosse possibile inserire nell’ordinamento costituzionale di uno Stato la disobbedienza civile, sarebbe un avvenimento di grandissima portata, «altrettanto significativo, forse, della fondazione più di due secoli addietro della constitutio libertatis»(44). Un evento possibile soltanto negli Stati Uniti, il cui sistema giuridicopolitico appariva alla Arendt il solo in grado di organizzare la disobbedienza
civile – fenomeno, a suo parere, ormai diffuso in tutto il mondo – in modo conforme «non alle leggi in vigore, ma allo spirito delle […] istituzioni giuridiche» che le sostengono (45). Come prima ho detto, a differenza della Arendt che l’ha soltanto auspicato, John Rawls ha indicato una possibile formula per costituzionalizzare la disobbedienza civile, e ne ha pure indicato le parti che dovrebbero costituirla. Ma anche se, alla resa dei conti, il parametro di riferimento in questo caso finisce con l’essere ancora una volta il forum conscientiae – anche se va ricordato che non chiama mai in causa la Arendt, mentre Thoreau viene evocato soltanto a proposito della distinzione tra “disobbedienza civile” e obiezione di coscienza” (46) – Rawls sostiene decisamente che «è senza dubbio possibile immaginare un sistema giuridico in cui il credere in coscienza che la legge è ingiusta, è accettato come difesa per non averla osservata». Un sistema siffatto, prosegue, «può essere fatto funzionare da uomini di grande onestà e dotati di una completa reciproca fiducia. Ma nel nostro stato di cose», ha aggiunto, «uno schema simile sarebbe presumibilmente instabile, anche in uno stato di quasi-giustizia. Dobbiamo pagare un certo prezzo», ha concluso, «per convincere gli altri che le nostre azioni possiedono,secondo la nostra prospettiva accuratamente ponderata, una base morale sufficiente nelle convinzioni politiche della comunità» (47). Uno degli strumenti, per così dire, attraverso i quali chi “disobbedisce” può convincere gli altri della propria buna fede, del fatto che la sua azione «esprime una disobbedienza alla legge nei limiti della fedeltà ad essa, sebbene si trovi al suo margine esterno»(48), potrebbe essere individuato, sempre secondo Rawls, nel comportamento “non-violento” (49), e nella «volontà di accettare le conseguenze legali della propria condotta» (50), come fece Socrate ad Atene, accettando una legge ingiusta e come fece Thoreau a Concord, rifiutandola. Quanto detto finora intorno alla disob-
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bedienza civile, la distingue dal dissenso. Anche se Teresa Serra ha scritto che quando la legittimità democratica è trascurata «la disobbedienza civile si impone come il dovere, altrettanto etico, di rappresentare pubblicamente il dissenso caratterizzandosi così non solo in relazione a motivi coscienziali, ma anche a fattori politici»(51), Anche se tutto ciò è vero, il “dissenso” a me appare tutt’altra cosa: per fare un esempio, le pubblicazioni all’estero dei dissidenti sovietici sono talora apparse sotto falso nome, sotto pseudonimi, violando, per così, dire, uno dei principi della disobbedienza civile, la pubblicità del proprio gesto e l’accettazione delle conseguenze penali che comporta. Ma soprattutto, a differenza della disobbedienza civile, quello che chiamiamo il dissenso non presenta alcun bisogno di venire qualificato: esso costituisce l’essenza stessa, la condizione primaria degli ordinamenti politici liberaldemocratici, della libertà come tale, uno dei cui presupposti è il diritto a manifestare liberamente la propria opinione, anche, e soprattutto, se diversa da quella corrente, da quella della “maggioranza”. In questa prospettiva, più che della scienza politica, il dissenso, come per certi versi anche la disobbedienza civile, sembra essere oggetto della sociologia, soprattutto perché, come ha detto ancora Lorenzo Merlino, esso «ha la sua arma principale nella pubblicità», dal momento che le sue manifestazioni «hanno proprio lo scopo di “far notizia”», per «mobilitare la pubblica opinione e, di conseguenza, l’autorità politica, sui temi e nei modi voluti»(52). A differenza però della disobbedienza civile, che in quanto trasgressione di norme codificate comporta anche in regimi di libertà garantita una inevitabile sanzione, il dissenso, in quanto semplice manifestazione più o meno clamorosa di opinioni, è costitutivo delle “società aperte”, dei regimi liberaldemocratici, che esistono come tali soltanto se, e in quanto, esso viene garantito: oggetto di analisi non più sociologica, ma politica, diventano allora i modi del suo manife-
starsi, l’indicazione della soglia oltre la quale si trasforma in violazione di legge o in altro tipo e genere di opposizione politica. Ma il discorso non può esaurirsi nella semplice fenomenologia del dissenso nei paesi liberaldemocratici, in quanto esso è presente più o meno ovunque, anche presso quei regimi politici i quali non soltanto non lo garantiscono, ma lo vietano e lo perseguitano. Qui si potrebbe dire che ogni atto, ogni parola di dissenso potrebbe essere considerato un gesto di disobbedienza civile, in quanto rifiuto di obbedire a una norma: ma a una norma del tutto particolare, una norma non scritta, ma fin troppo operante: la norma che “vieta di dissentire”, di manifestare in pubblico un’opinione contraria a quelle dominanti, ufficiali. Diventando “disobbedienza” – e soprattutto disobbedienza “individuale” – il dissenso viene “legalmente” perseguitato. Ma ci sono altri problemi: se nei paesi liberi il dissenso si manifesta soprattutto, se non soltanto,intorno a fatti contingenti, a particolari misure legislative, che si limita a indicare come inique, senza tuttavia violarle, per cui anche se nasce dal forum conscientiae non necessariamente si presenta come norma universale, del tutto diverso è il carattere che assume nei paesi a regime dittatoriale, tirannico o totalitario. Qui, infatti, il dissenso si manifesta essenzialmente come richiesta di libertà al singolare, quindi di un valore trascendentale che supera qualsiasi altra esigenza empirica, anche se di alto profilo morale. In questo caso, allora, quell’imperativo morale prima che politico, per raggiungere il quale si può anche mettere in gioco anche la vita, ha un altro valore perché possiede quel requisito di legittimità universale, che non possono avere, pur nella grandezza e nobiltà dell’intento, le manifestazioni di dissenso o di disobbedienza civile su questioni empiriche. Ciò pone tuttavia un problema fondamentale: poiché la libertà è un’idea trascendentale, e quindi, per così dire, dilatabile all’infinito – il che spiega perché manifestazioni di dissenso
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in materia di libertà possono aversi anche nei sistemi politici liberali o, comunque, garantisti – quel dissenso, problema etico prima che politico, si manifesterà in maniera e con conseguenze diverse, a seconda della maggiore o minore misura degli “spazi” di libertà concessi ai cittadini. La parola “spazi” nel contesto di un discorso etico-politico, richiama subito il nome di Hannah Arendt, alla quale si deve la prima, profonda analisi, di quei regimi del Novecento sconosciuti ai secoli precedenti che sono stati i totalitarismi europei. Uno degli argomenti più interessanti e suggestivi da lei proposti è che la libertà esiste soltanto in presenza di uno “spazio”, uno spazio “ideale” ovviamente, lo “spazio del discorso” tra gli individui; uno spazio peraltro «circoscritto dalle leggi». Così, mentre la tradizionale tirannide, «deserto senza leggi e senza barriere, dominato dalla reciproca diffidenza», pur non essendo certo «uno spazio vivo di libertà, […] lasciava ancora un po’ di posto ai movimenti timorosi e alla caute azioni dei suoi abitanti», il “terrore totale”, invece, «premendo gli uomini uno contro l’altro, […] distrugge lo spazio fra di essi»; cosi il totalitarismo «non si distingue […] dalle altre forme di governo perché riduce o abolisce determinate libertà, o sradica l’amore per la libertà, ma perché distrugge il presupposto di ogni libertà, la possibilità di movimento, che non esiste senza spazio»(53). Si tratta di un argomento non poso suggestivo e non certo privo di verità. Ma le vicende del dissenso sovietico, la sua genesi all’intermo del regime, non consentono di accoglierlo per intero. Secondo Henri Stuart Hughes, critico molto severo dell’opus maius della Arendt(54), le interpretazioni del totalitarismo avrebbero «posto in primo piano le tecniche di controllo – la superficie orripilante dell’esistenza – più che le realtà sociali di fondo»(55). A questo modo di vedere le cose non si sarebbe sottratta, a dire dello storico americano, neppure la Arendt, che riconosceva valida la pretesa di Hitler o di Stalin di avere
il potere assoluto sulla vita dei loro sudditi, nonostante la stessa letteratura sui campi di concentramento avesse evidenziato che «anche entro i recinti infernali di quei campi, si potevano scoprire isole minuscole di autonomia»(56). L’argomento di Stuart Hughes presenta certamente una sua validità, comprovata storicamente peraltro dal fallimento, dall’implosione non provocata dall’esterno, dei giganteschi tentativi di reductio ad unum di intere nazioni compiuti nel tempo appena trascorso; e una serie di eventi,a cominciare dalla comparsa del dissenso sovietico, dimostrano che la forza interiore che prende corpo in opere letterarie che diventano più micidiali delle armi, può aprire da sola spazi attraverso i quali, per quanto minuscoli possano essere, la libertà penetra anche dove in tutti i modi si era cercato di sbarrarle il cammino. In realtà osservando da vicino le tesi di Hannah Arendt, non è difficile darsi ragione del fatto che la sua visione di un totalitarismo che non lascia alcuno spazio di libertà, è conseguenza di un certo modo di intendere la libertà, della distinzione tra la libertà come pratica politica dalla libertà “in e per sé”: «La libertà che si dà per scontata nell’enunciare qualsiasi teoria politica», ha scritto, «è l’esatto contrario della “libertà interiore”, di quello spazio nel proprio intimo dove gli uomini possono eludere la coercizione esterna sentendosi liberi». Infatti, ha proseguito, noi «acquistiamo per la prima volta coscienza della libertà o del suo contrario nel nostro rapporto con gli altri, non nel rapporto con noi stessi»; ne viene che «senza un ambito pubblico protetto da garanzie politiche, la libertà non ha più uno spazio nel quale apparire al mondo». E portava l’esempio della «polis greca», che fu, «appunto, quella “forma di governo” che forniva agli uomini uno spazio per apparire, nel quale agire, una sorta di teatro dove la libertà politica poteva fare la propria comparsa»(57). 4. Il grafico del dissenso - Se si assume come valida la tesi di Stuart Hughes, se si
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ammette cioè, che non esiste il totalitarismo, per così dire, “assoluto”, ma che spazi di libertà, per quanto minimi, sono presenti anche all’interno del più rigido tra i regimi totalitari, cade, o almeno muta di profilo, la differenza che abbiamo incontrato in Hannah Arendt, tra la “tradizionale” dittatura e il totalitarismo(58). Gli Stati totalitari, in quanto fondati su un’ideologia, non si limitano a pretendere l’obbedienza, il silenzio passivo, rassegnato, dei cittadini, ma esigono anche il loro consenso, la loro convinta adesione: e soltanto regimi di questo tipo potevano istituire i cosiddetti “campi di rieducazione”. Di conseguenza non è la disobbedienza a una legge particolare che offende il diritto e la moralità: presso quei pochi che riescono in qualche modo a manifestarlo, o che abbiano il coraggio di manifestarlo, si presenta come rifiuto totale del sistema politico vigente, con il quale i dissenzienti – si pensi per tutti a Aleksandr Solženicyn, e ai già ricordati Yuri Daniel e Andrei Sinyavski – non vedono alcuna possibilità di compromesso. Il caso di un altro famoso dissidente sovietico, Andrei Sacharov, presenta qualche anomalia rispetto ai casi ricordati: nel suo primo scritto apparso in Italia, Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, mostrava infatti di credere in una possibile inversione di rotta del regime sovietico, limitando quindi la stessa estensione del suo dissenso: il che ovviamente nulla toglie alla sua grande statura morale. La tesi di fondo di Sacharov – uno dei più noti scienziati dell’Unione Sovietica – muoveva, a differenza di un Solženicyn , da un riconoscimento positivo degli ideali del socialismo: «Solo la cooperazione», scriveva, «di tutti in condizioni di libertà intellettuale e gli alti ideali del socialismo e del lavoro, liberati dal dogmatismo e dalle imposizioni degli interessi dissimulati della classe dominante, salveranno la civiltà». A questo aggiungeva che «il riconoscimento da parte della classe operaia e dell’intelligencija dell’identità dei loro interessi è uno straordinario fenomeno del nostro
tempo. L’ala progressista, internazionalista e impegnata dell’intelligencija è parte integrante della classe operaia, come il settore più avanzato, istruito, internazionalista e mentalmente aperto della classe operaia è parte dell’intelligencija». Chiedeva pertanto, «agli intellettuali in Unione Sovietica, in Polonia e negli altri paesi socialisti», di rigettare l’invito di subordinare «i loro sforzi alla volontà e agli interessi della classe operaia», in quanto «il significato reale di questa richiesta [era] la subordinazione alla volontà del partito, o più precisamente dell’apparato centrale del partito e dei sui funzionari». Ma «chi può garantire», si chiedeva, «che questi funzionari esprimano sempre gli interessi autentici della classe operaia nel suo insieme, gli autentici interessi del progresso, piuttosto che quelli specifici della loro casta?(59)». Non erano, nonostante tutto, nonostante i richiami a Marx e a Lenin(60), idee che potevano risultare gradite al regime, soprattutto in quanto Sacharov aggiungeva considerazioni come la seguente: «Oggi il problema chiave per la progressiva definizione di un sistema di governo valido ai fini del socialismo è certamente quello della libertà intellettuale»; o come questa: «La situazione della censura nel nostro paese non è tale da poter essere risolta con qualche direttiva di carattere “liberaleggiante”. Ciò che occorre sono misure radicali, di carattere organizzativo e legislativo(61)». Anche se diverso, nella forma e nella sostanza, e più attenuato rispetto a quello di Solženicyn, che non riteneva emendabile il sistema comunista, quella di Sacharov era anch’essa una forma di dissenso, una denunzia e una condanna dei metodi del regime sovietico (62) del quale auspicava, per la verità senza molta fiducia, una inversione di tendenza. Tuttavia, non soltanto nell’Unione Sovietica, ma anche presso quei regimi in cui gli spazi di libertà, per quanto ristretti, erano comunque più larghi che non presso quelli totalitari, come ad esempio le dittature militari sudamericane o quella di Francisco Franco in
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Spagna, dove, come in Unione Sovietica, il dissenso si manifestava soprattutto attraverso il suo veicolo privilegiato, la letteratura, la narrativa: basta pensare al colombiano Gabriel Garcia Marquez, giunto fino agli onori del Nobel, che visse e pubblicò fuori del proprio paese; al peruviano, anch’egli premio Nobel, Mario Vargas Llosa, il cui primo libro importante, La città e i cani, venne proibito in Perù, e che abbandonò l’America Latina per trasferirsi definitivamente in Europa, e allo spagnolo Juan Goytisolo, che dovette abbandonare la Spagna per vivere Parigi, dove tra l’altro pubblicò il romanzo Lutto in Paradiso, dove manifestava apertamente la sua ostilità nei confronti del regime franchista. Esempi tutti che dimostrano come il dissenso, che non si manifesta come la disobbedienza civile in azioni dimostrative, nasca, è nato, dovunque la libertà è stata, non importa se più o meno, violata, dove i diritti sono stati cancellati o anche soltanto limitati. Il discorso, però, non si arresta qui. Quanto detto finora dovrebbe dimostrare che il dissenso non dovrebbe investire i sistemi liberaldemocratici, le “società aperte”, nel senso che qui non si presenta o non dovrebbe presentarsi come dissenso totale, come rifiuto globale dell’ordine liberale, ma manifestarsi soltanto nei confronti di problemi particolari: quindi, più nella veste di disobbedienza civile. In realtà oggi il dissenso si spinge fino a mettere in discussione anche le attuali garanzie della libertà, ritenuta talmente eccessiva da mettere in pericolo la libertà stessa. Questa nuova manifestazione di dissenso – un dissenso che sembra muoversi in senso contrario a quello che abbiamo visto manifestarsi sotto le dittature o i totalitarismi – l’abbiamo sentita proclamare proprio dal personaggio che del “dissenso” è stato il simbolo stesso, Aleksandr Solženicyn. Il 18 giugno del 1978 in un celebre discorso tenuta a Harvard ha pronunciato queste parole: «Io, che ho passato tutta la mia vita sotto
il comunismo, affermo che una società in cui non esiste una bilancia giuridica imparziale è una cosa orribile. Ma una società che, in tutto e per tutto, non possiede che una bilancia giuridica non neppure essa, veramente degna dell’uomo»(63). Per questa ragione, proseguiva, «se mi si chiedesse se io voglio proporre al mio Paese, a titolo di modello, l’Occidente così com’è oggi, io dovrei rispondere con franchezza: no, io non posso raccomandare la vostra società come ideale per la trasformazione della nostra», perché «una società non potrebbe rimanere al fondo di un abisso senza leggi, com’è il caso da noi; ma sarebbe per essa una derisione rimanere alla superficie civilizzata di un legalismo senz’anima, come fate voi»(64). Qui il dissenso ha assunto la più drammatica tra le sue forme perché rifiuta una società che ha fatto della libertà la sua bandiera e che ha cercato tutti i mezzi per garantirla. Non senza ragione Teresa Serra ha scritto che «nel quadro tracciato dagli esiste della modernità, si trae la convinzione che sia definitivamente venuto meno quell’habitus dell’obbedienza che nasceva dalla corrispondenza della norma al comune modo di comportarsi»(65). Le divergenze sui limiti della libertà sono antiche quanto il concetto di libertà, e i pericoli di una libertà eccessiva li aveva già mirabilmente descritti Platone.(66) Si tratta di un dissenso che riguarda soltanto i paesi liberi; e nei paesi liberi esige una risposta etica prima ancora che politica.
Note
1. P. Hazard, La crisi della coscienza europea, a cura di P. Serini, voll.2, “Il Saggiatore”, Milano 1968, I, p. 107. 2. Euripide, Ifigenia in Aulide, in “ Tutte le tragedie”, a cura di F. M. Pontani, voll.3, Newton Compoton, Roma 1977, vol. III, 171. 3. Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo col Patriarca di Robert Filmer, a cura di L. Pareyson, Utet, Torino 1948. 4. E’ il potere legislativo quello che ha il diritto di regolare come la forza della società politica debba essere impiegata per la conservazione
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della comunità e dei membri di essa»; ma «poiché, data la debolezza umana, propensa a impossessarsi del potere, le stesse persone, che hanno il potere di fare leggi, possono esser fortemente tentate di avere fra le mani anche il potere di eseguirle, [….] nelle società politiche ben ordinate […] il potere legislativo è posto nelle mani di diverse persone, le quali regolarmente adunate hanno […] il potere di far leggi; e quando le abbiano fatte, son soggetti alle leggi ch’esse stesse hanno fatte. […] Ma poiché le leggi», concludeva, «che son fatte una volta e in breve tempo, hanno vigore costante e duraturo, e richiedono una continua esecuzione e osservanza, è necessario che vi sia un potere sempre in funzione che vigili all’esecuzione delle leggi. […] E così il potere legislativo e il potere esecutivo vengono spesso ad esser separati». Op, cit., pp. 354-355. Quasi superfluo ricordare che la teorizzazione, direi, definitiva della “separazione dei poteri” è quella proposta da Montesquieu, quando nel capitolo dedicato alla “costituzione d’Inghilterra” scriveva: «Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile»; e aggiungeva che «non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo». Lo spirito delle leggi, a cura di S. Cotta, voll.2, Utet, Torino 1952, I, pp. 275, 276. 5. W. Von Humboldt, Idea per un saggio sui limiti dell’attività dello Stato, in “Stato Società e Storia”, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 76. Humboldt sosteneva che il «complessivo impegno dello Stato di accrescere il benessere della nazione» si manifesta attraverso “istituzioni” nelle quali «domina lo spirito del governo che, per quanto possa essere saggio e salutare, produce sempre in una nazione, uniformità e comportamenti estranei. Gli uomini», proseguiva, «invece di entrare in società per affinare le loro forze, […] ottengono qui al contrario, dei beni a spese delle loro energie. Il bene supremo procurato dalla società è precisamente la varietà che deriva dall’associazione di molti, e questa varietà va sicuramente perduta, sempre, nella misura in cui lo Stato esercita il proprio intervento».Op. cit., pp. 78-79. (6) La disobbedienza civile e altri saggi, a cura di T. Serra, Giuffrè, Milano 1985, p.68. – Ha scritto in altra occasione Teresa Serra che «in un conte-
sto democratico quale quello statunitense, basato sul consenso, il fenomeno si fonda sull’ipotesi della “bontà” e giustizia contenuta nella legge», anche se rimane aperto «il problema relativo a chi deve giudicare della bontà e giustizia della legge e al reperimento di parametri validi, che, peraltro, nel contesto statunitense, trovano un punto di riferimento nella teoria politica incorporata nella costituzione». Ha aggiunto poi che «sull’estraneità del fenomeno al sistema di diritto positivo dell’Europa occidentale non è il caso di insistere», anche se «le trasformazioni della democrazia avvenute negli ultimi trent’anni lo hanno reso familiare al nuovo ambito culturale dove esso si è presentato». In ogni caso, ha detto ancora, si tratta di un fenomeno che rimanda sempre «a un ordine concettuale diverso, sulla cui natura e sui cui contenuti si può discutere, ma che non può essere sottaciuto, e cioè rimanda ad un campo morale […] che fonda le stesse scelte politiche e le regole giuridiche che da queste vengono positivizzate. E quando questo collegamento si perde che sorge la esigenza di recuperalo mettendo in essere quelle forme protettive che, in ambito di sostanziale accettazione del principio democratico, si presentano anche sotto la forma di disobbedienza civile». Il disagio del diritto. Stato “punitivo” e disobbedienza civile, Giappichelli, Torino 1993, 188-189. (7) «All’interno della logica dello stato diritto», ha scritto ancora Teresa Serra, proponendo una visione affatto nuova del fenomeno, «la disobbedienza civile sembra toccare un problema di coscienza, cioè il problema del rapporto dirittomorale e, quindi non può pretendere il riferimento ad una sua base legale, mentre nello stato sociale, soprattutto nella sua forma degenerativa, si presenta come impegno politico e, come tale, sembra essere un dovere che si configura non solo come logica risposta e correttivo ad un cattivo funzionamento, ma anche come momento essenziale dello stesso funzionamento dello stato democratico». Op. cit., p.187. (8)J. Rawls, Un teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, tr. U. Saltini, Feltrinelli, Milano 1982, p. 303. (9) Ha scritto Hannah Arendt, che chiunque si occupi della disobbedienza civile, «in genere assume ad esempio condanne di uomini celebri quali Socrate ad Atene e Thoreau a Concord: dal loro comportamento i giuristi traggono motivo di sostegno per la tesi che la trasgressione della
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legge si giustifichi solo nel caso in cui il trasgressore accetti, e perfino solleciti, la sanzione penale del suo atto». La disobbedienza civile, cit., p.31. Va subito detto che la stessa Arendt non appare convinta dell’analogia tra il caso di Socrate e quello di Thoreau, come dicono queste parole: «Il caso di Thoreau, sebbene molto meno drammatico – fu costretto a passare una notte in prigione per avere rifiutato di pagare l’imposta elettorale a un governo che riconosceva la schiavitù, ma il giorno dopo permise a una zia di farlo per lui – a prima vista sembra più pertinente al nostro dibattito, perché, al contrario di Socrate egli protestava contro l’ingiustizia delle stesse leggi». Op. cit., pp. 40-41. (10) Critone, in Dialoghi, vol. I, tr, Manara Valgimigli Laterza, Bari 1950, p.82. (11) Op. cit., p. 84. (12) Teresa Serra ha scritto che «la disobbedienza civile si impone come il dovere, altrettanto etico, di rappresentare pubblicamente il dissenso, caratterizzandosi così non solo in relazione a motivi coscienziali ma anche a fattori politici». Il disagio del diritto, cit., p. 192. Ho ritenuto di differenziare questi due termini, considerandoli due forme di opposizione distinte, in quanto pur essendo la disobbedienza civile anch’essa una manifestazione di dissenso, nella seconda metà del Novecento è stato universalmente indicata con il temine “dissenso” l’opposizione al regime comunista degli intellettuali sovietici, che si è manifestata in forme che nulla avevano da vedere con la disobbedienza civile, se non altro perché nel loro paese non esistevano le condizioni – più volte indicate nel corso di questa nota – che ne consentivano la pratica. (13) John Rawls sostiene – e ritenendo giusta la sua considerazione, non ho parlato di questa terza “forma di opposizione” – «che nelle situazioni reali, non c’è alcuna distinzione nella vita la disobbedienza civile e l’obiezione di coscienza», e che «la stessa azione (o sequenza di azioni) può possedere rilevanti elementi di entrambe». Una teoria della giustizia, cit., p. 308. Per completare il discorso, ricordo che Rawls sosteneva «che l’ obiezione di coscienza è la mancata osservanza a un’ingiunzione giuridica o a un provvedimento amministrativo più o meno diretti», e che, a differenza della disobbedienza civile «non è una forma di appello che si richiama al senso di giustizia della maggioranza»; ed è per questo che solitamente «non è un atto compiuto in pubbli-
co», come ad esempio, mi permetto di ricordare, il rifiuto di prestare servizio militare, ove esso è obbligatorio. Op. cit., pp. 306 e 307. – Non del tutto convincete appare, dal momento che anche un atto di disobbedienza civile può essere messo in atto da un singolo individuo, l’argomento di Hannah Arendt, la quale ha scritto che occorre «stabilire una distinzione tra l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile, in quanto quest’ultima riguarda minoranze organizzate, unite da decisioni comuni piuttosto che da una comunanza di interessi, e dalla volontà di opporsi alla politica governativa anche quando si ritenga che essa goda dell’appoggio della maggioranza». La disobbedienza civile, cit., pp. 36-37. (14) J. G. Fichte, “Rivendicazione della libertà di pensiero di fronte ai principi dell’Europa che finora l’hanno calpestata”, in Sulla Rivoluzione francese. Sulla libertà di pensiero, a cura di V.E. Alfieri, Laterza, Bari 1966. La Rivendicazione era chiaramente ispirata al pensiero di Jean-Jacques Rousseau, come dimostrano questi passaggi: «Si può […] dire che l’uomo ha diritto alle condizioni sotto le quali soltanto egli può agire conformemente al dovere; e ha diritto alle azioni che il suo dovere esige. A tali diritti non si può rinunziare: essi sono inalienabili. Di alienarli noi non abbiamo il diritto». E poco dopo: «La società civile si fonda su un […] contratto di tutti i membri con uno, o di uno con tutti e non può fondarsi su nessun’altra cosa, poiché è assolutamente contrario al diritto lasciarsi imporre leggi da un altro invece che da se stesso. […] In questo contratto sociale ogni membro rinuncia ad alcuni dei suoi diritti alienabili a condizione che anche gli altri membri rinunzino ad alcuni dei loro». Op. cit., pp. 13 e 14. (15) Contributo per rettificare i giudizi del pubblico sulla Rivoluzione francese, in op. cit., p. 54. Il medesimo argomento si incontra, in termini più moderati, “liberali” direi, senza alcun accenno alla rivoluzione, al paragrafo 240 del XIX capitolo del Secondo trattato di Locke, dove il filosofo inglese scriveva: «Qui è probabile che si farà la solita domanda: “Chi giudicherà se il principe o il legislativo agiscono in modo contrario alla fiducia posta in loro?”. […] Al che rispondo: il popolo sarà giudice, perché chi giudicherà se il fiduciario o deputato agisce bene e conformemente alla fiducia in lui riposta, se non colui che lo deputa e, per averlo deputato, deve conservare il potere di licenziarlo, quando egli manca alla
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sua fiducia?». “Secondo trattato sul governo”, in Due trattati sul governo, cit., p.435. (16) Contributo per rettificare i giudizi del pubblico, cit., p.65 (17) Op. cit., p. 67. (18) Dopo avere sostenuto con forza la tesi kantiana secondo cui «le nostre rappresentazioni non si accordano mai né si potrebbero accordare con le cose in sé», scriveva che «oltre a questa verità riferentesi al mondo sensibile, esiste ancora un’altra, in un senso infinitamente più alto della parola; qui infatti noi non conosciamo sulla base iniziale della percezione la natura data delle cose, ma dobbiamo noi stessi produrla mediante la più pura e la più libera spontaneità conforme ai concetti originari del giusto e dell’ingiusto». Rivendicazione della libertà di pensiero, cit., p.21. (19) «A nessuno, tranne che all’individuo stesso, è lecito determinare la scelta, la direzione, i limiti del proprio intendere». Op. cit., p. 26. (20) Il primo a segnalare gli inconvenienti del “principio di maggioranza”, è stato, come è noto, Alexis de Tocqueville, il quale, dopo avere detto che «a mano a mano che i cittadini divengono più uguali e più simili, la credenza di ognuno a credere ciecamente in un altro uomo o in una certa classe diminuisce. La disposizione a credere nella massa aumenta, ed è sempre più l’opinione comune a guidare il mondo», aggiungeva che «il pubblico gode […] presso i popoli democratici di un singolare potre, di cui i paesi aristocratici non potevano neppure farsi un’idea: non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma la impone e la fa penetrare negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello spirito sull’intelligenza di ciascuno», e riteneva probabile «che il dominio intellettuale della maggioranza numerica sarebbe meno assoluto presso un popolo democratico soggetto a un Re che non in un democrazia pura; sarà però sempre assoluto, e, qualunque siano le leggi che governano gli uomini in tempo di uguaglianza, si può prevedere che la fede nell’opinione pubblica diverrà come una specie di religione di cui la maggioranza sarà il profeta». E concludeva: «Quanto a me, allorché sento la mano del potere che mi preme sul collo, poco m’importa di sapere chi è che mi opprime; e non sono maggiormente disposto a chinare la testa sotto il gioco, per il solo fatto che mi viene presentato da un milione di braccia». “La democrazia in America”,
in Scritti politici, a cura di N. Matteucci, Utet, Torino 1973, pp. 498, 499, 500. (21) “Una teoria della giustizia”, cit., p. 302. - Nel 1958, Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca hanno scritto che «il luogo della quantità, la superiorità di quanto è ammesso dalla maggioranza, costituisce il fondamento di alcune concezioni della democrazia, ad anche di quelle che assimilano la ragione al senso comune. [….] I luoghi della qualità compaiono, nell’argomentazione, e si possono cogliere nel modo migliore, quando si contesta la virtù del numero. Sarà questo il caso dei riformatori, di coloro che si rivoltano contro l’opinione comune». Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, tr. C. Schik, M. Mayer, E. Barassi, pref. N. Bobbio, voll. 2, Einaudi, Torino 1976, I, pp. 92 e 94. (22) La disobbedienza civile, cit., p. 39. (23) Op. cit., p. 46. (24) G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. E. De Negri, intr. G. Cantillo, voll.2, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 2008, I, p. 70. (25) La disobbedienza civile, cit., pp. 31 e 48. - «C’è una differenza fondamentale», ha scritto ancora, «tra il criminale che si prende cura di nascondere a tutti gli sguardi i suoi atti riprovevoli e colui che fa atto di disobbedienza civile sfidando le autorità e costituendosi come portatore di un altro diritto. Questa distinzione necessaria tra una violazione aperta e pubblica della legge e una violazione clandestina è talmente evidente che il rifiuto di prenderne atto potrebbe provenire solo dal pregiudizio e dalla cattiva volontà». E aggiungeva, riprendendo un argomento che abbiamo già incontrato, che «riconosciuta ormai da tutti gli autori seri che affrontano tale argomento, la distinzione è ovviamente invocata come argomento principe a tutti coloro che si sforzano di far riconoscere che la disobbedienza civile non è incompatibile con le leggi e le istituzioni pubbliche degli Stati Uniti». Op. cit., p. 58. Ha detto ancora che nonostante «la disobbedienza civile sia compatibile con lo spirito delle leggi americane, la difficoltà di incorporarla nel sistema giuridico americano di trovarle una giustificazione puramente giuridica appare insormontabile. Ma questa difficoltà proviene dalla natura generale del diritto e non dallo spirito particolare dell’ordinamento giuridico americano». Op. cit., p. 85. (26) “Dissenso”, ad vocem, in Dizionario di politica, a cura di N. Bobbio e N. Matteucci, Utet,
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Torino 1976. Ha aggiunto poi che esiste una «soglia oltre la quale il dissenso diventa protesta violenta, disobbedienza civile o opposizione, anche anti-sistema», una soglia che viene «superata quando vengono messe in dubbio la legittimità del sistema e le sue regole del gioco». (27) “Disobbedienza civile”, ad vocem, in op. cit. – I fattori che caratterizzano la disobbedienza civile e non trovano riscontro presso altre manifestazioni di rifiuto della legge, sono stati così indicati da Teresa Serra: «Perché si possa palare di disobbedienza civile è necessario che vi sia una violazione intenzionale, disinteressata, pubblica e pubblicizzata di una legge valida, emanata da un’autorità legittima. / «E’ necessario che questa violazione venga fatta con la precisa consapevolezza che sia doveroso violare una determinata legge […]. / La violazione deve essere fondamentalmente non violenta, in quanto, se vuole essere coerente, non può essere lesiva dei diritti su cui si fonda. / Colui che viola una legge a scopo di mettere in atto la disobbedienza civile non deve rifiutare la sanzione inerente alla violazione. / La violazione non deve riflettere interessi o vedute personali ma deve essere espressione di un coscienza sociale». Il disagio del diritto, cit., p.190. (28) Una teoria della giustizia, cit., p.295. (29) Op. cit., pp. 303 e 304. La disobbedienza civile, ha scritto Teresa Serra, riprendendo il discorso sugli elementi che la indicano come tale, «è senz’altro un atto di volontà di opposizione che non si esplica in base a spinte particolaristiche bensì sulla base di un’opinione condivisa, una coscienza comune; essa non è rivolta contro la comunità in quanto tale e contro l’ordinamento vigente nel suo insieme, ma contro leggi determinate e contro politiche specifiche che risultano contrarie al principio comunitario o all’interesse generale». Il disagio del diritto, cit., pp. 190-191. (30) «Una teoria costituzionale della disobbedienza civile», scrive Rawls, «è formata da tre parti. Primo: definisce questo genere di dissenso e lo separa da altre forme di opposizione democratica all’autorità. […] Secondo: essa stabilisce le ragioni della disobbedienza civile e le condizioni in cui una simile azione è giustificata in un regime democratico (più o meno) giusto. Terzo: la teoria dovrebbe spiegare il ruolo della disobbedienza civile in un sistema costituzionale e rendere conto dell’appropriatezza di questo modo di protesta in una società libera». Op. cit.,
p. 302. (31) Op. e loc. cit. – Teresa Serra ha ulteriormente chiarito che «la disobbedienza civile sorge […] in contrasto con ogni tipo di resistenza, proprio perché sottintende il consenso di fondo all’ordinamento che è supposto conservare la sua legittimità. Il problema dell’obbligo politico o giuridico si sposta così dal piano della singola norma, o della singola policy, che si contesta, al piano complessivo dell’ordinamento che non viene contestato e al cui interno si cercano i motivi di coerenza per invalidare o confermare le singole norme». Il disagio del diritto, cit., p.196. (32) Op. cit., p. 303. (33) Ha scritto Rawls che occorre definire «i generi di ingiustizia che rappresentano oggetti appropriati per la disobbedienza civile. Se si considera una simile disobbedienza come un atto politico rivolto al senso di giustizia della comunità, sembra allora ragionevole limitarlo, a parità di condizioni, a esempi di ingiustizia sostanziale ed evidente, e preferibilmente a quelli che rappresentano un ostacolo per l’eliminazione di altre ingiustizie. Per questa ragione, esiste una presunzione favorevole alla restrizione della disobbedienza civile a gravi violazioni del primo principio di giustizia, cioè dl principio dell’eguale libertà, e patenti violazioni della seconda parte del secondo principio, il principio dell’equa eguaglianza delle opportunità», anche se, concludeva, «non è sempre facile dire se questi principi sono rispettati». Op. cit., p. 309. Per quanto riguarda i due “principi di giustizia”, cui qui Rawls si riferisce, cfr. op. cit., pp. 11 sgg. (34) Op. cit., p.318. (35) Op. cit., p.310. – Teresa Serra ha giustamente osservato che nel dibattito sulla disobbedienza civile «si presenta il problema del limite che essa deve incontrare, oltrepassando il quale […] perde il suo aspetto di risposta ad una incoerenza o ingiustizia che si realizza all’interno di un sistema che si considera coerente e giusto, quindi perde il suo aspetto equilibratore tra conservazione e innovazione, tra diritto e politica, per definirsi come espressione dell’incapacità della minoranza di accettare di essere tale e della sua volontà di imporre le sue opinioni contro la maggioranza». Il disagio del diritto, cit., pp.194-195. (36) Op. cit., p.311. (37) Op. cit., p. 304. (38) «Nel giustificare la disobbedienza civile non si fa appello ai principi della moralità personale o
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alle dottrine religiose, sebbene possano coincidere con le proprie istanze e appoggiarle; e non c’è bisogno di dire che la disobbedienza civile non può essere fondata sull’interesse personale o di gruppo. Si fa invece appello alla concezione della giustizia pubblicamente condivisa che sottostà all’ordinamento politico» Op. e loc. cit. – Hannah Arendt, riprendendo il tema dell’obiezione di coscienza, ha introdotto un argomento piuttosto complesso, ma che chiaramente riguarda soltanto gli Stati Uniti d’America: quello secondo cui «il peso politico da accordare alle decisioni morali – decisioni prese in foro conscientiae – si è ancora più seriamente complicato a causa delle connotazioni dapprima religiose e poi laiche che la nozione di coscienza ha acquistato sotto l’influenza della filosofia cristiana». Per questo motivo, ha aggiunto, «la legge anche se tardi e non certo in tutti i paesi ha riconosciuto l’obiezione di coscienza ispirata da motivi religiosi, ma solo nel caso sui essa facesse riferimento ad una Legge divina di un qualche gruppo religioso riconosciuto, che non potesse essere ignorato da nessuna comunità cristiana». E ha concluso che «la crisi profonda, attraversata oggi dalle Chiese, e il numero crescente degli obiettori di coscienza che non fanno appello a nessuna istituzione religiosa, intendano o meno giustificare i loro scrupoli con l’osservanza di una legge divina, hanno creato grosse difficoltà». La disobbedienza civile, cit., pp. 46 e 47. (39) La disobbedienza civile, cit. p. 64. (40) Op. cit., p. 41. (41) La disobbedienza civile, cit., pp.607-608. (42) Op. cit., p. 610. (43) Fenomenologia dello spirito, cit., II, p. 183. (44) La disobbedienza civile, cit., p. 68. – «L’impossibilità del riconoscimento giuridico della disobbedienza civile nell’ambito di uno stato di diritto è manifesta, ma ci si deve anche chiedere se tale incompatibilità è ancora reale nel momento in cui lo stato sociale ha fatto venir meno i capisaldi dello stato di diritto. Venuta meno la certezza del diritto, e definito un campo nuovo della promozionalità e punibilità , non si ripropone in termini diversi il problema del riconoscimento della disobbedienza civile anche in quelle democrazie che finora non ne erano state toccate? In esse il dovere di disobbedire alla legge che non si accetta non diventa anche un impegno politico oltre che un dovere logico e morale?» T. Serra, Il disagio del diritto, cit., p.183.
(45) La disobbedienza civile, cit., p. 68. (46) «Bisogna tuttavia riconoscere», scriveva, «che separare queste due idee significa dare una definizione di disobbedienza civile più ristretta di quella tradizionale; è infatti normale considerare la disobbedienza civile in un senso più ampio, come una qualsiasi mancata osservanza alla legge per ragiono di coscienza, per lo meno quando non è segreta e non implica l’uso della forza. Il saggio di Thoreau è caratteristico, se non esaustivo, per questo significato tradizionale». Una teoria della giustizia, cit., p.306. (47) Una teoria della giustizia, cit., p.305. (48) Op. cit., pp.304-305. (49) Per le ragioni che preliminarmente indica, Rawls afferma che «la disobbedienza civile è non violenta. Essa tenta di non ricorrere all’uso della violenza, in particolar modo contro le persone, non a causa di un rifiuto di principio dell’uso della forza, ma per il significato profondo della stessa azione. Impegnarsi in azioni violente che possono danneggiare o ferire è incompatibile con la disobbedienza civile in quanto forma di appello politico. In realtà», conclude Rawls con accenti kantiani, «qualsiasi interferenza con i diritto civili degli altri tende a oscurare la connotazione di disobbedienza civile di un’azione». Op. cit., p.304. (50) Op. cit., p. 305. (51) Il disagio del diritto, cit., p. 192. (52) “Dissenso”, ad vocem, cit. (53) Le origini del totalitarismo, tr. A. Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1957, p. 638. (54) «Sovraccarico di particolari», ha scritto lo storico americano, «e intessuto a getto continuo di spiegazioni troppo ardite per avere persuasivo fondamento nei dati di fatto», Le origini del totalitarismo si segnalava soprattutto per il suo «dilettantismo storico» e la «ricerca strenua di colpi ad effetto». I suoi lettori «forse non si resero conto che molto di ciò che essi avevano assimilato nel corso della lettura era o dubbio o completamente errato». Per esempio, presentava «il comunismo sovietico come fosse l’equivalente ideologico del nazismo, senza dare una precisa ragione dell’analogia» e «la sua convinzione di fondo che il totalitarismo fosse un fenomeno analogo alla pazzia le precluse ogni possibilità di capire la logica economica dell’azione pratica del comunismo sovietico», ove invece «nel caso del nazismo si mostrò in grado di fornire un quadro
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ideologico completo», anche se, nonostante il termine “totalitarismo” «era stato coniato d Mussolini», la Arendt «trascurò il suo inventore italiano, nonché quel suo tipo di regime che in epoca fascista era stato ammirato e imitato assai più di quello praticato da Hitler». Da sponda a sponda. L’emigrazione degli intellettuali europei e lo studio della società contemporanea (1930-1965), tr. A. Ca’ Rossa, Il Mulino, Bologna 1977, pp. 170, 171, 173. (55) Da sponda a sponda, cit. p.172 (56) Op. e loc. cit., (57) “Che cos’è la libertà?”, in Tra passato e futuro, tr. M. Bianchi di Lavagna Malagodi e T. Gargiulo, Vallecchi, Firenze 1970, pp. 160, 162, 163, 169. – In uno dei suoi critti postumi sosteneva che «è davvero difficile realizzare che vi è un ambito in cui dobbiamo essere veramente liberi, cioè né spinti da noi stessi né dipendenti da un materiale dato. La libertà esiste soltanto nel peculiare infra della politica». Che cos’è la politica?, a cura di U. Ludz, pref. K. Sontheimer, tr. M. Bistolfi, Edizioni di Comunità, Milano 1995, p.7. (58) Cfr., il vecchio, ma non invecchiato, lavoro di D. Fisichella, Analisi del totalitarismo, D’Anna, Messina-Firenze 1976. (59) Op. cit. pp.32, 34 e 34-35. (60) Op. cit. pp. 86-87. (61) Op. cit., p. 94. (62) A parte la dura condanna nei confronti dei processi contro i “dissidenti”, come quello contro Sinyavski e Daniel, che aveva «compromesso il sistema comunista agli occhi di molti», e quello, che considerava una «vergogna», contro Kahustov e Bukovski, condannati a tre anni di campo di concentramento per aver partecipato a una riunione in difesa dei loro compagni» (Op.
cit., 89 e 91), Sacharov esprimeva anche un giudizio non proprio lusinghiero sulla storia dell’Unione Sovietica: «Il fascismo», scriveva, «è durato in Germania per dodici anni. Lo stalinismo in Unione Sovietica è durato due volte tanto. I due fenomeni hanno molti punti in comune, ma presentano anche delle differenze. Lo stalinismo si è presentato come una forma più demagogica più sottile e ipocrita. La sua base ideologica non è stata l’aperta proclamazione di un programma chiaramente cannibalistico come quello di Hitler, ma un’ideologia socialista progressiva, scientifica ed popolare. / Un’ideologia di questo genere era un ottimo schermo per ingannare la classe operaia e indebolire la vigilanza degli intellettuali e degli altri concorrenti nella lotta per il potere». Op. cit., p.71. (63) Solženicyn e l’Occidente. Il discorso di Harvard e l’eco nella stampa, a cura del Circolo “Stato e libertà”, Stabilimento grafico fratelli Lega, Milano 1979, p. 9. (64) Op. cit., pp.13 e 13-14 (65) Il disagio del diritto, cit., p.191. – Mi permetto rinviare al mio, “La libertà dei moderni e quella dei contemporanei”, in Natura Storia Società. Scritti in onore di Mario Alacaro, a cura di M. Bufalo, G. Cantirano, P. Colonnello, Mimesis, Milano-Udine 2010, pp.447-480. (66) «Coloro che sono amanti della libertà e vogliono evitar quella sciagura ch’è per essi il giogo della servitù, si guardino dal desiderio sfrenato di una libertà inopportuna, causa di sciagure quali ebbero a patire per la loro eccessiva anarchia i loro antenati, trascinati da un desiderio sfrenato di libertà». “Lettera ottava”, in Platone, Opere complete, 8, tr. A, Maddalena e G. Silliti, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 55.
Il graduale sviluppo dell'uguaglianza è un fatto provvidenziale; e ne ha i caratteri essenziali: è universale, duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell'uomo, tutti gli avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne hanno favorito lo sviluppo. Sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale che ha così lontane origini possa essere arrestato da una generazione? C'è forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? È possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli? Alexis de Tocqueville 20
UOMINI E IDEE
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La lezione di Giacomo Matteotti Il tempo che regge la memoria più di quanto non avvenga per l’uomo il 10 giugno di ogni anno ci ricorda del delitto Matteotti suggerendoci di indicare alle giovani generazioni quale sia il significato storico del sacrificio che Egli fece della sua vita nel lontano 1924, anno cruciale per la democrazia italiana. Anche quest’anno in occasione della ricorrenza del delitto la Fondazione al cui nome ed al cui insegnamento è dedicata lo ha ricordato assieme al Circolo Culturale Giuseppe Saragat e Giacomo Matteotti attraverso un intervento del Presidente della Fondazione. Alla commemorazione realizzata nel Lungotevere Arnaldo da Brescia hanno partecipato giovani studenti del Liceo Giuseppe Peano di Monterotondo, guidati dalla Prof.ssa Monica Cartia, intenti ad approfondire in sede di lavoro scolastico la vita e l’opera di Matteotti.
Il nostro ricordo si unisce a quello di quanti si riportano con la memoria a 88 anni fa, quando Giacomo Matteotti veniva barbaramente ucciso dai nemici della democrazia e del socialismo. Noi lo vogliamo ricordare traendolo fuori da ogni disputa ideologica che finirebbe col mummificarlo nel sarcofago di un passato esangue degno di venerazione da parte solo dei credenti di una fede politica arroccata a tempi superati, difficili da rivitalizzare. Se lo sguardo rivolto al passato ci costringe a restituire a Matteotti la sua appartenenza ad un movimento politico che in nome di un riformismo realistico doveva contrastare, con fermezza, fierezza e asprezza un massimalismo ai suoi occhi improduttivo, guardando al presente e al futuro, un presente politicamente sconnesso e un futuro dal destino incerto, l’omaggio migliore che
possiamo rivolgere alla vittima sacrificale per il socialismo e per la democrazia è tirarlo fuori dalle dispute ideologiche e dai vecchi rancori che hanno segnato la storia del socialismo italiano. L’insegnamento che ci viene dal ricordo della sua vita e dai suoi ideali è patrimonio che appartiene ormai a tutti, perché tutti oggi hanno bisogno di guardare a lui come l’esempio più alto di dedizione alla costruzione di una società giusta ed equa. I fatti sono ormai noti, anche se gli storici lavorano a chiarire qualche elemento per definire la responsabilità del delitto. La bibliografia su questo illustre personaggio della democrazia è ormai sterminato. C’è comunque un processo di revisione già in atto. In questa direzione va il libro del revisionista per antonomasia: Canale, col volume Delitto Matteotti. Il problema è importante e speriamo che si giunga ad una verità definitiva. C’è chi invece mira a presentarci una ricostruzione dell’intero arco della vita di Matteotti, dagli austeri studi giuridici alla politica attiva nella sua terra segnata dalla povertà contadina, nella partecipazione costante alla vita amministrativa di alcuni comuni, fino alla vita parlamentare e alla tragica morte. Il lavoro pubblicato dallo storico Giampaolo Romanato, dal titolo Un italiano diverso. Giacomo Matteotti (Longanesi) risponde pienamente a tale compito. Ma noi oggi, giorno di commemorazione dell’ottantottesimo anno della morte non siamo chiamati a ripercorrere le vicende della luminosa vita di Matteotti: dobbiamo invece ricordare cosa ha significato il delitto che ha come
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itinerario il lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma e Riano Flaminio e come arco di tempo il 10 giugno del 1924, giorno del rapimento, e il giorno di ritrovamento del cadavere. Cominciando dalla reazione popolare che ha finito col ridurre Matteotti a un mito al significato oggi della lezione matteottiana. E’ noto che il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti, deputato del Partito Socialista, sta camminando sul Lungotevere quando viene aggredito da un gruppo di uomini, che dopo una colluttazione riescono a caricarlo su una macchina. Da questo momento in poi Matteotti sparisce. Il suo cadavere verrà ritrovato solo due mesi dopo, in avanzato stato di decomposizione, a 25 chilometri dalla Capitale. Considerando che il deputato socialista aveva ripetutamente contestato il Partito fascista e aveva denunciato gli abusi commessi dagli esponenti del Partito stesso alle elezioni dell’aprile del 1924, appare evidente che si tratta di un omicidio politico. Inoltre al momento del rapimento l’uomo portava con sé una borsa, all’interno della quale c’era una vasta documentazione che provava l’alto tasso di corruzione nel regime, i cui membri avevano truffato lo Stato per arricchirsi. Dunque, dopo il delitto si pone il problema delle responsabilità: chi è stato ad uccidere Matteotti? Gli esecutori materiali vengono individuati in Albino Volpi, Amerigo Dumini, Amleto Poveromo, Augusto Malacria e Giuseppe Viola. Si tratta di uomini della Ceka fascista, la polizia segreta del regime. Nel procedimento giudiziario aperto nei loro confronti a due anni dal delitto, i primi tre vengono condannati alla pena, che può quasi essere definita simbolica, di 5 anni e 11 mesi di reclusione, mentre gli altri due vengono assolti. Ma il processo non risolve la questione del mandante. Dall’opposizione partono accuse contro Benito Mussolini e anche parte dell’opinione pubblica è convinta della responsabilità del Duce nella vicenda.
Mussolini in un primo momento nega, ma poi fa dietrofront e rivendica la responsabilità morale dell’omicidio nel discorso del 3 gennaio 1925, che viene da più parti considerato come il punto di inizio del fascismo. Sul nome del mandante, non ci sono ancora certezze. Secondo alcuni ad ordinare l’omicidio sarebbe stato Giovanni Marinelli, capo della polizia segreta del regime, mentre altri individuano la responsabilità in sottogruppi del Partito fascista. Secondo una terza ipotesi, infine, sarebbe stato Mussolini in persona ad ordinare alla Ceka di far tacere quel deputato scomodo che ostacolava la sua corsa al potere totalitario. Dicevamo che la notizia del delitto favorì la nascita di un mito. Oggi dobbiamo restituire alla figura di Matteotti il valore di mito che egli ebbe nel momento della sua morte, riconducendolo al valore che esso può avere in questo momento critico per la vita politica del nostro Paese. La nostra memoria può tornare a quel 10 giugno del 1924 per cogliere il grado di sconforto in cui gli spiriti democratici italiani e europei si trovarono a vivere, ma anche il valore simbolico che quella morte generò nell’immaginario collettivo. Nella collana che raccoglie le Opere di Giacomo Matteotti, curata da Stefano Caretti presso l'editore Nistri-Lischi di Pisa, un volume è dedicato al «mito» Matteottl. Sono trecento pagine di testimonianze, documenti, lettere, articoli che mostrano con quanta forza, dal giorno del suo rapimento sul Lungotevere Arnaldo da Brescia il parlamentare polesano assassinato dal fascismo sia entrato nei cuore popolare. In tutta Europa, non solo in Italia. È uno dei nomi che ricorre con maggior frequenza nella toponomastica del nostro Paese, ma vie, busti, bassorilievi gli sono stati dedicati anche all'estero, in Francia, Belgio, Svizzera, America Latina, in Austria, dove gli fu intitolato un intero quartiere di abitazioni popolari di Vienna, il Matteotti-hof. La sua memoria è entrata nella migliore: letteratura europea: è
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ricordato nelle opere di Miguel de Unamuno, Stefan Zweig, George Orwell, Ivo Andric, Marguerite Yourcenar, Leonardo Sciascia. È una delle grandi figure dell'immaginario novecentesco, simbolo dovunque di libertà, di resistenza alle dittature, di coraggio intrepido spinto fino al totale sacrificio di sé. Durante il fascismo, quando il suo nome poteva costar caro anche soltanto a pronunciarlo, fotografie, immagini, ricordi e frasi di Matteotti venivano conservati gelosamente e nascostamente, celati nei portafogli, rinchiusi negli armadi, appesi ai muri di casa più riparati e inaccessibili. La trasfigurazione del personaggio fu immediata. Sandro Pertini, in una lettera scritta pochi giorni dopo la scomparsa, quando non era ancora sicuro che fosse stato assassinato, lo chiama già «il grande Martire». II personaggio subì una specie di santificazione laica, avviata dall'ispirata commemorazione che ne fece Filippo Turati il 27 giugno, due settimane dopo la sparizione, in una sala di Montecitorio davanti alle opposizioni riunite,. Con straordinaria padronanza della parola e accorto dosaggio dei sentimenti, Turati sublimò la morte dell'amico e del compagno alzandola fino al livello di un lavacro battesimale. Questo il suo esordio: «Noi non commemoriamo. Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito religioso, che è il rito stesso della Patria. Il fratello, quegli che io non ho il bisogno di nominare, perché il Suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore, al di qua e al di là dell'Alpe e dei mari, non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante; Egli è un accusatore; Egli è un giudicatore; Egli è un vindice». E continuò: «Invano gli avranno tagliuzzato le membra... Le membra si sono ricomposte. Il miracolo di Galilea si è rinnovato [...] L'avello ci ha reso la salma. Il morto si leva. E parla». Proprio a commento di quell'orazione funebre, pronunciata quando ancora il
cadavere non era stato ritrovato, il sacerdote ex modernista Ernesto Buonaiuti, uno dei maggiori intellettuali del tempo, da poco colpito da scomunica per le sue opinioni teologiche giudicate pericolose dal Vaticano, scrisse un articolo sul “Mondo”, il giornale di Giovanni Amendola, nel quale andava oltre le parole di Turati e paragonava la morte di Matteotti al sacrifìcio di Cristo: «L'orazione è stata squisitamente religiosa: tutta soffusa di un meraviglioso alito cristiano». E aggiunse che l'oratore era «stato il ministro inconsapevole di una cerimonia battesimale», perché «ogni stilla di sangue versato per la tutela di una causa santa» acquista «una taumaturgica virtù di proselitismo ed una prodigiosa capacità di riscatto». Il giornale postillò l'articolo di Buonaiuti scrivendo che «in quest'ora solenne della vita nazionale» esso documentava «la profonda significazione e la trasfigurazione ideale che nelle anime più fervidamente cristiane assume il sacrificio di Matteotti a simbolo della nuova redenzione civile». Sappiamo che in quei giorni roventi dell'estate del 1924 l'imponente ondata di indignazione e di cordoglio suscitata dalla scomparsa di Matteotti — un evento che secondo Luigi Sturzo «commosse tutto il mondo civile» - fece vacillare il regime fino al limite del collasso. Da vivo era una voce che si poteva zittire. Da morto divenne un'ombra inafferrabile e paurosa, un testimone che con il suo silenzio parlava più forte di quanto avrebbe potuto fare con le parole. Passato il momento di commozione e superata la crisi, divenne un simbolo, disprezzato dagli uni, sacralizzato dagli altri. Per tutto il ventennio Matteotti continuò a vivere tanto per i fascisti, che cercarono in tutti i modi di cancellarne il ricordo, obbligando addirittura i famigliari a tenere per alcuni anni la salma nascosta, quanto per gli antifascisti, che ne coltivarono la memoria con religiosa attenzione. Il suo mito crebbe e si fissò attorno a questi senti-
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Angelo G. Sabatini
menti contrapposti, che rendevano impossibile storicizzarne la figura e l'operato. Piero Calamandrei intervenne alla Costituente e ricordò «il popolo dei morti» il cui sacrificio illuminava l'opera di chi si apprestava a varare la nuova Italia democratica, il primo nome che ricordò fu quello di Giacomo Matteotti. Dopo il fascismo il suo nome divenne una bandiera, uno stendardo glorioso da alzare in tutti i momenti solenni e davanti al quale era doveroso inchinarsi. Oggi lo riconosciamo come protagonista di un momento fondamentale della vita civile del nostro Paese. Quel primo ventennio del Novecento che vide la crescita tumultuosa della democrazia e della partecipazione popolare e poi, nel periodo drammatico che precedette e seguì la Prima guerra mondiale, la crisi e il crollo delle istituzioni liberali. Uomo del post-Risorgimento, estraneo alle mitologie dell’'unificazione, Matteotti appartiene alla generazione dei Prezzolini, dei Papini, di coloro cui importava il futuro, non il passato. Scontenti, ribelli, inquieti. Aveva la stoffa e la preparazione dell'intellettuale, con solidi studi di diritto e di economia. Ma in lui era più forte la sensibilità del politico, dell'uomo d'azione. Viveva in una provincia povera, depressa, dove i contrasti fra miseria e ricchezza erano sfrontati e i rapporti sociali dominati dall'ingiustizia e dalla prepotenza. Allora il socialismo era sinonimo di lotta di classe, di rivoluzione. E Matteotti fu un rivoluzionario. Contro i suoi interessi e contro la sua classe d'appartenenza, che non glielo perdonerà più. Essendo nato e vissuto in un piccolo paese rurale, in una provincia trascurata e semisconosciuta, potè vedere e quasi toccare con mano i limiti di un'Italia che era avanzata a spese delle sue componenti più deboli, scaricando su chi meno poteva e meno aveva i costi del progresso. Vivendo in campagna, dove avveniva proprio in quegli anni e davanti ai suoi occhi l'impressionante fenomeno dell' emigrazione, comprese più e meglio di
altri l'origine della frattura che spaccava l'Italia, le ragioni di una rivolta sociale e politica che crescerà fino a portare le istituzioni al collasso, in un conflitto del quale fu protagonista e vittima egli stesso. Filippo Turati, nel suo discorso pronunciato il 27 giugno del '24 in ricordo dell'amico assassinato, si rivolse all'Assemblea dei deputati di opposizione con una preghiera: «Vorrei che a questa riunione non si desse il nome logoro, consunto di "commemorazione". Noi non "commemoriamo"». E anche noi oggi non commemoriamo la morte di Matteotti, ma lo ricollochiamo nella nostra memoria per trarne insegnamento e stimolo a continuare a credere ad alcuni valori del riformismo socialista per la cui affermazione fu costretto ad offrire la propria vita. L'invito di Turati sia nostro: un invito a non consegnare al ricordo - o solamente al ricordo - il sacrificio di un uomo che pagò con la morte il suo implacabile atto d'accusa contro la soppressione della libertà e della legalità democratica. E' bene rammentare a noi stessi, e principalmente alle giovani generazioni, che è stato grazie all'adesione totale, spinta fino alla morte, ai principi di libertà, di giustizia, di uguaglianza, di tolleranza di uomini come Giacomo Matteotti che la nostra Repubblica ha visto la luce dopo il ventennio fascista. Il 1924 era l’anno in cui la logica della dittatura nascente, attraverso lo squadrismo, spingeva i nuovi barbari a compiere sull'altare della forza e della violenza il rito sacrificale di un nemico, il deputato Matteotti, considerato un ostacolo all’affermazione di un regime che allo strumento della ragione ha preferito quello della violenza. Per questa via, che è estranea allo spirito della civiltà moderna ma che è dura a morire nella prassi istitutiva delle dittature di ogni tempo, si compiva il destino di uno degli uomini più puri e rappresentativi della democrazia, in generale, e del socialismo riformista, in particolare. Il suo martirio, il cui significato per la
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storia politica italiana va oltre il mito di cui fu investito e oltre ogni ambito più strettamente ideologico, è posto al crocevia delle diverse strade da cui è stato attraversato un Paese, come l'Italia, proiettato alla realizzazione, in chiave moderna, del compito civile e politico che il Risorgimento aveva affidato alle nuove generazioni Matteotti fu uomo coraggioso e determinato nel difende la democrazia dagli attacchi che le venivano dalla nascente dittatura fascista. Era perfettamente consapevole dell'alto rischio a cui si esponeva, tant'è che al collega Giovanni Cosattini che lo raggiunse per congratularsi dell'intervento fatto in Parlamento contro Mussolini disse: «Però voi adesso preparatevi a fare la mia commemorazione funebre». Matteotti capì, prima di ogni altro, che non si trattava solo di ripristinare la legalità e di restaurare l'ordine democratico. Era necessario evitare che il fascismo si impadronisse dello Stato. Lanciò l'allarme del pericolo fascista come fenomeno anche europeo, non solo italiano. Giuliano Vassalli ricordandolo nell'ottantesimo anniversario della morte di Matteotti indicò in lui «il giovane alfiere del socialismo italiano». La sua vita è una pagina straordinaria di grandi idealità che lo portarono ad essere il socialista riformista che fu capace di tradurre il pensiero nell'impegno quotidiano. Fu un riformista convinto, nemico dell'estremismo; affidava all'azione politica fermezza di idee ma anche apertura alla comprensione della realtà su cui operare per migliorarla e farla progredire. Esemplificativo in questo senso mi pare questo brano tratto da una relazione dell'aprile 1923: «Rivedere la propria dottrina, saggiarla e aggiornarla al confronto dell'esperienza è cosa degna di un partito d'avvenire che vuole essere al tempo stesso un partito di realtà». In questo senso aveva una visione alta della politica e della missione di parlamentare.
I suoi interventi in Aula e nelle Commissioni parlamentari non conoscono la retorica, ci mostrano piuttosto lo scrupolo con cui egli raccoglieva cifre, dati, statistiche, prove inconfutabili. Passava ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, a preparare relazioni, a diramare circolari. Un esemplare di parlamentare ormai raro nel panorama della politica dei nostri tempi. Avverso alla politica dei compromessi praticata anche da molti suoi compagni, coerente avversario della guerra, riformista serio e coerente, uomo d'azione e un uomo di profonda cultura. Preciso, tagliente, coraggioso fino al punto di affermare: «uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai». Anche in questo era stato profetico. L'idea resiste, sopravvive e noi siamo chiamati a tenere vivo il suo insegnamento, al di là, come abbiamo detto, di ogni appartenenza politica, specialmente in quei momenti, come l'attuale, in cui la crisi della politica è crisi di ideali e di valori. E' nostro dovere fare in modo che quell'esempio resti attualissimo, che il nome di Matteotti non si legga solo in una via o in una piazza. Matteotti è stato per tutti gli antifascisti italiani, il simbolo della libertà, della passione civile, della lotta contro la violenza, contro la demagogia. Noi abbiamo il dovere di non disperdere quell'eredità di valori unificanti per i quali egli fu disposto all'estremo sacrificio. Ricordarlo oggi significa non solo capire la statura politica del personaggio, ma anche fornire sostegno e incitamento a coloro che ancora credono al riformismo come ad una formula di corretta organizzazione e di soddisfazione dei bisogni e dei diritti umani. Ricordare la sua figura significa rivisitare ancora una volta il valore della politica, per coglierne, al di là del pessimo uso che spesso se ne fa, la freschezza ideale e il potere di organizzazione dei diritti umani. Cosa possiamo oggi fare perché la memoria di questo grande antifascista
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Gaetano Pecora
non venga offuscata o offesa da atti poco nobili, come quello di un sindaco di una cittadina di volergli togliere il nome da una piazza? A noi spetta il dovere di intendere appieno il significato politico della sua partecipazione alle vicende del movimento socialista e dei suoi contributi alla vita e ai problemi del nostro Paese. Dobbiamo restituire alla sua figura di combattente socialista non soltanto la dimensione storica che gli compete, facendo convergere il nostro sentimento di venerazione verso una puntuale ricostruzione del suo pensiero e delle sue azioni politiche (cosa che, del resto, si sta facendo con pubblicazioni nuove e ricche di risultati) ma anche esaltare le sue virtù di autentico politico moderno perché sia di modello ai molti, e sono tanti, che siedono negli scanni del
Parlamento lontani dal sentimento etico dell’azione politica. L’entusiasmo con cui oggi gli rendiamo omaggio è il segnale di una disposizione palese in molti di noi a ricercare esempi nobili di uomini che per la libertà e la democrazia hanno affrontato difficoltà e persecuzioni fino al martirio. E Matteotti è il capostipite di un gruppo molto ampio di coloro che offrendo la propria vita hanno contribuito a fare dell’Italia un Paese moderno e civile. La memoria va ad Antonio Gramsci, Piero Gobetti, Giovanni Amendola e a tutti quelli che subirono il carcere in nome dell’antifascismo. Ad essi va la riconoscenza di tutti coloro che alla barbarie della tirannide preferiscono il progresso della civiltà nella libertà e nella giustizia.
Gaetano Pecora
Ernesto Rossi, un democratico europeo
Il volume, così amorevolmente curato da Antonella Braga e Simonetta Michelotti (1), si segnala per molte virtù: ma una in particolare spicca sulle altre. Ed è che grazie al contributo di numerosi studiosi, il lettore può rimontare la corrente ed attingere alle sorgenti, alle fonti prime che ispiravano l’azione di Ernesto Rossi, specie quando egli tirava per il bavero le barbe più venerande, denunciandone le malefatte e sbugiardandone le falsità. Capiremmo poco i sarcasmi de “Il Malgoverno”, comprenderemmo male l’aggressività di “Aria fritta”, intenderemmo poco e male i puntuti giudizi di “Settimo: non rubare” (tanto per citare i suoi titoli più famosi), se dimenticassimo che sarcasmi, denunce e polemiche a Rossi venivano per diritta via da letture intense, meditatissime e di cui il presente volume rende, fedele, la testimonianza. E diciamo la
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verità: in un’epoca come la nostra, dove si indulge al gusto plebeo di far colpo sul pubblico con il botto delle provocazioni clamorose, in un’epoca siffatta non è poco dimostrare per tabulas che uno dei più affilati tra i nostri polemisti fu precisamente un uomo di studi e di principi. E tra questi principi ce ne era uno in particolare che batteva sempre sullo stesso perno: non esistono valori e verità assolute, che come tali possano pretendere di dispiegare i loro effetti sempre e dappertutto, in ogni età e per ogni luogo. Valori e verità, sì, ma relative e dunque cangianti nel tempo e nello spazio: a questa convinzione si arpionava Ernesto e proprio da qui spremeva i succhi più autentici del suo laicismo liberale. “Il mio liberalismo – scrisse nel 1940 – era ed è l’espressione politica del mio scetticismo e della relatività che attribuisco ad
Ernesto Rossi un democratico europeo
ogni verità morale” (2). Perché? Perché, e in che senso, il relativismo (il mai sufficientemente abominato relativismo) può essere veicolo di libertà? Ma prima ancora: come è che Ernesto Rossi contestava la possibilità di procurare un fondamento oggettivo alle norme giuridiche e ai valori morali? Egli, nel carcere fascista, non poté aver sentore degli argomenti che in quel giro di tempo venivano impiegati contro l’etica dimostrativa, contro la pretesa cioè di dimostrare scientificamente un qualunque sistema del diritto o della morale. Pure, per proprio conto e con argomenti rigorosissimi, smantellò il meccanismo di coloro che stringevano in armatura di verità gli istituti giuridici e i valori etici; e che li corazzavano di verità questi istituti e questi valori radicandoli nel fatto incontestabile, oggettivo, che tutti (a loro dire) li avrebbe legittimati: il fatto della natura umana. Istituti e valori, dunque, giusti (universalmente e incontestabilmente giusti) perché conformi alla natura; e meglio ancora: perché inscritti, perché sigillati, perchè scolpiti nella natura dell’uomo. Da seguace della scuola empirica, Ernesto Rossi non ebbe difficoltà a denunciare il vizio di questo giusnaturalismo che magari assumeva sembianze di volta in volta diverse, e che pure rimaneva sempre se stesso nell’erronea derivazioni dei valori dai fatti, e da quel fatto in particolare che tutti li riassumeva, il fatto della natura umana appunto. I maggiori problemi della vita morale – ebbe a scrivere nel reclusorio di Pallanza – “non si possono risolvere senza ammettere per convenzione alcune premesse. Dico per convenzione perché non credo che si possa trovare alcun criterio scientifico per stabilire una scala di valori rispetto ai fini che si possono proporre agli uomini…Queste premesse possono essere d’accordo con la nostra coscienza, con la coscienza di noi singoli, ma non possono essere d’accordo con i fatti perché sono su un piano diverso” (3) Precisamente: sono su un piano diver-
so. Il punto è tutto qui: alla realtà – compresa la realtà della natura umana (ammesso e non concesso che se ne possa fornire una caratterizzazione univoca) alla realtà, dicevo, non è immanente alcun valore; mondo della realtà e mondo dei valori sono universi distinti e non comunicanti; non si può derivare un valore da un fatto o, come anche si dice, non è lecito inferire un giudizio di valore da un giudizio di fatto. Perché? Vale la pena premere sull’argomento, anche a prezzo di qualche noiosità didascalica, vale la pena insistere sull’argomento per l’importanza di quello che si dirà dopo (o meglio: che Ernesto Rossi dirà dopo). Dunque, perché non è lecito derivare un giudizio di valore da un giudizio di fatto? Per giudizio di fatto si intende quel giudizio che si esprime con il seguente enunciato: “è vero che…”. E’ un enunciato che espone, rappresenta, descrive qualcosa. Il giudizio di fatto è un giudizio descrittivo. Per giudizio di valore si intende quel giudizio che si esprime con il seguente enunciato: “è bene che…”. E’ un enunciato che consiglia, che raccomanda, che prescrive qualcosa. Il giudizio di valore è un enunciato prescrittivo. Ora, non si può fondare un giudizio di valore, se non ricorrendo ad un altro giudizio di valore, in un catena di richiami che può essere lunga quanto si vuole ma che sempre termina con il richiamo ad un valore ultimo, non ulteriormente fondabile, ed in quanto infondabile non oggettivo. Facciamo un esempio: perché è bene che il Napoli vinca lo scudetto? Perché è bene che vinca la squadra più meritevole. Perché è bene che vincano i più meritevoli? Perché giustizia vuole che primeggino i migliori. Perché è bene seguire i dettami della giustizia? Perché è bene… ecc. ecc. Come si vede, da un “è bene” siamo rinviati ad un altro “è bene”, mai ad un “è vero”; da un valore cioè non risaliamo ad un fatto ma siamo risospinti ad un altro valore, e da qui ad un valore ulteriore e poi incontro ad un altro valore
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ancora finché… finchè ci troveremo dinanzi ad un valore oltre il quale non sappiamo procedere. Questo valore è il valore ultimo. Ma proprio perché è ultimo non è dato dimostrarne il fondamento razionale. I valori ultimi non si fondano. Si assumono. E ogni assunzione è relativa al soggetto che la compie. Di qui il relativismo etico e l’irrazionalità che lo accompagna. “Sono pochi però – avvertiva Ernesto Rossi – coloro che riconoscono sinceramente l’irrazionalità di ogni motivo morale, perché ciò equivale a rinunziare a comprendere le ragioni stesse della nostra vita. E capisco benissimo che molti cerchino uno pseudo-spiegazione religiosa, piuttosto che contentarsi del nulla. Fin da ragazzo ho rinunciato ad ogni concezione religiosa perché ho presto riconosciuto nei sensi l’unica fonte di ogni mia possibile conoscenza ed ho sviluppato un senso critico incapace di contentarsi di spiegazioni puramente verbali. Pure – aggiungeva – mantenendo anch’io la distinzione fra il bene e il male, ho accettato di conformare la mia vita a principi irrazionali. Vivere coscientemente è altrimenti impossibile.” (4). E poi di seguito: “Appunto la coscienza che anche la mia vita – dal punto di vista logico – è incongruente, in quanto mi muovo senza avere un motivo ultimo razionale che giustifichi il mio agire … mi porta ad essere tollerante verso le diverse credenze” (5). Eccolo qui il gancio che ci arpiona alla prima conquista della sapienza liberale: la tolleranza, appunto. Come è naturale che sia quando si gira in un ordine di idee che ignora la Verità; la Verità, intendo, con la V maiuscola, la Verità assoluta e perciò immutabile e sempre identica a se stessa. Perché - vedete - se questa verità che è come pietrificata in se stessa, se questa verità non esiste (o comunque non è dato conoscerla), allora non si può logicamente escludere nulla; e soprattutto non si può logicamente escludere che l’errore (quello che oggi ci pare l’errore)
possa domani sembrarci la verità, né viceversa si può escludere che quello che ora teniamo per vero possiamo dipoi ripudiarlo per falso. Donde la necessità che anche i paladini dell’errore (di quello che ci sembra l’errore), che anche i sostenitori del falso (di quello che ci sembra falso) che anche loro abbiano il diritto di tentare le proprie esperienze perché – chissà! – è sempre possibile che precisamente da quelle esperienze noi si possa estrarre il guizzo della verità che alla fine ci farà cambiare idea. Ora, quando anche gli “irregolari” – i “matti” li avrebbe chiamati Ernesto Rossi – quando anche i matti hanno il diritto di correre la loro avventura, e quando questa avventura ha la possibilità di comunicarsi al prossimo e magari di catturarne il gusto e di conquistarne la simpatia, quando avviene tutto ciò, segno è che non c’è più nulla di statico, nulla più di definitivo; e il mondo si emancipa da quella specie di prigione elastica che costringe gli uomini a ciondolare stancamente sulle esperienze del passato che, codificate nelle leggi, si ripetono nel presente e poi si prolungano nel futuro. No, non è più così dove si lascia che le leggi (morali o politiche) vengano contestate dagli eretici e dagli eterodossi i quali a voce spiegata diranno le ragioni della loro insoddisfazione; e poiché – come sappiamo – in punto di principio non si può escludere nulla, nemmeno che queste ragioni possano aprirsi un varco nell’intelligenza della restante umanità, ecco che per il tramite degli insoddisfatti dilegua l’idea stessa del mondo come un teatro dove si rappresenta una scena e una scena soltanto, sempre quella, sempre la medesima, con gli uomini fissati in una sorta di rugginosa immobilità ad estenuarsi nella replica dei loro atti e delle loro convinzioni. Qui, invece, attraverso il foro aperto dai “matti”, ci si apre al respiro del diverso e dell’imprevedibile, con la storia che prende l’andamento di un continuo divenire e di un perpetuo superamento. Ecco perché il liberalismo – questo liberali-
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smo, almeno – è fondamentalmente, costitutivamente anti-conservatore. In ogni caso, conservatore o progressista che sia, se il sistema liberale non è mai stato realtà tarda o scolorita, se nonostante tutti i suoi difetti ha sempre parlato alla sensibilità degli uomini, è proprio perché un principio, uno almeno, aveva bene da consegnarlo alla loro umanità; e il principio è tutto qui: che bisogna organizzare le cose in modo da difendere non la verità di qualcuno contro l’errore di ogni altro, ma il diritto di tutti a perseguire ognuno la sua verità. O il liberalismo è così o… intristisce il frutto che solo può maturare in una stagione autenticamente liberale (e che, poi, è come il blasone di nobiltà del liberalismo), quel frutto intristisce secondo il quale – cito Rossi – il fine da perseguire è “la facoltà di scegliere ognuno per proprio conto la strada che reputa migliore secondo la sua particolare visione della vita, incontrando il minimo possibile di ostacoli nei vincoli sociali” (6). Sennonché – aggiunge Rossi – questo è l’ideale di “ristrettissimi gruppi, specialmente nel nostro paese, per tanti secoli centro del cattolicesimo ed abituato alla servitù politica. L’enorme maggioranza degli uomini preferisce rimettere ad altri le responsabilità delle scelte e prendere le strade stabilite dai dogmi e dai regolamenti. Altrimenti – continua – non si spiegherebbe l’attrattiva esercitata sulle masse dal cattolicesimo, che con i suoi dogmi libera dalla responsabilità di trovare ognuno per proprio conto le verità che stiano a fondamento della vita spirituale” (7). Il solito Rossi, dirà qualcuno. Il solito spiritaccio impertinente che non perde occasione di “esecrare l’infame”. E qualcun altro, più benevolo, riconoscerà a questi pensieri decoro di verità, ma di verità storiche che misura e saggezza comandano di tenere strette nelle angustie di vicende ormai chiuse e concluse, cui altre sono seguite, tanto ma tanto più lievi e illeggiadrite dal soffio della libertà. Forse che da un certo momento innanzi
il magistero della Chiesa non ripullula pure esso di richiami alla inviolabilità dell’uomo e alla sacralità dei diritti della sua coscienza? E allora? Perché passare e ripassare con ciglio contratto su pagine della storia così sbiadite e superate dal tempo? Già, perché? Perché, sol che si spigoli tra i comuni vocaboli (“sacralità dell’uomo”, “inviolabilità della coscienza” ecc.), sol che ci si accosti a questi termini così apparentemente prossimi gli uni agli altri, insomma sol che non ci si lasci deviare dal suono ingannevole delle parole, è facile accorgersi che dietro di esse e magari dentro di esse gorgogliano umori, visioni del mondo ed etiche che sono antinomiche tra loro; antinomiche nel senso preciso che di quanto avanzano i confini morali del mondo laico-liberale di tanto è giocoforza che retroceda il dominio dell’universo cattolico, e viceversa. Il fatto è – come è stato egregiamente spiegato - che nella geografia dello spirito laico, “si assume che il mondo, di per sé non abbia un ordine e che siano gli uomini a poterglielo e doverglielo dare attraverso atti della loro volontà” o, il che è lo stesso, mediante l’esercizio dei loro diritti. Per converso, i diritti cui si richiama la Chiesa assumono “che il mondo abbia un ordine e non siamo noi a poterglielo dare; sia cioè un cosmo e non un caos. Rispetto a questo ordine, che si deve prima di tutto riconoscere per quello che è, cioè come vero, giusto e buono, gli uomini hanno solo un grande dovere: quello di rispettarlo e, eventualmente, di restaurarlo quando sia turbato. Ma non possono certamente rivendicare il diritto di modificarlo a beneplacito della loro volontà” (8). Parole, queste, dagli echi remoti, dove inconfondibile è il timbro della sapienza tomistica, e le cui sonorità si propagano in lontananza, fino a raggiungere gli accenti con cui Benedetto XVI, poco prima di ascendere al soglio pontificio, si è compiaciuto di favorire il dialogo con le religioni e le culture altre, specie con quelle che muovendo dal medesimo
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assunto, “presuppongono che l’uomo si trovi in un ordine del cosmo che gli indica come vivere e che precede le nostre decisioni” (9). Qui, dunque, gli uomini devono tenersi stretti ad un ordine che esiste prima della loro volontà; lì, invece, negli orizzonti laici, dal primigenio universo caotico l’ordine emergerà – se emergerà – solo dopo che le volontà dei singoli avranno procurato di realizzarlo sotto la guida della loro intelligenza e alla luce della loro autonoma coscienza. Precisamente quell’autonomia della coscienza che il Pontefice abbatte come la più sciagurata perversione della libertà: “c’è un concetto di libertà – sono parole sue – per il quale esiste solo, come portatore della libertà, il soggetto, l’individuo”, sicché “ogni uomo può e deve agire soltanto secondo la sua cosiddetta coscienza” (10). Dove quella coscienza che è “cosiddetta” vale veramente un Perù, lasciando indovinare tutto il turbamento intimo e come un rovinio di paure dinanzi ad una libertà (la libertà di coscienza, appunto) che, pure, segna la conquista più preziosa del mondo liberale. Sul quale mondo moderno peraltro, già nel 1991, l’allora cardinale Ratzinger s’era avventato con una apostrofe crudissima che, in un certo senso, lascia ammirati per la gagliardia dello stile e la immediatezza degli argomenti. Ed è così che dopo aver saettato moniti biblici contro una società che alle soglie del terzo millennio “mira all’eliminazione degli handicappati, di coloro che danno fastidio, e persino semplicemente di coloro che sono poveri e ‘inutili’” (11), è così - dicevamo – che la requisitoria ripara nell’indicazione delle cause di tanta cattiveria. E tra le cause, c’è ne è una in particolare che spiega “il diffondersi di una mentalità in opposizione alla vita”. Nella denuncia di Ratzinger questa causa è “connessa con la concezione stessa della moralità oggi largamente diffusa. Ad una visione individualistica della libertà, intesa come diritto assoluto di autodeterminarsi sulla base delle proprie convinzioni, si associa spesso un’idea
meramente formale di coscienza. Essa non si radica più nella concezione classica della coscienza morale. In tale concezione – che come precisava il Cardinale – è “propria di tutta la tradizione cristiana, la coscienza è la capacità di aprirsi all’appello della verità obiettiva, universale ed eguale per tutti, che tutti possono e devono ricercare. Invece – sono ancora parole sue – nella concezione innovativa, di chiara ascendenza kantiana, la coscienza è sganciata dal suo rapporto costitutivo con un contenuto di verità (…) In tal modo la coscienza viene ad essere nient’altro che la soggettività elevata a criterio ultimo dell’agire”. Con la conseguenza che la coscienza, questa “cosiddetta” coscienza “diventa una deificazione della soggettività”, di cui [essa] è oracolo infallibile” (12). S’è voluto riportare per larghi tratti il pensiero di Ratzinger perché c’è qui, come raffigurata in scorcio, tutta la differenza che passa tra la libertà di coscienza del laico-liberale e la libertà di coscienza del cattolico. Per il laico, la libertà di coscienza è il diritto di professare una verità qualunque – una qualunque, intendiamo? – e dunque anche di non professarne nessuna, se così gli piace; mentre per il cattolico la libertà di coscienza è il diritto di non essere distolti con la forza dalla ricerca dell’unica verità, che è già lì, precostituita e solo attende di essere scoperta. Trattandosi di verità precostituita, tutto, tutto è già stabilito in anticipo: al più gli uomini potranno precisarla meglio quella verità e meglio adattarla ai tempi, ma certo non dovranno inventare nulla e nulla potranno concedere al loro capriccio. Con il risultato che la verità cattolica presiede ad un universo bloccato, una specie di percorso obbligato che sollecita i singoli ad avanzare lungo la stessa, identica strada che già ieri, ieri l’altro e sempre si stendeva davanti al loro sguardo. Nel che è il ripudio del principio laico dell’autonomia personale, ossia del principio per il quale le strade del mondo sono molteplici ed imprevedibili, e in punto di prin-
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Ernesto Rossi un democratico europeo
cipio non ve ne è alcuna che l’umano non possa tentare sotto la spinta della propria iniziativa. Sarà buona quella strada? Sarà cattiva? Non sappiamo. Sappiamo soltanto che è la sua strada. E tanto basta. Tanto basta, si capisce, a coloro che si avvezzano a decidere da sé del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, e così – temprati all’esercizio della scelta e quindi gelosi della loro indipendenza - ricusano di consegnare a terzi la traiettoria della propria vita. Che è poi esattamente la tempera da cui uscì riscaldata la sensibilità di Rossi. “Le mie verità – lasciò scritto – le considero verità relative, provvisorie, è vero”. Ma “io non ho mai tenuto fuori di me il motore primo delle mie azioni”. E poi, più distesamente: “Il mio atteggiamento scettico mi impedisce, e credo che mi impedirà sempre, d’avere le qualità dell’uomo di azione. Per creare la fiducia negli altri ed assumerne la direzione, occorre essere per primi convinti del valore assoluto delle proprie verità” (13). Tutto ciò, però, “non mi impedisce di prendere posizione nelle questioni generali che si presentano nell’ambiente in cui vivo” La ‘via giusta’ non la so. So quello che nel particolare momento mi sembra giusto. E mi basta. Vada il mondo dove deve andare, mi trovi nella corrente o contro corrente, io posso ‘salvarmi l’anima’ solo prendendo quella strada che alla mia debole ragione appare relativamente migliore” (14). Non è molto. Ma non è neppure poco. E non è poco perché allacciare così i legami con la propria coscienza significa – come diceva Camus – “sapere che c’è sempre un luogo in cui il cuore troverà la sua armonia” (15). E questa è già una sufficiente garanzia per la tranquillità della vita umana. A proposito di tranquillità. Pochi mesi prima di morire, Ernesto Rossi, in una lettera a Bauer, aveva scritto parole asciutte, disincantate e che, pure, nella loro sobrietà, vibrano di un’accensione poetica: “se ci domandiamo a cosa approdano tutti i nostri sforzi
e tutte le nostre angosce, non sappiamo trovare altre risposte fuori di quelle che dava Leopardi: si gira su noi stessi come trottole, finché il moto si rallenta, le passioni si spengono e il meccanismo si rompe”. E poi: “Io non ho mai avuto paura della morte. Mi è sempre apparsa una funzione naturale, inspiegabile, inspiegabile come tutto quello che vediamo in questo porco mondo. Crepare un po’ prima o un po’ dopo non ha grande importanza: si tratta di anticipi di infinitesimi, in confronto all’eternità, che non riusciamo neppure ad immaginare. Ma ho sempre avuto timore della cattiva morte.” Sia consentito aggiungere che se la “cattiva morte” è di chi non ha saputo vivere in armonia con se stesso, allora è assolutamente da escludere che la morte possa essere stata “cattiva” con Ernesto Rossi.
NOTE 1 A. Braga e S. Michelotti (a cura di), Ernesto Rossi. Un democratico europeo, Rubbettino, SoveriaMannelli 2009. 2 E. Rossi, “Liberalismo e giacobinismo”, ora in Lo Stato moderno: antologia di una rivista, Comunità, Milano 1965, p.214. 3 E. Rossi, Elogio della galera, Laterza, Bari 1968, p. 155 4 Ivi, pp. 185-186 5 Ivi, p.186 6 Ivi, pp.60-61 7 Ivi, p.61 8 G.Zagrebelsky, Il diritto mite, Einaudi, Torino 1992, pp.110-111 9 L’intervento di Ratzinger fu riportato per larga parte sul “Corriere della Sera” di mercoledì 20 aprile 2005. La citazione è tratta dalla pag. 13 10 Ibid. 11 J.Ratzinger, Il problema delle minacce alla vita umana, relazione tenuta nell’aprile del 1991, all’apertura del concistoro straordinario. Il testo integrale è riportato su “L’osservatore romano” del 5 aprile 1991. La citazione è tratta da pag.4 12 Ibid 13 E. Rossi, Elogio della galera, cit., p.398-399 14 Ivi, p. 399 15A.Camus, L’estate e altri saggi solari, Bompiani, Milano 2003, p.25
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Massimo Teodori
Mario Pannunzio cent’anni dopo
Relazione al convegno promosso dalla Presidenza della Camera dei Deputati il 9 marzo 2010 alla presenza del Capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Un concetto è stato raramente usato per definire Mario Pannunzio, intellettuale, politico e giornalista. E' quello espresso dal termine antitotalitario che vorrei qui mettere in evidenza accanto ai più noti "liberale", "democratico" e "liberaldemocratico" - a cent'anni dalla nascita del 5 marzo 1910, e a quarantadue anni dalla scomparsa, il 10 febbraio 1968 come un ag gettivo appropriato a descrivere colui che forse è il maggiore intellettuale-politico liberaldemocratico d e l Novecento italiano. Vittorio G o r r e s i o, alla scomparsa, diede una incisiva definizione dell'uomo: intransigentemente anticomunista in nome della libertà, intransigentemente antifascista in nome dell'intelligenza, e intransigentemente anticlericale in nome della ragione. Non gli sembrò necessario evocare l'aggettivo qualificativo che compendiava i tre caratteri enunciati, antitotalitario, appunto. Non è casuale in Italia la scarsità degli studi sugli antitotalitari. La storiografia
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contemporanea ha generalmente ruotato attorno a due coppie di concetti: in una prima fase alla coppia fascismo/antifascismo, e, in un secondo tempo, a quella comunismo/anticomunismo. Non v'è dubbio che queste categorie antitetiche siano funzionali alla vicenda italiana, ma insufficienti a cogliere l'intera gamma dei protagonisti che hanno fatto la nostra storia. E' stato trascurato il filone degli antifascisti non comunisti, i quali divennero in seguito anticomunisti liberali, ben distinti dai reazionari: in una parola si è scritto poco degli antitotalitari. E' significativo che il vocabolario dell'enciclop e d i a Tr e c c a n i indica come antitesi a "totalitario" i termini "democratico" e "liberale", che sono i due aggettivi da sempre usati per Pannunzio. E' proprio il fil rouge antitotalitario che lega i capitoli della vita del Pannunzio, fin da quando, nel 1943, pubblicò il saggio esplicitamente autobiografico "Le passioni di Tocqueville" in cui si sottolineavano le degenerazioni autoritarie che insidiano la libertà degli uomini. E' in quell'estate di guerra che avvenne la trasformazione di Pannunzio da letterato a leader politico.
Mario Pannunzio cent’anni dopo
Nel pilotare i liberali verso la liberaldemocrazia anglosassone, rivelò subito uno spirito anticonformista in tutte le direzioni, cosa difficile nel clima dell'unità resistenziale. Si schierò contro la perpetuazione del regime ciellenistico voluto dai giacobini richiamando l'esigenza della legalità istituzionale, non accettò che in nome dell'antifascismo si commettessero nuove violenze, e prese le distanze dai conservatori e dai reazionari: Alla fucilazione di Mussolini il 29 aprile 1945 scrisse su "Risorgimento liberale" "E' dunque questo il vento del Nord, un vento di sangue e vendetta? Tutti coloro che hanno sempre deprecato la violenza sono oggi turbati dalle notizie che ci giungono dal nord." Nel novembre 1945, annunziando il ritiro dei liberali dal governo Parri, non esitò a parlare della classe dirigente antifascista "costituita in casta chiusa ed altezzosa, serrata in una fortezza inaccessibile" che ha dato vita a "una legislazione frenetica, incontrollata, capricciosa che ha prolungato ed esteso in tutto il paese i tribunali politici ed ha ristabilito l'istituto del confino." Il cuore della sua visione fu espressa a chiare lettere al congresso del Partito liberale dell'aprile 1946: "Il mondo moderno è diviso in due vastissime correnti: il liberalismo e il totalitarismo. Sono due concezioni della vita in urto, e il conflitto annuncia ogni giorno di più aspetti drammatici." Dopo il 1947, con la guerra fredda, avendo rifiutato le degenerazioni dell'antifascismo, poté anche praticare un anticomunismo scevro da contaminazioni illiberali, sia che provenissero dai neofascisti, dai qualunquisti con cui si era alleato il PLI da lui abbandonato, o dai clericali di Luigi Gedda che ebbero una parte importante il 18 aprile 1948. In quelle elezioni, di fronte alla "scontro di civiltà", fece un passo indietro dalla politica attiva per animare il manifesto "Europa, cultura e libertà" promosso dai liberali Croce ed Einaudi, dal democratico repubblicano Ferruccio Parri, dal socialista umanitario Ignazio Silone e dal cattolico Gaetano De Sanctis, uno dei professori universitari che non giuraro-
no a Mussolini. Fu quello il vero documento fondante dell'antitotalitarismo italiano a cui si deve ricondurre l'enunciazione del ruolo dell'intellettuale libero in contrapposizione al cosiddetto "intellettuale organico". Pannunzio, in Italia, rappresentò quel che Albert Camus era in Francia di fronte a Jean Paul Sartre. Con il suo contributo nacque nel 1950 l' “Associazione italiana della libertà della cultura” di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, espressione dell'internazionale antitotalitaria patrocinata da John Dewey, Bertrand Russel, George Orwell, Julien Huxley, Jacques Maritain, Arthur Koestler, Raymond Aron, Benedetto Croce e Hannah Arendt. Non a caso una delle prime e più importanti collaborazioni di Benedetto Croce al "Mondo" si ebbe nel 1949 con la recensione chiestagli da Pannunzio del romanzo "1984" di George Orwell, il grande libro della critica al comunismo sovietico. Nel 1953, quando gli intellettuali comunisti chiesero solidarietà ai democratici contro le restrizioni della libertà di stampa (che peraltro avevano approvato nella legge Scelba indirizzata contro i neofascisti), Pannunzio aprì sul "Mondo" un dibattito cui parteciparono Ernesto Rossi, Calamandrei, Jemolo, Silone e Garosci in cui si riaffermava l'opposizione a qualsiasi provvedimento restrittivo dei diritti e delle garanzia individuali anche nei confronti dei totalitari, e si ribadiva la linea della Terza forza riassunta nella parola d'ordine "i laici devono stare con i laici e i comunisti con i comunisti: nelle battaglie comuni, si deve colpire uniti quando è il caso, ma marciare separati sempre, ad ogni costo". Con la stessa sensibilità, Pannunzio diede vita nel 1949 al "Mondo" pubblicato fino al 1966. Non si trattò soltanto di una impresa giornalistica di qualità, ma anche e soprattutto di uno strumento politico volto a creare quell'unità democratico-laica della Terza forza che non si realizzò mai sul terreno partitico. In quell'armonica orchestra politico-cul-
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Massimo Teodori
turale diretta dal regista Pannunzio si espressero quegli individui e quei gruppi democratici laici che, da soli o insieme a settori istituzionalmente più responsabili del mondo cattolico e delle sinistre, tennero viva la fiamma dello Stato di diritto e della razionalità politica nella stagione in cui l'Italia era assediata dai fondamentalismi d'ogni tipo. Quanto all'anticlericalismo, Pannunzio lo interpretò come necessaria reazione alle invadenze dei clericali nella vita pubblica. All'accusa di essere un "laicista" rispondeva che si trattava di un imbroglio lessicale, peraltro ancora oggi praticato, dovuto al trasferimento in sede politica e culturale del linguaggio dei chierici abituati a chiamare "laicista" quel che è semplicemente "laico", e "laico" quel che è convalidato dalle gerarchie ecclesiastiche. E' perciò che nell'affidare a Salvemini, oltre che al suo più stretto collaboratore Ernesto Rossi, un ruolo primario al "Mondo", Pannunzio ne sottolineò la dimensione anticlericale che nella temperie degli anni Cinquanta riteneva indispensabile per la difesa della laicità dello Stato. Quando Salvemini gli inviò un articolo in cui scriveva di non accettare "alcun totalitarismo, né ecclesiastico, né secolare", e perciò si dichiarava "anticlericale, antifascista e anticomunista",
Pannunzio lo confortò con questa risposta: "Caro Salvemini, ... Nessuna difficoltà per il Suo ‘anticlericalismo". Nel corso della sua ventennale leadership politica e intellettuale, Pannunzio fu criticato a sinistra, da destra e dal centro per il rifiuto di fare corpo comune con i comunisti in funzione antifascista, con i fascisti in funzione anticomunista, e di sposare le tesi clericali per difendere il centrismo degasperiano. All'inizio degli anni Cinquanta si oppose alle involuzioni che le forze retrive del mondo imprenditoriale, militare ed ecclesiastico, sulla scorta del maccar tismo statunitense, volevano imprimere alla Democrazia cristiana a scapito dell'equilibrio tra cattolici e laici. Su questa frontiere liberale e democratica, dopo i fallimenti della linea riformatrice nel PLI, Pannunzio costituì nel 1955 il Partito radicale che doveva tradurre in politica, insieme alle altre correnti della Terza forza, in primo luogo i repubblicani di La Malfa, quelle istanze riformatrici sociali, economiche, culturali e di etica pubblica che il direttore proponeva settimana dopo settimana sul "Mondo". Fu fermo nel rappresentare la voce dell'occidentalismo democratico, matrice della solidarietà atlantica e dell'unificazione europea, espressione in politica estera di ciò che
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Mario Pannunzio cent’anni dopo
l'antitotalitarismo rappresentava sulla scena italiana. Perciò sostenne il presidente del consiglio cattolico Alcide De Gasperi come il ministro degli esteri laico Carlo Sforza contro le tentazioni neutraliste delle destre e delle sinistre, e patrocinò la federazione europea sulla scorta di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Luigi Einaudi. Mario Pannunzio fu dunque uno dei grandi intellettuali italiani non attratto dai totalitarismi del suo tempo che pure affascinarono tante personalità politiche e culturali anche di formazione liberale e democratica. Ebbe una visione rigorosa della funzione zia, del significato dell'ementale e del deve intercorrere tra moralità e politica: concetti tutti contenuti nell'articolo di commiato del "Mondo" pubblicato l'8 marzo 1966 che può essere considerato il bilancio di una vita e il suo testamento spirituale: “Un giornale liberale, un giornale laico e antifascista, un giornale indipendente, doveva impegnarsi sui problemi della libertà e del costume civile, e non vi è stata questione di educazione del cittadino, di rinsaldamento dello stato e delle istituzioni parlamentari, di efficienza di governo e di moralità pubblica, di politica interna e internazionale, di economia sociale e di conflitto fra l'interesse privato e quello collettivo, di fronte alla quale il giornale non abbia detto quel che gli è sembrato di dover dire, anche se le sue parole sono apparse spesso verità scomode e qualche volte dure".
"Tante volte, quando le cose sembravano più buie e aggrovigliate, ci siamo domandati: come mai correnti di ispirazione liberale e democratica, fedeli ad una tradizione di pensiero di grande nobiltà, che trae le sue origini dal sorgere dell'Italia moderna e che ha avuto maestri come Cavour, Mazzini, Benedetto Croce, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, hanno trovato e trovano così poca udienza nel nostro paese e insieme una così unanime agguerrita ostilità da renderle simili a pattuglie isolate di frontiera, quasi separate dal tessuto vitale della nazione?" “Non ci piacciono le mezze verità; non ci piacciono la deferenza e l'unzione per le idee che detestiamo. Ci siamo sempre battuti per dare il loro nome ai fatti e ai personaggi. L'intellettuale, per noi, è una figura intera. L'uomo politico, se non vuole essere un puro faccendiere, è anch'esso un intellettuale che vive pubblicamente e che fa con naturalezza la sua parte nella società". Nell'accingerci a ricordare M a r i o Pannunzio cent'anni dopo, vorrei avanzare una proposta. Mi pare giunto il momento di studiarlo ispirandosi a rigorosi criteri storiografici, lasciando cadere le appropriazioni indebite e le celebrazioni di maniera. Sulla base dell'imponente documentazione, lodevolmente raccolta e conservata dall'Archivio storico della Camera dei deputati, è oggi possibile interpretare a fondo il ruolo di Pannunzio nel Novecento italiano: quello di principale esponente della famiglia antitotalitaria fin qui troppo trascurata dalla memoria e dalla storia nazionale.
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POESIA
Henry Thomas
L’attesa del tramonto “Vagavano un tempo tra gli uomini gli Dei, Le magnifiche Muse e il giovane Apollo Ci risanavano e ci entusiasmavano… Viviamo dunque! con voi soffro, con voi, con voi Lotto con fervore e fede per un’età più bella. Siamo noi! e se nei futuri giorni saremo ricordati, Quando il Genio di nuovo regnerà, Si dirà di noi: solitari amanti, anche voi creaste un tempo Il vostro mondo segreto, noto agli Dei soltanto. Chi solo si preoccupa di ciò che é mortale E’ inghiottito dalla Terra. Ma muove incontro alla Luce, Ritornando all’Etere, colui che é fedele all’amore fervente e allo spirito degli Dei”
Il cielo sovrasta di luce le parole dell’incontro ritmo fremente d’un’estate solare che ora è memoria.. Il mio volto s’infrange al riverbero opaco d’un autunno crudele tribunale dell’anima devastata dal corpo dai giorni che vanno al deserto dei sensi che appassiscono.. Altro fato non è dato Perché amare è morire.
Consumo il cero delle mie ore giocando col nulla Pensiero vorticoso Alfabeto profetico d'una vita in estinzione Non grida né lagrime neppure vibrazioni Solo il dondolio dell'amaca in attesa della quiete l'eterna scomposizione del grumo amoroso che il cieco destino colora d'oblio. Il resto è il vento di brezza che allieta nell'inganno l'immagine sbiadita d'un amore irripetibile.
Friedrich Hölderlin
E’ ora di chiudere l’uscio e attendere sonnolente l’arrivo odiato degli ospiti pensieri che tornano carichi di memoria ossessione di eventi non più ripetibili Inutile schermaglia di propositi accatastati senza vita come le vecchie panche nel retrobottega d’un artigiano che chiude e attende l’ora d’un rintocco odiato presago dell’arrivo del vecchio amico dal sorriso ingannevole perfetto sosia del boia amico sincero……. della morte.
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LE MASCHERE DELL’ARTE
Rocco Paternostro
Ironia dissacrazione e atomismo narrativo in Dante Maffia
A chi si accinga a leggere un'opera letteraria si pone imperiosa la necessità di sciogliere un nodo; ovvero si pone la necessità di dover scegliere tra due possibili modi di lettura. Il primo si richiama al campo della scienza con le proposte suggestive di Feyrabend che, dall'iniziale adesione al razionalismo critico di Popper, si fa in seguito teorizzatore di un'anarchia metodologica, secondo la quale "qualsiasi cosa va bene", in quanto - a suo parere - la scienza non ha metodi, proprio perché essa si fonda sull'inventiva, in base alla quale lo scienziato riesce, di volta in volta, a risolvere i problemi escogitando teorie adatte. In tal senso, il grande filosofo viennese finisce per paragonare l'attività della ricerca scientifica, per l'inventiva che essa racchiude e per la pluralità di "stili" di lavoro che consente, alla creatività dell'artista. Il secondo modo di lettura, pur non escludendo del tutto, proprio per il richiamo alla creatività dell'artista, il primo, finisce sostanzialmente con l'ammettere la necessità di un metodo che sappia e debba portare il lettore a cogliere innanzi tutto il reale significato di un testo letterario, per giungere infine alla formulazione di un giudizio di valore. É questa la strada indicata da Hirsch e non solo da lui, come cercherò di dimostrare. Questi in un suo famoso studio su L’interpretazione, in polemica con la critica americana del suo tempo, il New Criticism, propone un metodo d'indagine che sappia cogliere, attraverso quella che egli definisce la validazione oggettiva, il vero significato di un'opera letteraria; distinguendo sottilmente tra significato e significanza, ovvero tra ciò
che realmente l'artista vuole comunicare con la sua opera e il giudizio di valore che il critico esprime sull'opera solo dopo averne colto il suo reale significato. Insomma, per Hirsh è necessario prima comprendere, con un'accurata analisi scientifico-filologica, il reale significato di un'opera e poi, solo dopo questo svelamento di verità, esercitare il giudizio di valore, l'atto proprio della critica. Ciò è come dire recuperare la verità del testo e coniugarla con la dimostrabilità, per trasferire nel campo della critica letteraria il teorema di Kurt Gödel, considerato, nel campo della logica, "l'analogo contemporaneo di Aristotele". Ma anche è, a ben vedere e per altra via, quanto già nel 1936 con la Poetica del Decadentismo e più tardi, negli anni '60 del secolo scorso, in un fortunatissimo volumetto metodologico, nel tempo più volte ampliato, dal titolo Critica,poetica,storia letteraria, Walter Binni ha sostenuto a proposito della necessità, nel campo della critica, di superare i limiti propri di una pretesa definitoria e onnicomprensiva di chi legge un'opera alla luce di un'estetica, di una qualsivoglia estetica, anziché di ricondurla alla necessità personale-storica dell'autore, ovvero al suo rapporto inscindibile e privilegiato con la propria poetica. Dove il concetto di poetica è un concetto in divenire, attento ad ogni pur minima variazione di gusto, di sentimento, di cultura, di morale, di etica, etc, vissuta dall' autore in rapporto al suo tempo, e che presuppone, come sottolinea Mario Costanzo, sempre e comunque da parte del critico- lettore, proprio per questo continuo divenire del poeta, una grande capacità di ascolto. Ascolto e predispo-
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Rocco Paternostro
sizione a saper cogliere, con l'ausilio della filologia, i sussulti, i cambiamenti minimi o macroscopici che un autore può apportare nel tempo alla sua propria originaria poetica. Da tale capacità di ascolto, lungo l'asse della lettura-comprensione-interpretazione-valutazione, si origina e si conclude il processo critico vero e proprio, al termine del quale - lo tengo a ribadire - mediante la lettura, si realizza quella che con felice formula, Costanzo definisce poetica del duale, ossia prima l'incontro e poi la sintesi-fusione e della poetica dello scrittore e della poetica del lettore, che in quanto tale non appartiene più né all'autore, né al suo esegeta, essendo, nell'incontro, divenuta una cosa altra, e che, fondandosi sull'esercizio della lettura-comprensione-interpretazione-valutazione, finisce - a mio parere - con il realizzare, perfezionandola, la valutazione oggettiva propria della critica, di cui parla Hirsch, sintetizzando appunto mirabilmente e il significato e la significanza. Se, come detto, quanto suggerito a livello metodologico-critico dallo studioso Nord-Americano si trova mirabilmente e più compiutamente espresso nel concetto di poetica come teorizzato da Binni e come perfezionato da Costanzo, a me altra strada maestra, al di fuori di questa, non resta per analizzare e offrire, con un'operazione mercuriale, a voi potenziali lettori questa ultima fatica di Dante Maffia dal titolo accattivante e insieme provocatorio, San Bettino Craxi e altri racconti. Con una precisazione necessaria, però, che vuole e deve essere,ancora una volta, una precisazione criticometodologica. Se è vero che la poetica ha il suo statuto nel suo continuo divenire, nel suo precisarsi, modificarsi e/o rinnovarsi nel tempo, allora si avrà come diretta conseguenza che, studiando un autore, e tanto più se si tratta di un autore dalla capacità prodigiosa di lettura e di scrittura quale è Maffia, si potrà definire la sua poetica nella sua compiutezza solo a termine della sua attività creativa, in
quanto a questa compiuta definizione lo scrittore giungerà per gradi, attraverso momenti storico-culturali, politico-economici, etico-morali, artistico-estetici e di gusto che, testimoniando di momenti particolari di un lungo processo evolutivo e/o involutivo, per fragmenta, per scarti o per piccole modifiche nella continuità, diverranno poetiche che, commutandosi di volta in volta in singole opere d'arte, saranno i singoli elementi che nel tempo significheranno il processo faticoso di correzioni, di ripensamenti, di aggiustamenti che sottintendono alla composizione-configurazione della sua poetica definitiva. Questa precisazione d'ordine metodologico-critico per significare che questo ultimo testo di Dante Maffia deve essere letto come il tassello, o meglio, uno dei tasselli, ascrivibili a un particolare periodo storico della sua attività creatrice, di un più vasto e complesso suo concetto di poetica ancora in progress e quindi non ancora codificabile nella sua compiuta interezza, e che qui si configura come poetica dell'ironica dissacrazione, fondata su quello che, a livello di metodo, mi piace chiamare l'atomismo narrativo. Si badi, non a torto, riferendomi a San Bettino Craxi e altri racconti, ho definito volutamente quest'ultima operazione di Dante Maffia, genericamente come testo, andando con ciò, in un certo qual senso, persino contro la stessa indicazione che Dante ha voluto darci, là dove egli, nel titolo, ci tiene a specificare che si tratta di una raccolta di racconti. É vero quello che Maffia ci dice? Oppure egli è volutamente un abile divulgatore di menzogna? Ovvero mente sapendo di mentire? Se l'arte - come qualcuno sostiene, e non solo da oggi, è spesso anche menzogna, allora Maffia è fuor di dubbio un grande artista che intende la scrittura come gioco, diversamente però, e occorre sottolinearlo, da Ludwig Wittgestein. Del Wittgestein sia del Libro blu, in cui il gioco linguistico è concepito come secondario rispetto al significato delle parole, sia del Libro
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Ironia dissacrazione e atomismo in Dante Maffia
marrone, in cui il filosofo viennese formula la tesi, poi pienamente sviluppata nelle Ricerche filosofihe, secondo cui l'apprendimento del gioco linguistico è preliminare alla comprensione dei significati delle parole. In Maffia, al contrario, il gioco linguistico è speculare dei significati delle parole, ed è strettamente connesso all'ironia di cui parla il giovane Lukàcs di Teoria del romanzo, dove l'ironia è la prerogativa del romanziere, allorché egli solo è consapevole che il suo personaggio, che è un eroe problematico alla ricerca di valori autentici in una società degradata, mai raggiungerà quei valori positivi scomparsi dal mondo e disperatamente cercati. Al contrario, la ricerca dell'eroe creato da Maffia in questo suo testo, Leonida, mi sembra non rivestirsi dei panni della inutilità. Leonida è si un eroe problematico, ma certamente non demoniaco al contrario degli eroi di cui parla Lukàcs, mentre l'ironia di Maffia qui presente non è la stessa ironia disperata e disperante di cui parla il grande filosofo e critico ungherese, al contrario è un'ironia caratterizzata dalla bonomia, perché rischiarata e guidata dalla fiducia che Dante nutre nel destino dell'uomo e che trasferisce nel suo eroe, la cui lotta contro l'aridità dei sentimenti, contro l'egoismo e il vuoto nulla del puro apparire, nonché contro l'esterofobia, in una parola, contro la non-umanità della modernità, non si configura mai come lotta vana, inutile. A tale negatività della modernità, Leonida oppone la sua fiducia nei valori dell'amore, dell'amicizia, dell'onestà, il suo rifiuto della meschinità e delle piccolezze del mondo; mentre in modo speculare al vuoto dell'essere e del puro apparire lo scrittore Maffia oppone la sua fiducia nell'arte e nella fantasia, ovvero la sua forza di sapere e volere ancora raccontare e scrivere fiabe, di volere e sapere ancora vivere il proprio tempo con spirito critico e, quindi, sapere guardare al passato non con improduttiva nostalgia, bensì con la realistica consapevolezza, perché il passato è
l'anello ormai dimenticato, nella sua positività, dalla modernità, la quale per questo motivo non è rifiutata, espunta, ma guardata con ironica dissacrazione. Ironica dissacrazione che deriva a Maffia proprio dalla capacità che egli ha di saper giocare con le parole, di saper creare, alcune volte, anche menzogne, consapevole che questa è la via con cui si esprime e si raggiunge l'arte, anche se questa per lui vuole essere ed è sempre segno di verità, senza però scadere nell'episodico, monco descrittivismo di un vetero, tardo naturalismo, là dove la menzogna altro non è che la sua metafora più compiuta e complessa di sé stesso, essendo Leonida da un lato un costui determinato e rivestito dei panni di Maffia e insieme il trasferimento e la rappresentazione di altri costui positivi, invero pochi, dei nostri tempi. Il tutto mirabilmente fuso in un unicum organico dalla grande maestria narrativa di Dante che raggiunge, in questi testi, la levigatezza della parola, la compostezza del discorso, la limpidezza della forma, spogliata e purificata dalla pesantezza e dall'oscurità per assumere e raggiungere la forma della leggerezza, così come teorizzata da Calvino delle Lezioni americane, sino a innalzarsi ai vertici del sublime, che è la cifra caratterizzante dell'arte di Maffia e quindi della sua scrittura - come, del resto, ho avuto già modo di scrivere in altra sede - dove sovrano predomina il candore e la lucentezza immacolata del bianco che promana dalla pagina, grazie ad un indefesso lavoro di limatura mirante a sottrarre da essa peso e oscurità. Leonida, dunque, la metafora più compiuta e complessa dello scrittore Maffia, diviene il personaggio-individuo, il costui che si fa interprete e insieme severo critico delle variegate sfaccettature dell'uomo moderno, ergendosi a eroe contro la decadenza dei tempi odierni, così come Leonida, l'eroe spartano,seppe innalzarsi a strenuo difensore della libertà e quindi dei valori di libertà della Grecia, minacciata dall'invasione e dalle mire espansionistiche dei Persiani.
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Il tutto sostenuto da e fondato su una narrazione che in questo testo si configura come una sorta di "atomismo narrativo" che tanto richiama alla mente "l'atomismo logico" di Russel, di cui ha lo stesso spirito, la stessa sostanza, là dove Maffia rivendica l'importanza dell'analisi non solo come strumento d'indagine filosofica, morale, etica, ma anche e soprattutto artistica, in cui un ruolo fondamentale lo gioca e lo esercita la fantasia, contro la svalutazione e/o la negazione di essa, messa in atto da quegli scrittori, fautori di una scritt u r a "monistica", secondo cui l a molteplicità apparente del mondo è costituita e quindi si può rappresentare soltanto da fasi e da suddivisioni irreali di una singola realtà narrativa indivisibile. A ciò Maffia, con questo suo testo, così come Russel aveva fatto sul piano logico, oppone il suo atomismo narrativo che risulta invece coerente con la convinzione comune che ci siano molte cose distinte che, in termini tecno-scientifici, Russel chiama atomi e che qui, in San Bettino Craxi e altri racconti, diventano atomi di esistenza e quindi di narrazione: l'amore, l'erotismo, la politica,il quartiere, il rapporto padre-figlia, il viaggio, la malattia, la fanciullezza. E se per Russel la specificità sta nel fatto che gli atomi di cui egli parla sono logici e non fisici, per Maffia tale specificità sta nel fatto che, in questo testo, gli
atomi non sono né logici, né fisici, ma fondamentalmente ed essenzialmente narrativi. In tal senso mi sembra debbano essere letti i 65 testi narrativi che compongono San Bettino Craxi e altri racconti, cui unità organica di composizione e di narrazione viene data appunto da Leonida, il personaggio chiave e onnipresente di questa nuova, originalissima forma di romanzo cui Maffia dà vita, non so se consapevolmente o no, e che mi piace chiamare romanzo a quadri, che si origina da un processo memorativo del personag gio Leonida che poi altro non è - come ho già detto che lo stesso autore, il quale cercando d i ingannare il lettore sul genere delle sua opera e guardandolo dall'alto della sua ironiabonomia, invece di dar vita a un personaggio pronominale in prima persona o autodiegetico, preferisce nascondersi dietro un personaggio nominale, Leonida appunto, metafora della sua menzogna, proprio perché il punto di vista di Leonida è il punto di vista di Maffia, dando vita nel romanzo a una visione, a un punto di vista, che i teorici della narratologia definiscono visione con, e altresì realizzando una narrazione in 3° persona. Un romanzo a quadri, dunque, che si esempla e si struttura sul modello di una grande biblioteca della memoria da cui Maffia-Leonida estrae di volta in volta il libro che gli serve, ovvero aspetti e
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Ironia dissacrazione e atomismo in Dante Maffia
momenti del suo vissuto, passato e presente, rappresentato e narrato nella sua variegata e articolata determinazione. Un romanzo a quadri che è speculare come costruzione e tessitura, e non poteva essere diversamente, della contemporaneità, o meglio della struttura razionale-conoscitiva prodotta nel nostro tempo dall'affermarsi dell'uso del computer, organizzato e strutturato nella sua memoria in una serie di suddivisioni fatte di finestre, cartelle, link, etc, cui secondo la necessità si può accedere con un semplice clic del mouse. Romanzo a quadri che, per questa sua particolare logica e insieme snella strutturazione, mi sembra convalidare quanto il nostro Francesco De Sanctis ebbe a sostenere, in polemica con Hegel circa la morte dell'arte, allorché mirabilmente distingueva tra Forma con la F maiuscola e forma con la f minuscola, affermando che la Forma, ovvero l'arte, non muore, perché a morire sono le forme con cui appunto l'arte si incarna e si manifesta nel tempo. E questo di Maffia è un romanzo a quadri, quale nuova forma della contemporaneità, e quindi quale modificazione del genere romanzo, in cui il tempo e lo spazio sono simultanei, coincidenti con la narrazione, a essa coevi e non,al contrario, agli avvenimenti narrati, i quali, per questa loro natura, non hanno un andamento lineare in progress, ma sono narrati in un continuo presente ( tranne alcuni episodi come quello de Il ‘68, o l'altro di Avere delle sorelle, nel quale ultimo vengono fissati i giorni e i mesi della vicenda narrata) e inseriti in uno spazio non più fatto luogo concreto, anche se, in alcuni casi, il narratore fa riferimento esplicito al quartiere, alla via, alle città di Roma, New York, o ai luoghi della sua infanzia quale Roseto Capo Spulico in Calabria, vissuti e ricordati come mito e sogno perduto. Ciò avviene
proprio perché, per servirmi di una categoria estetico-interpretativa di Bachtin mutuata da questi da Einstein, il crònotopo, ovvero la unione di tempo-spazio che qui si genera, essendo informata dal tempo che, come ho detto, è un continuo presente, non è e non può essere un luogo fisico specifico, in quanto esso va ritrovato nella memoria. La memoria tutto possiede,in essa tempo e spazio si armonizzano e in essa vivono di vita propria, simultaneamente, quei luoghi e quei tempi che, con un prodigioso esercizio di mnemonautica, di navigazione nelle acque opalescenti della memoria, vengono estrapolati, trascritti e quindi narrati con maestria di sfumature, di suggestioni, di suoni, di colori, di linguaggio da Maffia, in cui la parola si purifica della sua pesantezza e della sua gravità, ovvero della sua oscurità, persino quando essa è ingiuriosa, oscena, in quanto alla parola e quindi al discorso Dante è legato da un atto d'amore totale, onnicomprensivo, vorace, oserei dire persino erotico. Che poi, a ben vedere, altro non è che l'atto di amore, il possesso erotico con cui egli non solo possiede fisicamente la parola, il discorso, ma anche sublima sé stesso nella sua magica maestria affabulatoria, che è la cifra artistico-estetica non solo di San Bettino Craxi e altri racconti, ma dell'intera sua produzione artistica. Questa,occorre sottolinearlo, è produzione artistica dotta, erudita, nella quale confluiscono, rielaborate con voce propria e originale e in cui un posto centrale lo gioca il ricorso alla fantasia, centinaia e centinaia di letture che fanno di lui un intellettuale ascrivibile a ragione alla Weltliteratur. A quella Weltliteratur sognata e agognata, nella quale hanno creduto e per cui hanno combattuto, per fare solo alcuni nomi, studiosi quali Auerbach ed il nostro Arturo Farinelli.
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LETTURE
A cura di Carlo Vallauri
Stéphane Mosès, A l di là della guerra. Tre La guerra – stato permanente dell’usaggi su Levinas, Il Nuovo Melangolo, 2007 manità – impone allora il dovere di vincerla? Nello stato di guerra la mobiliL’editrice “Il Melangolo”, specializzata tazione generale sospende le libertà indiin libri di particolare significato filosofi- viduali: gli individui sono ridotti ad co, presenta tre saggi di Stéphane Mosés essere i portatori di forze che li comanAl di là della guerra dedicato al pensiero di dano a loro insaputa. Tra l’esperienza Emmanuel Levinas sulla pace. pacifica del commercio quella violenza Il filosofo lituano, rifugiatosi in Francia dopo della guerra (espressione dell’immanenla rivoluzione bolscevica, ha affrontato in za e della totalità) si inseriscono elemenTotalità e infinito i problemi fondamentali ti di ambiguità che modificano la stessa della situazione dell’umanità dopo lo svuota- soggettività individuale. Una catena mento degli istinti bestiali nella guerra 1914- causale necessaria nella quale rischia di 18. La violenza bellica è stata l’effetto del perire il valore della soggettività: e divampare dei maximalismi, secondo la Levinas cerca allora di radicare la soggetvisione di Franz Rosenzweig che nel tività nel mondo cercando con la pre1921 (Stella della redenzione) aveva denun- senza di un tempo storico caratterizzato ciato la compressione che si determina dall’interiorità. Il “giudizio della cosciennei sistemi politici chiusi. La seconda za” è testimonianza della soggettività guerra mondiale ha aggravato quelle ter- che si produce ad ogni istante in conribili esperienze, dimostrando l’inanità dizioni sempre nuove. Al giudizio della della speranza in una “pace messianica”. storia – osserva Mosés – si aggiunge il Attorno a questi argomenti Mosés ha giudizio etico che pronuncia hic et nunc sviluppato una ricerca sulla concezione il tribunale della conoscenza. Si giunge dei rapporti tra etica e pace impostando così al concetto di una storia degli storiil suo approfondimento sulla realtà del- ografi che raccontano il modo in cui i l’angoscia individuale. Le vicende delle sopravvissuti si sono appropriati dei due guerre mondiali riconducono alla fatti: “racconta l’asservimento – osserva teoria hegeliana della guerra. Il grande Levinas – dimenticando la vita che lotta filosofo tedesco dell’Ottocento annulla- contro la schiavitù. La voce delle vittime va l’io nella totalità dello Stato con il – conclude Mosés – non ci giunge più”. conseguente dovere dell’individuo di Sono osservazioni che da un lato riproassecondare la piena indipendenza e ducono il rapporto tra Eros e guerra e sovranità dello Stato con la disponibilità dall’altro confluiscono nel sentimento al sacrificio della proprietà e della vita. nascente dell’infinito kantiano. Ma in La guerra quindi quale destinazione etica Kant la soggettività, nella sua espresdell’uomo. In Rosenzweig invece tale sione etica, diviene consenso alla Legge destino non può rivelarsi che “al di là mentre Levinas vede il soggetto come della guerra”: può esistere – egli afferma “passività”. – uno spazio di pace all’esterno di una Nello stesso volume Donatella Di totalità governata dalla guerra. Levinas, a Cesare riprende il concetto di “pace sua volta, si chiede se è possibile la dissi- messianica” in contrapposizione agli denza della persona contro il “sistema “anni di guerra” quando brutalmente, della totalità” e osserva che se la guerra raid aerei, battaglie, attentati, assassinii, è legge necessaria nei rapporti tra indi- torture, decapitazioni, violenze, infantividui e tra Stati, la morale appare come cidi, stupri, tradimenti sono parole subuna “ingenuità”. dolentemente entrate nel nostro linguag42
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gio quotidiano. La “cultura guerriera” trionfa. La studiosa osserva: “negli anni dello scontro USA-Urss si è fatto credere che è l’armamento progressivo l’unico antidoto al conflitto di tutti contro tutti” e aggiunge “oggi la guerra si ammanta di delega e rappresentanza, si dissimula con la pace”. La guerra combattuta per procura dovrebbe pre-venire l’apocalisse nucleare. Allora la pace diviene “pace dei morti” e la guerra resta il fulcro della vita intera”. Se nella prima guerra mondiale furono pochi gli intellettuali che non si fecero travolgere dall’entusiasmo generale (ci permettiamo di ricordare Rolland e Mann, tanto per citare due personalità di due dei paesi simbolici dei contrasti irriducibili tra nazioni), Di Cesare contrappone ai “rapiti dall’entusiasmo” secondo le parole di Daimon M. Rilke, le “considerazioni di un impolitico”. Come Mann, persino un filosofo come Max Schleder indicava nella guerra il fuoco in cui tutti devono calarsi per essere forgiati in modo nuovo. Alla fascinazione della guerra non si sottrasse neppure Ludwig Wittegensten che cerco volutamente il fronte, situazione limite per ritrovare se stesso. La guerra giustificata dai filosofi, da Platone ad Agostino, in nome del raggiungimento della pace, da Hegel a Nietzsche, mentre invece Kant la considera il “male radicale”. Lo stesso Kant ne dà tuttavia una interpretazione ambivalente quando distingue tra guerra (forma illegittima, contraria alla morale e alla ragione) e conflitto quale antagonismo inevitabile nella vita umana, come scrive ne Il conflitto delle facoltà (1798). La guerra allora vista come pungolo del progresso, con una sua utilità finalistica in quanto favorisce il processo di civilizzazione (“critica della capacità di giudizio”). L’impostazione di Kant – scrive l’autrice – rimane il male come condizione del bene, la guerra come condizione della pace. Così Kant già alla “pace escatologica” (“La fine di tutte le cose”, 1794). La pace come negazione della guerra, suo rifiuto. Donatella De Cesare afferma che “contro la tirannia
della guerra” occorre un movimento utopistico di inversione. La mobilitazione generale ha trasformato gli uomini in meri strumenti, oggetti, cifre anonime nel macchinario omicida della guerra. Ecco la strada che prepara la “guerra totale” con l’orrore di Auschwitz, lo sterminio indicibile. Secondo Levinas “non c’è un me al di là della guerra”. La rivolta del singolo appare impossibile, anzi illegittima, e nessuno può sfuggire all’ingranaggio bellico. Può aprirsi allo spazio al di là della guerra? ecco la domanda finale richiamata nel titolo del libro. La via d’uscita dalla violenza in cui si è incamminata la civiltà occidentale non è “per Levinas – l’io, ma l’altro. La preoccupazione per l’altro è evasione dalla totalità. Ripensare allora i tempi storici: la pace non si ha dopo la guerra, ma al di là. La negazione della guerra è altrimenti una ingenuità. Una resistenza morale alla violenza dell’omicidio. La pace non è cessazione di combattimenti, non è pace perpetua dei morti. Levinas opera una torsione su di sé dell’io che si rivolge all’altro nel compimento dell’obbligo: “tu non uccidere”. Abbiamo ampiamente riportati i contenuti del pensiero di Levinas con le osservazioni di una studiosa acuta come la De Cesare. Il filosofo, contrapponendosi all’imperio della totalità, afferma il messianismo della pace nel suo incondizionato valore.
Loretta Napoleoni, E conomi a ca na gl i a , Il Saggiatore, Milano, 2008
Loretta Napoleoni in Economia canaglia (Il Saggiatore, Milano, 2008) approfondisce gli aspetti più inquietanti dei mutamenti finanziari internazionali che si sono ripercossi, negli ultimi anni, sulle popolazioni dei vari emisferi. Infatti – come osserva l’acuta autrice – dal piano Marshall al “sogno americano” l’idea di un ruolo restauratore dell’economia mondiale da parte degli Stati Uniti ha circolato facendo nascere gran-
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di speranze, ma progressivamente si è constatato come nelle relazioni internazionali hanno un ruolo determinante categorie, personaggi e gruppi che operano per un esclusivo uso di interessi di parte, tali da spingere a comportamenti banditeschi, dall’America alla Russia. E vengono citati eventi quasi incredibili, ad es. l’impossessamento di miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale da parte dei nuovi oligarchi russi, da un lato protettori della globalizzazione, dall’altro “banditi stanziali” o nomadi. Una criminalità talmente raffinata da far pensare a molti russi che si “stava meglio” ai tempi di Stalin. I danni della privatizzazione di cui abbiamo preso atto in Italia, derivano dal fatto che a tali procedure non si è accompagnata una effettiva liberalizzazione nel mercato, come avvenuto ad es. in Gran Bretagna – come misero in rilievo i dirigenti delle amministrazioni finanziarie dei due paesi in un loro convegno negli anni ’90 – mentre s’inserivano nel circuito mondiale forze dirompenti. L’autrice si sofferma particolarmente sulla “dinamica canaglia” del nuovo sistema. Un fiume di dollari transita dagli Usa alla Cina creando un surplay di valuta americana nella bilancia commerciale cinese mentre lo Stato cinese acquista in dollari titoli di Stato del Tesoro degli Stati Uniti, aumentando così le proprie riserve in dollari. Un paese, ancora comunista nelle istituzioni, finanzia quindi sia il commercio che il disavanzo della maggiore potenza capitalista, che riesce ad avvalersi di questo stratagemma per tenere a galla la propria economia. Sulla situazione interna americana L. Napoleoni tratteggia una serie di osservazioni critiche circa le politiche che hanno condotto all’ultima condizione di iperdebito ed inflazione, e ricorda come Thomas Mann in un romanzo avesse spiegato la follia capace di colpire a morte l’inflazione. Le leggi emanate a suo tempo in Inghilterra per proteggere i profitti dei proprietari delle grandi
piantagioni nelle colonie sono indicate come espressione della capacità del capitale di costruire attorno a sé sistemi normativi di favore. Per i tempi più recenti, viene sottolineato come le severe leggi finanziarie introdotte da Washington dopo l’11 settembre abbiano spinto a trasferire le valute a Londra: sterline ed euro sono divenute valute più allettanti. Una “economia canaglia” priva di controllo determina tempi e modi del gioco finanziario internazionale, provocando di fatto una sorta di dominio che mette fuori gioco la politica in senso stretto ed in proposito Napoleoni riferisce, con inquietanti dettagli, sul ruolo della mafia e della ‘ndrangheta a livello mondiale. Siamo di fronte ad un “crimine globale” da cui non solo le popolazioni non possono difendersi ma che provoca una condizione di eliminazione progressiva della libertà perché nelle aree controllate dal malaffare – ed i cui confini sono sempre più larghi – non è possibile esercitare alcuna libertà di scelta. La globalizzazione commerciale richiederebbe – e viene citata al riguardo la Arendt – un controllo politico e legale del commercio, del tutto assente: le organizzazioni criminali capitalizzano i vantaggi dell’economia di mercato globalizzato potenziando, riproducendo ed espandendo la propria rete. Così vengono meno le “opportunità” e si afferma un dominio incontrastato, nel quale la Cina è riuscita – dopo il superamento della rivoluzione culturale – a ritagliare uno spazio che attira il capitale straniero e lo utilizza a proprio esclusivo beneficio. Tra i tanti aspetti perniciosi dello stato attuale dell’economia viene messo in rilievo il caso del sangue, la cui vendita in Cina è stata liberalizzata. Nella provincia di Henan, una campagna incessante ha permesso di comprare il sangue da 90 milioni di persone e venderlo all’industria biotecnologia, “un ottimo affare”. I contadini sono infatti soddisfatti perché ricevono il corrispondente di un salario mensile e le aziende esportano il plasma là dove può essere riutilizzato, a cominciare dalla Corea del Sud. L’industria del sangue viene così
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sviluppata nell’assenza di norme e controlli: proprio da queste pratiche è derivata una ulteriore diffusione dell’AIDS. L’esortazione “arricchitevi” – enunciata nei primi decenni dell’Ottocento nell’Europa borghese, osserviamo – è stata seguita come “credo incrollabile” nello Stato totalitario cinese. Una esperienza allucinante per le sue conseguenze. Biopirati ormai dominano quali incontrastati padroni dell’economia, dando vita a nuove forme di schiavitù sociale. Può l’alta tecnologia contribuire a migliorare le sorti dell’umanità? Si tratta di vedere come i risultati di questi sommovimenti potranno ripercuotersi nella vita dei popoli. Altro argomento affrontato è l’anarchia nei mari, ove una attività di pirateria ittica frutta acquisizioni plurimilionarie. Le “stravaganti” forze della globalizzazione così si estendono, dando luogo a pervicaci illusioni e speranze irrealizzabili (“i grandi illusionisti del XX secolo”). Gli ultimi capitoli sono dedicati alla mitologia dello Stato-mercato, la cui azione ha provocato la fine della politica con la disintegrazione della sinistra e della destra (varie pagine si riferiscono ai casi Berlusconi e Chavez, cioè a quello che viene definito “populismo” dello stato mercato) e all’economia della sharia con la nascita di una finanza islamica in grado di condizionare i mercati orientali. Il tribalismo economico caratterizza ormai interi settori. Possiamo andare verso nuove forme di “contratto sociale”? Potrebbero risultarne vincitori Cina ed Islam, ormai potenze capaci di disporre del destino dell’economia mondiale. Le previsioni di Loretta Napoleoni vanno lette e meditate, proprio perchè non sono affatto tranquillizzanti, per lo meno per noi europei.
trasforma, di pagina in pagina del libro Fotti il potere (Aliberti editore), in una specie di piccolo trattato sulla logica del potere. Il giornalista incalza il suo interlocutore nel chiedere chiarimenti e precisazioni su punti che sono stati al centro dell’attività politica del Presidente ed ottiene risposte che confermano quella mentalità estremamente pragmatica di Cossiga, che non si affida – come qualche suo successore – a modelli virtuosi di vita, ma anzi tiene a configurarsi estremamente realistico nelle valutazioni degli altri come dei propri caratteri ed errori. Sulla scia di un Kissinger infatti preferisce affrontare di petto i problemi più delicati ed insidiosi senza “infingimenti” a sostegno di “false virtù”. L’uomo – “lupo per gli altri uomini” – non può che comportarsi seguendo il proprio tornaconto e, perciò, pretendere dai politici atteggiamenti “egregi”, non si addice affatto a chi ha scelto l’impegno politico, che richiede ed impone determinati atti e non prepara a futuri posti nel paradiso. Comportarsi diversamente sarebbe esiziale. Così, considerata la condizione di paese “a sovranità limitata”, l’Italia repubblicana non aveva – afferma il presidente “fustigatore” – che scelte obbligate. D’altronde egli da giovane – rivelazione di questo libro – si recò negli Stati Uniti con altri promettenti giovani europei di formazione euro-occidentale, e così fu “allevato” a ben comprendere come è fatto il mondo, insieme a tanti altri rispettabili futuri capi politici del nostro continente, dalla Thatcher a Schmidt, a Giscard d’Estaing. La sua strada era quindi già tracciata e fedelmente alle istruzioni ricevute, egli si è comportato in coerenza di quanto si pretendeva da lui. D’altronde precisa alcuni punti al riguardo: ad esempio per la nomina del ministro degli Andrea Cangini, Fotti il potere, Esteri in Italia occorre il via libera degli Aliberti, 2010 americani. Le grandi potenze hanno sempre La lunga conversazione di Andrea “eliminato” i propri nemici: violenze, Cangini con Francesco Cossiga si assassini, colpi di Stato diventano indi45
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spensabili quando appaiono “utili”, e lo sguardo storico ripercorre anche i secoli passati, citando vari casi. Tornando alla politica interna, il piano “Solo” redatto dal generale Di Lorenzo per il presidente Segni – dice Cossiga – non era altro che un documento necessario per ottenere un preciso e determinasultato, presto verificatosi con il freno al centro-sinistra appena avviato. Ed egli, tra l’altro, rivendica di aver “infiltrato” agenti provocatori nel corpo dei gruppi estremisti negli anni di piombo: ne conosciamo – vogliamo aggiungere – gli effetti nell’assassinio di Giorgiana Masi a Ponte Garibaldi. Nella “logica di Caino” si spiega anche il caso Moro. Tutto è dipeso – a suo avviso – da una “imperizia” dei sequestratori che non vollero attendere un possibile scambio del prigioniero con brigatisti in carcere e compiendo l’assassinio per “una leggerezza, un calcolo sbagliato: un caso” (!) (l’esclamativo è nostro). E che dire del governo D’Alema? Lo stesso Cossiga assicurò gli americani – che non si fidavano troppo di Prodi e delle propensioni pacifiste di alcuni esponenti politici cattolici – circa la convenienza ad avere in quel preciso momento un presidente come l’ex esponente comunista, disponibile ad effettuare l’operazione Nato contro la Serbia. Questo realismo – che sconfina nello scetticismo sui comportamenti umani – diviene così “alta politica”, cioè mezzo per risolvere qualsiasi problema, senza pregiudizi e nessuna riserva morale. Questa visione concretista della politica come “arte” fa comprendere come la violenza e il tornaconto siano alla base dell’agire dei governanti. Alla luce dei tradimenti “doverosi” e degli omicidi “necessari”, il panorama illumina di un grigio tendente al buio peggiore la storia della nostra repubblica. E’ la realtà, ragazzo, non un gioco. Pensare diversamente significa allora non “capire” la politica. Un insegnamento utile, nella “ottusità generale” di cui il presidente fornisce la chiave di lettura. La forza è
forza, e tutto ciò che diviene “necessario” anche, anzi specie, se si tratta di un atto di per sè non encomiabile. Leggere per credere e per apprendere altre interessanti rivelazioni, dai legami di Licio Gelli con la diplomazia degli Stati Uniti, ai dirigenti del servizio segreto italiano nominati d’accordo con il partito comunista. Quanto alla magistratura, l’ex Presidente del Consiglio Superiore di quella istituzione spiega che le avvisaglie di quel che poi successe in quegli organismi è nella legge che garantì la promozione per “anzianità” di tutti i magistrati indipendentemente dai meriti o demeriti. L’ideale dei magistrati – dice Cossiga – è di fare essi direttamente tutte le leggi. La stessa Corte Costituzionale è, a suo avviso, un organo di “arbitraggio politico esercitato in finta forma giurisdizionale”. Critico nei confronti del falso pacifismo, afferma inoltre che la guerra, quando è necessaria per una parte, diviene inevitabile. A proposito della tesi del “doppio Stato” che sarebbe esistito in Italia egli afferma che “la verità è persino peggiore” di quel che si dice comunemente, nel senso che i vari terrorismi, servizi deviati e le notizie su fatti del genere sono tutti fenomeni spiegabili con la logica del potere. Quanto a Berlusconi ritiene che “l’interesse, a braccetto con la follia, può averlo spinto a scendere in politica”. In conclusione “l’interesse generale non esiste”, “la ragione non conta nulla” e i politici per essere realmente pronti all’esercizio del potere “devono aver frequentato il male”: ecco il panorama dell’Italia di ieri e di oggi, secondo il presidente sardo.
AA.VV., L a formazione dello S tato unitario, Rubbettino, 2012. Tra le numerose pubblicazioni edite in occasione del 150° anniversario dell’unità italiana merita di essere segnalato il volume della Fondazione Matteotti La formazione dello Stato unitario. In partico-
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lare l’introduzione di Guido Pescosolido “Il Risorgimento come problema storiografico” con il richiamo alla famosa opera di Carlo Tivaroni edita negli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento (nella quale già nel titolo si usava l’aggettivo “critica” nel delineare la storia risorgimentale), nonché alla più recente “deriva” antiunitaria. E quest’ultimo argomento è ripreso ampiamente nel saggio di Angelo G. Sabatini sul problema dell’ordine pubblico nel Regno delle due Sicilie. La “questione” del Mezzogiorno si presta a mille interpretazioni. Ma se non si collegano le condizioni del Sud post1860 alla situazione reale precedente ne verrà fuori una indagine priva della conoscenza del fattore originario della questione in discussione. E così Sabatini si sofferma su importanti testi della cosiddetta “contro-storia” che nei tempi più vicini ha raggiunto un rilevante numero di studi, tendenti a porre in rilievo nell’esperienza risorgimentale l’invasione di regioni meridionali ridotte a “colonie”, con i massacri, le violenze, il brigantaggio. Tutte “verità”, s’intende, ed è bene darne nozione ai giovani, ai dubbiosi dei vantaggi e dell’utilità dell’unificazione. Il tentativo di restaurazione dei Borboni dopo il 1861 poggiava su argomentazioni e su pratiche evenemenziali di significativa portata. In effetti – osserva lo studioso – i Borboni costruirono strade, svilupparono industrie e commerci, formarono un esercito. L’organizzazione amministrativa del nuovo Stato (al quale peraltro, nello stesso volume, c’è un saggio acuto e penetrante, non privo di tratti caustici, di Guido Melis sull’unificazione amministrativa) si avvia sulla base di un pensiero che intende essere rinnovatore, ma la vita reale del Meridione risente fortemente della situazione precedente. Ecco perché gli “invasori” non possono non preoccuparsi di tutte quelle forze che possono indebolire le nuove strutture e l’azione dei governi nei differenti livelli locali, ove si prolungano le condizioni preesistenti. Un brigantaggio assoldato dai Borboni non può essere colpito se non si procede con interventi decisi e pungenti, particolarmente diretti ad assicurare la tenuta
dell’ordine pubblico. Violenza contro violenza? I fautori della restaurazione rappresentano una variegata armata composta da fedeli al passato regime, avventurieri, soldati senza bandiera, contadini rancorosi contro le pretese del “nuovo ordine” di farsi rispettare e di esigere il servizio militare: istanze certamente valide, ma di fronte a bande armate diffuse, guidate da capitani esperti e coraggiosi, i 120 mila soldati del nuovo regno non possono che utilizzare le leggi da stato d’assedio stabilito dai nuovi governanti. Un brigantaggio rafforzato dalla miseria non sembra diminuire: d’altronde – osserva Sabatini – provvedimenti analoghi riguardarono gli altri territori “annessi”, dalla Toscana al Lombardo-Veneto. La guerriglia è nei fatti non un intruso ma una logica conseguenza. Quindi un’opera lenta e tenace di “conquista” viene svolta in quelle condizioni particolari, alle quali però va congiunto, per una rilevazione storiografica obiettiva, l’evidente avvio di pratiche economiche ed istituzionali che consentono all’intero Stato unitario di conseguire i “vantaggi” dell’inserimento nella grande società “europea” dei commerci, dell’ esportazione, donde quell’evento storico diventa utile per le varie regioni del nuovo Stato, a seconda delle diverse possibilità e risorse esistenti. Se i soggetti partecipi alla “resistenza” hanno le loro valide motivazioni in riferimento ad una serie indubbia di soprusi e violenze, è altrettanto vero che l’applicazione della dura legge Pica per la repressione del brigantaggio è uno strumento rivolto a isolare, indebolire, punire quel che si opponeva al “nuovo” ordine. Se si voleva costituire uno Stato moderno poteva essere adottata una politica diversa? Teniamo presente che la classe dirigente – sia liberale che conservatrice – era formata da gruppi colti, preparati, informati e aggiornati al progresso europeo: non a caso quella meridionale era cresciuta all’ombra dei Borboni! Ecco il paradosso della nascita dell’Italia. La “conquista del Sud” ha implicato misure severe: se si fossero usate pratiche meno stringenti, probabilmente si sarebbero evitate “rotture” gravi e psicologicamente dannose, ma non è detto
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che si sarebbero ottenuti risultati migliori. La scelta compiuta non depone a favore della lungimiranza dei governi di allora: vere e proprie azioni militari distruttive ed oppressive rendono valide le critiche e il ripetuto atteggiamento oppositorio di ampie parti della popolazione. Il prezzo pagato dallo Stato “italiano” è stato certamente pesante e spiega l’atteggiamento di denuncia e protesta a lungo perdurante nelle regioni coinvolte. Il “disagio” concerneva non gruppi ridotti o isolati, al contrario è ampiamente diffuso: la risposta al disagio è il compimento severo, al limite disgregante, di operazioni militari vere e proprie, rendendo così impossibile un rapporto di reciproca fiducia tra Stato e sudditi, tanto che non pochi meridionali non si sentiranno “cittadini” alla pari. E le misure applicate per la cattura del recalcitranti, dei violatori di leggi, a cominciare dai renitenti, vengono eseguite come se si dovesse estirpare un nemico. Nel saggio vengono citate particolari situazioni come quelle del brigante Carmine Crocco, nonché numerose iniziative dirette a rovesciare il dominio dei “piemontesi”. Vorremmo a questo riguardo aggiungere che – pur nella diversità di posizioni e condizioni – fenomeni simili si ebbero dopo la guerra di secessione negli Stati Uniti, con analoghi strascichi di odio, risentimenti, vittime innumere. In Italia, come nella Confederazione americana, in effetti “vinse” – si potrebbe dire – la parte più “efficiente” del paese, a prezzo di violazioni evidenti dei principi stessi di libertà, in nome dei quali si stava unificando lo Stato. Dati di fatto incontrovertibili e documentati che vanno giudicati sul piano storico, riconoscendo gli errori e i crimini commessi dalla parte “vincente”. Le “ragioni” della causa borbonica cedono perché di fatto è sostenuta da una parte intrinsecamente più debole, tanto più che si era disperso quell’esercito napoletano di cui i Borboni si vantavano. La politica e la storiografia europea prendono atto della conseguita unità, dei successi di Cavour come della “forza” dispiegata dallo Stato unitario,
una costruzione da criticare per la mancata applicazione delle pratiche “liberali”, ma con risultati storicamente da valutare per gli effetti conseguiti, secondo la documentazione dei dati economici forniti da Corbino e Romeo, mentre le sofferenze degli sconfitti entreranno a far parte della storia dei “perdenti”. I sostenitori ancora “attuali” dei Borboni hanno certamente molti motivi da far valere in merito ai metodi messi in atto dai governi “nazionali”, ma la realtà storica va valutata per l’insieme degli eventi allora verificatisi e che vanno riconosciuti per quell’insieme di azioni e reazioni proprie di ogni evento complesso. Riflessioni amare che non nascondono l’entità delle violenze compiute, ma che vanno inquadrate in una più vasta considerazione economica e civile, tanto più che il brigantaggio in quelle regioni era già diffuso. Merito di Sabatini è aver fornito sul delicato e contrastato tema notizie precise nei confronti con la situazione precedente. Così il “brigantaggio” perde ogni venatura dal sapore “romantico” o nostalgico per rientrare nel novero dei fatti accaduti, pregni di verità amare, di violenze e di saccheggi, quale prezzo inevitabile insito in ogni impresa sia pure dall’intento innovatore. La realtà dell’Ottocento in Europa in trasformazione è ricca di pagine furiose, inquietanti: la valutazione che ciascuno può fare risponde alle posizioni rispettive degli indagatori, dei critici, degli entusiasti, dei perdenti. La storia è spietata anche in pagine descritte da alcuni con intenti apologetici – a copertura di operazioni discutibili ed anche esecrabili – da allora ad oggi. Conosciamo le pene inflitte, i dolori, le ingiustizie. Ciò non esclude che passi in avanti siano stati conseguiti. Entrambe le serie di fenomeni registrati fanno parte del nostro presente, come ammonimenti e riflessioni. Ma ciò appartiene alla storia di tanti Paesi. In questo senso le osservazioni contenute nel libro possono essere utili per saper distinguere il significato vero dei fatti e i loro riflessi sugli eventi successivi.
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