TEMPO PRESENTE
N. 385-388 gennaio-aprile 2013
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SEGNI E SIGNIFICATI DI UNA CRISI
LA CRISI DELLA DEMOCRAZIA DI ALCUNI FATTORI CRITICI DELLA DEMOCRAZIA IN ITALIA PER UNA DEMOCRAZIA GOVERNANTE UNA DEMOCRAZIA SENZA PARTITI ? * LE FONDAZIONI FRA BANCA E TERZO SETTORE *
LA LEZIONE DI ThOMAS MORE
MODERNITA’ DI MORE UTOPIA E COSCIENZA UTOPIA, UNA FORMA DELL’OPPOSIZIONE ? L’ISOLA DELL’UTOPIA * IL LAICISMO DI GAETANO SALVEMINI * LEO VALIANI A CENT’ANNI DALLA NASCITA * RIFLESSIONI PRE-ELETTORALI * LE STAGIONI DI UNA VITA
Cantarano Casu Ciampi Emanuele Garofalo Pecora Pellicani Sabatini Traversa Vannucci Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA
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Angelo G. SABATINI
COMITATO EDITORIALE
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Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI GRAFICA
Adriano MERLO PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel/fax 06/8078113 Fotocomposizione e stampa: Centro Rotoweb srl - Via Tazio Nuvolari, 3 00011 Tivoli Terme (RM)
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TEMPO PRESENTE
Rivista mensile di cultura N. 385-388 Gennaio - Aprile 2013 PRIMA PAGINA
S egni e significati di una crisi ANtoNio CAsu, La crisi della democrazia, p. 3 ANGeLo G. sAbAtiNi, Di alcuni fattori critici della democrazia in italia, p. 9 LuCiANo PeLLiCANi, Per una democrazia governante, p. 14 GiusePPe CANtARANo, una democrazia oltre i partiti?, p. 17 DAviDe
COMMENTO vANNuCCi , Le Fondazioni tra banca e terzo settore, p. 20 OSSERVATORIO
V erso l’ Utopia di Thomas More ANGeLo G. sAbAtiNi, Modernità di More, p. 23 MARio CiAMPi, utopia e coscienza, p. 30 GuiDo tRAveRsA, utopia, una forma dell’opposizione?, p. 33 ANtoNio CAsu, L’isola dell’utopia, p. 36 UOMINI E IDEE GAetANo PeCoRA, il laicismo di Gaetano salvemini, p. 41 sARA GARoFALo, Leo valiani a cent’anni dalla nascita, p. 45 LE MASCHERE DELL'ARTE
teResA eMANueLe, Riflessioni pre-elettorali, p. 47 LETTURE Angelo G. sabatini, Le stagioni di una vita, p. 49
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PRiMA PAGiNA
segni e significati di una crisi Antonio Casu, Angelo G. Sabatini, Luciano Pellicani, Giuseppe Cantarano
Antonio Casu L a cr i si del l a democr a z i a
1. Etica e politica - uno dei convincimenti attualmente più ricorrenti e insidiosi è quello secondo cui vi sarebbe una cesura necessaria tra etica e politica. tale affermazione si basa, nella migliore delle ipotesi, sulla considerazione che, da una parte, la politica è l'arte del possibile, del compromesso, e dunque per sua natura tende a privilegiare ciò che accomuna e non ciò che separa, mentre dall'altra l'etica, in quanto derivante da convincimenti di natura pervasiva, religiosi o ideologici, risulterebbe necessariamente divisiva, e in ogni caso farebbe emergere le differenze profonde e irriducibili tra le parti. Di qui le espressioni di superiorità venata da cinismo che talvolta i custodi degli arcana imperii riservano a coloro che lamentano la divaricazione tra politica ed etica. Questo convincimento è, si diceva un tempo, falso e tendenzioso. in realtà, la politica disancorata dall'etica non è necessariamente mediazione degli interessi contrapposti. o lo è solo quando essi si pongono in sostanziale equilibrio tra loro. Ma quando uno tra essi si pone in condizione di netta supremazia rispetto agli altri, che può fare la politica come mediazione? Per quanti sforzi possano essere prodigati in tal senso, non potrà che riconoscere la legge del più forte, e nella peggiore delle ipotesi, situazione molto diffusa nella realtà, il negoziato politico non sarà volto al riequilibrio delle parti, ma a trarre vantaggio dalla legittimazione di chi si trova nella situazione de facto più forte. in sostanza, la politica senza un autentico ancoraggio etico si riduce ad oliare gli ingranaggi del potere. La resistenza a
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questa condizione è stata condotta, in passato, sopratutto da due forze di rilevante capacità di coagulazione e orientamento: la religione e l'ideologia. Ciascuna possedeva un corpus strutturato di principi e criteri direttivi, e due formidabili canali di formazione dei quadri, in particolare delle giovani generazioni: le parrocchie e le sezioni. Nella società attuale questi centri di orientamento sono in gran parte venuti meno, come le sezioni, o sono fortemente ridimensionati, come le parrocchie, a causa della contrazione del numero dei praticanti. Hanno perso gran parte della loro capacità di attrazione, e sembrano rassegnati a rivolgersi, nelle odierne rispettive configurazioni, a minoranze ben determinate, più che, come un tempo, a tutti. secondo molti, hanno in qualche modo perso la loro aspettativa universalistica, a causa della crisi della religione e della "morte delle ideologie". Ma questo dato non sposta i termini di fondo, anzi in certa misura li conferma. solo dei principi forti possono limitare il potere. il potere può essere arginato solo da un quadro di valori di riferimento dotato di autorevolezza tale da risultare incontestabile, o difficilmente contestabile, persino dal potere. oggi quale fonte può essere così autorevole per tutti da legittimare una resistenza credibile al potere? e sopratutto, in un contesto pluralistico e relativistico come quello attuale, nel quale nessuna parte intende cedere la propria autonomia ad altre, come si può trovare un compromesso non a livello di gestione del potere ma di valori di riferimento? ecco il punto: la politica non solo non può essere separata dall'etica, ma ha bisogno di una cornice di regole etiche di riferimento, con la precisazione che, per
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essere accettate, devono essere condivise. e dunque, occorre accettare la logica del confronto sui valori etici per individuare quelli comuni. L'etica diventa così un potente, anzi, insostituibile, fattore unificante del corpo sociale e conseguentemente delle sue istituzioni politiche. Diviene un fattore fondante della comunità nazionale, basata sulla reciproca legittimazione, e dunque un fattore dirimente nella costruzione di un'identità nazionale. Nulla di diverso significa il processo costituente: parti differenti e anche lontane tra loro privilegiano i valori comuni, in un quadro di riconoscimento reciproco. Così è nata la nostra costituzione repubblicana, con il contributo di cattolici e laici, di democristiani e comunisti, di socialisti e liberali. Né si può oggi pensare che il collante sia solo quello nazionale, o peggio etnico, in un mondo ormai definitivamente multietnico e correlato dalla rete, dalla comunicazione, dalla libertà di movimento.
2. Formazione e informazione - e’ evidente che questo processo ha i suoi nemici. e tuttavia, in qualunque forma si manifesti, il nemico è in realtà uno solo: il potere. il quale da tempo ha scelto di non manifestare il suo "volto demoniaco" – con buona pace di Gerhard Ritter – ma anzi ha scelto la strada meno rischiosa e più redditizia di orientare le masse, mediante i canali privilegiati della formazione e dell'informazione. Per la verità, la strada scelta negli ultimi decenni è stata molto diversa da quella tradizionale. in società sufficientemente coese, come quelle liberali e inizialmente quelle democratiche, il potere ha sempre cercato di conquistare il primato nella formazione delle classi dirigenti, e i diversi poteri si sono confrontati e scontrati su questo crinale. si pensi al conflitto tra la nuova classe dirigente liberale e la Chiesa a proposito del ruolo dei gesuiti, che portò allo scioglimento, per alcuni anni, della compagnia. Ma attualmente, a fronte della disintegrazione sociale e all'estinzione delle classi tradizionali, segno distintivo di una
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modernità o post-modernità liquida (bauman) o in polvere (Appadurai), la via preferita è stata quella della dequalificazione dell'istruzione e dell'insegnamento, sopratutto di quello universitario. Le classi di marxiana memoria, superate dalla storia, ricompaiono così in una versione nuova e radicalizzata, che segna la progressiva espulsione della borghesia, afflitta dalla crisi economica e sociale, dall'istruzione e dalla formazione di rango elevato, che diviene così appannaggio di una classe dominante sempre più ristretta e internazionalizzata. Non diversamente avviene per l'informazione, che da almeno due decenni ha abdicato a quella funzione nazionalpopolare di istruzione delle masse che ha caratterizzato, e cementato, i primi decenni di vita repubblicana e democratica, unificando il paese, e le sue diverse realtà territoriali, attraverso un uso sapiente della rivisitazione storica, in particolare grazie a sceneggiati e documentari di elevata qualità, e un'attenzione significativa alla lingua italiana, insegnata a vaste aree di analfabetismo ma soprattutto correttamente pronunciata in video. il presente, al contrario, è sotto gli occhi di tutti. La ricerca dello share ha fatto proliferare i programmi spazzatura, e oggi invece di rievocare le vicende che hanno costruito l'italia, si pensi allo sceneggiato su Cavour, alle produzioni tratte ai romanzi di bo e bacchelli, ecc., l'homo televisivus preconizzato, anzi paventato, da Popper forma la sua in-coscienza assistendo a versioni televisive dei fotoromanzi e all'ostentazione dei pettegolezzi e dei litigi familiari. Per non parlare delle ingiurie alla lingua italiana, che la dicono lunga sui canali di accesso ai microfoni o alle telecamere. Al riguardo propongo la costituzione di un'autorità di vigilanza sul corretto uso della lingua nazionale sui mezzi di comunicazione di massa. sono fiducioso che nel nostro Paese, che guarda con crescente favore alle authorities, questo appello non rimarrà inascoltato. Altra cosa, evidentemente, è che dia i risultati sperati.
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3. Bene comune - uno dei terreni privilegiati di verifica di quanto si sostiene è la teoria della democrazia, a partire dai suoi fondamenti. Per lungo tempo la teoria democratica poggiava le sue basi sul concetto di bene comune. in effetti, a ben vedere, fin dalla classicità, gli antichi invocavano il bene "comune" in quanto non lo si voleva riservato solo ed esclusivamente ai detentori del potere costituito, che lo avevano acquisito o per diritto di nascita o con la forza. La democrazia è in realtà un obiettivo progressivo, mai perfettamente compiuto, perché, estrinsecandosi nel governo della maggioranza che si esercita mediante deliberazioni, viene sottoposto a verifiche continue, a continue oscillazioni di consenso e dunque di maggioranza. Ma questo regime di verifica attiene al modo di esercizio della democrazia, non alla sua ragione ultima, che è appunto la condivisione del potere. Così anche nei principali esponenti della teoria classica della democrazia (a partire da Rousseau), nei quali una cosa è la sostanza della democrazia, altro il modo di realizzarla, e tuttavia la sostanza e la forma devono essere in rapporto costante e funzionale, pena la democrazia imbelle, e successive derive autoritarie. Ma la teoria classica della democrazia ha avuto i suoi detrattori, e i suoi colpi di maglio. si pensi a Mandeville, alla sua Favola delle api che descrive la concorrenza come motore del progresso, come unica premessa di prosperità, costi quel che costi, anzi proprio grazie ai costi spesso terribili che infligge ai più deboli, e che dunque non fa altro che legittimare la legge naturale del più forte. Mandeville irride l'etica sociale come quella individuale, e in realtà disarticola e delegittima la stessa necessità dell'etica. Persino Hobbes, che per regolamentare le tempestose relazioni interstatali del tempo aveva de-teleogizzato la politica e conferito al Leviatano il monopolio pubblico della forza, come unica condizione per evitare la retrocessione del genere
umano alla condizione ferina, accettava la condivisione come presupposto dell'edificazione dello stato. Lo scambio libertà individuale-sicurezza collettiva era imperniato sull’accettazione degli individui, oltre che del corpo sociale, e presupponeva una larga, anzi maggioritaria, adesione. ed effettivamente, nell'espressione "bene comune", cioè nel connubio tra il concetto di "bene", ciò che è ritenuto meglio/giusto/preferibile/conveniente, e la qualificazione di "comune", che implica la scelta della condivisione rispetto al godimento esclusivo o di gruppi ristretti, è insito il fondamento etico della teoria classica della democrazia. Per i credenti, il fondamento etico della democrazia è situato in un territorio prepolitico e pre-normativo, quello proprio di verità pre-esistenti e assolute. Per i non credenti, rectius: per i laici, il fondamento etico è immanente, ed è proprio la condivisione, la più ampia possibile, dei valori e dei criteri che sorreggono il funzionamento della coesistenza umana, e più oltre della res publica. Nella condivisione, nella ricerca dell'inclusione del maggior numero di persone nella decisione politica, che riverbera i suoi effetti proprio sull'esistenza degli stessi soggetti che vi partecipano, come di quelli che malauguratamente ne restano esclusi, vi è la testimonianza attendibile della valenza etica della democrazia. e la sua cifra distintiva rispetto ad altri sistemi politici fondati sul principio del governo di pochi o di uno.
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4. La crisi della democrazia - Ma la crisi della teoria classica della democrazia si manifesta in modo preclaro negli anni trenta e Quaranta del Novecento. e non solo sul piano politico, come si potrebbe essere indotti a credere in relazione agli eventi di quel periodo, ma proprio sul piano teorico. il momento fondamentale è la pubblicazione del libro Capitalismo socialismo democrazia di Joseph Alois schumpeter.
Antonio Casu
Certo, quando ci si trova di fronte ad una svolta, l'indicazione di una decorrenza precisa è sempre una scelta in qualche misura arbitraria, che mette in ombra i prodromi, spesso rilevanti, come i seguiti, talvolta anch'essi non meno rilevanti. e così è anche in questa scelta. e tuttavia, nel panorama dei contributi intellettuali di quel torno di tempo, di quella stagione tormentata ma ricca di fermenti, il pensiero di schumpeter costituisce una chiave di volta. Mi riferisco evidentemente alla sua "teoria della leadership concorrenziale", che individua il contenuto tipico della democrazia nella competizione tra gruppi di interesse per la conquista del governo di un paese, nel rispetto delle regole di una competizione elettorale e nel quadro della democrazia rappresentativa. La teoria politica di schumpeter annichilisce ogni esigenza di fondamenta etiche del vivere sociale, e riduce la democrazia a mera procedura. L'ambito della condivisione si riduce dunque alla mera accettazione dei meccanismi rappresentativi ed elettorali, senza valori di riferimento. È l'applicazione del relativismo alla teoria democratica. in questo schumpeter precorre i tempi. e per questo il suo è un percorso distinto da quello che, parallelamente, compiono Kelsen sul piano giuridico e Keynes sul piano economico. schumpeter preconizza la democrazia procedurale in un quadro complessivo nel quale recepisce di fatto la teoria marxiana del crollo del capitalismo. Le cose non sono poi andate precisamente in quel modo. Kelsen e Keynes rappresentano invece la risposta del capitalismo alla sfida del sistema politico antagonista, il socialismo reale. il capitalismo delle origini era certo il più grande sistema economico sul piano della creazione della ricchezza, il più grande della storia, come ebbe a riconoscere lo stesso Marx nelle Forme economiche precapitalistiche. Ma il suo originario contenuto di sfruttamento selvaggio della risorsa lavoro, a carico di donne, bambini, classi subalterne, aveva favorito la diffu-
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sione del verbo rivoluzionario comunista. La risposta del capitalismo, che richiese decenni per maturare, fu lo stato sociale, di cui i presupposti teorici furono proprio la dottrina pura del diritto e dello stato di Kelsen e la teoria economica di Keynes, in particolare per quanto riguarda il ruolo statale nel finanziamento dei lavori pubblici e nella distribuzione delle risorse. Non è un caso che l'affermazione dello stato sociale sia stata la causa principale del crescente consenso dei sistemi capitalistici tra i paesi occidentali. Lo stato sociale è l’utopia positiva interna al capitalismo, nella versione liberale temperata, cioè non selvaggiamente liberista: il capitalismo dal volto umano. Ma l’occidente partorisce nello stesso tempo anche un’utopia speculare nel campo socialista, la socialdemocrazia. si pensi non solo alle democrazie scandinave, ad esempio al piano Meidner degli anni settanta, che prevedeva la compartecipazione tra capitale e lavoro, che in qualche misura rappresenta la soluzione più avanzata; ma sopratutto al cosiddetto "capitalismo renano", cioè a quell'esperienza di capitalismo continentale, in particolare franco-tedesco, che considera il fattore umano, quindi il lavoro, come variabile interna e indispensabile del successo economico. in ciò distinguendosi dal modello anglosassone, più marcatamente liberista. Lo stato sociale e la socialdemocrazia sono le due risposte dell’occidente, rispettivamente nel campo liberale e in quello socialista, alla sfida posta dal modello comunista di organizzazione della società e dello stato, alla divisione dei poteri contro l’unità del potere, all’economia di mercato contro la pianificazione dirigista. Da questo punto di vista, entrambe le risposte chiaramente inaccettabili per l’ortodossia comunista, la socialdemocrazia – il “social fascismo” – non meno dello stato sociale. Stato sociale e socialdemocrazia sono le grandi speranze della società liberale europea della seconda metà del Novecento. Due proposte politiche e
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anche due miti, la cui sopravvivenza era consustanziale al permanere della dialettica est-ovest. Le due parole che rischiano di perdersi nel breve volgere di questa stagione internazionale, globalizzata e priva di riferimenti certi. oggettivamente, le due utopie recuperano e valorizzano contenuti solidaristici insiti in una terza utopia dimenticata, che viene più da lontano, dall’eredità della Rivoluzione del 1789. i secoli successivi si sono aggrappati alle utopie costruttivistiche della libertà e dell’eguaglianza. i percorsi teorici e i processi politici hanno dato corpo alle due parole d’ordine. Non a caso, nella conduzione delle nazioni è rimasta esclusa la fraternità, che in precedenza trovava precipua ragion d’essere nel messaggio religioso di matrice cristiana. ecco dunque che, deflagrato nel 1989 – a distanza esatta di due secoli dalla presa della bastiglia – il modello comunista, sotto il peso delle sue contraddizioni interne e internazionali, il capitalismo non aveva più necessità dello stato sociale, non aveva più bisogno di un vasto consenso politico per evitare l’insorgenza di stati comunisti nell'occidente, nel quale vi erano peraltro, specie nel cuore dell'europa, partiti comunisti di grande peso e tradizione. Non vi era più bisogno, cioè, di stornare ingenti capitali pubblici per stabilizzare la situazione sociale oltre un certo limite di auspicabilità, una soglia destinata ad abbassarsi sensibilmente in assenza di pericoli imminenti. e per di più questa possibilità di liberare risorse diventava maggiormente appetibile nel quadro della transizione da un'economia industriale a una finanziaria. La crisi attuale è la manifestazione di una guerra finanziaria (Gallino), anzi della prima guerra finanziaria mondiale. Mentre Kelsen e Keynes vanno collocati dentro le coordinate teoriche dello stato sociale, schumpeter è in qualche modo un profeta del tempo presente, della crisi in atto nella democrazia occidentale. una democrazia sempre più formale, sempre più attenta alle soluzioni ingegneristiche, come l'esperienza delle
tentate riforme istituzionali insegna, e che in sostanza si limita a individuare le rotte più favorevoli di un percorso già tracciato, spesso abdicando a risolvere, e persino ad affrontare, i problemi sostanziali sottostanti: economici, sociali, etici.
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5. La crisi della partecipazione democratica - La percezione che si avverte con sempre maggiore nitidezza è che dalla crisi non si esce perché non si guarda alle sue ragioni profonde, perché il campo d'azione della politica sembra limitarsi agli aggiustamenti. e che ciò avvenga perché spostare l'attenzione sulle cause ultime può mettere a repentaglio interessi fondamentali. in particolare non si indagano le ragioni etiche della crisi, forse proprio perché le relative conclusioni sarebbero inconciliabili con lo statu quo. eppure, per molti versi, la crisi dello stato è una crisi etica. È anche il portato di una mancanza di legittimazione reciproca, che non può naturalmente essere limitata al riconoscimento incrociato delle opposte parti politiche, condizione necessaria ma non sufficiente, e che anzi se ritenuta esaustiva si può tradurre paradossalmente un aggravamento della crisi, in un ulteriore fattore di separazione tra società civile e istituzioni politiche. La legittimazione reciproca diventa invece un fattore di crescita democratica se espressione della capacità di ascolto della politica nei confronti della cittadinanza, se i suoi canali di intermediazione e rappresentanza – in primo luogo i partiti – non sono mere cinghie di trasmissione di decisioni assunte in alto loco, ma recuperano la loro funzione di cerniera tra esigenze reali e strumenti politici. La crisi etica dello stato è anche e sopratutto una crisi di partecipazione democratica, perché la partecipazione è il presupposto indefettibile del confronto e della conseguente individuazione delle soluzioni comuni, della condivisione di un progetto di società. un progetto per tutti o per la grande maggioranza dei cittadini non può scaturire da una deriva
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oligarchica, né dalla sua manifestazione estrema, la deriva plebiscitaria. inoltre, senza l’individuazione di un minimo comune denominatore etico, comune e condiviso, non si può avere legittimazione reciproca delle rispettive priorità, vissute da ciascuna parte come estranee o peggio come dannose. L’insuccesso dei reiterati e sterili tentativi di varare riforme costituzionali o riforme strutturali dell’economia è il prodotto inevitabile della mancanza di riconoscimento incrociato. senza la relazione fondamentale – giuridica ma anche etica, dunque pre-giuridica – del reciproco riconoscimento, non si potrà individuare alcun orizzonte definito cui indirizzare impegni di governo ed azione politica, e si potrà solo navigare a vista, bruciando risorse e alimentando di fatto il disagio sociale. in definitiva, non ci si può mettere d’accordo sulle misure economiche e sociali, in sostanza non si possono individuare le priorità dell’azione politica, senza una cornice di valori comuni di riferimento e senza la legittimazione dei soggetti che in quella cornice si riconoscono. e dunque, la crisi della democrazia non è solo una questione di metodo. La sola, per quanto imprescindibile, esigenza del consenso sui valori fondamentali mette in ombra la sostanza del problema e attiva quei percorsi di formazione e induzione del consenso che hanno prodotto le degenerazioni cui sopra si accennava. o, in alternativa, determina una riluttanza nei confronti del consenso stesso, con l’adozione di governi tecnici la cui azione politica non sia condizionata dalle oscillazioni del corpo elettorale. La cultura politica elitistica, in particolare quella americana, già da alcuni decenni ha compiuto la sostituzione del soggetto centrale della tesi schumpeteriana, le élites politiche, con il sistema produttivo prima e con il sistema bancario-assicurativo dopo. si ricordino al riguardo le elaborazioni concernenti il “mercato politico”, la “antropomorfica volontà dei mercati in economia” (Dogliani). La rea-
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zione allo stato sociale si esprime nella “teoria della scelta razionale” che individua il pluralismo come un ostacolo al razionale dispiegamento del mercato, e restituisce centralità all’individuo uti singulus, non in quanto parte di una comunità. Di qui l’attacco alle comunità intermedie, indebolite e delegittimate in modo progressivo. Così per partiti, sindacati, associazioni. Così anche per la famiglia. Questa teorizzazione è specularmente contraria a quella del pluralismo giuridico che, ad esempio, si ritrova nella Costituzione italiana del 1948 che, all’art. 2, “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale." Questa fondamentale disposizione, che non a caso rappresenta uno dei punti più qualificanti dell’incontro tra le principali componenti ideali e politiche del panorama italiano dell’epoca – cattolici, liberali e social comunisti – si rivela più in profondità come il punto d’incontro tra giusnaturalismo e giuspositivismo, tra personalismo e pluralismo, tra tutela dei diritti individuali e ruolo garantista dello stato. Risuonano così profetiche le parole di Giorgio La Pira il quale, nel dibattito nella Prima sottocommissione dell’ Assemblea Costituente, sosteneva le ragioni del solidarismo, in base alla quale i diritti della persona non possono essere tutelati pienamente se non si tutelano anche le comunità nelle quali la persona si realizza. La tutela di tali diritti era a suo avviso l’unica premessa di un effettivo riconoscimento dei diritti imprescrittibili dell'uomo” (seduta del 9 settembre 1946, p. 15). una posizione che trova significativo riscontro nelle tesi di Lelio basso, secondo il quale la persona non può essere giuridicamente considerata se non in funzione delle molteplici relazioni, non soltanto materiali ma anche spirituali” (10 settembre 1946, pp. 24-25). una concordanza rafforzata poi dalla convergenza di togliatti sull’ordine del giorno
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Dossetti, che dette origine all’attuale formulazione dell’art. 2, nel quale vengono sanciti ed armonizzati tre principi fondamentali: il personalistmo, che riconosce l’anteriorità della persona rispetto allo stato; il pluralismo, che riconosce l’anteriorità delle comunità rispetto allo stato; il solidarismo, che riconosce la socialità della persona come fondamento della solidarietà sociale e dunque della convivenza sociale. Ma questo era nel 1948. La teoria critica del pluralismo individua l’espressione più alta della libertà personale nel mercato, capace di esaltare la capacità di scelta razionale dell’individuo. il mercato è il luogo privilegiato della sua libertà di espressione. il presente è figlio di Mandeville, non di Rousseau, ma neanche più di schumpeter. il rapporto è tra individuo e mercato, il rapporto tra società civile e istituzioni politiche, di derivazione hegeliana, è da considerarsi archiviato. Le istituzioni politiche sono dunque considerate un peso sociale, da cui emanciparsi, al pari delle religioni, almeno nella loro pretesa di richiamarsi a valori universali. oggi, il luogo di aggregazione e riconoscimento comunitario, delle famiglie come delle amicizie, il luogo dove trascorrere il tempo libero (residuo) non sono più le cattedrali, ma i centri commerciali. si approda così alla post-democrazia (Crouch). La forma della democrazia può essere mantenuta, il problema diventa la partecipazione democratica. il favore va dunque alle tecnocrazie, specie sovrannazionali e transnazionali, a quelle politiche e intergovernative come a quelle economico-finanziarie. un processo accompagnato da un uso funzionale dei mass media, volto ad alimentare la disaffezione politica e il riflusso nel privato, oscurando le ragioni del disagio sociale ma enfatizzandone la cronaca, che a sua volta alimenta insicurezza diffusa e richiesta di protezione. Questo processo di atomizzazione sociale, controbilanciato funzionalmente
da potenti fattori di riaggregazione soprattutto nel campo dell’informazione, trova riscontro nella creazione di un sistema di valori che delegittima in radice l’impianto su cui si è eretta la civiltà europea e poi quella occidentale, non fondando il merito sulle virtù, la cui utilità è sostanzialmente rigettata, ma sulle aspettative individuali, che incontrano il pieno riconoscimento giuridico. i tradizionali fattori di coesione sociale – solidarietà, volontariato ecc – sono tollerati nella misura sufficiente a stabilizzare il mercato. Non la virtù, ma il desiderio è non solo la molla che determina lo sviluppo, ma anche la misura della legittimazione comunitaria. Le virtù tradizionali sono delegittimate anche mediante un processo di sostituzione lessicale: si dice buonuomo per indicare colui che è privo di determinazione o di mordente, onesto funzionario per chi è privo di carattere e non sa imporsi, la qualifica di furbo si attaglia a persone che riscuotono ammirazione, e via dicendo. Per la stessa ragione, all’opposto, i difetti del passato divengono i pregi del presente, in particolare la competitività. Appunto, una caratteristica fondata sulla concorrenza, sul conflitto interpersonale, l’antitesi della condivisione, della solidarietà. in questa erosione etica della democrazia affondano le radici della sua crisi, il suo indebolimento interno e strutturale, la sua difficoltà di risolvere i problemi sociali di masse sempre più vaste e impoverite. La post-democrazia rischia di risolversi in una sostanziale oligarchia sovrannazionale, che segnerebbe la sua fine. La partecipazione democratica, il recupero di ruolo delle comunità intermedie, il ripristino di una rigorosa selezione delle classi dirigenti, nuove forme di responsabilità sociale diffusa sono gli antidoti per un risanamento necessario, per una democrazia autorevole, sostenibile, efficace.
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Angelo G. Sabatini
menti in gioco, che possono svilupparsi Angelo G. Sabatini Di alcuni fattori critici della a favore dell’interesse personale o di gruppo e/o a favore del bene comune. democrazia in Italia Molti sono i fattori di crisi che inquinano la vita politica italiana e incidono persino sui principi di base del sistema democratico. e non occorrono molti sforzi per rendersene conto. sono sotto gli occhi di tutti. La saggistica politica se ne nutre in abbondanza e i mezzi di informazione ne fanno uso quotidiano. Fattori che emergono alcuni in forma evidente ed altri vanno fatti emergere e posti alla superficie della nostra attenzione individuandone il ruolo non secondario nella configurazione delle funzioni che essi svolgono nella percezione della gravità della crisi. Non è difficile rendersi conto che a turbare il processo di crescita della transizione del Paese verso una democrazia matura intervengono certamente a) il solco che separa la teoria critica di una visione politica con fondamento democratico e l’uso improprio che ne fanno i designati dal corpo sociale a realizzarla; b) la difficoltà a gestire correttamente il principio della maggioranza in rapporto collaborativo con i diritti della minoranza; c) la condizione ormai conflittuale del rapporto della giustizia con il cittadino e con i politici. tre motivi di una più vasta rassegna su cui occorrerebbe porre attenzione prima ancora di poter immaginare una terapia di risanamento di una società politica “malata”.
a) Il distacco tra teoria e prassi - Nella lunga esperienza di docente di filosofia morale, prima, e di filosofia politica, dopo, mi si è offerta spesso l’occasione di poter iniziare le conversazioni con gli studenti con due affermazioni di sapore apodittico: la riflessione che il filosofo presenta ai giovani interlocutori è di tale natura teorica da legittimare l’aspirazione “utopica” ad uno stato perfetto, dove l’organizzazione del potere segue il principio della razionalizzazione degli ele-
un tale assioma molto spesso sovrasta la attualità dell’azione politica fino a tradursi, in momenti di crisi, in strumento di legittimazione del “bene individuale”. una teoria del potere che voglia salvaguardare lo schema democratico della sua organizzazione fattuale deve poter far coincidere il bene comune con quello individuale. La storia delle teorie politiche ispirate a tale principio è dominata da una constatazione: tra teoria e prassi c’è un divario ricorrente motivato dal fatto che la sintesi non è automatica, come la teoria o la speranza potrebbe portarci a credere. il tassello di congiunzione è nell’uso che gli uomini fanno di quell’istanza sapendo costruire mezzi e strumenti adeguati al progetto di una società così desiderata. una capacità che si coltiva solo sul terreno della conoscenza (cultura) surrogata dalla coscienza (etica). se questo assioma si trasforma in uno strumento di analisi della condizione della vita politica del nostro Paese il risultato è la constatazione che all’origine della crisi c’è una deficienza di cultura e di eticità. Di qui il ritornello di saggisti politici e di comunicatori pubblici nel sentenziare il vulnus prevalente nella crisi della politica. essi assommano in un’unica ragione della crisi, ormai endemica, della società politica l’instabilità economica con deficienza di cultura politica, che in questo caso si identifica con l’insufficienza di cultura economica, non nel senso di mancanza di sapere economico bensì nel senso di valutare l’azione politica dell’economia al di qua o al di là delle ragioni che presiedono al valore dell’azione economica rispetto al progetto politico che dovrebe guidare l’azione di governo. e’ in gioco, certamente, l’idea che l’economia sia un corpo di principi formali che operano nel cuore dell’azione economica in autonomia rispetto al progetto politico. e’ di fatto su questa con-
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Di alcuni fattori critici della democrazia in Italia
vinzione che nasce e si afferma l’economia liberista: una teoria che trova opposizione in una teoria sociale dell’economia che all’azione economica collega l’accortezza di un riferimento politico e/o progettuale che solo la cultura politica, la politica, può offrire. La cultura senza politica è vuota, la politica senza cultura è cieca, un aforisma che può essere integrato con quest’altro, non diverso ma connesso: l’economia senza politica è cieca, la politica senza economia è vuota. La traduzione dell’istanza di congiunzione in efficienza è opera della preminenza su di esse della cultura, che non è astrazione ma concretezza sociologica e antropologica. Questa istanza ove è disattesa rende ste-rile la politica, la priva di un sostegno etico nei fini e nei mezzi. Connessa con il tema della mancanza di una cultura politica quale origine della crisi c’è l’altro paradosso che concerne una teoria democratica dello stato sia nella forma “diretta” che in quella “rappresentativa”.
b) La dittatura della maggioranza La democrazia nella sua funzionalità è numero, vale a dire che funziona partendo dal risultato di un gioco numerico dove il diritto di governare è conseguente ad un risultato di un confronto espresso in valore di numero, dove 2 vale più di 1, un 2 che, in quanto tale, acquisisce il diritto di governare assumendo per sé i benefici di rappresentare una maggioranza di fronte all’1 che subisce il ruolo di minoranza. tutto ciò che segue in un sistema di governo democratico è la traduzione in prassi di governo dell’assioma fondante il sistema. sancita formalmente la diade maggioranza-minoranza nessuno può disconoscerne la legittimità; la critica può funzionare e incidere sulla struttura diadica dell’atto costitutivo del sistema democratico prima del confronto tra i contendenti che, nella gara a posizionarsi nella condizione del vincitore (2),
lavora sul consenso dei partecipanti. A risultato testato resta per 1 il rammarico di non essere riuscito a convogliare il consenso di uno del 2 per avere così la maggioranza. Ai fini della validità del risultato conta poco se i 2 sono poco coscienti del voto che esprimono mentre l’1 ha un grado di cultura politica particolarmente sviluppata. e’ evidente che in una maggioranza nata da un consenso carente di coscienza politica la gestione del potere è sottoposta a rischio: per esempio, uno dei rischi più pericolosi per la vita del Parlamento è la “tirannide della maggioranza” di tocquevilliana memoria che agirebbe a favore del 2 con il disconoscimento dei diritti dell’1 (minoranza). un fenomeno che noi riscontriamo in modo subdolo nel potere dell’ultimo governo della maggioranza di destra. si è imposta una forma di gestione del mandato parlamentare governato da una maggioranza, con programmi lesivi del ruolo della minoranza, facendo con ciò perdere alla nozione di maggioranza parlamentare il suo significato storico gettando alla deriva la democrazia (stefano Rodotà, 18 aprile 2011). La domanda che dobbiamo però concretamente porci è: fin dove una maggioranza può spingere il diritto di legiferare, conquistatosi con il consenso popolare? Quali sono i diritti che la minoranza può avanzare con una efficacia tale da limitare la tirannide della maggioranza? Domande complesse su cui la scienza politica si esercita quotidianamente e ancor più oggi che la democrazia, come sistema di governo, dà segni evidenti di crisi e la sua gestione rivela una evidente incapacità di salvaguardia dei principi basilari di un sistema democratico. trattasi di una questione che può trovare una risposta sintetica ed efficace facendo ricorso al buonsenso: occorre che a go-vernare sia una maggioranza sana, eticamente alimentata e culturalmente forgiata; e ciò è possibile se i 2, la fonte della formazione di una maggioranza, hanno una cultura politica
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adeguata alla funzione che essi dovrebbero esercitare nel sistema democratico. Certo si tratta di un processo di formazione culturale lento non attuabile nell’occasionalità di un appuntamento elettorale, realizzabile invece con i focolai di cultura che la scuola e i mezzi di comunicazione (vecchi e nuovi) offrono al cittadino. se questo suggerimento serve poco nel presente immediato aiuta però a cogliere la natura della crisi della democrazia italiana. una deficienza di cultura politica aleggia come ragione della crisi assieme ad un altro sintomo preoccupante: il conflitto ormai permanente tra giustizia (magistratura) e politica (politici).
c) La giustizia una società politica “malata” - L’atteggiamento che oggi si assume di fronte ai problemi dell’amministrazione della giustizia è più frutto di un “sentimento” politico piuttosto che uno stimolo a razionalizzare la funzione del diritto nei confronti del cittadino imputabile di atti ritenuti illegali valutati alla luce delle norme ritenute elementi regolatori del vivere civile. C’è in atto la tendenza a guardare il valore e l’azione della norma giuridica in funzione del soggetto cui va applicata e non nella funzione che essa esercita come elemento regolatore del giudizio. si dimentica che il valore del diritto, e conseguentemente dell’azione giudiziaria, è efficace in quanto rappresenta la salvaguardia della convivenza civile e determina la sanzione (amministrativa o penale) in funzione del capo di imputazione cui viene sottoposto a seguito di un’azione ritenuta imputabile. e’ un meccanismo procedurale che non suscita curiosità o reazione scomposta allorché l’imputazione è riferita a un individuo di scarsa notorietà. in questo caso il comportamento della magistratura non viene sottoposto a valutazione di dissenso radicale intriso di vittimismo o di persecuzione giudiziaria, fatta salva la tendenza psicologica dell’imputato a ritenere la legge troppo severa o le deci-
sioni del giudice ispirate ad una severità eccessiva allorché sceglie la sanzione col massimo della pena. Non è un caso che l’interesse dell’opinione pubblica, rispetto al comportamento della giustizia, è pressoché nullo e i mezzi di comunicazione non ritengono degno di attenzione l’evento in gioco. Quando invece l’imputazione è rivolta a un soggetto-attore della scena pubblica cresce l’interesse e gli elementi in gioco si caricano di significati di forte rilievo e le componenti della scena vengono enfatizzate: l’imputato, nel tentativo di sfuggire alla pena e di salvare la propria immagine, mette in gioco le conseguenze che l’atto giudiziario determinerebbe per la propria vita e con ciò tende inevitabilmente a rovesciare l’ordine di valore esistente tra giudice e imputato e il valore della legge viene determinato più in funzione delle conseguenze sull’imputato e sulla sua esistenza, sull’ambiente di cui è un esponente di spicco, che non in funzione del necessario rigore richiesto al giudice nell’applicare la legge. Dal punto di vista delle conseguenze psicologiche che si riversano sull’imputato sottoposto a giudizio si crea un clima di tensione alta che spesso si configura come valutazione negativa dell’azione del giudice, considerata carica di subdola decisione di una volontà indirizzata alla ricerca di rigore e neutralità, quasi indifferenza, quasi indifferenza, nei confronti delle conseguenze che un verdetto severo opera sull’imputato specialmente quando è un personaggio rappresentativo di una comunità sociale. va comunque ribadito che la giustizia, posta di fronte a due imputati, diversi per ceto sociale e rappresentativi di due distinti ambienti, non può nel riferimento alle leggi e nella sua applicazione assumere diversa determinazione, Né può essere influenzata da poteri diversi dall’unico cui deve attenersi: il potere della legge che per essere efficace deve procedere garantito dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, la cui funzione è quella di
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assicurare due principi fondamentali: principio di uguaglianza e principio di legalità. il primo può essere riassunto in quel distico che campeggia nelle aule di giustizia “La legge è uguale per tutti” cui possiamo aggiungere “sia che l’imputato è un semplice cittadino e sia che porti il nome di un personaggio influente nella vita sociale”. il secondo, il principio di legalità, ci ricorda che può essere soltanto la legge (e chi l’applica) a determinare chi debba essere punito e chi debba andare esente da pena, non può dipendere da una scelta economica o politica. il luogo dove si determina la legalità dell’applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale è nei tribunali e non nelle rappresentazioni teatrali di processi gestiti da anchormen con ospiti che spesso sono lontano dai codici e vicini agli imputati o nelle pagine di giornali dove i processi sono pasto di giornalisti famelici alla ricerca di notizie da offrire in pasto all’opinione pubblica che confonde l’arena della giustizia (i tribunali) con quella dello sport (stadi). All’opinione pubblica va fornita l’immagine della giustizia come quella di una macchina razionale alla cui funzionalità contribuisce la lunga messa a punto che il legislatore opera per renderla adeguata alle variabili del tempo, e non per relativizzarla ma per renderla più edotta sui nuovi metodi di indagine e sulle forme nuove che il crimine assume. un processo utile all’operatore giudiziario, il quale non può indirizzare in nessun caso il suo giudicare a favore dell’imputato, ove sussiste una responsabilità evidente nel suo operato. il meccanismo strutturale della dimensione culturale chiamata giustizia non consente alcuna deroga all’obbligo di valutare il comportamento del cittadino sospettato di un’azione penalmente perseguibile. Non si richiede grande cultura giuridica per capire tutto questo. Del resto a ricordarcelo c’è il titolo iv (La Magistratura) della Costituzione della
Repubblica ita-liana che nell’art. 104 richiama espressamente l’autonomia e indipendenza da ogni altro potere. inoltre all’art. 111 viene assicurata al cittadino la regolarità del processo attraverso comportamenti del magistrato a favore della formazione della prova pro o contro l’imputato. Contro coloro che parlano di accanimento giudiziario verso personaggi esposti socialmente e danneggiati nella considerazione degli altri cittadini o di fronte alle istituzioni c’è l’art. 3 della Costituzione: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. in questo senso ogni azione tesa a creare un distinguo ai fini dell’applicazione dell’”immunità” è a rigore opinabile anche se costituzionalmente, in caso di parlamentare, legittima. una chiave utile per capire bene il gioco ricorrente di contrasto tra giustizia (magistratura) e politica (politici), che invade il dibattito politico odierno è proprio questo articolo che ci spinge ad avere chiara la necessità di non valutare l’azione della giustizia come dovere di una maggiore apertura verso le ragioni di un politico rispetto ad un cittadino qualunque. se nell’aula di un tribunale siedono il sig. Rossi (cittadino qualunque) e il sig. berlusconi (politico di spicco) nessuno potrà sollecitare il collegio giudicante ad un comportamento diseguale. La struttura dell’azione giudiziaria, così come la Costituzione la designa, è una garanzia per la giustizia e per l’imputato. Del resto il diritto concesso a qualsiasi imputato di richiedere un più approfondito ricorso ad un grado di giudizio superiore rappresenta la volontà della giustizia di pervenire ad un giudizio esaustivo di fronte al quale nessun imputato possa sentirsi danneggiato nella dignità della propria persona anche quando è sa convinzione che il verdetto risulti ingiusto e punitivo.
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Nonostante la chiarezza procedurale definita dalla Costituzione e dalle leggi attuative che il Parlamento emana per una maggiore aderenza dell’azione giudiziaria ai tempi storici, l’immagine che della giustizia oggi alimenta l’opinione pubblica è confusa. si assiste a un crescente atteggiamento di insod-disfazione nei confronti del sistema giudiziario con una magistratura che travalicherebbe il terreno della propria competenza per sconfinare nel limitrofo infido spazio della politica spingendo qualche critico disavveduto a parlare di “giustizia giustizialista”. e ciò in conseguenza di un conflitto ormai permanente grazie alla rete di relazioni sempre più critiche tra la magistratura e il comportamento da parte della classe politica non sempre ispirato alla difesa del bene comune. La frequenza con cui la magistratura nel rispetto del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale è sollecitata ad intervenire su fatti penalmente perseguibili, connessi alla vita di politici e istituzioni pubbliche, ha favorito l’immagine di una magistratura superesposta al giudizio del pubblico e fatta bersaglio della classe politica. Questa, chiamata in causa nel sospetto di comportamenti illegali, erge una barriera di difesa in nome di una prerogativa, dal sapore incerto, assunta come strumento di difesa del diritto di esercizio dell’immunità. un diritto che pone in difficoltà la giustizia allorché il privilegio di cui un cittadino “particolare” gode non le consente di esercitare pienamente in autonomia la sua funzione. il disagio in cui la giustizia viene a trovarsi di fronte alla situazione di privilegio di un gruppo di potere porta la magistratura ad agire con maggiore determinazione per evitare che quel privilegio possa creare ombra di comportamento scorretto. Del resto quanto più il contrasto è acuto tanto più è in pericolo il principio fondante di un sistema democratico: la divisione e l’autonomia dei poteri, creando così un
motivo di sicura crisi del sistema democratico. e’ evidente che di tutti i fattori che concorrono alla crisi politica della democrazia italiana il rapporto critico, oggi conflittuale, tra magistratura e politica è uno dei fattori più incisivi. Dietro di esso si collocano il problema della moralità pubblica, la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, il problema di un ordine pubblico incerto, l’autodisconoscimento da parte del cittadino del diritto di essere artefice della designazione del proprio rappresentante in Parlamento, non ultimo l’aumento progressivo dell’astensionismo elettorale. L’italia è collocata in una evidente situazione di deficienza di democrazia che alla pressione di una crisi materiale, economica e sociale, nazionale e internazionale, aggiunge fattori culturali e di etica pubblica. si parla molto di società civile, riponendo in essa la speranza di un cambiamento di rotta per correggere l’attuale società politica. Ma dove sono i frutti di questa attesa e quale incidenza hanno i movimenti e le poche azioni portate avanti in nome della società civile? i fatti dimostrano che ad una società politica fortemente in crisi non se ne sostituisce un’altra, foriera di progresso civile. occorre che i portatori di questa istanza di novità lavorino a restituire all’uomo lo spirito del progresso che l’avvento di una cultura senza coscienza etica ha mortificato nel compiacimento ormai diffuso di vedere spente le ideologie propositive e progettuali, favorendo con ciò una società edonistica imbevuta di falso relativismo, persino ormai nella cultura giuridica. se il compito della politica è quello che la società occidentale ha faticosamente cercato e definito come democrazia dei diritti e dei doveri nel compito di dare forma e sostanza ad una società “felice”, occorre che il presente, distratto dalla corsa in avanti, non perda il contatto con quell’idea positiva di azione politica che negli ultimi tempi ha subìto attacchi pressanti e che, nonostante tutti, resta ancora il faro di una società democratica.
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Per una democrazia governante
Luciano Pellicani Per una democrazia governante
La Repubblica continua ad essere una tipica democrazia assembleare, caratterizzata, come tutte le democrazie assembleari, dalla cronica incapacità di avere solidi governi di legislatura. tanto vero che l’età media dei governi del periodo 1994-2012 è risultata essere quasi la stessa dei decenni precedenti. e’ accaduto che l’ultima legge elettorale, che, secondo i suoi sostenitori, avrebbe dovuto porre fine al gioco delle crisi parlamentari a catena, pur producendo una spinta al bipolarismo, non ha dato quello di cui la Repubblica ha urgentemente bisogno : governi stabili ed efficaci. oggi sembra che l’ordine del giorno della politica, in materia, lo si voglia ristretto alla sola questione elettorale. Ma bisogna convincersi che non è sufficiente cambiare legge elettorale per sbarcare a Westminster. il bipartitismo non lo si improvvisa: nasce – quando nasce -- dai tempi lunghi della storia, attraverso la formazione e il consolidamento di aggregazioni di fedeltà nell’opinione pubblica e nell’elettorato. Ma se si vuole interpretare e concretizzare una esigenza espressa dall’elettorato, occorre muoversi verso una riforma costituzionale che modifichi la logica sintattica del sistema, di modo che cessi di essere una democrazia assembleare frammentata, permanentemente alle prese con il problema della governabilità, e diventi una democrazia governante. vale a dire una democrazia con un esecutivo dotato di quei poteri decisionali che sono necessari per governare una società attraversata da parte a parte dalla rivoluzi0ne permanente generata dalla sinergia fra il mercato, la scienza e la tecnologia. Molti sono stati, nel corso degli ultimi decenni, i modelli di riforma di governo proposti, per lo più traendo ispirazione da quelli vigenti in altri Paesi. Nessuno di essi, però, – anche a prescindere dalla loro concreta applicabilità e dai diversi
effetti che essi possono produrre in contesti diversi da quelli nei quali hanno già trovato applicazione – risulta essere soddisfacente ai fini dei risultati che nella situazione italiana si vogliono ottenere e che mirano, prima di tutto, a superare lo stallo nelle capacità di decisione democratica consentite dal sistema e a offrire all’esecutivo tempi e poteri sufficienti alla realizzazione di un programma politico. Non è soddisfacente il modello presidenzialistico americano, che alcuni vorrebbero trapiantare nel nostro Paese. e ciò per almeno due ragioni. La prima, è che il sistema americano risulta essere efficace solo se lo si guarda dall’esterno, cioè solo si prendono in considerazione le decisioni di politica estera, sulle quali le divergenze fra il Presidente e il Congresso sono, di regola, rare o comunque di modesta rilevanza. Ma, una volta che si esamini il presidenzialismo americano dall’interno, è difficile non convenire con Lester thurow quando lo definì un “sistema a somma zero”. un solo dato è sufficiente per toccare con mano la natura semi-paralitica del sistema politico americano: negli ultimi decenni, solo la metà dei provvedimento dell’esecutivo sono stati approvati dal Congresso. La seconda ragione che milita contro il presidenzialismo alla americana è che esso potrebbe portare alla paralisi totale, una volta che fosse calato in un contesto politico come il nostro, caratterizzato dalla presenza di partiti fortemente strutturati e disciplinati. infatti, mentre negli stati uniti, dove è praticamente sconosciuta la disciplina di partito, il Presidente ha la possibilità di “passare” il Congresso convincendo i singoli parlamentari ad approvare i suoi provvedimenti, ciò non è neanche immaginabile nei Paesi della unione europea. in italia, poi, ove ciò accadesse, sarebbe ferocemente criticato come bieco “trasformismo”. Da noi un Presidente-Capo dell’esecutivo potrebbe governare solo a condizione di godere di una solida e
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compatta maggioranza; solo a condizione, cioè, che il Presidente e la Maggioranza parlamentare fossero espressione delle stesse forze politiche. il fatto è che ciò che caratterizza in maniera forte le democrazie moderne è che in esse esiste uno stretto nesso fra il Legislativo e l’esecutivo. L’esecutivo governa traducendo gran parte delle sue decisioni in leggi. il che significa che un esecutivo governante è impensabile senza il consenso del Parlamento e che, di conseguenza, quando tale consenso viene a mancare, il risultato inevitabile è la paralisi decisionale. Per questo il modello americano è improponibile in un Paese, come il nostro, nel quale le principali forze politiche sono regolate da una rigida disciplina di partito, del tutto sconosciuta negli stati uniti. Più adatto al contesto politico europeo sembra essere il sistema semi-presidenziale, il cui prototipo è il sistema francese. e’, questo, come si sa, un sistema misto, basato sulla compresenza di alcuni elementi tipici del presidenzialismo con altri tipici del parlamentarismo. in Francia questo sistema ha dato, finora, buoni risultati e, proprio per questo, molti in italia guardano ad esso come un modello da imitare o comunque da tenere presente nell’opera di ristrutturazione dell’assetto istituzionale della Repubblica. Giovanni sartori lo ha autorevolmente difeso con energia, ma non senza sottolineare il fatto che il semi-presidenzialismo lascia sul tappeto problemi non risolti e che può palesarsi una certa fragilità. essendo un sistema diarchico, nel quale sono previste due “teste”, esso può sfociare in un paralizzante conflitto di autorità. Comunque, il fatto che il semi-presidenzialismo abbia portato la Francia fuori dalle secche della Quarta Repubblica, considerata dalla dottrina la più tipica delle democrazia assembleari, dà torto a coloro che pensano che ogni progetto riformatore sia destinato all’insuccesso, essendo i vizi della vita politica italiana espressione insopprimibile del carattere nazionale.
La Quinta Repubblica sta lì a testimoniare che l’ingegneria istituzionale, se utilizzata con intelligenza, può essere in grado di modificare efficacemente la logica sintattica di un sistema politico. il che dovrebbe essere più che sufficiente per convincere anche gli scettici che, modificando i congegni istituzionali, si può trasformare la nostra democrazia assembleare in una democrazia governante. A questo punto occorre contrastare con la massima energia un dogma che nessuno osa discutere, e cioè che l’attuale legge elettorale – non a caso battezzata Porcellum – è la causa della crisi nella quale è scivolata la vita politica nazionale. segue come un’ombra un secondo dogma: che si potrà uscire dall’impasse in cui si trova la nostra democrazia solo a condizione di abolire il Porcellum. Questi due dogmi sono stati recentemente ribaditi da stefano Passigli sulle colonne del “Corriere della sera” e così argomentati: “il Porcellum non dà nessuna certezza che consenta almeno una sicura governabilità. in ben 3 elezioni (2006, 2008 e 2013) solo in un caso il voto per la Camera e senato ha espresso la stessa maggioranza politica”. Ma siamo proprio sicuri che l’assenza di una sicura governabilità dipende dall’attuale legge elettorale? Non è forse più logico pensare che il “difetto” stia altrove? e precisamente nel sistema bicamerale “strabico” adottato dal Costituente? Quale legge elettorale potrà impedire la paralisi istituzionale, se, per la formazione di un governo, occorre la duplice fiducia da parte di due assemblee elette su basi diverse? L’articolo 57 della Costituzione dispone che, per il senato, i seggi vanno assegnati “a base regionale“. A ciò si deve aggiungere che il corpo elettorale delle due assemblee è differenziato in base all’età: per esercitare il diritto di voto occorre aver compiuto 18 anni per la Camera, 25 anni per il senato. stando così le cose, non è certo sorprendente che si produca il fenomeno della doppia maggioranza, con
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l’inevitabile conseguenza che sia impossibile formare un governo. il “difetto” – non lo si ripeterà mai abbastanza – sta nel bicameralismo “strabico”, non già nella legge elettorale. Prova ne sia che, qualora non fosse stata necessaria la doppia fiducia, noi oggi avremmo – proprio grazie al vituperato Porcellum – una maggioranza di governo alla Camera. ora, se effettivamente il rischio della paralisi istituzionale dipende dal bicameralismo “strabico”, allora è imperativo manomettere i dispositivi costituzionali con un preciso obbiettivo: eliminare la doppia fiducia. si tratta di differenziare e le funzioni e i poteri dei due rami del Parlamento. Ciò potrebbe ottenersi in modi diversi. Per esempio, il senato potrebbe essere trasformato in una Camera delle Regioni, eletta, per l’appunto, su basi regionali e con poteri specifici e limitati. oppure – prendendo a modello il sistema britannico e quello spagnolo – il senato potrebbe essere trasformato in una ”camera di riflessione”, dotata solo di potere di veto sospensivo, ma non di potere legislativo. in tal modo, non solo verrebbe scongiurato il rischio di un Legislativo a doppia maggioranza e quindi paralizzato e paralizzante, ma tutto il processo di produzione delle leggi risulterebbe molto più rapido. sparirebbe, infatti, quel fenomeno – il continuo ed estenuante andirivieni delle leggi fra i due rami del Parlamento – che ha afflitto, sin dalla sua nascita, la Repubblica.
Giuseppe Cantarano Una democrazia senza partiti?
i partiti costituiscono un sorprendente meccanismo “in virtù del quale – scriveva simone Weil in un libro pubblicato nel 1950, sette anni dopo la sua morte – in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il
bene, la giustizia, la verità. Ne risulta che – eccezion fatta per un piccolo numero di coincidenze fortuite – vengono decise e intraprese soltanto misure contrarie al bene pubblico, alla giustizia e alla verità. se si affidasse al diavolo – proseguiva simone Weil – l’organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso. se la realtà è stata un po’ meno cupa, questo è accaduto perché i partiti non avevano ancora divorato ogni cosa” (Manifesto per la soppressione dei partiti politici, Castelvecchi 2008, p. 24). No, i partiti non sono stati soltanto così come li dipinge simone Weil. Hanno socializzato la politica. Hanno “culturalizzato” le masse. Favorendo il loro ingresso nello stato. i partiti sono stati strumenti formidabili di liberazione, di emancipazione. Di lotta contro le disuguaglianze. e le ricorrenti ingiustizie. Guai a dimenticarlo. Ma oggi hanno cessato di essere – e di fare – tutte queste cose. sono perlopiù dei gusci vuoti. A corto di consenso. Delegittimati moralmente. Con una classe dirigente mediocre. spesso incline alla corruzione. o quantomeno, all’irresponsabilità. Che il partito politico sia oggi in crisi, è un fatto. e contro i fatti – come recita l’adagio – è stupido polemizzare. Come spesso sembrano stupidamente polemizzare i leader dei nostri partiti. Diventati, improvvisamente, tutti nichilisticamente nietzscheani. tutti, cioè, fermamente – e “filosoficamente” – pronti a negare la prosaica, aspra realtà dei fatti. Al posto dei quali vi sarebbero soltanto ed esclusivamente verbose interpretazioni, come diceva il filosofo tedesco. i fatti, invece, ci sono eccome. e bisogna cercare di comprenderli. studiandone i vari aspetti. Le implicazioni. e quello della crisi dei partiti politici è un fatto. Di cui bisogna prendere finalmente – e serenamente – atto. Non si tratta – diciamolo subito, per evitare equivoci – di una crisi episodica. Contingente. Legata alla specifica congiuntura italiana. Alla sua cosiddetta “transizione”, come si dice ormai stuc-
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Giuseppe Cantarano
chevolmente da un ventennio. La verità è che il sistema dei partiti politici vacilla e si sgretola un po’ in tutta europa. Dove più dove meno. Più in italia, a dire il vero. Dove il novantacinque per cento delle persone – secondo un recente sondaggio – non mostra nessun fiducia nei partiti politici. Percepiti come chiuse, autoreferenziali oligarchie. Caste - come ormai si dice - che vivono di privilegi. Arroccate dentro il Palazzo, come diceva Pasolini. Lontane e separate dai cittadini. La crisi dei partiti politici sembrerebbe essere, innanzitutto, una crisi di consenso elettorale. Crisi di fiducia, in altri termini. un fenomeno fisiologico nelle democrazie cosiddette mature. L’astensionismo – anche in italia, ormai, dove tradizionalmente è stata sempre altissima la partecipazione al voto – non solo tende progressivamente a crescere. Ma è diventato ormai il “partito” maggiore. Lo abbiamo visto nelle recenti elezioni amministrative e politiche. i partiti politici, insomma, non sono più in grado di intercettare il consenso. e se smettono di intercettarlo non potranno, evidentemente, indirizzarlo, veicolarlo nelle istituzioni. Come recita la nostra Costituzione. Fisiologica crisi di consenso, dunque. e non ci sono dubbi. Ma la fisiologica crisi di consenso – ecco il punto – non è circoscrivibile semplicemente all’inadeguato dispositivo elettorale (porcellum, mattarellum ecc… ). Come si affrettano – semplificando – a sostenere non solo i leader politici. e si capisce perfettamente perché. si capisce francamente meno che a sostenerlo siano politologi di vaglia, diciamo pure così. e costituzionalisti trasformatisi ormai tutti in ingegneri istituzionali. Coloro, cioè, che la studiano, la politica. Per rendercene meno oscure le dinamiche. Maggiormente comprensibili le logiche. La fisiologica crisi di consenso, invece, non può che comportare una ineludibile e patologica crisi di legittimazione democratica. Non può che estroflettersi, insomma, sulle stesse istituzioni. Mettendone a repen-
taglio la rappresentanza. soprattutto nelle democrazie parlamentari. Come la nostra: quale sovranità - e legittimazione potrà avere un parlamento, espressione diretta di un sistema di partiti che non riscuote più alcuna fiducia dai cittadini? soggetti pressoché unici della legittimazione politica – come osserva Marco Revelli – i partiti politici “non riescono più a trattenere stabilmente i propri “mandanti” – a garantire la delega, a strutturarne con continuità l’appartenenza – trasferendo in misura preoccupante la propria crisi alle stesse istituzioni che dovrebbero, appunto, legittimare” (Finale di partito, einaudi 2013, p. iX). e mentre il consenso si può sempre populisticamente inseguire e in qualche modo riacciuffare, la crisi di legittimazione democratica può decretare davvero la fine, l’estinzione dei partiti politici. Diciamolo con altre parole: mentre la fisiologica crisi di consenso si può curare facendo ricorso a dispositivi autoimmunitari – leggi elettorali, autoriforma dei partiti, effettiva trasparenza dei loro bilanci, maggiore democrazia interna –, alla patologica crisi di legittimazione democratica nessuna strategia terapeutica è in grado, francamente, di porre rimedio. Che i partiti politici possano – o siano destinati a – finire, è nell’ordine delle cose di questo mondo. identificatisi strettamente con la storia del Novecento, perché mai dovrebbero sopravvivere, se non è sopravvissuta la novecentesca fabbrica fordista? se non è sopravvissuto il novecentesco lavoro operaio di massa? Non è forse vero che la crisi dell’organizzazione produttiva fordista di massa ha comportato nuove articolazioni organizzative meno centralizzate e – come direbbe Zygmunt bauman – più “liquide”? Non è forse vero che gli impetuosi processi di globalizzazione – economici, finanziari, culturali, scientifici – rendono ormai inadeguata la cosiddetta democrazia dei partiti? Che si è storicamente configurata all’interno degli stati-nazione? Con le loro pervasive
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Una democrazia senza partiti?
e massicce burocrazie pubbliche? Come si può francamente credere che nell’epoca del “finanzcapitalismo” (Luciano Gallino), del “turbo-capitaliamo” (edward Luttwak), possa resistere una forma politica che ha il baricentro su un modello di partito del Novecento? e tuttavia, se tutto questo è vero, è pur vero che – per parafrasare Norberto bobbio – una democrazia oltre i partiti facciamo ancora fatica a immaginarla compiutamente. sebbene non sia del tutto impossibile tratteggiarne il profilo. Del resto, negli ultimi vent’anni in italia si sono succeduti ben quattro governi cosiddetti “tecnici” – Ciampi, Dini, Amato, Monti – che di fatto hanno sostituito la funzione politica. tradizionalmente svolta dai partiti. e l’hanno sostituita – si badi bene – nei più acuti momenti di crisi. Di fronte ai quali i partiti – diciamolo pure: pavidamente – arretrano, si mostrano inadeguati. e invocano il soccorso dei tecnici. Ai quali cedono consapevolmente e volentieri lo scettro. insomma, non è la tecnica che pervicacemente, autoritariamente impone il proprio dominio sulla politica, come si sente ripetere. Ma è la politica – l’esausto sistema dei partiti – a delegare il suo potere alla tecnica: è fisiologico questo comportamento in una democrazia moderna? e’ fisiologico che in una democrazia i partiti rinuncino – si badi bene: volentieri e consapevolmente – al monopolio del processo di rappresentanza politica? ben quattro esperienze di governo dei tecnici – oltre i partiti nel giro di un ventennio: chi, senza sprofondare nel ridicolo, può ragionevolmente parlare di fisiologici intervalli, di fisiologiche e brevi parentesi? ormai, a ripetere un po’ noiosamente, come in una filastrocca, che senza i partiti non c’è democrazia, guarda caso, sono rimasti solo i leader dei partiti. evidentemente. tutti fermamente concordi – dal centrodestra al centrosinistra – nel rivendicare la centralità tolemaica dei partiti. ignorando – o facendo finta di ignorare – che c’è stata la “rivoluzione copernicana”. Che ha decentrato la tradizionale funzione politica dei partiti. Non solo. Ma la vecchia
cantilena, volta a identificare la democrazia con il sistema dei partiti, non tiene conto che la democrazia moderna si costituisce – idealmente e politicamente – molto tempo prima della nascita dei partiti di massa. e del loro monopolio della rappresentanza politica. Chissà, potranno forse continuare sopravvivere, i partiti. o meglio: le macchine elettorali a cui oggi sono ormai ridotti. A patto che prendano serenamente atto che quel loro monopolio si è ormai definitivamente consumato. Concluso. e’ ormai alle nostre spalle. e che dovranno condividere la funzione della rappresentanza – e la formazione del consenso e della partecipazione – con altri soggetti sociali, culturali, scientifici, economici. Nel momento in cui si registra l’allentamento del loro radicamento sociale. e l’indebolimento della loro identità politicoculturale. Avviene – né più né meno – quello che è avvenuto nel modello produttivo capitalistico. Nel suo passaggio dal fordismo al postfordismo. Da una forma concentrata e territorializzata di produzione – che aveva nella grande fabbrica e nello stato-nazione i due perni di rotazione –, ad una forma di produzione dissipativa e molecolare. Alla quale corrispondono nuove forme “ di rappresentanza degli interessi e delle culture, reti più o meno lunghe di partecipazione parallela o alternativa, culture, soggettività, aggregazioni che hanno complicato il ‘gioco’. Moltiplicando gli attori. Relativizzando i poteri. e’ da tempo – da un paio di decenni almeno – che il partito politico – precisa Revelli - ha smesso di svolgere nei nostri sistemi istituzionali cosiddetti avanzati il proprio ruolo storico. e che la nostra democrazia rappresentativa ha mutato natura e logica di funzionamento” ( p. 104). in un articolo comparso su “La Repubblica” del 27 febbraio 2012 dal titolo “C’è democrazia senza partiti?”, ilvo Diamanti ha scritto: “in questo Paese: dove i partiti – privi di credito – contano molto meno dei leader. e dove i leader dei partiti dispongono di un livello di fiducia molto scarso. La questione vera è se sia possibile una democrazia rappresentativa senza partiti “. sarà questa la cruciale domanda politica dei prossimi anni.
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CoMMeNto
Davide Vannucci
Le Fondazioni fra banca e terzo settore
Atene brucia, Lisbona arranca, Cipro rifiuta il salvataggio disegnato dalla troika e comincia a guardare ad oriente, in direzione della Russia. L’eurozona non è (ancora) implosa, ma le misure di austerity imposte un po’ ovunque hanno aggravato la recessione, allargato le già consistenti sacche di povertà, generato reazioni populiste ed anti-sistema, espresse in forme diverse, a seconda del contesto. soluzioni eterodirette hanno favorito, quasi per reazione pavloviana, un ripiegamento dei Paesi – e soprattutto delle relative opinioni pubbliche – su se stessi, come se l’autarchia fosse la via d’uscita più agevole e meno dolorosa alla crisi sistemica. C’è chi parla già di de-globalizzazione, di un processo regressivo, dopo l’era delle “magnifiche sorti e progressive” degli anni Novanta, quando qualche accademico proclamava, incautamente, la “fine della storia”. È sufficiente leggere alcuni dati. Alla fine del 2011 i prestiti non nazionali delle banche sono crollati di 799 miliardi di dollari. il commercio internazionale ha rallentato la sua corsa, tanto che la World trade organization è costretta a rivedere al basso le proprie previsioni sugli scambi mondiali. Negli stati uniti, ma non solo, le aziende che avevano delocalizzato tornano a casa, si fa strada l’insourcing, dopo la sbornia dell’outsourcing, del decentramento produttivo, della corsa ad oriente, laddove i salari erano meno onerosi e i diritti meno tutelati. Questo processo di de-globalizzazione mette radici anche in italia. si comincia a pensare che gli istituti bancari debbano essere di proprietà nazionale. La cosiddetta “banca di sistema”, intesa sanpaolo, gode di un’immagine e di una fama migliori rispetto ad unicredit, l’istituto maggiormente transnazionale. se persino negli usa, dopo il fallimento
della Lehman brothers, le banche sono state salvate grazie all’intervento dello stato – un’eresia, in quella che era stata la patria del reaganismo – in italia si prospettano analoghe soluzioni. Dopo il via libera ai Monti bond, Mps è già, di fatto, un istituto bancario di stato. La retorica della “difesa dell’italianità” di banche ed aziende è uno spartito che viene suonato tante, troppe volte nelle stanze dei bottoni. un atteggiamento che appare una decisa marcia indietro rispetto al tentativo operato da Giuliano Amato negli anni Novanta, volto a vivificare l’asfittico sistema bancario italiano e a favorire l’apporto di nuovi capitali. Coerentemente con la natura duplice, economica e filantropica, delle Casse di Risparmio, Amato aveva immaginato una riforma secondo cui, da una parte, l’azienda bancaria veniva scorporata e conferita in realtà destinate ad accrescersi ed ad aprirsi al mercato, e, dall’altra, la proprietà dei fondatori veniva attribuita a un contenitore – chiamato appunto fondazione – il cui compito era inizialmente quello di gestire la banca partecipata, devolvendo gli utili in favore della collettività. La legge Ciampi, andando oltre la legge Amato, aveva previsto, attraverso incentivi di natura fiscale, che la titolarità delle azioni bancarie di proprietà delle Fondazioni dovesse essere dismessa nel tempo. Le Fondazioni, in sostanza, avrebbero dovuto abbandonare la partecipazione di maggioranza e di controllo delle banche per dedicarsi all’attività di welfare, in una fase storica di ritirata dallo stato da quelle che erano state, nel corso del Novecento, le sue competenze. invece molte Fondazioni, contrastando queste indicazioni, hanno voluto continuare a fare i banchieri, un mestiere che lo spirito delle norme non prevedeva. i
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Le Fondazione fra banca e Terzo Settore
loro dirigenti si sono giustificati ripetendo l’erronea affermazione secondo cui le banche rappresentavano l’investimento più sicuro. Molti analisti sostengono, però, che sia stata la classe politica, presente negli organi direttivi di molte Fondazioni, a premere per questa soluzione, in modo da mantenere la guida di uno strumento così importante per il controllo del territorio. L’operato della gran parte delle Fondazioni si è rivelato non solo contrario alla loro natura, ma anche profondamente sbagliato dal punto di vista strategico. La banca non si è rivelata affatto un porto sicuro. Adesso la macchina dell’economia si è fermata, il mercato immobiliare e gli investimenti languono, e gli istituti bancari, che fanno utili solo attraverso attività puramente finanziarie, sono alla ricerca di capitali che risolvano il problema patrimoniale. Mps rappresenta solo la punta – eclatante – di un iceberg. Molte banche italiane, in cui le Fondazioni hanno partecipazioni rilevanti, hanno in pancia titoli tossici. si aprono due strade. interverrà lo stato, e si tratterà di una ri-nazionalizzazione, dunque di un passo all’indietro di vent’anni. oppure le banche finiranno in mano a fondi sovrani stranieri, i soli ad avere liquidità in abbondanza, grazie soprattutto alla rendita energetica. solo alcuni numeri: i 57 fondi sovrani mondiali gestiscono attualmente un patrimonio di 5.135 miliardi di dollari. un terzo dei primi venti si trova in Medio oriente: Arabia saudita, Kuwait, Qatar, Dubai. Questa classifica è lo specchio dei nuovi rapporti di forza dell’economia mondiale: emergono Cina, Corea, Hong Kong, singapore. Contro questi capitali vaganti qualsiasi barriera rischia di essere una fragile Maginot, destinata ad essere facilmente valicata. Le Fondazioni non sono in grado, se non indebitandosi ulteriormente, di sostenere gli aumenti di capitale necessari a mantenere l’italianità delle banche, né appare questo il loro compito istituzionale. inutile restare aggrappati alla coda di una balena ormai spiaggiata.
se la situazione è questa, quale futuro per le Fondazioni? Per trovare una risposta è sufficiente superare i limiti, geografici e mentali al tempo stesso, del nostro “capitalismo senza capitali”, come ebbe a dire a suo tempo Napoleone Colajanni. occorrerebbe guardare più spesso a ciò che accade al di là delle Alpi per evitare quei cigni che neri non sono – mi perdoni l’ottimo Nicholas taleb, autore di un saggio tanto fortunato quanto intelligente – ma bianchi, se solo si avesse la capacità di osservarli ed analizzarli con maggiore attenzione. Posto che le banche italiane sono arrivate al capolinea, le Fondazioni devono tornare ad esercitare il mestiere per il quale erano state concepite. un esempio c’è, ed è sotto l’occhio di tutti. Nel 2003 la Fondazione Roma ha avviato la dismissione della partecipazione nella banca conferitaria. Nel 2005 ha saggiamente rifiutato di partecipare alla disavventura della Cassa depositi e prestiti e adesso non ha dovuto affrontare lo spinoso problema della conversione delle azioni, da privilegiate in ordinarie, né ha sofferto il disvalore che si è generato in occasione della conversione stessa, pari al trenta per cento dell’investimento iniziale. La questione della conversione ha assillato invece la stragrande maggioranza delle altre Fondazioni, a testimonianza della correttezza di chi – la Fondazione Roma, appunto – riteneva che quella proposta agli enti dall’allora ministro del tesoro, Giulio tremonti, non fosse un’azione, bensì un’obbligazione. Mentre la quasi totalità delle Fondazioni mantiene, in maniera inequivoca, la partecipazione bancaria come centralità del proprio investimento, la Fondazione Roma, “nuotando controcorrente”, come è stato autorevolmente detto, ha affidato il patrimonio ai principali gestori internazionali, che hanno operato in direzione di una notevole diversificazione, per territorio, valuta, asset merceologico. A distanza di anni, si può ragionevolmente affermare che i fatti abbiano dato ragione agli “eretici” (così, infatti, era stato definito il vertice della Fondazione Roma). Ancora una volta, sono le nude
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cifre a testimoniarlo. il Rapporto italian banking Foundations, pubblicato il 28 maggio 2012, a cura di Mediobanca securities, ha fatto una radiografia a 360 gradi delle Fondazioni bancarie. il risultato è allarmante. Le Fondazioni si sono indebitate per immettere 6 miliardi di euro nelle banche, ma in cambio non hanno ricevuto i dividendi necessari a garantire un volume crescente di erogazioni, ragione per cui negli ultimi anni sono state costrette ad intaccare il patrimonio allo scopo di mantenerle stabili. Nel 2010 le Fondazioni hanno ridotto le erogazioni del 50 per cento ed hanno perso valore per 17 miliardi di euro. in questo quadro a tinte fosche c’è un’eccezione, la Fondazione Roma, il cui valore di mercato nel 2010 è maggiore del 26 per cento rispetto a quello del 2002, un dato superiore del 22 per cento rispetto all’insieme di tutte le Fondazioni. La decisione della Fondazione Roma di diversificare il portafoglio d’investimenti ha dato frutti nel breve periodo, ha prevenuto la caduta del valore di mercato e ha garantito flussi di cassa superiori rispetto alle altre Fondazioni. Anche in un anno difficile come il 2012 il rendimento della gestione finanziaria della Fondazione è stato dell’11,7 per cento. Questo rapporto è l’ulteriore conferma di come non vi sia affatto bisogno di nuove leggi in materia, come si invoca da tempo, da parte di alcuni commentatori e delle diverse forze politiche, che hanno scoperto il problema “Fondazioni” a causa delle vicende Mps. occorre semplicemente applicare le norme scritte con lungimiranza da Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi. Né si sente la necessità di documenti propagandistici,
redatti tardivamente a scopi meramente autoreferenziali, come la tanto sbandierata Carta delle Fondazioni, presentata in pompa magna al Congresso Acri di Palermo. Anzi, è utile sottolineare, a questo proposito, come rappresenti un’anomalia il fatto che all’interno dell’associazione – da cui la Fondazione Roma è uscita – vi siano realtà che dovrebbero essere ben distinte, le casse di risparmio e le Fondazioni, i rappresentanti delle banche e i dirigenti di associazioni destinate ad occuparsi di welfare, “soggetti dell’ordinamento civile e dell’organizzazione delle libertà sociali”, come ha affermato solennemente nel 2003 la Corte Costituzionale. se si vuole evitare la longa manus della politica, è sufficiente inserire norme stringenti all’interno degli statuti delle Fondazioni, come ha fatto anni fa la Fondazione Roma, nei cui organi direttivi non siedono i rappresentanti delle istituzioni locali, ma le forze sane della società civile, come gli ospedali e le università. Questo perché il welfare, e solo il welfare, deve essere l’orizzonte delle Fondazioni: sanità, ricerca scientifica, istruzione, assistenza alle categorie sociali deboli, cultura, unico asset rimasto in un’italia che ha visto la desertificazione del proprio sistema produttivo. Le Fondazioni devono dedicarsi a rendere “cosa viva” l’art.118 della Costituzione, ispirato al principio della sussidiarietà, e contribuire allo sviluppo economico, sociale e civile del territorio. se, al contrario, cessassero di fornire i propri servizi e i propri benefici alla collettività, diventando una delle tante consorterie, sarebbero destinate ad una fine ingloriosa.
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osseRvAtoRio
Verso l’utopia di Thomas More Angelo G. Sabatini, Mario Ciampi, Antonio Traversa, Antonio Casu
Angelo G. Sabatini Modernità di More
Posti di fronte all’opera di thomas More Utopia e considerato il destino che essa ha avuto nel tempo faccio mia la domanda che spesso occupa la riflessione di molti lettori e che oggi può essere l’incipit dell’attenzione che Antonio Casu, curatore della ripubblicazione dell’opera con l’introduzione di ortensio Lando, può porre: “Perché nella storia del pensiero politico ricorre questa familiarità con il tema dell’utopia e ancora oggi ne viviamo la sollecitazione?” Nonostante l’aspirazione ad avere una società politica efficiente e produttiva ispirata all’attuazione del bene comune quella attuale è ben lontana dalla perfezione. una convinzione sulla quale tutti si trovano ormai d'accordo. Dobbiamo constatare che sono in crisi gli istituti che hanno formato e formano i cardini della società e della vita moderna: la proprietà, la famiglia, la religione, lo stato stesso. Di qui critiche vivaci e di progetti di riforme da parte di alcuni che dovrebbero ridare fiducia alla società e alla politica. Ci si sforza di pensare alla possibilità di una stato presuntamente perfetto che ha alimentato pensatori e filosofi spinti a cercare di designare una forma di organizzazione che attraverso la modifica delle istituzioni, attraverso una storia di complesse riforme, attraverso un sistema di ben congegnati organismi nel campo sociale ed economico potesse assicurare la felicità di tutti. una ricerca che ha attraversato il pensiero filosofico -politico nell’intero arco della sua manifestazione.
Nella storia generale delle dottrine politiche il pensiero utopistico ha una non trascurabile importanza. Nelle fantastiche concezioni degli utopisti si trova l'eco delle lotte politiche, delle ideologie sociali, delle teorie economiche dei loro contemporanei. esse non costituiscono, come è stato spesso detto, il brillante passatempo intellettuale di uomini di grande ingegno e dottrina, ma rappresentano la manifestazione di un bisogno di felicità privava e pubblica. Per limitarci ai più noti ed ai più interessanti utopisti si incontrano ministri come thomas More, filosofi come Campanella, pensatori come bacone, pedagogisti come Fénélon, sociologi come Fourier. spesso gli utopisti con le loro intuizioni, hanno fornito anticipazioni quasi profetiche, autorizzando alcuni interpreti ad accostare i loro pensieri persino a quelli di pensatori auspicanti una società di tipo collettivista. il mutare dei tempi e le condizioni di vita politica dominante hanno dato luogo ad una propria concezione di stato perfetto anche se spesso vi sono tra tutti parecchi punti di contatto derivanti non solo dall'influenza sugli altri di alcuni tra i maggiori, la cui personalità è indubbiamente dominante (Platone e Moro ad esempio sono stati dei veri capiscuola, ed in minor misura lo è stato anche bacone per gli scrittori a lui posteriori), quanto perchè la loro opera di critica e di ricostruzione si è rivolta particolarmente su alcuni istituti reputati più imperfetti e più meritevoli di attenzione su tutti gli autori di scritti utopici svetta la figura e l’opera di thomas More. Concorrono a tale posizione la ricchezza di cultura, teologica e giuridica, il ruolo politico nell’inghilterra del Xv e Xvi
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Modernità di More
secolo, il rigore morale e la fedeltà al dettame della coscienza, che lo accompagnò con dignità sul patibolo. La pubblicazione di Utopia è il prodotto della confluenza di queste note rappresentative della sua personalità e di un sentirsi artefice di un messaggio di speranza per quanti nella condizione di esclusi avrebbero potuto attendere il giorno della giustizia, auspice l’avvento di una società migliore, quella ideata dal Cancelliere… e’ stata posta la domanda: Che cosa caratterizza nel suo complesso utopia in modo tale da avere ammiratori e fedeli lettori di un pensiero facilmente proiettabile nel regno dell’evanescente fantasia creatrice? Molti interpreti hanno tentato di spiegarlo volgendo l'attenzione sull'invenzione letteraria. Ci si è costantemente sforzati di conferire a utopia un contenuto nuovo mantenendone inalterato lo schema fondamentale. La maggior parte della letteratura critica non riesce a cogliere l'obiettivo di una corretta analisi storico-sociale. Gran parte delle indagini condotte da storici della letteratura prendano in considerazione solo la seconda parte, il prodotto letterario, la cornice, la lingua, la sua carica poetica. insomma, fino ai nostri giorni Utopia è stata per lo più oggetto di critica letteraria. solo tardi lo scritto di More è stato considerato un modello di intellettualità politica, e l’autore un critico del suo tempo che seppe dare alla politica la capacità di proiettare il suo compito nella costruzione di un mondo migliore. il primo ad avere successo in questa aspirazione fu erasmo da Rotterdam. fino al 1521 il più intimo amico e compagno di tommaso Moro. Nello spirito di tale rapporto, nel 1515. fu composta Utopia e all’impegno di erasmo si dovette la sua pubblicazione l'anno successivo a basilea. Anche erasmo era ugualmente interessato alle questioni politiche dei suoi tempi. Non si può dire che thomas More non abbia avuto lettori attenti a individuare il senso storico di Utopia e a comprendere
il messaggio in esso contenuto di realizzare una società giusta ed equa. studiosi di storia e di politica non potevano rimanere indifferenti di fronte a quel piccolo libro che, letto inizialmente come un prodotto di letteratura fantastica, doveva subito occupare la riflessione su ciò che la società del tempo presentava con i sintomi di un bisogno di trasformazione. Gli anni che vanno dal 1450 al 1550 rappresentano la cifra di un cambiamento che aveva bisogno di un interprete che fosse anche portatore di una speranza rivolta all’eliminazione dei mali che ormai accentuavano la distanza tra una classe di sfruttatori e quella di sfruttati. il messaggio insito nell’umanesimo cozzava contro una realtà sociale refrattaria a tradurre la scoperta di una centralità dell’uomo nell’universo in un sistema di valori pratici che allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo potesse sostituire se non il principio ma certo l’avvisaglia di un futuro capace di far presagire l’eliminazione di uno sfruttamento che, nel caso dell’inghilterra, equivaleva a un processo di impoverimento dei piccoli proprietari o contadini sottoposti ad atti di espropriazione con la conseguente disoccupazione e dilagare della povertà. La riflessione sulla condizione terrena dell’individuo andava generando un conflitto tra una cultura che elaborava l’immagine orgogliosa dell’uomo pronto a sfidare titanicamente Dio e il complesso della vita materiale ancora diretta dal potere politico restio al mutamento e all’innovazione. un processo di presa di coscienza dell’istanza del mutamento che portava l’intellettuale umanista a dare forma alla speranza del novum nella sua proiezione verso un futuro che fosse di riscatto dalla condizione umana messa in dubbio dal potere teologico prima e aristocratico dopo. La riflessione indirizzava la via realistica al potere e, schiacciata da una tradizione ostile, sostanziava la speranza del cambiamento facendo ricorso alla costruzione di un’immagine di “stato perfetto” colloca-
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to in un’isola altra dalla società del tempo grazie alla forza immaginifica dell’utopia. Nella interessante produzione letteraria sull’utopia svetta certamente l’opera di thomas More, la cui fortuna ebbe modo di manifestarsi ben presto in Francia, Germania e in italia, dando vita ad una discordante valutazione dell’intento e del metodo di costruzione dell’opera. Di qui la domanda ricorrente: Utopia è un lavoro di fantasia letteraria o di riflessione politica? Nel tempo, contrariamente a quanto è stato espresso da giudizi che trovano nell’utopia di More la manifestazione di pura invenzione letteraria, la ricerca di un rifugio dal peso dell’esistenza quotidiana, è prevalsa l’attenzione al nesso che lega l’idea di un stato nuovo dai contorni formali-istituzionali agganciabili ad un sistema di organizzazione sociale non necessariamente rivoluzionario, che salvaguardi i valori dominanti fondativi del consorzio umani (la famiglia, la giustizia, il lavoro, i principi religiosi dominanti ecc.). Gran parte delle indagini storiche della letteratura ha rivolto l’attenzione alla seconda parte del libro analizzando così il prodotto letterario, la lingua e la sua carica poetica. oggi, grazie ad una più attenta riflessione politica dell’opera (da non dimenticare la ricerca di Luigi Firpo, Introduzione a Utopia, 1981) il testo è stato collocato nel terreno della produzione politica, facendo di More un critico del suo tempo che è riuscito a non cadere nel fascino del giustificazionismo storico proiettandosi invece verso il futuro utilizzando il suo impegno etico verso la politica, in procinto di essere sconfitto dal potere dominante (enrico viii), lasciando in eredità al suo tempo il più bel regalo che un personaggio storico potesse realizzare: la speranza in un mondo migliore attraverso la costruzione formale di uno stato perfetto La maggiore attenzione al carattere di relazione tra la creazione di un mondo migliore e la possibilità che esso potesse contribuire alla soluzione dei problemi
del tempo ha determinato le ragioni del successo dell’opera moreiana. Questo sguardo rivolto alla società dell’epoca, non è prerogativa di More, anche se rispetto ad atri autori di letteratura utopica egli è di gran lunga lo scrittore simbolo della forma più concreta di ricerca di uno stato perfetto per via utopica. Ciò fa sì che la storia del pensiero politica gli riservi oggi un posto pregiato nel padiglione degli autori più rappresentativi del Rinascimento (si veda Gennaro Maria barbuto, Il pensiero politico del Rinascimento. Realismo e utopia, che colloca More in compagnia di Machiavelli, Guicciardini e baldassare Castiglione). Ha contribuito certamente alla sua fama il ruolo che egli ebbe nella vita politica dell’inghilterra del suo tempo e la fine tragica che lo portò al patibolo. More riassumeva in sé un cambiamento di prospettiva culturale che si realizzava nell’ambito di quel gruppo di scrittori che, per quanto cresciuti in scuole religiose quali a quei tempi erano le università, cominciavano a sentirsi non a proprio agio. in questo clima cresceva l’opera di erasmo da Rotterdam il quale trasferiva la stessa ansia all’amico thomas More. Questa fratellanza intellettuale portava avanti il vero significato dell’aspirazione in chiave utopica di un cambiamento di civiltà. erasmo e More erano interessati con la stessa carica intellettuale e morale alle questioni politiche dei loro tempi. in fondo gli stessi intenti vengono vissuti dagli altri utopisti del periodo: a partire da bacone e Campanella. Le differenze di prospettiva sono da addebitare alle diverse situazioni di vita di ciascuno di essi affratellati comunque dal sogno di realizzare una società dominata dalla perfezione dei rapporti tra i singoli e lo stato cui dovrebbe competere la possibilità di dare un’attuazione concreta all’anelito di felicità cui l’individuo naturalmente tende. il modo come vengono pensate le forme di organizzazione della vita nel mondo utopico è l’eco di una istanza che
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parte dalla constatazione di una società imperfetta. su di essa incide l’opera di pensatori politici e filosofi che hanno ritenuto di poter assicurare felicità a tutti attraverso complesse riforme e con organismi sociali ed economici incisivi nella trasformazione; alcuni di essi hanno persino predicato la violenza graduale o radicale. essi acquistano importanza nella evoluzione del pensiero politico perché nelle opere a caratura utopica rispecchiano le esigenze dei tempi. il loro merito sta nell’essere l’indicatore di un sentire politico e sociale che a partire dal Rinascimento avanza progressivamente attraverso tentativi di comprensione delle ragioni delle trasformazioni culturali e sociali anche se lo strumento che viene utilizzato - l’immaginazione utopica - paga lo scotto di un’astrazione che porta alcuni interpreti a ritenere le pubblicazioni utopistiche mero esercizio intellettuale. La schiera di utopisti che operano nei secoli Xv e Xvi comprende nomi illustri accumunati da uno slancio comune pur nella diversità della personalità di ciascuno in dipendenza dalle storie di vita individuali. Dire utopisti significa riportare alla memoria di noi uomini del ventunesimo secolo scrittori come Campanella, bacone, More e di seguito Doni e Fénélon e ultimo Fourier. La specificità del pensiero di ognuno di essi non cancella il loro nome da questa schiera di pensatori proiettati verso un mondo della perfezione. un posto indubbiamente privilegiato è quello di thomas More e per le vicende personali che l’hanno portato sul patibolo e per lo sforzo di indicare una via morale di accesso alla formazione di uno stato che potesse superare le contraddizioni sociali in cui l’inghilterra del suo tempo viveva. il caso More è particolare perché la sua vita basata sul valore della coscienza lo porterà ad auspicare in utopia forme di organizzazione tradotte sul terreno fecondo di aspetti istituzionali ben definiti. All’isola di utopia More
attribuisce forme di organizzazioni istituzionali che formeranno in seguito i cardini della società e della vita moderna: la proprietà, la famiglia, la religione, lo stato, sono istituzioni pensate come la mediazione tra il dover essere di uno stato perfetto e l’essere della condizione umana su cui tali istituzioni devono operare come valori morali e politici. Con More la forma letteraria utopica acquista una rilevanza decisiva: la tensione verso la perfezione trova nella “coscienza individuale e collettiva” l’amalgama del fondamento etico dello stato connesso alla volontà di un realismo istituzionale che renda inane ogni tentazione rivoluzionaria e salvi le forme di aggregazioni etico-politiche necessarie a rendere un valore il connettivo sociale dello stato pensato come perfetto. Questo sguardo critico rivolto alla comprensione del fondamento di legittimità del pensare utopico liberato dal principio di fuga dal presente verso l’isola di utopia riportandolo nella connessione con la società dell’epoca ha avuto successo grazie alla ripresa di interesse verso un personaggio, More, dal cui pensiero e azione emanano elementi di funzionalità per comprendere la crisi del moderno nel campo dell’etica personale e della politica. La lettura di Utopia non come un prodotto letterario dominato da un processo di creatività fantastica ma come una vera opera di riflessione politica ha dato negli anni recenti ricerche e “passioni” di grande ammirazione per More. si deve alle riflessioni di Francesco Cossiga e Antonio Casu la crescita di interesse per Utopia, per il suo autore e per il messaggio di forte attualità. Passioni tanto forti e generatrici di iniziative “a memoria” del grande pensatore inglese da aver dato vita ad un “Cenacolo” a lui dedicato. il merito di questo recupero della costruzione di un’immagine esemplare di un personaggio simbolo della fedeltà alla coscienza e promotore di un mondo migliore spetta oggi principalmente ad Antonio Casu. A lui si devono alcuni
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lavori sull’utopia di thomas More e la cura del Libro II di Utopia nella traduzione di Ortensio Lando. A tale libro noi prestiamo attenzione questa sera. La lettura che Casu fa di Utopia arricchisce il lavoro critico sulla figura di More di riflessioni che nella loro specificità costituiscono una novità storiografica. essa assume come riferimento centrale dell’analisi un tema giuridicoistituzionale. Dopo un breve excursus delle interpretazioni più o meno rispondenti al senso e alla prospettiva di Utopia Casu cerca di individuare tale senso in un aspetto che, a suo parere, viene di solito trascurato e che invece è di fondamentale importanza per la comprensione dell’opera. More si fa carico di individuare i presupposti necessari per il funzionamento del consorzio civile, un piano insieme prepolitico e prenormativo relativo ai fondamenti della norma e alle motivazioni della sua accezione da parte del corpo sociale. Questo aspetto, scrive Casu, più di altri costituisce davvero una sfida per la modernità. Per farlo analizza i concetti di norma e utopia e all’interno assume che il principio regolatore dell’esistenza individuale nel consorzio umano è la norma, nel senso che tutte le grandi civiltà sono sorte sulla base di simili principi di natura religiosa etica e politica. in sostanza in tutte le grandi religioni storiche si rinviene un corpus di norme fondamentali. La codificazione, cioè la creazione di un corpo unitario di norme si è rivelata esigenza insopprimibile per tutte le grandi civiltà della storia e lo è tuttora. Di fronte alla norma e a questa sua esigenza regolatrice almeno apparentemente c’è l’utopia, un termine che ha acquistato diversi significati e che Casu riduce a tre, entro cui colloca quello che noi incontriamo nel libro di thomas More. il primo significato è nella formulazione di una condizione storica politica o sociale corrispondente agli ideali religiosi etici e politici che la ispirano. Porta come esempio la Repubblica (politeia) di
Platone che descrive il modello di una società che viene retta da ideali filosofici. il secondo è nella declinazione di obiettivi ritenuti comunque utili a orientare l’azione politica e fa riferimento a saint simon, Fourier, ad alcuni teorici del socialismo. e infine, il terzo, è il significato che dobbiamo tenere presente leggendo l’opera di More; è rinvenibile proprio nella concezione dell’utopia come strumento per la critica del presente, delle istituzioni politiche sociali ed economiche storicamente vigenti. e More è il maggiore rappresentante di questo ultimo significato. Questa terza accezione rivendica all’utopia un nesso intrinseco operativo, fattivo, dell’utopia con la realtà politica del tempo. More rappresenta proprio il caso tipico di questa connessione, quindi critica dell’utopia come operazione eminentemente astratta filosofico-letteraria per arrivare invece ad un concetto di utopia come uno strumento di azione politica. occorre però, e su questo Casu insiste, non immaginare questo rapporto tra norma e utopia come una dicotomia radicale. Da qui si deduce che una norma del tutto priva di una finalità utopica si ridurrebbe alla mera disciplina del presente, al consolidamento normativo del fatto. e l’utopia se non vuole risolversi in una mera astrazione storica, deve proporsi di avere un versante normativo senza il quale perderebbe di effettività e tradirebbe radicalmente la stessa finalità del progetto di incentivo alla trasformazione della stessa realtà. La novità della lettura che Casu fa di Utopia sta proprio nel trasferimento del suo valore e significato dal rischio dell’astrazione o della politicizzazione in senso strettamente realistico al trasferimento al livello del diritto. La discussione viene portata avanti ricorrendo anche ad esempi della tragedia classica, il richiamo per esempio alla tragedia di Antigone. Questo dimostra la novità della inter-
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Modernità di More
pretazione, anche contro coloro che non hanno percepito in pieno il vero autentico significato di Utopia; essi hanno trascurato in qualche modo il contributo che More, giurista eccelso, non ha trascurato di trasferire nell’immaginazione letterario-utopica il senso e il valore del diritto e della sua funzione nell’ambito della organizzazione della vita pratica dei moriani. Con questa operazione Casu dà all’utopia di More una sostanza che nelle esperienze storiche di una letteratura utopica, a partire da Platone, manca. Manca come rapporto di una concretezza che non è solo con il tempo in cui la produzione si verifica ma è assente come processo attivo di trasformazione di una dinamica storica esistente. ed è allora evidente che More diventa il vero iniziatore della terza accezione di utopia a cui facciamo riferimento. Ma la concretezza che in qualche modo è base delle altre creazioni utopiche qui è data dalla capacità dell’utopia a rendere operativa l’istanza della norma necessaria per la concretizzazione del progetto utopico, sta, come abbiamo detto, nella messa in evidenza del ruolo funzionale dell’atto istituzionalizzante della norma per cui la differenza tra norma e utopia viene superata restituendo all’utopia la forza della concretezza. e’ la norma che rende concreta l’utopia. Per dare maggiore corpo al rapporto di distinzione ma anche di congiunzione tra norma e utopia Casu fa intervenire il nomos. si commette un errore nel pensare l’Utopia di More come un puro gioco intellettuale costruito unicamente sul terreno di problemi storici e contingenti della società di cui More è parte. bisogna invece guardare a questa interessante e avventurosa costruzione di una città futura, e quindi di uno stato futuro, come un’operazione di grande sapienza politica. La costruzione di una società utopica è l’utilizzazione di un processo razionale poggiato sul terreno dell’inventività fantastica per rispondere ad esigenze che stanno al di qua e al di là della
costruzione di un criterio di lettura astratta dell’esigenza della propria epoca. in fondo la proiezione verso un futuro organizzato con regole di costituzionalità adeguata è un processo di fenomenologia etica e sociale in cui viene riversato il sentimento morale che l’autore vive e la speranza che la realtà sociale possa formarsi e realizzare attraverso quei principi di legittimazone del diritto che consente un’esistenza di felicità uguale per tutti gli individui e la costruzione di un’etica sociale poggiata sulla speranza di un mondo migliore. Ma se in altri utopisti il ricorso ad un fondamento che trascenda la situazione storica o soggettiva è nella maggiore validificazione della speranza di un mondo felice, per More questa possibilità è da rintracciare nell’esigenza della regolazione dell’esistente in un principio che non è la contrapposizione all’ esistente ma è il fondamento dell’ esistente. La fonte contiene in sé la ragione ultima del suo dispiegarsi nella vicenda storica. in More la fonte è nella legge, il nomos, che è un dato pre-normativo. La novità della posizione di More è proprio nel sentire l’esigenza di una fondazione della costruzione della società come un fatto pre-normativo, come garanzia della validità del fondamento stesso onde evitare il rischio di una norma che identificandosi con la costruzione oggettiva e realistica della società sia pure essa immaginata, finisca col negare la possibilità stessa di attuare il principio della felicità per ricadere o nello stato di natura o nel disordine preludendo ad un nichilismo giuridico di cui tanto in questi tempi si parla. Dice Casu “Il nomos di Utopia scaturisce da una fonte normativa superiore, che trascende e supera la norma, in quanto ricomprende in sé una vocazione teleologica. e’ in sé fonte e fine. e’ fondamento, ragione e parola: l’etimo di logos. Per thomas More nell’uomo è presente un principio divino in grado di prospettare la vittoria della ragione sull’ animalità, della speranza sulla dispe-
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Mario Ciampi
razione”. Ma per questa via nasce il timore che la legge possa condizionare gli individui assoggettati ad una costrizione; ciò viene fugato da un momento in cui si comprende la necessità del fondamento pena l’anarchia sociale. e quindi la costruzione di una utopia, di questa isola dove la vita è regolata da norme che rispettano il diritto di tutti e di ognuno e promette in qualche modo la felicità, è convalidata dal carattere razionale del logos, della fonte suprema della norma che consente la tolleranza. Anzi, insiste Casu, in essa si attua “l’assimilazione paritaria delle diversità nell’armonia della società utopiana, senza distinzione di razza, di censo, di ceto, di religione”. Quindi si apre a credenti e non credenti nell’identificazione di una vitale quanto condivisa necessità di senso e di fine. Partendo da queste evidenze Casu, nel momento in cui vuole evidenziare la modernità di More, ritiene che il recupero del Logos come ragione finalizzata e finalizzante, si offre al confronto tra mondo della ragione e mondo della fede il cui varco di comunicazione non può essere solo un confronto sui princìpi ma anche sulle regole di funzionamento del corpo sociale e segnatamente sul piano delle regole etiche di cui ogni società ha bisogno a prescindere da ogni riferimento trascendente. Questa posizione indubbiamente ha il merito di tentare il recupero di un afflato etico di una società al di qua ma non contro il ricorso ad una teologia di carattere che non sia solo religioso ma anche sociale, o meglio la possibilità che la società abbia una teleologicità risiede proprio in questo processo di evidenziazione del carattere fondante del nomos il quale, a sua volta, ha bisogno di una ispirazione che è intrinseca ma nello stesso tempo si attanaglia ad un principio che la sostanzi di una forza cogente ma anche creativa. Lo sforzo interpretativo che Casu fa del pensiero moriano è rivolto appunto a vedere se la posizione di More non sia
soltanto la manifestazione di un’epoca in cui si vive il senso della crisi di un mondo costruito sui principi puramente religiosi ma ne vuole cogliere il messaggio rispetto alla possibilità che il futuro assuma caratteri di luogo di felicità per l’individuo. e qui è evidente che l’organizzazione della vita di utopia che può sembrare eccessivamente disarticolato rispetto al mondo della realtà, in verità è l’elemento centrale di una speranza che attraverso la conservazione di un principio fondante pre-normativo si possa ridare un senso di pienezza all’esistenza che va verso una disgregazione della sua posizione morale e che ove venisse distaccato da quel principio si muoverebbe verso un’anarchia pericolosa per l’organizzazione stessa della società. in questo senso la riflessione di Casu sta a rappresentare non solo la rivalutazione del pensiero utopico in generale quale che sia la sua strutturazione immaginifica o il riferimento storico di cui gli autori delle utopie vivono. e’ un principio che rende possibile la ristrutturazione o riconfigurazione di un mondo individuale e sociale in cui è possibile evitare l’anarchia totale. La lettura che Casu ci presenta della moreana Utopia va inserita nella tendenza a rendere deviante il tentativo di vedere l’opera di More come una costruzione puramente immaginifica dal sapore letterario.
Mario Ciampi Utopia e coscienza
Dobbiamo alla sensibilità intellettuale di Antonio Casu questa pregevole riedizione del ii libro di Utopia, nell'originale latino del 1516 e traduzione italiana del 1548 a cura di ortensio Lando. sulla fortuna di un classico dell'umanesimo europeo come Utopia, molto si è detto. Luigi Firpo lo ha definito «uno dei pochi libri ad aver inciso sulla storia del mondo». e ha ragione, tanto alta è la misura del programma che ci consegna thomas More in quest'opera che continua a fecondare le coscienze, non già ad
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Utopia e coscienza
ispirare azioni immediate di radicale instaurazione di una societas perfecta. Le più note interpretazioni che ebbe si avvitano intorno a questo dilemma e suggeriscono a lettori autorevoli e distanti come ad esempio Karl Marx e Gaetano Mosca, perfino la tesi del proto-comunismo di More. Certo, va in effetti spiegato come mai, negli stessi anni, a thomas More venivano eretti altari nelle chiese cattoliche e monumenti nelle piazze sovietiche. Non è tema da poco, se si considera che il testo dell'utopia è pieno di riferimenti che farebbero concludere frettolosamente a favore di un socialismo ante litteram, iscrivendo il Cancelliere inglese tra quegli utopisti che non potendo «ancora fare appello alla storia del loro tempo», «furono obbligati a costruire gli elementi di una nuova società traendoli dal proprio cervello»1. È vero che More comincia la sua opera con la descrizione delle condizioni sociali nell'inghilterra del secolo Xvi. La coscienza di queste condizioni deve aver generato in lui una reazione ideale che lo motivò a tal segno da inaugurare un filone letterario specifico dell'europa moderna, quello della critica sociale. L'Utopia va alle stampe quando nella società inglese si sentivano ancora le ferite delle guerre civili terminate con l'avvento al trono della dinastia tudor nel 1485. Questi fatti coincisero con intense trasformazioni economicosociali, acuite vieppiù dal cambio di destinazione di molte terre prima coltivate a grano in pascoli, per effetto dell'aumento di esportazione della lana inglese nelle Fiandre, cosa che produsse la disoccupazione e l'impoverimento di intere masse di piccoli possidenti, con evidenti conseguenze per l'ordine pubblico. era mutata profondamente anche la parte alta della società: le lotte intestine avevano avvantaggiato nuove famiglie proto-borghesi, a scapito dell'antica nobiltà di origine normanna. Per giunta, molti si erano abituati a trarre guadagni dalle armi anziché dal lavoro e si davano al brigantaggio, rendendo insi-
cure le proprietà e le strade. Questa, la fotografia dell'inghilterra ai tempi di More. L'utopia parte da qui, a conferma che quelli che il mondo chiama "utopisti", sono in fondo dei "lucidi realisti"2. Nella seconda parte del suo lavoro More si dedica, attraverso il racconto di Raffaele Hitlodeo, alla descrizione della costituzione dell'isola di utopia. Mosca ne coglie subito i tratti salienti: i suoi ordinamenti erano «tali che rendevano tutti gli abitanti uguali e felici»3, grazie all'abolizione della proprietà privata e degli scambi monetari. tutti lavoravano per sei ore al giorno e queste erano sufficienti per provvedere ai bisogni di ciascuno, per il fatto che il lavoro era concentrato sulle attività strettamente utili alla comunità, in assenza di attività più remunerative. Nella comunità utopiana, l'uguaglianza è radicale: tutti sono liberati dalla schiavitù del bisogno, la cui paura rende l'uomo avido e rapace, e dalla superbia, perché le norme di utopia bandiscono alla radice ciò che la genera, l'ostentazione del superfluo4. Non v'è dubbio che nel testo vi siano elementi che possono indurre a interpretazioni come quella di Marx o di Mosca. Fino a giungere, nell'ultima parte dell’ opera, alla denuncia che solo lo stato di utopia meriti la denominazione di respublica perché persegue l'interesse di tutti. Lo stato che conosciamo, dice Hitlodeo, è in mano a una «conventicola di ricchi, che sotto nome e pretesto di stato, pensano a farsi gli affari loro». Definizione che è difficile non accostare alla concezione marxiana dello stato come "comitato d'affari della borghesia". un altro tratto saliente della costituzione utopiana è quello che potremmo definire un repubblicanesimo radicale, inteso come totale sottomissione dell'interesse privato al bene pubblico. Anche per quanto riguarda la famiglia, la privatezza è giudicata sconveniente. More pare non accettare della famiglia e dei corpi medievali, proprio il carattere privatistico, protettivo all'interno e chiuso all'esterno. Ma non concorda neppure con il modello borghese, segnato dal-
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l'isolamento e dalla solitudine. utopia è tutta imbastita intorno a un comunitarismo di spiriti eletti, a un'autarchia che, come direbbe Dante, è il bene sufficienter que vivere. L'obiettivo polemico è l'irruzione del mercantilismo, il suo materialismo. Quella che Dante chiama cupiditas. Dunque, l'utopia moreana è profondamente diversa dalle utopie del pensiero antico e dagli utopismi della modernità. e' differente dall'utopia platonica. "Di questa nostra città - scrive Platone - l'esemplare sta forse in cielo, e non è molto importante che esista di fatto in qualche luogo, o che mai debba esistere. A quell'esemplare deve mirare chiunque voglia, in primo luogo, fondarla dentro di sé". More non parla di un esemplare iperuranico. Non è più il modello che vive in noi, ma è una realtà che ancora non esiste e che potrà nascere con una modifica sostanziale di comportamenti e di strutture istituzionali. C'è nell'utopia moreana un senso dell'avvenire che riguarda la nazione inglese e il suo sviluppo. si può discutere se questo senso della costruzione di una nuova società possa essere vissuto in chiaveutopistica, se la trasformazione instillata in queste pagine abbia un accenno di utopismo, ben al di là dell'archetipo platonico. vi è tuttavia un filo conduttore. "La questione centrale posta da More in Utopia - osserva Casu - è dunque la riproposizione del ritorno alla fonte originaria come presupposto indispensabile per progettare un futuro, che è anche presente, affrancato dai limiti dell'esperienza storica, senza farsi fuorviare dalla resistenza inerziale, statica, di un percorso che vede il progressivo sfaldamento di un'epoca in cui la questione di Dio era centrale, ontologicamente e universalmente accolta" (p. XX). un concetto successivamente esplicitato, mettendo a fuoco "il nucleo del pensiero di thomas More, valido per i suoi contemporanei come per i moderni: l'esistenza di un orizzonte prenormativo, il Logos, che accoglie l'instaurarsi storico delle norme umane" (p. XXi). Ma l'utopia moreana si distingue
nettamente anche dai successivi utopismi costruttivistici dell'ottoNovecento. Lo spiega bene Casu nella sua introduzione: «utopia è il nonluogo, non vive certo in una dimensione spaziale, non è uno stato in-sé, è piuttosto un tendere-verso. essa vive dunque, al contrario, nella dimensione temporale, nella sfera dell'esistenza individuale e nella sua relazione con gli altri» (pag. XXi). L'utopia quindi è uno spazio di libertà individuale e politica, non un assetto istituzionale da costruire sulla base di un modello intellettualistico. È piuttosto qualcosa che attiene alla coscienza, che davanti alla realtà del mondo, «riesce così a cogliere l'incompiutezza, a volte radicale, del presente e svela le attese profonde della società, ed è così la necessaria premessa di ogni volontà ed azione, volte a rinnovare la società, per renderla più rispondente alle esigenze di una compiuta umanità»5 . Mentre l'utopismo promette, l'utopia ricorda. Ricorda alla coscienza quegli impegni che si assumono al momento di nascere, quella fonte originaria che è presupposto per uscire dalla passiva acquiescenza allo status quo, ma che è, in un certo senso, inesauribile e inarrivabile. "La grande missione dell'utopia è di dar adito al possibile in opposizione alla passiva acquiescenza all'attuale stato di cose" (e. Cassirer, Saggio sull'uomo). È proprio qui il significato dell'utopia moreana. Per dirla con i versi del poeta Galeano, «Lei è all'orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l'utopia? serve proprio a questo: a camminare».
1 F. engels, Anti-Dühring, 1878; tr. it., p. 283. 2 L. Firpo, introduzione a Utopia, Guida, Napoli 1981, p. 17. 3 ivi, p. 142. 4 Cfr. M. D'Addio, Storia delle dottrine politiche, volume 1, terza edizione, ecig, Genova 1993, pp. 275 ss. 5 M. D'Addio, Storia delle dottrine politiche, op. cit., p. 280.
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Guido Traversa
Guido Traversa Utopia, una forma dell’opposizione?
Quando valuto una azione riconosco sia una sua identità distinta dalle altre azioni rispetto alle quali può entrare in un rapporto di opposizione o di contrarietà, sia una sua identità distinta rispetto a ciò che potrà causare direttamente o indirettamente nel futuro, entrando, anche in questo caso, in un rapporto di possibile opposizione (o di contrarietà o di contraddizione) rispetto alle azioni ancora non date. Nel pensiero politico, etico, nell’utopia di thomas More emerge una questione fondamentale: quella del possibile, anzi necessario, “non-luogo” caratterizzato come forma dell’opposizione; ma chiediamoci: si tratta di opposizione come contrarietà o come contraddizione? o invece si tratta di quella forma dell’opposizione, che ritengo ancora più potente della stessa contraddizione, ossia della Distinzione che chiama a sé la responsabilità della scelta: responsabilità lasciata quieta dal semplice “non-X” del contraddittorio che nulla muove in realtà se non il solo pensiero? Penso sia difficile ritenere di poter trovare oggettivamente nella natura una opposizione reale (una contrarietà o una contraddizione o una Distinzione) tra individui o tra le specie; eventualmente queste opposizioni si possono cogliere solo nelle categorie con cui si studiano, appunto, gli individui o i fenomeni naturali. invece nell’osservare i caratteri con cui si presenta una mia azione, una azione di un’altra persona, un fatto storico e sociale, posso con molta facilità percepire un rapporto di opposizione, di contrarietà, di contraddizione, di Distinzione, che proprio per questo spinge il giudizio politico ed etico verso un tipo di unità in grado di misurarsi con quegli stessi rapporti e, in caso di renderne conto. tradizionalmente le principali forme di
opposizione sono: a) di semplice correlazione, tipo padre-figlio, doppio-metà; b) di privazione, ossia quando si pensa il non-possesso in uno dei due termini di un qualcosa che l’altro, appunto, possiede: vista-cecità; c) di contrarietà, dove un termine rappresenta il massimo di lontananza all’interno del medesimo genere dall’altro termine: bianco-nero, il genere comune è, in questo caso, il colore; d) infine il caso più forte di opposizione è la contraddizione, un termine è la negazione dell’altro: la relazione tra A e non A, dove ciascun termine non ha in comune nulla coll’altro. Ma effettivamente i due termini contraddittori qualcosa in comune ce l’hanno: a) il rapporto di negazione, b) il fatto che quando penso e dico A opposto a non A, o bianco opposto a non bianco so che in nonbianco può entrare tutto, anche il giallo che forse non è neppure in rapporto di opposizione con il bianco - un corvo bianco - che pur essendo bianco è comunque incluso in ‘non-bianco’ in quanto è, infatti, non solo bianco ma un corvo bianco - un ircocervo, e così di seguito fino a pretendere di includere logicamente il tutto, la totalità. Per questo, per l’impossibilità di esibire la totalità in modo completamente determinato, nessun non-A potrà essere un individuo: è solo la negazione di A, ma pure, proprio per questo entra in qualche modo nello stesso A; la negazione più forte, la contraddizione, costituisce dall’interno qualsiasi cosa determinata, perché appunto l’identità di A, di un qualcosa di terminato, non é non-A. Ritengo che sia un ragionamento simile che conduce a pensare che la realtà stessa è in sé e non solo nel pensiero intrinsecamente mossa secondo un principio dialettico, nel quale la negazione è interna a ciò che è. e’ certo però che per quanto possa essere legittimo un simile processo di pensiero, non si possono tuttavia non dimenticare i rischi metafisici, forse superati dall’utopia di More, di questa non separatezza della forme della
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Utopia, una forma dell’opposizione?
negazione dalla realtà: il venir a coincidere, analiticamente, di un qualcosa di determinato con l’identità di questo stesso movimento, il ché cancella così la distinzione tra sé e ciò che esso muove: la realtà del dato in movimento scompare nel motore che lo muove. Anche solo per questo rischio, sarà necessario trovare un nome - che non rientri nelle quattro forme classiche di opposizione per quel carattere di distinzione interno all’identità in quanto tale e non alla distinzione come relazione tra distinte e relate identità. e un nome potrebbe essere proprio utopia nel suo intrinseco carattere di concreto indicatore di Distinzioni antagoniste. Ma portiamo alcuni esempi del carattere di opposizione che accompagna il percepire e giudicare una qualche azione determinata, un fatto storico o sociale determinato - seguendo, così, una progressione verso un grado sempre più elevato di complessità - e vediamo se e come le forme dell’opposizione sono ‘interne’ alla stessa singolarità percepita e giudicata, e se tutte queste forme si possono ricondurre, quasi empiricamente, a quella della negazione per contraddizione o invece e meglio al rapporto di questa forma di opposizione con la distinzione. Mettendosi sul piano della sola relazione logica a tipo padre-figlio, doppio-metà, possiamo immaginare una azione che entri, formalmente, in questa tipologia di opposizione? Difatti è molto difficile perché nelle due coppie di nozioni qui riportate ciascun termine ha senso solo in relazione con l’atro, invece una singola e concreta azione ha un senso che può essere colto e compreso senza riferirsi, anche solo implicitamente, ad un altro in modo biunivoco, come avviene in ‘doppio-metà’. Nell’ambito dell’agire personale, interindividuale, sociale, politico e storico una correlazione può apparire come opposizione reale tra forze di verso opposto applicate ad un medesimo
oggetto. Come può essere di fatto lo scontro in noi stessi di passioni tra loro opposte con forza pari o impari. Questo può apparire con chiarezza se pensiamo al nostro stato d’animo quando ci sentiamo colpiti da due affetti tra loro contrari che esercitano su di noi un pari potere, ciò fa nascere lo stato d’animo della ‘fluttuazione’, di dubbio; però basta un piccolo incremento di uno dei due per farci propendere per esso, e questo incremento può essere il risultato del nostro stesso percepire e giudicare i due elementi e la forza che esercitano su di noi. La letizia e la tristezza, le tante rappresentazioni degli oggetti che possono risvegliare questi due stati sono un esempio del vissuto nel quale facciamo esperienza di una possibile opposizione, dove la correlazione si fa reale: diviene una contrarietà che inerendo al medesimo soggetto (genere), in questo caso io stesso, si presenta come opposizione di privazione e/o di aggiunta, l’esser tristi è il contrario dell’esser lieti, ma la gioia può presentarsi in modo da “privare”, togliere la tristezza e viceversa, secondo un processo o di esclusione reciproca o di graduale dominanza di una passione sull’altra. e se ci sono gradi intermedi tra la tristezza e la gioia è possibile ritenere che in ciascuno dei due poli ci sia un qualcosa dell’altro, tanto da rendere possibile, in un medesimo soggetto, il passaggio organico da uno stato all’altro. Portiamo un altro esempio, più di carattere normativo, inter-individuale: un fenomeno antropologico classico dell’opposizione, quello della coppia sacro-profano. Anche in questo caso un termine appare come il correlato dell’altro, ma subito anche come il contrario dell’altro (come bianco-nero). Ma se è possibile che un qualcosa, uno spazio, un gesto, un individuo possa appartenere a uno dei due ambiti, distinti reciprocamente, allora è possibile vedere questa contrarietà come reale, come scontro di forze, pari od impari, come rapporto di opposizione per privazione o incremento, e ciò sempre che
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uno spazio, un gesto, un individuo non siano già da sempre appartenenti, analiticamente, per essenza, in modo statico, ad uno dei due poli. invece sappiamo che ci sono i riti di passaggio dall’uno all’altro polo, come l’iniziazione, il rendere puro l’impuro, il sacralizzare uno spazio. Penso però che più dei riti di ‘passaggio’, ciò che può provare il carattere non analitico dell’identità di ciascuno dei due poli è la necessità dei riti di mantenimento: quelli finalizzati a far permanere, ad esempio, ‘sacro’ un spazio già consacrato; questo vuol dire che il suo contrario, lo spazio profano, in qualche modo gli appartiene non solo correlativamente, ma anche sua stessa struttura. un determinato spazio, una determinata azione se potessero coincidere assolutamente con la specie del sacro non richiederebbero i riti di mantenimento, di conferma, di tutela, del loro appartenervi. Fin qui abbiamo visto che una determinata passione contiene, in qualche modo, già in sé la sua opposizione, che una determinata realtà antropologica - a carattere oppositivo (appunto per esempio sacro-profano) - contiene, in qualche modo, il suo contrario; sembra dunque che si possano ben legare reciprocamente la forma correlativa, quella per privazione e quella per contrarietà. Che ne è della, cosiddetta, più forte forma di opposizione? Che ne è della contraddizione? A e non A non ineriscono alla realtà? un fenomeno, una azione o un fatto, proprio perché già in un determinato A, ossia in quanto qualcosa di determinato, sono al riparo dal potere del non A? il ‘bianco’ ha un colore, il non-bianco, il suo contraddittorio, non può aver colore, altrimenti sarebbe o solo un distinto (un colore differente, poniamo, il giallo), o un opposto per privazione (ma questo caso è possibile?), o, ancora, sarebbe il suo contrario, il nero. il nonbianco in quanto tale è solo non-bianco, oppure incomincia ad essere un qualcosa: tutto ciò che bianco non è, e allora il non-bianco diventa tanto poco ‘non’
(solo negazione) da includere la totalità dei predicati e degli enti, con l’esclusione di uno solo, appunto, il bianco. Questo riempimento, ad infinituum, del non bianco con tutto ciò che il bianco non è, lo distingue, in positivo, non solo negativamente dal bianco, dall’ ‘è’ del bianco: il non-bianco ‘è’ in qualche modo. in più possiamo dire che il non-bianco - proprio per questo suo potere di diventare la classe, la specie, di tutto ciò che non è bianco in quanto tale - è distinto dal bianco; allora è l’identità stessa del bianco che è in sé anche distinta da tutto ciò che è altro da sé: dal non-bianco. il ‘nonbianco’, la massima forma di opposizione, di negazione, quella della contraddizione, può essere ricondotto alla distinzione, pur non cancellandolo analiticamente in questa, proprio per il potere di negazione che il ‘non’ ha e mantiene in ogni individuo che rientra nella sua ‘superclasse’, rispetto all’unico ente che gli si contrappone: il bianco. se è così ne segue la forma per opposizione politica ed etica dell’utopia è quella della Distinzione tra il già dato e un parimenti concreto e scelto ancora non dato, il non-luogo, che deve essere dato e responsabilmente realizzato nell’esperienza. vi è dunque della contingenza, della novità, in ‘non-luogo’ rispetto a luogo. Allora, quando valutiamo una singola azione, pur stimandone la sua identità e le sua distinzione, la valutiamo, anche se non ne siamo consapevoli, rispetto a tutto ciò che non è, ad una negazione che non è analitica né rispetto a se medesima, né è tantomeno inclusa analiticamente nell’esistenza dell’azione data, perché pone rispetto a questa non un particolare predeterminato ma un qualcosa che se non si vuole farlo scomparire nell’indistinto non A è necessario sceglierlo, liberamente, come un qualcosa che è, che esiste. insomma percependo e giudicando una singola azione, siamo nella condizione di dover scegliere liberamente nel ‘non è’, che fronteggia l’azione data, cosa vogliamo, speriamo. La rappresentazione della no-
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stra libertà - il nostro ‘credere’ nella nostra capacità di agire liberamente - viene incrementata, resa più forte e vivace proprio dalla possibilità di ritagliare nel ‘non è’ ciò che, realmente, desideriamo: che quella singola azione non sia. il ‘non è’ non ci conduce, meccanicamente, a dover contrapporre un predeterminato contenuto. e’ la contingenza della totalità, rappresentata dal ‘non è’, che apre uno spazio, non sempre felice, alla nostra capacità di porre in modo libero un particolare ‘non è’ di fronte alla prima azione. La stessa contraddizione, la sua apparente forza smisurata, non coglibile a colpo d’occhio, non raggiungibile dalla nostra capacità immaginativa, la sua “sublimità” può essere ricondotta alla più ‘visibile’ Distinzione proprio perché è possibile lavorare nel ‘non è’ per percepire e giudicare il ‘caso giusto’, il kairòs, l’individuo che può essere contrapposto all’ azione che stiamo valutando; e questa contrapposizione è necessaria proprio per capirla. Dovrebbe essere chiaro, inoltre, per quello che abbiamo detto sulla libertà, che comunque la nostra capacità di determinare un alcunché nello spazio del ‘non è’ non è illimitata, come invece sembra essere questo stesso spazio, ma sarà sempre guidata dalla forza di una rappresentazione, di quella che anche biologicamente avvertiamo come in grado di imporsi a noi. e’ la nostra libera responsabilità etica e politica a chiedere di porre nel nonluogo un luogo dove stare in modo più felice: utopia è il luogo dove andare.
Antonio Casu L ’ i sol a del l ’ U t o p i a
Desidero innanzitutto rivolgere un ringraziamento sincero e cordiale ad Angelo sabatini, Mario Ciampi e Guido traversa per attenzione che hanno voluto dedicare alla nuova edizione, da me curata, del secondo libro di Utopia di thomas More, nel testo a fronte tra l’edizione definitiva del 1516 e la traduzione di ortensio Lando del 1549, la prima in italiano e la seconda in assoluto. Ringrazio inoltre il prof. sabatini anche per aver dato la sua disponibilità a pubblicare i contenuti di questo incontro e di questa presentazione nella rivista “tempo presente”, di cui è direttore. voglio sottolineare l’attenzione prestata ad alcune delle tematiche principali da me affrontate nell’ Introduzione all’opera di More. in particolare, sabatini sviluppa le argomentazioni relative alla natura dell’utopia moreana, al suo fondamento, al rapporto tra Nomos e Logos che ho cercato di mettere in luce. sabatini sottolinea le ragioni del tentativo di indirizzare l’attenzione al pensiero di More - lungo tempo limitata al prodotto letterario oppure alla sua critica sociale - nei confronti dello sforzo di indicare una via morale di accesso alla formazione di uno stato giusto, o almeno più giusto, indagando in profondità i presupposti necessari per il funzionamento del consorzio civile, il piano insieme pre-politico e pre-normativo dei fondamenti della norma e delle moti-
“Ardirà alcuno di comparare la equità di altre genti quai a mio parere non ne tengono ombra alcuna, con la equità di questa Repubblica?”
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vazioni della sua accettazione da parte del corpo sociale. Ciampi, dal canto suo, ha ripreso le considerazioni relative sia alla critica sociale di More, poi sviluppate in modi molto differenti tra loro nei secoli successivi, incluso Marx, sia al primato del bene pubblico sull’interesse privato, quello che Ciampi definisce “repubblicanesimo radicale”. traversa, infine, a partire dall’utopia di thomas More ha argomentato intorno alla necessità del non-luogo quale forma dell’opposizione-contrarietà o dell’opposizione-contraddizione, ovvero come forma dell’opposizione, che ritiene ancora più potente della stessa contraddizione, ossia della Distinzione che chiama a sé la responsabilità della scelta, e ha riconosciuto inoltre all’utopia di More la possibilità e il merito di un superamento dei rischi metafisici insiti nella non separatezza della negazione dalla realtà. Ma in verità ritengo che per onorare fino in fondo questo nostro odierno incontro, del quale vi sono debitore, non posso limitarmi a ringraziare ma devo proporre ulteriori elementi di riflessione.
solo considerando tutta la sua opera si evita di incorrere nell’errore di interpretare l'utopia moreana come unicamente riconducibile alla sua opera utopia, così privandosi di fondamentali parametri di giudizio. e senza questa visione complessiva finiremmo per far dire a More ciò che vogliamo fargli dire, o sentirci dire, e non, come dovrebbe essere, l'esatto contrario. “Chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso”, afferma conclusivamente Gadamer (Verità e Metodo, bompiani, 2012, p. 557 ss), riprendendo il ragionamento sul “circolo ermeneutico” che Heidegger aveva sviluppato in Essere e Tempo. un esito questo che si è più volte verificato nella storia, anche in virtù di un elemento stilistico essenziale dell’opera, e poi di tutto il genere che ne è derivato: l’uso sapiente del linguaggio allegorico, la costruzione intenzionale di un’architettura narrativa basata su più livelli di comprensione, che ha consentito, e talora favorito, molteplici piani di lettura dell’utopia moreana, finendo talvolta per snaturare il pensiero di More. tuttavia, fatta questa necessaria premessa meto-dologica, risulta evidente che l’utopia di More è espressa in Utopia meglio e più organicamente che altrove, nel corpus degli scritti di More. e per comprendere in profondità il suo pensiero, occorre declinare il senso e la portata dell'utopia moreana facendo ricorso alle due dimensioni fondamentali della condizione umana: lo spazio e il tempo. tali prospettive sono utili ad illuminare quali relazioni vi siano tra l'autore e il contenuto delle sue opere, e disvelare meglio le radici e la portata della sua elaborazione.
1. L’isola dell’utopia - e’ vano, ed errato, pretendere di desumere l'utopia di More esclusivamente dalla sua opera più nota, e fondativa del pensiero utopistico moderno, Utopia. si può ricostruire il suo pensiero solo avendo presente tutto il complesso dei suoi scritti, persino il tenore delle sue traduzioni, ad esempio il Tirannicida di Luciano, e in particolare le sue lettere dal carcere, nelle quali si rinvengono con toni di assoluta autenticità gli elementi fondativi della sua formazione culturale e i valori ai quali si richiama, che dell’utopia moreana costituiscono rispettivamente i presupposti culturali ed etici, e dei quali la sua utopia 2. L’utopia come isola - Utopia, il nonsi sostenta. luogo, si definisce innanzitutto come 37
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isola. L’isola non è solo la sede dell’ utopia, ne costituisce il paradigma. L’isola dell’utopia si configura in opposizione alla terraferma, il suo limes è di per sé cesura territoriale, assenza di continuità fisica. Per accedere all’isola, infatti, non si può giungervi senza cambiare elemento, senza attraversare il mare che la circonda. il mare reca in sé la sua intima ambivalenza, sin dall’antichità. orizzonte della speranza e luogo del pericolo ignoto. il mare insidia la sopravvivenza del consorzio umano, ma consente all’Arca di migrare verso l’unico punto di approdo, l’unica terraferma che assicura la continuità della specie, e prelude alla rinascita della civiltà. il pelago minaccia odisseo nel suo tormentato peregrinare in direzione delle origini (nòstos), verso la sua famiglia e la sua identità, ancora un’isola, itaca. il mare è minaccioso acquartieramento delle forze del male, il Drago che, sconfitto in cielo nel suo pòlemos contro Michele (chi come Dio?) “si fermò sulla spiaggia del mare” (Ap. 12,18) in attesa di rinforzi, di quella bestia che, proprio sorgendo dal mare, sottometterà – provvisoriamente - le genti (Ap. 13, 1-4). Luogo del pericolo ignoto, ma anche orizzonte della speranza. “il Mare dunque – osserva Massimo Cacciari - l’antica Minaccia, custodisce in sé la nuova terra” (’Arcipelago, Adelphi, 1997, p.74). e’ forte il richiamo dell’isola in thomas More, proiezione della sua identità insulare. il luogo di destinazione finisce per coincidere con quello di partenza. il tempo dell’attesa, del non conosciuto assume finalmente le sembianze del conosciuto, il timore dell’ignoto si rasserena nel ritorno ai lidi natali: oi nostoi. Non avrebbe forse potuto essere diversamente, per un abitante delle isole, avvezzo da sempre a difendersi dagli uomini del mare, da coloro che vivono l’oltre-mare, e oltre-le-isole, hau-nebut antichi e moderni, in una perenne e irrisolta tensione tra hospes e hostis. L’appartenenza all’isola è un vissuto con
caratteri peculiari, determina una specifica condizione antropologica, culturale. solo nel tempo presente lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ha comportato la rimozione della categoria dello spazio, riducendo il viaggio dalla sua dimensione di maturazione esistenziale a quella turistica. Nella storia, la condizione insulare ha segnato l’anima delle genti; è stata la dimensione dell’isolamento, del silenzio, della vasta gamma delle reazioni umane al dominio della solitudine, dalla disperazione alla contemplazione. e del conflitto tra l’immobilità perenne della terra madre e la precarietà delle relazioni con il mondo esterno. La vita concepita anche come spazio esistenziale tra approdi e partenze. veramente si può parafrasare con riferimento a More la riflessione di Gramsci nelle Lettere dal carcere sulla convinzione, radicata nella letteratura italiana a proposito dei sardi, che “se la sardegna è un’isola ogni sardo è un’isola nell’isola” (5 gennaio 1937). La stessa dimensione europea del pensiero di More, e il suo universale riconoscimento, non confligge con le sue fondamenta insulari, ma al contrario ne rivela la proiezione universalistica. More non avrebbe dunque potuto situare la città di utopia, come in altri paradigmi della classicità, in una valle né sopra un monte. e neppure in un eden fiorito, memoria e miraggio delle arse genti del deserto. e poi L’eden è il paradiso perduto per sempre. utopia è invece orizzonte alternativo dell’esistenza umana, ora e qui. All’isola si giunge dunque superando le avversità e sottomettendo gli elementi. e questo risultato non è attingibile solo con le proprie forze. All’isola non si giunge con il semplice incedere, non con le proprie gambe. Per giungere all’isola occorre un mezzo, edificato dall’uomo o da questi attrezzato alla necessità. il mezzo per sbarcare sull’isola è un mezzo simbolico per eccellenza: la nave. La nave come mezzo della salvezza. Per i credenti, la grazia. Per gli umanisti, la
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Antonio Casu
cultura. Per gli umanisti cristiani come More, la grazia e la cultura. e oltre al mezzo, occorre aver completato il viaggio, percorso fisico ma anche spirituale, itinerario della conoscenza di sé e del proprio perfezionamento, ben noto all’umanesimo rinascimentale. e occorre anche un approdo, perché l’esito del viaggio non è sicuro, e il coronamento delle molte prove può avere luogo solo in uno spazio altro, disposto - ma anche idoneo - a ricevere il viaggiatore. il viaggio è dunque la relazione tra porto e approdo, contiene in sé la dimensione della relazione spaziale e temporale. e’ aperto al nuovo. il primo attributo dell’isola dell’utopia è la novità. utopia è nova insula, precedentemente incognita. La scoperta del Nuovo Mondo, neanche un quarto di secolo prima della pubblicazione dell’ opera, schiude un orizzonte a lungo atteso e temuto: oltre le Colonne d’ercole, oltre il mare oceano vi è una nuova terra. tutte le certezze, le tradizioni, gli assetti diventano improvvisamente precari. una nuova terra reca una nuova umanità, la prospettiva di un modello differente e inconosciuto di storia e di organizzazione economica, sociale e politica. L’autore di Utopia conosce bene i tratti reali di quella scoperta da parte delle potenze coloniali; non gli sfuggono i segni della sopraffazione e dell’omologazione. e tuttavia, se una nuova isola è possibile, se dopo il mare vi è una nuova gente, ve ne possono essere altre. La novità concreta della scoperta lascia spazio all’attesa, talora alla speranza, di ulteriori scoperte. e con esse alla definizione di nuovi paradigmi sociali. La certezza derivante dall’assenza di alternative si è infranta. il potere costituito, d’ora in poi, dovrà fare i conti con l’eventualità di un confronto. il potere non ama il confronto, lo teme, e quindi lo demonizza. eppure, il Nuovo Mondo, anzi la possibilità di Nuovi Mondi, consegna l’ordine alla
sfera del possibile, sottraendola a quella del necessario. il corso della storia umana non è segnato. un nuovo mondo è possibile, in questa vita. L’isola dell’utopia non è collocata in un altro mondo, ma in questo. e’ un approdo possibile, ancorché remoto, apparentemente inaccessibile. si staglia all’orizzonte come possibilità di vita, senza rinviare ad altra, semmai la prepara. L’isola dell’utopia appare dietro le nebbie della disillusione e del disincanto della realtà. indica un modo migliore di condurre l’esistenza individuale e collettiva, rinvia ad una condizione immateriale che non può dunque radicarsi in eu-tòpia. indicando un’alternativa radicale, e migliore, quindi più desiderabile, mette in luce i limiti e i difetti della realtà come il consorzio umano l’ha determinata. indica il limite e illumina il percorso. Non garantisce il conseguimento dell’obiettivo, che rimane sempre nella disponibilità dell’uomo, è esercizio della sua libertà, ma fa decadere l’alibi della necessità. Ma vi è di più. Quando Carl schmitt osserva che “nella parola artificiale “utopia” si manifesta la possibilità di una immane negazione di tutte le localizzazioni sulle quali poggiava l’antico nomos della terra.” egli mette in luce come Ou-topia vada oltre il mero affrancamento dal topos (a-topia), anzi ne costituisca la negazione radicale, la rescissione di ogni legame con la territorialità (anche se poi sembra parzialmente contraddirsi quando rileva che il contenuto dell’opera sembra più eu-topia che outopia). Rispecchiando così profeticamente la profonda trasformazione dell’ isola britannica che divenne “il veicolo del mutamento spaziale verso un nuovo nomos della terra”, cioè la scelta dell’ elemento marittimo, “e persino – potenzialmente – il campo in cui si sarebbe verificato il balzo successivo nella totale perdita di luogo della tecnica moderna” (Il Nomos della terra, Adelphi, 20033).
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L’isola dell’utopia
3. L’utopia come profezia - L’utopia è dunque il tempo dell’attesa, ma dell’attesa vigile, responsabilizzante. si colloca tra scienza e profezia, tra essere e dover essere, tra presente e futuro, tra realtà e promessa. e’ disconoscimento della realtà storica e riconoscimento/accreditamento di una realtà possibile. Non è né téchne né éskaton, tra l’indagine e la misura del reale e l’annuncio dell’ avvento del tempo finale. si situa dunque in un tempo terzo rispetto a krònos e kαιrόs, tra il tempo della storia e il tempo di Dio, che si invera nella vicenda umana, rendendo nuova ogni cosa, per il tramite della parola, del Lògos. il Lògos definisce, anzi rende accessibile all’uomo il tempo di Dio, che ri-associa il tempo e il fine, e si manifesta mediante singole epifanie, i kαιrόi, segno di crisi e promessa di opportunità, che necessitano di accoglimento, dunque della decisione umana. La saldatura tra eredità platonica e pensiero cristiano avviene anche sul crinale dell’acquisita autonomia della determinazione umana rispetto alla volontà divina, non mera sottomissione ma libera scelta. il rapporto tra krònos e kαιrόs è anche il rapporto, e il conflitto, tra i vincoli dell’umana condizione e della storia e la libertà del disegno divino, la sua inafferrabilità. “e chi sei tu?” – è il quesito
che Posidippo formula nell’epigramma della statua di Kairos forgiata da Lisippo – “il tempo che controlla tutte le cose. e perché hai un paio di ali sui tuoi piedi? io volo con il vento”. il disegno divino è attingibile dall’uomo se non interviene il Lògos; ma la sua adesione al kαιrόs è partecipazione alla nuova creazione. ecco, in qualche modo l'utopia e' attesa messianica, attesa non della fine dei tempi o del tempo finale, ma in senso proprio del compimento di sé che si realizza nel conseguimento del proprio destino, individuale e collettivo. il tempo messianico é infatti doppio: vive l’attesa del tempo ultimo con attivismo escatologico. il senso dell’utopia messianica consiste nel ritenere che solo vivere in senso escatologico realizza la pienezza del vivere. in tal modo, l’utopia messianica ri-associa il presente con il futuro; matura la pienezza dell'esistenza con la ricchezza che deriva dalla proiezione verso un futuro assoluto, fondata sulla consapevolezza di un esito necessario. Consapevolezza che manca se l'esistenza si concepisce unicamente come presente, dunque priva di un tèlos. Per More, l’esistenza di un fine legittima l’origine delle cose, restituisce senso alla realtà, illumina il percorso verso l’isola che non c’è, che non sussiste in alcun luogo fisico, ma è dentro ciascuno di noi.
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uoMiNi e iDee
Gaetano Pecora
il laicismo di Gaetano salvemini
Nell’esistenza di salvemini, c’è un episodio poco conosciuto ma molto significativo che la dice lunga sulla fermezza e quasi diremmo sulla perentorietà dei suoi convincimenti. Pochi giorni prima di morire, salvemini pregò che la bara venisse portata a spalla dai più giovani amici. Fu allora che don Rosario, il buon prete che gli si era affezionato, si offrì di seguire il funerale. saputo di ciò salvemini rispose: “se vuol seguire il funerale venga pure”. e aggiunse: “ma vestito da uomo”. intendiamoci: sbaglieremmo se prendessimo conforto da qui per uncinare salvemini alle punte più acerbe e più velenose del pensiero laico e anticlericale. Certo, salvemini fu laico e anticlericale. Ma “laico” e “anticlericale” sono termini tremendamente, maledettamente fumosi e generici: a utilizzarli così, senza le dovute precisazioni, c’è il rischio che sotto il palpito di una unica bandiera – quella dell’anticlericalismo, appunto – si trovino accomunati i principi meno compatibili e i personaggi più contraddittori fra loro. Laici e anticlericali, per dire, erano Podrecca e Mussolini; e laico e anticlericale era salvemini. Cosa li teneva uniti? Cosa univa la volgarità insolente dei primi, ai ragionamenti serrati, talora implacabili, ma sempre rispettosissimi dell’altrui religiosità del secondo? Distinguiamo allora, distinguiamo sempre e non lasciamo che nella concitazione della polemica si proceda alla grossa, con un che di frettoloso che non torna mai utile alla pulizia dei concetti. tanto più che l’anticlericalismo di salvemini muove da quel principio della tolleranza che, ieri, fu duro e refrattario alla compagnia dei Podrecca e dei Mussolini e che oggi viene depresso a fomite di neutralità e di gelida indifferenza. Come se la tolleranza laica – o,
se volete, “laicista”, o se credete anticlericale, mettetela come volete ma sono termini che per salvemini tornano a dire tutti la stessa cosa - come se la tolleranza laica, dicevo, autorizzasse gli uomini a fare quel che loro più conviene, fomentando così l’opportunismo vigliacco di chi è privo della luce di una idea e della guida di una convinzione morale. il che riesce, ad un tempo, fuorviante e falso. Fuorviante per inquadrare con esattezza la figura di salvemini; falso a caratterizzare con precisione le prerogative della tolleranza. La quale tolleranza non equivale ad indifferenza incolore, né prelude ad un cinico distacco dal bene e dal male sicché – come avvertiva salvemini - “gli scettici smidollati” non partecipano affatto dello spirito laico. il laicismo – aggiungeva – non prescinde dai principi etici. “io stesso – chiariva – quando debbo spiegare le basi della mia fede morale rispondo senza esitazione che sono cristiano”. e poi, in un’altra occasione, precisava: “Appartengo a quella religione stoica che non ha nessun dogma e nessuna speranza di vita futura, ma ha comune con il cristianesimo il rispetto della libertà, il bisogno della giustizia, l’istinto della carità [“il fiore più bello del cuore umano”, come una volta ebbe a definirlo]. Ma allora, se non è fomite di neutralità e di indifferenza, in che senso deve essere intesa la tolleranza laica? La risposta di salvemini è straordinariamente chiara; e conviene esaminarla con attenzione quella risposta perché lì, proprio lì, secondo me, sorprendiamo il guizzo del convincimento morale che spande come un calore di vita intorno ai ritrovati tecnici dello stato laico, rendendolo incongruo perciò sia con la freddezza degli increduli che col distacco dei frigidi. un convincimento, sia permesso di aggiungere, che se confermato chiu-
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Il laicismo di Gaetano Salvemini
derebbe la fonte stessa da cui si spandono gli argomenti dei neo-clericali, i quali gira e rigira prendono materia per le loro rampogne sempre e soltanto da lì: dall’idea che nell’architettura giuridica dello stato laico non circola neppure un palpito di aspirazione etica, nemmeno il soffio di un respiro ideale; niente di niente: un po’ come avviene per la nostra struttura ossea, per lo scheletro insomma – mirabile per l’armonia delle forme – ma assolutamente incapace di vita quando non rimpolpato da sangue e da carne. Donde la necessità che la religione (“carne” e “sangue” dell’uomo) sforzi il cerchio dell’esperienza privata e irrompa nella vita pubblica tonificandola così con quel fiotto di vitalità che solo le sue credenze possono assicurare. tutto questo, beninteso, nel presupposto che lo stato laico sia “debole” perché debole, anemico e sfiaccolato è il principio dalle cui lamine esso esce sagomato, il principio della tolleranza, appunto. ed è qui che soccorre la spiegazione di salvemini. il quale ricorda che la tolleranza reciproca, nello stato laico, è un dovere giuridico e non necessariamente un dovere intellettuale o morale. “Rispettare il principio giuridico della tolleranza – ammoniva – non significa cedere di fronte a coloro che pensano diversamente da noi né essere pronti a cambiare le nostre opinioni come banderuole al vento. Noi e i nostri oppositori abbiano lo stesso diritto di sostenere le nostre opinioni e lo stesso dovere di rispettare negli altri quel diritto. Ma non abbiamo alcun obbligo di essere intellettualmente tolleranti dei loro errori o moralmente tolleranti dei loro misfatti”. Allora: posto che una cosa è l’intransigenza o - se volete - l’intolleranza intellettuale, e altra cosa è la tolleranza giuridica, posto questo ne viene che il laico-laicista non è (non lo è necessariamente, almeno) non è un uomo dai convincimenti fiacchi e svigoriti, pronto a cedere agli argomenti dei suoi contraddittori. Come i suoi contraddittori – come ad esempio il cattolico più ostinatamente integralista – anche il laico-
laicista coltiva una precisa visione del bene, e proprio come il cattolico, anche il laico-laicista non è disposto a compromettere sul piano intellettuale il suo vero e il suo bene con il vero e il bene degli altri. Quello che è vero e bene per il cattolico, può non essere tale per lui; può apparirgli come l’errore e il male, e con l’errore e il male l’uomo moralmente integro non deve transigere mai. Dall’intransigenza intellettuale, però, egli non deriva l’intolleranza giuridica. il laico-laicista non accetta che la sua verità divenga causa di restrizione dell’altrui indipendenza, e perciò non si arroga il diritto di imporre nulla – fosse pure il bene più prezioso di questa terra – a suon di cazzotti e di randellate. Difende, questo sì, l’inflessibilità – o se piace chiamarla così – l’”intolleranza intellettuale” ma respinge l’intolleranza giuridica. e la respinge non già perché le idee altrui gli siano indifferenti (se gli fossero indifferenti non le combatterebbe nemmeno); no, la respinge perché egli non riconosce a nessuno, nemmeno a se stesso, il diritto di imporre la virtù e la felicità con le leggi e la forza delle armi. se una qualunque misura ci appare necessaria – spiegava salvemini – noi “non intendiamo renderla causa di degradazione morale per i nostri concittadini, imponendola ad essi a mano armata… un beneficio che non possiamo discutere o respingere, non intendiamo neppure accettarlo”. La virtù è tale se nasce dallo sforzo, penoso ma consapevole, che ciascuno compie per perseguirla. Appoggiata sulle baionette, essa abbrutisce e perverte la dignità dei singoli. La dignità dei singoli. ecco donde origina la tolleranza. Dalla sollecitudine per la dignità morale dell’altrui persona. Non dall’indifferenza, dunque, ma dal convincimento profondo che in ognuno, che in ogni individuo, vi è qualcosa di irraggiungibile e di inviolabile. e che questo qualcosa di irraggiungibile e di inviolabile è il sacrario della sua coscienza. Quali che siano i suoi valori, quali che siano le sue credenze, l’individuo è sacro e come tale va rispettato e protetto.
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Gaetano Pecora
L’individuo, l’individuo fiero della sua autonomia e geloso della propria indipendenza. L’individuo: questo è il grano di verità morale, questo è il principio etico che sta dietro l’organizzazione dello stato laico. il laicismo, dunque, è una fede. sissignori: una fede. una fede come le altre. il laicismo è la fede nell’individuo. A differenza delle altre, però, che grondano sangue, questa laicalaicista è una fede che non ammazza perché è una fede che comanda di rispettare non la fede degli altri, ma gli altri qualunque sia la loro fede. e sempre che, beninteso, gli altri consentano a me di esprimere la mia, di fede. se me lo volessero impedire, ma impedire nel fatto, dico, non a parole (con le parole si può dire tutto o quasi) se me lo volessero impedire nel fatto, allora da intellettuale che è l’intolleranza diverrebbe anche giuridica. Altro che frollo e debilitato scetticismo! Non è vero allora che la tolleranza sia “agnostica” ed è falso che essa garantisce la stessa condizione intellettuale alla verità e all’errore (a ciò, si capisce, che per noi è la verità e l’errore) sicché quando i laico-laicisti affermano che la tolleranza giuridica deve valere per tutti, essi sostengono un principio – che per loro è un principio di verità e di giustizia – sul quale non intendono patteggiare con chicchessia. il principio liberale di verità e giustizia è che la tolleranza giuridica deve valere per tutti e che tutti, dunque, devono essere investiti di eguali libertà. Come ogni altro principio ritenuto vero e giusto, anche questo non tollera compromessi. e a nulla vale ricordare che, almeno in italia, la popolazione è quasi tutta cattolica e che perciò suona offesa al sentimento nazionale equiparare i diritti di sparute minoranze a quelli della maggioranza cattolica. Non è forse vero che in democrazia domina la maggioranza? No che non è vero, replica salvemini: nelle moderne democrazie, la maggioranza governa, non domina. e non domina perché gli odierni regimi democratici, avendo assorbito tutti gli attributi del liberalismo politico, sono liberal-
democrazie. ora, il tratto distintivo della liberal-democrazia è che essa pone degli argini giuridici che nessuno, nemmeno la maggioranza, può valicare. e questi argini giuridici sono rappresentati precisamente dai diritti di libertà eguali per tutti; sicché, come avverte salvemini, “se anche tutti gli italiani fossero cattolici consapevoli, convinti, coerenti e praticanti e un solo italiano non fosse tale, quell’unico italiano dovrebbe avere dinanzi alla legge gli stessi identici diritti dei suoi concittadini cattolici, e questi non dovrebbero godere di nessun privilegio legale nei suoi confronti”. ecco: l’eguale libertà. Ripulito e tirato all’ultima vernice, è precisamente questo il primo lascito della sapienza laico-laicista; che per essere primo avvia una catena di conseguenze i cui anelli derivano l’uno dall’altro e tutti alla fine si risaldano all’assunto iniziale: che cioè la libertà, a partire dalla libertà religiosa, si livella su una misura unica, dinanzi alla quale spariscono sia gli abbassamenti che gli innalzamenti, sia le discriminazioni che i privilegi. Con la conseguenza che rispetto alla manifestazione e all’esercizio della propria fede, ognuno ha gli identici diritti e i medesimi obblighi di tutti quanti gli altri. si diceva delle conseguenze. Quella che ci si para dinanzi più immediatamente, perché più immediatamente si ingrana col postulato dell’eguale libertà è la sconfessione del Concordato, figura giuridica sempre infilzata con le punte delle più corrucciate censure, ma mai così affilate come in queste parole di salvemini: “un concordato tra il vaticano e un governo secolare – spiegava - quale che ne sia il contenuto, implica sempre nel papa il diritto, riconosciutogli per trattato bilaterale, di intervenire nei rapporti fra il governo concordatario e i suoi cittadini di fede cattolica. Questi acquistano il privilegio legale di essere rappresentati e protetti dal papa nei loro rapporti con altri cittadini, e sono assoggettati legalmente al dovere di obbedire non solo al governo secolare del loro paese ma anche al papa. Gli altri cittadini sono esclusi da quel
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Il laicismo di Gaetano Salvemini
privilegio e da quel dovere”. Donde la conclusione, rapida e diretta fino alla brutalità: “una democrazia che abolisce l’eguaglianza di diritti e di doveri fra i cittadini e riconosce giuridicamente a una parte di essi il privilegio di essere rappresentati e protetti da una autorità estranea, non è più democrazia”. esattamente: non è più democrazia. si dà il caso infatti che il presupposto della moderna democrazia è né più né meno che il principio giuridico dello stato laico-liberale, dello stato cioè che, indipendentemente dalla forza dei numeri e a prescindere dal tenore dei convincimenti religiosi, riconosce a tutti, credenti e miscredenti, cattolici e prote-stanti, atei e tremolanti, a tutti riconosce le stesse libertà politiche e c i v i l i . Nell’ambito delle quali, poi, ciascuno sarà libero di incamminarsi per le strade del paradiso secondo il vero, il bene e il giusto che gli detta la sua coscienza morale. A ognuno il suo paradiso, quindi, a tutti l’eguale libertà. “Cosa si salverebbe della libertà – chiede salvemini – se si cominciasse con il sacrificare proprio quella cosa più cara che dovrebbe essere il contenuto della libertà: dico il diritto non solo nostro, ma anche degli altri: se si nega ai tremolanti il diritto di tremolare, dove va a finire il mio diritto di non tremolare?”. e’ una domanda che sta lì, seduta sotto il suo punto interrogativo, e ancora oggi aspetta una risposta chiara ed onesta. onesta, soprattutto. Ho ricordato all’inizio don Rosario. Consentitemi di chiudere ricordando il dialogo che egli intrattenne con
salvemini, con un salvemini sfibrato e già prossimo alla morte. sono battute che prendono suono di attualità per tanti dibattiti contemporanei e che vanno a suggello di quanto s’è detto sin qui sull’idea laica dell’uomo come autore delle sue scelte, anche di quelle ultime, anche di quelle estreme. “Così, professore, lei vuole veramente andar via?” chiese don Rosario. e aggiunse: “lei ha fatto tanto bene, ne sono testimone, caro professore, e il bene fruttifica”. salvemini, di rimando: “Don Rosario, lei è intelligente, non dica fesserie… Gli amici, quelli veri, mi ricorderanno; per il resto sono già un tronco”. Poi, fu lui a chiedere a Don Rosario: “ma perché la gente ha così paura della morte che costringe ad aspettare chi vorrebbe morire?” Don Rosario rispose: “Per la semplice ragione che nessuno si ritiene padrone della vita di un altro; è una forma di rispetto e di affetto” “Rispetto ed affetto ingiusti, caro don Rosario. se potessi anticiperei il mio ultimo sonno, perché la morte è forse come un sonno, un riposo che non finisce mai. Lei non può far nulla per accelerare la sua venuta? Non può darmi una pastiglia? Preghi il Padreterno che mi faccia morire presto, veramente mi farebbe un gran favore”. salvemini fu esaudito tre giorni più tardi, il 6 settembre del 1957. Don Rosario ne ricorderà per sempre il sorriso che – disse – era sorriso “da bambino e da contadino insieme, gratuito come l’innocenza e la spontaneità”.
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Sara Garofalo
Leo valiani a cent’anni dalla nascita
esce, per i tipi della Gangemi e a cura di Corrado scibilia, L’utopia necessaria. Leo valiani a cento anni dalla nascita. il volume, che fa parte della collana dei Quaderni della Fondazione Ugo La Malfa, raccoglie gli atti dei tre convegni organizzati dal Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario della nascita di Leo valiani. La nascita del Comitato, nel 2009, è stata sostenuta dalla Fondazione ugo La Malfa e dall’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’italia – A.N.i.M.i.; i tre convegni, svoltisi a Roma, Firenze e Milano nell’arco di un anno, costituiscono solo l’inizio di una serie di attività di ricostruzione e promozione della figura di valiani, personaggio per il quale biografia, pensiero e azione risultano elementi assolutamente inscindibili. i relatori, dalla diversa formazione culturale e professionale, provengono dal mondo dell’economia, della politica, della storia e delle istituzioni; presenze costanti sono quelle di Giorgio La Malfa, legato a Leo valiani da vivi ricordi personali (fu proprio valiani a pronunciare la commossa orazione funebre in onore di ugo La Malfa, nel 1979) e di Arturo Colombo, uno dei promotori della celebrazione. Alle relazioni degli intervenuti si aggiungono poi tre contributi che, pur non essendo parte degli atti dei convegni, offrono al lettore un ulteriore approfondimento di questa straordinaria figura. Ciascun appuntamento è caratterizzato da una cifra stilistica ed esegetica propria: al tono ufficiale e solenne delle celebrazioni d’apertura a Roma, seguono le riflessioni fiorentine sulla formazione e sulle diverse declinazioni del pensiero politico di valiani, fino all’ana-
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lisi milanese delle sue molteplici esperienze professionali, come quella giornalistica per le pagine del Corriere della sera (iniziata nel 1970 per volontà di Giovanni spadolini – allora direttore del quotidiano – e mai più terminata) e quella bancaria, dalla banca Mobiliare Fiumana – a soli 15 anni – a Mediobanca, alla banca Commerciale italiana. emerge comunque, dalla lettura dei diversi interventi, come qualsiasi tentativo di suddividere in fasi specifiche la vita di Leo valiani non possa che presentarsi come una mera operazione formale: impossibile, infatti, scindere l’attivismo politico degli anni della giovinezza dalle molteplici dimensioni del dirigente politico, del costituente, del funzionario di banca, del giornalista e dello storico. La fedeltà ai valori dell’onestà e del serio e totalizzante impegno permeò con costanza tutte le sue passioni, dotandole di una stessa anima e rendendole inevitabilmente complementari. Con la stessa energia e in nome dello stesso amore per una democrazia autorevole e non autoritaria (la cui forza fosse garanzia per tutti i cittadini), valiani si spese contro ogni forma di degenerazione democratica, dalla lotta ai totalitarismi del Novecento fino alla durissima critica alle flebili risposte dello stato verso i fenomeni terroristici ed eversivi degli anni settanta e ottanta, convinto che proprio la debolezza delle istituzioni contribuisse a legittimare i fenomeni di violenza. L'impegno politico all’interno delle istituzioni è documentato dai suoi discorsi parlamentari. Nel 1946, infatti, fu eletto deputato all’Assemblea Costituente, dove contribuì, tra l’altro, alla redazione dell’art. 1 (anche se avrebbe preferito che si fosse parlato esplicitamente di
Leo Valiani a cent’anni dalla nascita
“Repubblica democratica dei lavoratori”, sul modello della Repubblica spagnola del 1931). L’attenzione al lavoro, alla perequazione sociale e ai temi della politica economica ed estera sono presenti anche negli interventi posteriori al 12 gennaio 1980, quando valiani ricominciò a frequentare l’Aula per volontà del Presidente sandro Pertini, suo amico e compagno di antiche lotte, che lo nominò senatore a vita “per aver illustrato la patria con altissimi meriti in campo sociale”. in nome del rafforzamento dell’apparato istituzionale, si battè per il superamento della grave lentezza dei lavori parlamentari attraverso la modifica dei Regolamenti, a favore del voto palese e di un processo di sostanziale delegificazione, che riservasse esclusivamente al Governo alcune competenze. Convinto che la democrazia fosse in pericolo tutte le volte che non fosse riuscita a trovare in se stessa le risorse opportune agli attacchi di eventuali nemici, fu deciso sostenitore della necessità di una grande riforma istituzionale che desse vita ad una Repubblica di tipo presidenziale. Le riflessioni di valiani sulla forma di governo sono le stesse del Partito d’Azione, cui il futuro costituente aderì al termine di un complesso percorso di formazione politica nel segno costante dell’antifascismo, della libertà e della democrazia, seppur alla luce di riferimenti teorici diversi nel tempo. L’impegno politico di valiani, infatti, trovò il suo punto di partenza nel comunismo, a suo avviso unica forza in grado di opporsi con efficacia al totalitarismo fascista. A seguito della del firma del patto Ribbentrop-Molotov e soprattutto grazie all’intensa amicizia con Aldo Garosci e Franco venturi – conosciuti dopo la partecipazione alla guerra civile spagnola e mai più abbandonati – valiani fu attratto dal movimento di Giustizia e Libertà di Carlo Rosselli. Nel 1943 divenne esponente del Partito d’Azione nel C.L.N.A.i., organizzando, insieme a
Pertini e ad altri esponenti della Resistenza, l'insurrezione dell'aprile 1945. in qualunque formazione, comunque, fece sempre dell’antifascismo la sua cifra militante. Nella seconda fase della sua vita politica aderì al Partito Radicale e, negli anni ottanta, al Partito Repubblicano, in qualità di indipendente. Dagli atti dei tre convegni emergono tutti i diversi momenti dell’attività di valiani, dalle connotazioni eterogenee, ma certamente dall’ethos comune: l’ ethos dell’impegno al di sopra di ogni cosa (anche, a volte, dello stesso risultato), mai venuto meno, nonostante le aspettative politiche spesso disattese. Per valiani, infatti, l’italia restò sempre il Paese delle occasioni mancate: dalla gestione della fase successiva alla Resistenza (percepita come un momento storico e di vita irripetibile: a lui e ad alcuni azionisti si deve l’espressione di Resistenza come “rivoluzione tradita”), all’insufficiente rafforzamento dello stato in risposta alla stagione terroristica degli anni settanta e ottanta, all’inevitato scadimento della politica negli anni Novanta. La sua concezione etica dell’agire politico lo portò ad una fedeltà al proprio sistema di valori ai limiti dell’intransigenza, prima di tutto con se stesso, come dimostra il ricco carteggio con l’amico Aldo Garosci e come si evince dalle sue scelte di vita (si pensi alla decisione, nel 1939, di non rendere immediatamente noto il suo abbandono del Partito Comunista, per non dare l’impressione di voler evitare il carcere riservatogli dal governo francese). L’utopia necessaria vuole essere il racconto di un attivista che non perse mai la sua umanità, di un politico che ha sentito l’urgenza di partecipare direttamente alla storia, senza mai scindere l’immediatezza e il vigore della militanza dalla profondità della riflessione. un uomo di grande ingegno, che visse l’impegno politico come una missione, per il compimento di una giustizia sociale ed economica, ma, più di tutto, di una giustizia senza aggettivi.
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Le MAsCHeRe DeLL’ARte
Teresa Emanuele
Riflessioni pre-elettorali
in questi mesi di grande fermento preelettorale mi fermo a riflettere sui retorici e demagogici programmi politici, concentrandomi sugli aspetti di questa campagna elettorale relativi al mondo di cui mi interesso, quello dell’arte. Da giovane operatrice di questo variegato ambiente – come artista, curatrice e responsabile di un’area museale della Capitale – non riesco a comprenderne alcuni aspetti contorti ed incoerenti. in particolare non mi è chiaro come, in un paese dove l’arte, insieme al paesaggio e alla tradizione eno-gastonomica, rappresenta l’unico vero assett, in una città come Roma che di questo Paese è degna Capitale – come il logo del comune non smette mai di rammentarci – il sistema dell’arte sia “politicizzato”. La politicizzazione dell’arte non si concretizza infatti, come sarebbe da auspicarsi, in un serio impegno da parte della politica per la valorizzazione del patrimonio culturale attraverso programmi specifici e strategie di stampo manageriale finalizzate alla messa a reddito dello stesso. tutt’altro. L’attuale politicizzazione dell’arte si concretizza invece in un’ingerenza presso più totale della pubblica amministrazione nei luoghi dell’arte, attraverso l’esplicito controllo sulle posizioni dirigenziali di questi ultimi. Non è un mistero, la genealogia dei direttori museali della capitale degli ultimi anni ha seguito pedissequamente il percorso politico (sindaco – Giunta – Assessore) della città. il danno più grave che scaturisce da questa realtà è che, con cadenza regolare – quella della chiamata alle urne, il sistema gestionale riceve una battuta d’arresto che paralizza la programmazione museale in attesa che gli italiani prendano una decisione sul loro futuro attraverso il voto (cosa sempre più difficile di
questi tempi) e che si ridefiniscano, conseguentemente, gli equilibri amministrativi che determineranno, a loro volta, le scelte relative alla direzione dei musei. Lo stallo dura mesi, mesi in cui chi dovrebbe essere impegnato politicamente a gestire il nostro patrimonio (anche solo nel mantenere le promesse fatte) è invece totalmente distratto dalla campagna elettorale. una lunga, lunghissima pausa in cui si perdono occasioni d’oro. e quando poi, in base ai nuovi assetti politici, la direzione di un museo viene sostituita da una nuova, l’intera struttura è costretta a ricominciare da capo – o quasi – con la probabile perdita di parte dello staff, legata al direttore uscente, e l’arrivo di nuovo personale ed il conseguente riadattamento degli uffici alla nuova realtà. Al di là degli inevitabili rallentamenti gestionali causati da questa fattispecie, il museo ha, nel corso di questo reiterato processo, perso anche la sua identità istituzionale ed internazionale e parte dei suoi sostenitori – taluni inevitabilmente legati a chi lo dirige. idee e potenziali progetti immaginati da un direttore, o magari proposti da terzi durante il mandato dello stesso, decadono con lui. Ad aggravare il tutto, l’attuale situazione di crisi – crisi che si è riversata sulla cultura con degli spaventosi tagli ai fondi ad essa destinati. in carenza di fondi risulterebbe infatti preferibile per i musei ipotizzare grandi mostre in collaborazione con realtà espositive di altri paesi, questo non solo al fine di rendere il progetto itinerante, facendo viaggiare la mostra, ma anche al fine di abbattere notevolmente quelli che rappresentano il costo più elevato dei grandi progetti espositivi, trasporto ed assicurazione. ora, la programmazione di mostre di
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Teresa Emanuele
questo tipo talvolta richiede anni, e certamente più tempo di quanto non passi fra un governo ed un altro, fra un sindaco e un altro, fra una giunta ed un’altra. ed ecco che i progetti attivati da chi ha preceduto decadono con la fine del mandato dello stesso e per chi eredita l’incarico è più facile ignorare il passato che farsi carico delle promesse fatte da qualcuno prima di lui. il tutto è reso ancor più complesso da una fittissima rete di piccole promesse di circostanza che creano sognanti speranze fra curatori, artisti e – quel che per me è più grave – realtà culturali ed istituzionali di altri paesi, e da un’inguaribile inefficienza del sistema burocratico amministrativo. La comunicazione è lenta e spesso intermittente, le risposte sono perlopiù vaghe e le email rimangono senza rispo-sta alcuna per giorni, nella migliore delle ipotesi. Non sono pochi i protagonisti del mondo dell’arte che hanno subito le conseguenze della disordinata discontinuità del sistema. La cosiddetta fuga di cervelli, infatti, non si riferisce più esclusivamente ai talentuosi banker o avvocati fuggiti nel Regno unito e negli stati uniti prima, e in Asia e Medio oriente poi, alla ricerca di opportunità professionali migliori, o di opportunità professionali tout court visto che in italia non ce ne sono; ma anche ad artisti, galleristi, curatori, direttori di musei decisi a voler approfittare delle migliori opportunità che si scorgono all’estero. Non potendo fare affidamento sul potenziale di esportazione della nostra arte attraverso le nostre istituzioni – pressoché inesistente – i protagonisti dell’arte emigrano
all’estero a caccia di nuove opportunità. il risultato di queste fughe è, a mio modesto avviso, una “de-italizzazione” del prodotto artistico del paese, il che mi sembra, semplicemente un grandissimo peccato. Chi ci ha preceduto nei millenni di storia dell’arte che il nostro paese può vantare, ha creato un’identità culturale talmente imponente che, nonostante quanto sopra, ancora all’estero il Made in Italy “funziona”. il nostro è conosciuto al mondo come un Paese di artisti, scrittori, mecenati. Mi chiedo quanto durerà questo riconoscimento internazionale e se non vale la pena, in assenza di una risposta concreta a questo quesito, fare tutto il possibile per dare credito a questa ormai lusinghiera opinione tentando di tornare ad alimentarne le fonti. Da anni ormai rassegnata a questo stato di confusione generale, sovrapposizioni di ideologie, mancanza di continuità e coerenza normativa e gaffes istituzionali, sono come in attesa dell’arrivo di uno (o più!) Messia. Per quel che riguarda il mondo del contemporaneo, giovane per definizione, c’è urgente bisogno di una nuova generazione altamente qualificata (magari che sappia anche parlare qualche parola di inglese, francese, spagnolo per meglio relazionarsi con i protagonisti della scena internazionale), di un organico compatto ed indipendente dalle indecise oscillazioni politiche del nostro Paese, in grado di garantire una progettualità continuativa, affidabile e programmata a lungo termine.
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LETTURE
Angelo G. sabatini
Giuseppe sabatini e il romanzo etico
e’ di questi mesi la pubblicazione di un libro autobiografico di Giuseppe sabatini Le stagioni della vita, Memorie Ricordi Pensieri, Japadre editore, L’Aquila, aprile 2013). L’autore, medico e scrittore aveva già dato alle stampe Chi sa. Storie di Pescocostanzo, dello stesso editore, 1995, raccolta di dieci racconti dominati dal forte legame col paese natio, uno sguardo profondo gonfio di affetto per vicende e personaggi legati al paese di nascita sua e del più noto fratello Francesco sabatini, linguista e presidente onorario dell’Accademia della crusca. il libro gli valse il premio “un libro per l’estate”. Autore anche di studi sul filosofo e matematico ottavio Colecchi cui ha dedicato Io e Ottavio Colecchi. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre editore, 2008. Rinviando ad altra occasione una riflessione sull’interesse che Giuseppe sabatini ha rivolto con spirito di ricerca e con amorevole cura alla figura del suo concittadino Colecchi vorrei rivolgere l’attenzione a sabatini medico e umanista con particolare riferimento a quel gioiello di autobiografia che è Le stagioni della vita oculato osservatorio di una tradizione ormai quasi spento, del medico umanista che agendo in ambienti ristretti era col parroco un riferimento centrale nella gestione della salute degli abitanti del luogo, di quella dell’anima, il parroco-psicoanalista di necessità, di quella del corpo, il medico condotto. il libro non è un romanzo; è piuttosto narrazione di una vita e di un ambiente, storia esemplare di una famiglia con radici etiche salde di cui si è nutrito lo scrittore nella sua duplice veste conseguendo risultati pienamente soddisfacenti. A volte la vita è più romanzo di un romanzo quando a narrarla è la penna di
uno scrittore che sulla scia di un modello di scrittura manzoniana o del vegliardo ippolito Nievo dà alle stampe un pregevole libro dal titolo evocante la storia vissuta di una famiglia d’Abruzzo dove il luogo è sinonimo di storia viva e l’autore è l’erede di una tradizione che forniva alla gente uno di quei medici che diciamo “all’antica” per indicare il tempo passato compreso l’immediato dopoguerra quando il tecnicismo della nuova diagnostica non aveva ancora uccisa la sapienza del medico condotto. Riandando al periodo della formazione del giovane Giuseppe, la memoria letteraria non può fare a meno di andare alle letture di quando giovane studente si abbeverava di quella fluente fonte di narrazione che il manzoniano I Promessi sposi erogava. una formazione che cresceva parallelamente a quella scientifica connessa alla futura attività di medico. Percorrendo le vivide strade che Le stagioni della vita ci indica, sentiamo che a farci da guida è l’abilità di quello stile semplice e allo stesso tempo armonioso che la penna di Giuseppe ha forgiato nel tempo e che oggi accompagna il lettore nella traversata di 80 anni di crescita intellettuale ed etica narrata con stile scorrevole ma ricco di eventi ognuno dei quali è un filo di quella tela variegata che chiamiamo esistenza personale. Ma se le stagioni del vivere sono anche ricondotte a luogo di memoria, ad un percorso guidato dallo scandaglio operato da una mano esperta che nella ripetizione del vissuto fonda il passato nel cuore del presente, l’autore di Le stagioni della vita, ripercorrendo il lungo tracciato di un secolo occupato da due generazioni, la sua e quella del padre, uniti dallo stesso sentimento del vivere come simbiosi di una unità intellettuale amalgama di un
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Angelo G. Sabatini
destino comune, nel cercare l’analogia con un classico della letteratura della memoria, non possiamo non incontrare il grande affresco che il Nievo, autore delle Memorie di un ottuagenario ci presenta delle stagioni della sua vita. Può sembrare irriverente vedere Giuseppe sabatini assiso nello stesso desco letterario con il Manzoni de I Promessi Sposi e con il Nievo delle Memorie. Si parva licet componere magnis, a parte le storie narrate, diverse per scelta e per la natura degli eventi evocati, è possibile che i critici, emunctae naris, possano trovare sacrilego evocare due dei numi della letteratura italiana allorché leggiamo uno scrittore non consacrato dalla critica nel Pantheon della storia letteraria, leggere un biografo di se stesso, dedicato all’ars medica, con la passione naturale di un predestinato alle lettere. se vogliamo porre riparo ad un ardire del critico nell’accostare l’autore di Le stagioni della vita ai mostri della letteratura italiana nessuno potrà negare che la lettura del libro possa richiamare romanzi famigliari ugualmente di successo che ancora oggi occupano gli scaffali delle librerie. Penso a Cronaca familiare di vasco Pratolini e a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, con l’accortezza di distinguere il libro di sabatini da questi ultimi citati per il percorso etico in cui i personaggi di Le stagioni della vita collo-
cano le loro scelte di vita nell’assoluta assenza di quei conflitti che segnano gli altri romanzi. in sabatini circola un pathos che è un sentire come coscienza vigile tesa a guardare i rapporti famigliari e quelli della comunità di appartenenza dominati dallo spirito di collaborazione attiva laddove negli altri romanzi non mancano storie di conflittualità e di tensioni etiche. Certo, a considerare ardito l’accostamento è in primo luogo l’autore di Le stagioni della vita, un esempio, un tempo frequente ora sempre più raro, di medico umanista che nella storia della pratica sanitaria ha rappresentato quel prototipo d’eccellenza di un operatore auspicato oggi come il modello della più moderna medicina, che richiede al medico un tendersi verso il paziente seguendo il principio dell’ ”ascolto” la cui sostanza più viva è la convinzione che prima della malattia c’è il malato, un essere vivente modellato dalla natura come un nucleo biologico che “sente” nella gioia e nel dolore e dal medico si attende il miracolo di un risarcimento per la ferita, materiale e psicologica, che la malattia ha generato. Le stagioni della vita è la narrazione, sotto specie di autobiografia, di una vita segnata dall’esercizio dell’ars medica attraverso la descrizione fenomenologica di questo rapporto. L’autore, fatto proprio il codice deontologico della professione
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Giuseppe Sabatini e il romanzo etico
prescelta, cesella la pratica di intervento quotidiano rendendo la medicina un’arte. All’eredità genetica che fa sì che Giuseppe sia figlio di Gaetano si aggiunge l’eredità storico-culturale: la passione di un padre per i libri, cultore attento a problemi di biblioteconomia quasi pronto a tramutarla in una bibliomania che si trasferisce ai figli Giuseppe e Francesco inculcando in loro l’amore della cultura; entrambi facendone frutto pregevole, l’uno conquistando il vertice di una istituzione prestigiosa (l’Accademia della Crusca) e l’esercizio di una posizione accademica con risultati scientifici eccellenti nel campo della lingua, l’altro coniugando con perizia intellettuale due settori apparentemente distinti ma fusi armonicamente ha dato all’ars medica un cultore di forte temperamento intellettuale. Con Le stagioni della vita questa fusione l’autore la compie creando un tessuto di eventi dalla trama stringente percorrendo con amorevole rispetto il peso che essi hanno nel registro della storia quotidiana, quello che ogni uomo vive dal sorgere al calar del sole. una quotidianità che, tuffata nel magma di un codice di vita autentica, ascende nello spazio di un sentire la cui nobiltà è nell’esercizio di una vita etica all’insegna di un comportamento aristocratico frequente nella sana borghesia di provincia. e con ciò l’intento di narrare la storia della propria vita in una autobiografia da consegnare non soltanto ai propri intimi (un dono dovuto quando l’agorà familiare è pronto a riceverlo) ma a coloro che, accompagnando l’autore nelle felici e nelle amare vicende vissute, vi trova il segno e il sapore di una identità esistenziale che accumuna autore e lettore in una ideale amicizia. Lettori dagli anni maturi, ma anche di giovani che si affacciano alla vita operosa; gli uni sollecitati a ricevere esempi di vita eticamente gestita, gli altri rintracciando negli eventi narrati lo specchio di una condizione esistenziale comune: la formazione culturale e pro-
fessionale, il disagio materiale che una guerra crudele ha fornito a chi tornando nell’ambiente di famiglia trova l’abitazione danneggiata dove a soffrire di più sono i libri sparsi tra le mura sconvolte dal passaggio di truppe naziste, offesa ad una eredità preziosa costruita con pazienza e passione dal padre Gaetano. Ma non sarà il passaggio della guerra a intaccare la dignità di una famiglia costruita all’insegna dell’educazione che la madre inculcava ai figli in preparazione della vita matura. una formazione che, stando alla narrazione che l’autore fa della sua giovinezza, era improntata ad una aristocrazia dello spirito naturale manifestazione di una condizione sociale in cui la famiglia sabatini era portata a vivere, realizzazione di un modus vivendi improntato ad un comportamento necessario ispirato a quel sano principio della dignità che assegnava al borghese l’impronta della aristocrazia di sentimenti e di modi di vita. Le pagine dedicate al periodo della formazione morale dell’autore sono cariche di un compiacimento interiore che si manifesta nella selezione di un vocabolario discriminante ma inoffensivo verso i compagni di scuola costretti a portare “vestiti lisi, in genere con vistose toppe sul sedere”. il sentimento di appartenenza privilegiato per natura e per arte ad una condizione sociale discriminante rispetto alla maggior parte della comunità locale non lo rende “diverso” perché a frenare ogni tentazione di manifestare con distacco la diversità c’è il privilegio assegnatogli dal destino di essere, quale medico, parte viva di quella comunità dove i suoi interlocutori espongono nella condizione di uguaglianza assoluta quel coibente sociale che è la malattia. una condizione esistenziale che nega la diversità intellettuale e sociale per “gettare” (esistenzialisticamente) gli individui nella società dei pazienti, dove si spengono i conflitti e l’etica del confronto è il diritto di tutti di avere solida-
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Angelo G. Sabatini
rietà e sostegno per sconfiggere l’agguato della morte. e sabatini tutto questo lo percepisce come stato d’animo dei pazienti e come un tranello che il destino può riservare anche a lui. indicative sono le sue riflessioni di cui ci rende partecipi allorché è chiamato a esprimere il suo stato d’animo in una notte vissuta nel rischio allorché, medico condotto in Abruzzo, ne assaporò l’avvento. Pagine piene di saggezza e di profondità meditativa. La dimensione della malattia che in una metropoli disperde il suo valore di compassione (patire assieme) per concentrarsi nel singolo o nella cerchia ristretta dei familiari e amici diventa umanitaria in una popolazione numericamente esigua che cancella ogni diversità associando tutti in un unico sentire, ricchi e poveri, ignoranti e sapienti, medico e pazienti. se, poi, quel medico ha assunto per la propria professione il fondamento culturale ed etico dell’agire la diversità si annulla in un indistinto comunitario dove l’assegnazione di una posizione di “eccellenza” fiorisce spontaneamente, indirizzandosi su due leader indiscussi:
il parroco e il dottore, due icone della salute, spirituale e fisica, che rende “comunità” gli abitanti di una realtà localistica ben circoscritta, Pescocostanzo: laboratorio di quella esperienza umana che l’etica, applicata alla medicina, richiede ormai con forza e con insistenza. Nel nostro autore l’esercizio dell’ars medica e quello di scrittore di umanità si presenta in una simbiosi così stretta da porre il lettore nella difficoltà di risolvere il dilemma se egli fosse un medico che scrive o uno scrittore che fa il medico. il rapporto è di tale intensità da evitare che un lettore, anche quando si assume il ruolo di critico di professione, compia un atto di disarticolazione che non può non nuocere all’esplorazione del corpo unitario della produzione letteraria, che qui, per la formazione culturale e professionale dei personaggi che riempiono la scena della narrazione e per lo spirito etico che li sorregge, costituisce un esempio vivo di produzione letterario che per la sostanza etica degli avvenimenti narrati e per “Lo bello stilo che ... gli fa … onore” non esiterei a definire un “romanzo etico”.
L ’ e C o D e L L A s t A M PA
Con l’esperienza maturata in 90 anni di attività, legge e ritaglia articoli e notizie – su qualsiasi nome o argomento di Vostro interesse – pubblicati da circa 100 quotidiani (e 100 loro edizioni locali), 600 settimanali, 30 quindicinali, 1200 bimestri e 1000 altre testate periodiche.
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