TEMPO PRESENTE 389-391 mag-lug 2013

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TEMPO PRESENTE

N. 389-391 maggio-luglio 2013

euro 7,50

SEGNI E SIGNIFICATI DI UNA CRISI (2) * STORIA DEGLI EBREI ITALIANI * GIACOMO MATTEOTTI * BIENNALE DI VENEZIA * FOUCALT * ROMA ANTICA

a. airaghi i. arcuri r. calimani a. casu g. cotroneo e. emanuele t. emanuele r. gattegna g. letta v. meschesi r. pezzimenti s. rebora b. regazzoni a.g. sabatini Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


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Angelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALE

Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Corrado OCONE - Gaetano PECORA Luciano PELLICANI - Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI CONSIGLIO DEI GARANTI

hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE

Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI GRAFICA

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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura N. 389-391 maggio - luglio 2013 PRIMA PAGINA

S egni e significati di una crisi (2 ) ANTONIO CASU, Il limite come presupposto etico e fondamento democratico, p. 2 ROCCO PEZZIMENTI, Verso l’iperdemocrazia? Crisi dei limiti, p. 7 GIROLAMO COTRONEO, Democrazia adieu?, p. 10 ANGELO AIRAGHI, Siamo alla fine della democrazia?, p. 14 OSSERVATORIO

STORIA DEGLI EBREI ITALIANI di RICCARDO CALIMANI - Presentazione, p. 17 BERNARDINO REGAZZONI - GIANNI LETTA - RENZO GATTEGNA Riccardo Calimani, Storia degli ebrei italiani - Primo capitolo, p. 25 UOMINI E IDEE

COMMEMORAZIONE DI GIACOMO MATTEOTTI, 10 GIUGNO 2013 EMMANUELE F. M. EMANUELE, p. 32 ANGELO G. SABATINI, p. 34 ITALO ARCURI, p. 37 LE MASCHERE DELL’ARTE TERESA EMANUELE, La 55ma Biennale di Venezia, p. 41 VIVIANA MESCHESI, Sfidare il limite, p. 43 LETTURE SIMONE REBORA - Confronti. Narrazioni recenti di Roma antica e del suo Impero di Graziella Pagliano, p. 52


Segni e significati di una crisi (2)

Antonio Casu, Rocco Pezzimenti, Girolamo Cotroneo, Angelo Airaghi

Antonio Casu Il limite come presupposto etico e fondamento democratico.

1. Nel numero precedente di questa rivista ho cercato di indagare alcuni aspetti dell’erosione etica della democrazia, nella quale affondano le radici più profonde della sua crisi. La crisi etica dello Stato priva progressivamente la democrazia di una cornice di valori condivisi di riferimento, indebolisce il senso di appartenenza alla comunità statuale e, in definitiva, isterilisce il contenuto partecipativo comune della democrazia stessa. Tale evoluzione, o meglio involuzione, che contrae gli spazi di effettiva rappresentanza politica della società civile, e che mette apertamente in discussione il consenso come fattore determinante per la guida delle nazioni. Una prospettiva, questa, che, lungi dal risolvere le difficoltà alle quali pretende di dare risposta, ne aggrava la portata e le conseguenze. La tesi che ho sostenuto è che per affrontare la crisi occorre recuperare proprio la sostanza partecipativa della democrazia, che si nutre di dialogo e di legittimazione reciproca, e quindi, in ultima analisi, si rende improcrastinabile la riscoperta del limite al soddisfacimento di quello che Hegel definiva il sistema individuale dei bisogni, da contemperare con le esigenze primarie degli altri soggetti, e quindi della società nel suo complesso. L’estensione al versante etico del crinale diritto-politica costituisce un tema sempre più avvertito nella riflessione di giuristi, filosofi, politici. Le risposte date sono evidentemente molto diverse tra loro, anche se riconducibili ad

alcuni grandi filoni di pensiero, e naturalmente a differenti percorsi di interpretazione delle ragioni ultime della crisi. La recente pubblicazione sui mezzi d’informazione di alcuni autorevoli contributi consente di estendere la riflessione ai diversi approcci, e alle relative argomentazioni.

2. Un primo approccio è quello di Guido Rossi il quale, soffermandosi di recente sulle pagine di un quotidiano, ci espone una riflessione sulla crisi della democrazia1. Rossi sostiene che "un punto fermo definitivo del liberalismo può essere individuato nella negazione di ogni usurpazione della libertà e nella conseguente sua vocazione democratica, rappresentata sopratutto dai governi costituzionali moderni". A questa accezione del liberalismo - di tipo anglosassone, quello di Locke, di Mill, fino a Rawls - associa un concetto positivo della responsabilità individuale ("nel bene"), contrapposta "allo Stato etico e autoritario, in sé distruttivo della personalità morale degli individui e della vita della società civile", una concezione "di tipo tedesco-hegeliano, dove è la libertà che presuppone lo Stato e non viceversa. Responsabilità, questa, nel male". In tal modo, Rossi ribadisce il ruolo della libertà come fondamento della democrazia. La libertà, non l'eguaglianza. Rossi richiama al riguardo la critica di Stuart Mill al principio liberale dell'eguaglianza come fondamento della democrazia, anche sulla scorta della lettura di Toqueville, che presagiva la deriva individualistica del capitalismo e l'atomizzazione della società civile. In sostanza, alla corrispondenza tra libertà e democrazia

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Il limite come presupposto critico e fondamento democratico

corrisponde un disallineamento, anzi un conflitto, tra capitalismo individualista e libertà. Il punto di rottura si situa nel primato della società concorrenziale, basata sull'impresa, alla stregua dell'esperienza nord-americana. Ma l'autosufficienza del mercato si è rivelata un miraggio, e anzi ha prodotto profonde diseguaglianze a livello globalizzato. Alla sovranità dello Stato si è sostituito il predominio del mercato finanziario, il nuovo Leviatano. Amaramente Rossi prende atto che il "mito degli uguali" è stato sopraffatto dall' "ordine dell'egoismo", e in sostanza dalla legge del più forte, che della libertà generale costituisce la negazione. Dal diritto alla libertà invocato da Kant si passa alla libertà che cancella il diritto. E questo non può non inficiare la stessa democrazia, avviata verso forme illiberali, che della democrazia, effettiva e partecipativa, rappresentano solo il simulacro. Dunque, un ritorno alle origini della rivoluzione industriale, un’ellissi che riporta indietro di tre secoli una società ormai post-industriale, che sembra aver esaurito la sua spinta democratica e riformatrice. La soluzione proposta da Rossi sembra poi, con il richiamo ad Amartya Sen, il "passaggio dalla priorità dei doveri dei sudditi di tutte le multiformi sovranità dei mercati alla priorità dei diritti dei cittadini", da un'etica dei doveri a una dei diritti, verso un'affermazione dei diritti sui beni pubblici e sui beni comuni, tramite un’irrinunciabile e indifferibile globalizzazione giuridica. Rossi esprime autorevolmente, in forma necessariamente sintetica, un filone di pensiero che interpreta il configurarsi attuale del rapporto autorità-libertà come superamento dello “Stato etico” e affermazione della responsabilità individuale, riconosciuta e legittimata sia a livello etico (l”etica dei diritti“) sia a livello giuridico, con riferimento all’ordinamento sia interno sia internazionale. Certo, resta aperto il dibattito sulla perfetta corrispondenza

tra liberalesimo e democrazia politica, di cui il costituzionalismo moderno diviene l’architrave portante. E resta anche da declinare la differenza tra “Stato etico” e fondamenta etiche della società civile, che dello Stato costituisce al contempo il presupposto e il beneficiario. E Rossi tuttavia richiama temi che si ricollegano alla cornice etica: il prevalere dell’ordine dell’egoismo, la libertà che cancella il diritto, il diritto di tutti e di ciascuno sui beni pubblici e comuni, inquadrandoli in una prospettiva di riconoscimento giuridico idonea a ridare slancio e sostanza partecipativa alla democrazia.

3. Un secondo approccio è quello che delinea Gillo Dorfles2, il quale, pur trattando un argomento diverso, ci fornisce elementi di riflessione che finiscono per intersecarsi con il ragionamento di Rossi. Dorfles infatti rivaluta l'invidia come virtù "quando sprona alla emulazione del prossimo e alla equiparazione con coloro che sono oggetto di invidia", rivelandosi secondo la tesi di Simmel - una manifestazione del "principio di equiparazione e imitazione". In sostanza l'invidia, nella sua fase iniziale, sospinge al conformismo, ma la sua evoluzione naturale determina un esigenza di differenziazione, tesa a fare emerge le peculiarità insite in ciascuno, il tratto irripetibile della personalità. Dorfles denuncia i limiti dell'invidia, ma nel contempo ne ammette il valore di promozione personale e sociale: "non siamo soddisfatti finché non siamo riusciti a emulare il prossimo, finché l'invidia per quello che questo prossimo compie, per quello che ha e per quello che non possiede, non ci ha portati al suo livello, non ci ha equiparati". Mentre Rossi interviene sul crinale del rapporto tra etica, diritto e politica, Dorfles si sofferma sul piano dei presupposti etici. Di fatto, pur prendendone personalmente le distanze, finisce per aderire a un impianto teorico che viene da lontano. Le radici di questa

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Antonio Casu

concezione, della tesi secondo cui i vizi, o peccati come Dorfles definisce l'invidia, risalgono alle origini stesse del liberismo. Non però in Montesquieu, ma in Mandeville, il quale, nella sua "favola delle api", descrive e teorizza proprio questo: una società retta dalle virtù è giusta ma povera, il progresso è figlio della liberazione delle capacità individuali, nasce dalla rottura del primato dell'etica sulla convenienza individuale che diventa opportunità sociale. Una concezione antesignana di un liberismo senza limiti, non casualmente rivalutato oggi da quei teorici del liberalismo che criticano Croce proprio per la sua nota distinzione tra liberismo e liberalismo, e sopratutto per il favore accordato al secondo.

4. Un terzo filone interpretativo orienta il ragionamento direttamente sul funzionamento della democrazia3. Se ne rende portavoce Romano Prodi, il quale interpreta l’attuale e sempre più frequente tendenza al rinvio delle decisioni più delicate non meramente come il ricorso ad una, peraltro inveterata, attitudine politica alla prudenza e all’adattamento al possibile, ma come manifestazione di una mutazione in atto: la rinuncia alla decisione, in sostanza all’esercizio del potere, da parte degli organi a ciò titolati dall’ordinamento. Una tendenza che si manifesta non solo nei regimi parlamentari nei quali si registra una storica difficoltà ad aggregare maggioranze unitarie e stabili, come l’Italia, ma anche nei paesi a regime presidenziale o semipresidenziale, come Stati uniti e Francia, che da tali difficoltà sembravano esenti. E questo non solo in politica interna, ma anche in politica estera. La spiegazione di Prodi non è una ritrovata centralità del parlamento – e d’altronde, aggiungo, è sufficiente ricordare, tra gli altri indicatori, la schiacciante superiorità dell’esecutivo con riferimento all’iniziativa delle leggi

effettivamente approvate –, ma il mutamento dei rapporti tra potere politico e opinione pubblica. A suo avviso, la continuativa e pervasiva irruzione delle indagini demoscopiche sul terreno delle decisioni politiche ha trasformato i leaders in followers, snaturandone la funzione, e rendendo le decisioni politiche eccessivamente dipendenti dalle oscillazioni emotive della pubblica opinione. Quella che definisce “democrazia barometrica”. Il ragionamento di Prodi richiama dunque quel rapporto tra potere politico e opinione pubblica che trova un suo elemento discorsivo nell’uso strumentale dei mezzi di comunicazione di massa, che realizza un potere moderno in forme sempre nuove, e che, a differenza di altri poteri, non è ancora soggetto ad un adeguato sistema di controlli, contrappesi e garanzie, specie in relazione ed a causa della sua portata trans-nazionale. E d’altronde, è proprio in questo crocevia che si alimentano populismo e derive plebiscitarie. La tradizionale separazione dei poteri, evidentemente superata con riferimento ai poteri classici, si rivela ormai deficitaria anche dal lato dei nuovi commensali alla mensa del potere.

5. Da un angolo di visuale complementare, quello dell’opinione pubblica, Remo Bodei4 perviene a considerazioni analoghe, allorché afferma che nella società attuale, in relazione alle questioni etiche fondamentali e bioetiche in particolare, il peso dei sentimenti e delle passioni condiziona pesantemente le scelte. “Sulla ponderazione dei pro e dei contro – sostiene – prevalgono le paure, trasformando la soluzione dei problemi bioetici in un ripetuto referendum. Al quale il cittadino si presenta immancabilmente in uno stato di solitudine e oggettiva incompetenza”. La sua spiegazione è che ciò dipende dal fatto che, a differenza di quanto è avvenuto per millenni, l’autorità non

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Il limite come presupposto critico e fondamento democratico

viene più dall’alto (nell’equilibrio tra potere politico e potere religioso, tra imperium e sacerdotium) ma dal basso, dal popolo. Ma poiché quest’ultima è “costitutivamente debole”, deve appoggiarsi “a stampelle offerte da altre agenzie formative, essenzialmente la tradizione religiosa e la morale”. Per contro, il venire meno del ruolo educativo svolto da autorità riconosciute verso modelli comportamentali consolidati, sulla base di valori riconosciuti, determina la legittimazione dei bisogni individuali tanto da configurare una “democrazia anemica, sin troppo benevola verso le debolezze del cittadino”, nella quale “la mancanza di autorità favorisce la licenza”. Nel ragionamento di Bodei si evidenzia un corto circuito: l’erosione dell’autorità favorisce la legittimazione dei diritti ma anche la frammentazione etica che diviene disaggregazione sociale, e ciò induce al ricorso alle istituzioni che sono portatrici di una morale consolidata, a cominciare da quelle religiose. Un ragionamento, questo, che evoca le considerazioni di Romano Guardini circa l’esito infausto di un processo di divaricazione progressiva della libertà dall’autorità che, culminando nella delegittimazione di quest’ultima, isola l’individuo dalle comunità intermedie, da quelle più estese fino a quelle a lui più prossime, alla famiglia, fino a lasciarlo “indifeso contro il male, come un neonato senza madre, come una nube che si dissolve”. Una condizione che lo consegna alla tragica illusione di un condottiero che lo salvi e lo riscatti5.

6. Questo concomitante confronto di opinioni, ci riporta ad un passaggio fondamentale: per troppo tempo infatti la presa di distanze dallo Stato etico si è risolta nel rifiuto sostanziale, anche se non sempre dichiarato, di riconoscere che ogni Stato si erige necessariamente su fondamenta etiche, che cioè senza una cornice di valori etici condivisi non può esservi alcun collante sociale. E’ questo quell’ethos comune che

costituisce il presupposto etico-sociale di ogni Stato, il suo stesso ‘ principio di sostentamento’ di cui parlava Böckenförde6. E qui è appunto il fattore-chiave. Non può esservi Stato senza fondamenta etiche, ma neppure può sussistere uno Stato senza una condivisione sociale dei valori etici di riferimento. E' vero che la condivisione esclude l'imposizione, il predominio di un complesso di valori etici, o di un sistema etico, sugli altri. Tuttavia il rifiuto del predominio non può essere radicalizzato nel suo opposto, ed escludere la logica della condivisione. Al contrario, senza la ricerca della condivisione o si tenta di sostituire un sistema etico a un altro, e lo stesso rifiuto dello Stato etico si riduce ad un alibi, oppure si finisce per imporre un'assenza di etica che mina alla radice la sopravvivenza stessa dello Stato, perché ne recide le radici comuni alle sue diverse componenti. Inoltre, uno Stato che impone una pulizia etnica dei valori, o che assume il principio che i valori legittimi sono quelli vincenti, o imposti dal potere, relegando gli altri in qualche ghetto culturale, e poi inevitabilmente giuridico, non è più realmente democratico, dato che limita la democrazia alle sue procedure di funzionamento ed esclude ogni sostanza partecipativa. Ma senza partecipazione non c'è neppure il presupposto della condivisione, del riconoscimento di quei valori e beni comuni che si dovrebbero tutelare, e tramandare. Al contempo, senza un reciproco riconoscimento tra le parti sociali, e i principali orientamenti culturali, non c'è possibilità di riforma, al di là dei tentativi di ingegneria costituzionale, e dunque neppure la condivisione delle regole del gioco. E senza regole la democrazia diviene il teatro della guerra di posizione tra le corporazioni e le lobbies, rinunciando a qualsiasi progetto comune di società. Senza partecipazione e senza regole, la democrazia gradualmente si riduce ad un'ombra, ad una maschera sempre più minacciosa, e talvolta

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Antonio Casu

grottesca. Si avvera così una nuova mutazione nella sostanza della democrazia. Dopo il passaggio dalla democrazia partecipativa alla democrazia procedurale, si rischia in realtà di scivolare inavvertitamente nella democrazia corporativa. Un sistema retto sul riconoscimento giuridico e politico di spazi di rappresentanza interna a opera di corporazioni autoreferenziali, tendenzialmente inter-classiste. Tali corporazioni non ricercano un denominatore comune, ma enfatizzano la distinzione come categoria fondamentale del riconoscimento e della legittimazione da parte del potere pubblico, e proprio nella distinzione allentano i propri vincoli di apparentamento con le altre componenti interne allo Stato, vissute non più come essenziali alla dialettica democratica, ma come un freno e un limite al libero dispiegamento della propria potenzialità, e dunque interpretate non come diverse e complementari ma come ostili. Uno Stato concepito come mera sommatoria di minoranze in conflitto tra loro non può reggere alla sfida della globalizzazione, almeno per due motivazioni principali. Innanzitutto perché affrontare la globalizzazione richiede la determinazione di una massa critica, di un peso specifico elevato, capace di affrontare la concorrenza planetaria, e induce in sostanza alla concentrazione; mentre la frammen-tazione comporta debolezza e vulnerabilità. La seconda motivazione è che non si può illudersi che i problemi di coesione sociale vengano risolti fuori dai confini nazionali o al di sopra degli stessi, perché nel mondo globalizzato la concorrenza è diventata immensamente maggiore, ed esige proprio tassi di coesione sociale molto superiori al passato. La sfida della democrazia, la sua stessa sopravvivenza, dipende in ultima analisi dalla nostra capacità di riconoscere l'altro non come hostis, e neppure come un limite, ma come componente necessario alla sopravvivenza di una

comunità. E’ questo il presupposto indefettibile per la democrazia, descritta ancora da Böckenförde come “forma organizzativa della cooperazione degli uomini e delle donne nella legittimazione nell’esercizio del dominio politico”. Ed è la percezione di tale presupposto che consente di accettare un limite funzionale alle rivendicazioni di natura corporativa, possibilmente senza limitare questo approccio solo a taluni ambiti, evidentemente per conseguire vantaggi immediati in termini di consenso. Infatti, proprio l’assenza di un limite generale - e prima ancora dell’accettazione diffusa della necessità indefettibile che tale limite debba sussistere, e che sia utile per tutti - consente la proliferazione delle rivendicazioni corporative, come spesso avviene persino in danno di componenti culturali e ideali solidamente radicate sul territorio nazionale, ciò che determina una crescente divaricazione etica e conseguentemente un aggravamento della frammentazione sociale.

7. Il limite va interpretato dunque non come un ostacolo o un freno, ma come assunzione di responsabilità. Una responsabilità personale, ma anche, più in generale, sociale, intesa come manifestazione di una percezione finalmente matura della complessità del reale, della inattingibilità di ogni ipotesi di dominio personale della realtà nella quale siamo inseriti, e anche della totale assenza di legittimità di siffatto dominio. Una realtà con la quale inevitabilmente dobbiamo interagire, ma che in ultima analisi non abbiamo titolo a dominare, non solo perché tale titolo non sussiste ab origine, ma anche perché quando si è storicamente inverato, sia nelle nostre storie personali sia nella storia comune, è stato solo a seguito di un atto di volontà, e dunque di una scelta con conseguente manifestazione di forza, al fine del soddisfacimento del sistema dei bisogni individuali e collettivi.

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Verso l’iperdemocrazia? Crisi dei limiti

E tuttavia, la stessa individuazione e focalizzazione di tali bisogni è per sua stessa natura il frutto di una percezione relativa e parziale della realtà, per cui il portato delle scelte che ne conseguono, apparentemente consequenziale, in un quadro più generale che tenga conto di tutti i fattori che esulano dalla disponibilità personale, può rivelarsi distorto e fuorviante. In generale, ciò che non è attingibile al singolo può non esserlo neanche per la comunità, la quale in ogni caso incontra limiti alla comprensione del reale, su un piano più vasto. E tuttavia la percezione del limite, riferita alla comunità, produce un risultato certo: la delegittimazione di qualsiasi decisione assunta nel disprezzo delle esigenze degli altri. Infatti se non si può comunque pervenire alla comprensione totale del reale - e non si può, perché la nostra conoscenza è graduale e progressiva, e comunque condizionata ai limiti connessi con i nostri sensi e mezzi umani, anche potenziati dalla loro proiezione tecnologica - si può e si deve minimizzare l'errore, associando le percezioni e contemperando le esigenze, per il conseguimento di una migliore condizione esistenziale di tutti. Da tale angolo di visuale, la condivisione risulta necessaria, il confronto e la concertazione fattori insopprimibili della dialettica sociale. È evidente che l'eccesso di confronto può paralizzare le decisioni, ma questo avviene in ogni sistema politico e sociale, e d'altronde non è la patologia di un sistema che può costituire la base attendibile per giudicarlo. Il limite è dunque il presupposto positivo imprescindibile della dimensione sociale e comunitaria, e schiude alla relazione con l'altro. Da questo punto di vista, costituisce anche il presupposto della ricerca di fondamenta etiche comuni, la fonte della legittimazione reciproca, la negazione di ogni esclusione sociale.

1 Corriere della Sera, ll mercato che uccide la democrazia è il nuovo Leviatano degli egoisti, 9 agosto 2013, p.30. 2 Corriere della sera, Il peccato d'invidia e' conformista, 9 agosto 2013, p. 31. 3 Il Messaggero, Democrazia e scelte. L'esercizio del potere e l'offensiva del rinvio, 4 settembre 2013, pp. 1 e 14. 4 la Repubblica, Noi poveri postumani schiavi delle nuove libertà, intervista a F. Marcoaldi, 6 settembre 2013, p. 41. 5 Romano Guardini, La rosa bianca, a cura di Michele Nicoletti, appendice di Paolo Ghezzi, Morcelliana, Brescia 2005 (2a), in particolare pp.15 e 16 dell’Introduzione di M. Nicoletti. 6 Ernst-Wolfgang Böckenförde, Stato, costituzione, democrazia. Studi di teoria della costituzione e di diritto costituzionale, a cura di Michele Nicoletti e Omar Brino, Giuffrè editore, Milano 2006, p. XXXIII-XXXIV.

Rocco Pezzimenti V erso l’iperdemocrazia? Crisi dei limiti

Anche a un osservatore superficiale della storia, non sfuggirà certo un fatto: la democrazia non è una costante nelle vicende storiche dei popoli ma, purtroppo, un’eccezione. Certo, questo non vuol dire che dobbiamo rassegnarci a perderla, al contrario dobbiamo cercare di difenderla perché è intrinsecamente fragile. La sua debolezza dipende dal fatto che, come sanno bene i piloti di aerei, essa presenta quel fatidico punto di non ritorno, non sempre, però, facile da individuare. Un filosofo esistenzialista del XX secolo, Jaspers, sosteneva che il paradosso della libertà è quello che essa, a volte, può perdersi per colpa di se stessa. Credo dicesse: la libertà può essere perduta dalla libertà. La libertà, pur se non sempre, non è capace di proteggere se stessa, forse perché finisce per ignorare il senso del limite che dovrebbe caratterizzarla, mirando così ad assolutizzarsi. Non può essere questo anche il rischio della democrazia? Forse dovremmo riflettere sul fatto che le forme istituzionali che la storia ci ha

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Rocco Pezzimenti

presentato, e che più si avvicinano alla democrazia, sono durate perché quel senso del limite che le tutelava è stato difeso con forza e decisione.

1. Uno sguardo retrospettivo. Se prendiamo come esempi la repubblica romana, il Commonwealth britannico e la democrazia americana, vediamo che la reciproca divisione e limitazione dei poteri – che oggi come ho già detto andrebbe aggiornata e ampliata – ha sempre impedito, anche al potere del popolo, meglio dei suoi rappresentanti, di prendere il sopravvento sulle altre forme di potere. In poche parole, la vera democrazia ha sempre rifiutato una gestione diretta da parte del popolo. Alcuni sostengono che, in passato, simili proposte potevano apparire troppo fantasiose mentre oggi, grazie alle attuali prospettive della tecnologia informatica, quello che prima appariva utopia, può divenire realtà. Non è il caso di mostrare come, anche oggi, la democrazia diretta costituisca un’utopia che, visti gli strumenti a disposizione, potrebbe essere ancora più pericolosa. Ma se repubblica romana, Commonwealth britannico e democrazia americana oggi possono, proprio sulla divisione dei poteri, sembrare carenti visto gli accresciuti centri di forza operanti, pur se non sempre controllati e controllabili, in una moderna società, hanno al contrario ancora qualcosa da dirci proprio nei meccanismi che hanno saputo mettere in moto per evitare le derive populiste. La formula Senatus Populusque Romanus indica assai bene il ruolo fondamentale del popolo che, chiamato a votare attraverso i comitia e guidato dai suoi tribuni, poteva accedere persino al consolato. Rappresentava, per così dire, il partito democratico, populares, ma era temperato e limitato dal partito aristocratico dei patres presenti nel Senato. Come avvertirono acutamente gli storici politici italiani del Rinascimento, è proprio questa vivacità di contrasti che

determinò il progresso della repubblica. Il partito democratico, populares, tendeva, infatti, di per sé, a indicare cambiamenti repentini in quanto il popolo, mai contento dei risultati conseguiti, ha una smania di cambiamento quasi rivoluzionario, precisato da reali bisogni, che genera, però, una continua instabilità. Al contrario il partito aristocratico dei patres, pago della propria posizione e del benessere conseguito, tende a cristallizzare la società addormentandola in un ottuso sistema reazionario. Il concorso delle due parti e l’alternarsi al governo – i consoli non potevano essere mai rieletti – garantirono il miracolo repubblicano che si può definire di cambiamento nella continuità. L’organismo politico era, insomma, limitato da un equilibrio che imponeva a ogni potere il senso del limite. Questo garantì il miracolo della lunga vita della repubblica sorretta da magistrature ordinarie e straordinarie – si pensi ai consoli che dirigevano in due l’esecutivo o alla figura a tempo del dictator – mai più attuate. La Repubblica andò in crisi nel momento in cui, prima i populares e poi i patres, presero il sopravvento e schiacciarono la controparte. A dominare non fu più il senso del limite, ma o la logica dei numeri per i populares o la logica della forza per i patres. Il tentativo di una iperdemocrazia voluto dai primi fu spento dalle paure dei secondi. A ben vedere altri due esempi moderni, che per durata possono gareggiare con l’antica repubblica, hanno attuato e difeso quel senso del limite che ha fatto la loro grandezza. Si tratta del Commonwealth britannico e del federalismo americano. Più che parlare del primo, i cui raffronti col sistema romano sono numerosissimi, converrà parlare del secondo ed evidenziare come, pur essendo una democrazia, ha evitato, finora, di scivolare nella iperdemocrazia. Lo ha fatto proprio eludendo quella pericolosa logica dei

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Verso l’iperdemocrazia? Crisi dei limiti

numeri tanto cara ai populares ed evitando, così, quasi sempre di ricorrere alla logica della forza violenta e al di fuori della legge. Gli americani, pur non avendo un’aristocrazia collaudata dalla storia, cercarono di dar vita all’antico confronto tra i populares e i patres. Sappiamo tutti che crearono due camere distinte e che una di queste, non a caso, si chiama Senato. Questa, i cui poteri sono davvero notevoli, non rappresenta il popolo americano che, nella sua totalità, si sente rappresentato dall’altra Camera. Il Senato sembra proprio non tener conto della regola elementare delle democrazia: quella dei numeri. Il Senato rappresenta, infatti, l’Unione degli Stati, ma li rappresenta non in modo proporzionale, come vorrebbe la logica dei numeri, ma ponendoli su un piano di assoluta parità. Uno stato di 30 milioni di elettori ha gli stessi rappresentanti di uno che ne conta appena 500.000. Per far questo, gli USA rispolverarono, in modo moderno, un’antica istituzione: il federalismo. Si tratta di un patto, come dice la parola, che costituisce un limite invalicabile capace di tenere a freno le derive populiste vero pericolo di ogni democrazia. Il federalismo, infatti, costituisce un limite al degenerare della democrazia solo se pone le diverse parti su un piano di effettiva parità, altrimenti è un secessionismo mascherato, presupposto, più o meno palese, di un’unità democratica destinata alla crisi. Che le parti debbano essere poste su un piano di parità significa, in un ipotetico federalismo italiano o europeo, che in Italia, per buona pace di qualcuno, i rappresentanti della Lombardia e della Sicilia siano e contino quanto quelli del Molise e della Valle d’Aosta e che, in Europa, quelli della Germania e della Francia contino quanto quelli della Slovenia e del Belgio. Forse, solo allora, parole come solidarietà e sussidiarietà potrebbero cominciare ad avere senso.

2. Elogio della rappresentanza. Il federalismo, così inteso, costituisce un limite alla pura e semplice legge dei numeri, criterio fondante per i fautori delle diverse forme di democrazia diretta. Questa non presenta solo rischi di natura tecnica, che possono essere di varia natura, ma presenta anche il rischio di annullare la democrazia stessa. I rischi di varia natura vanno dalla difficoltà di controllare l’effettiva libertà di chi formula il giudizio e il numero di quanti affettivamente lo formulano. Tutto ciò non basta, perché occorre tenere presente che, i giudizi sono spesso dettati dall’umore momentaneo. In questo caso, la politica, com’è facilmente intuibile, si ridurrebbe a vicenda umorale col rischio che, più che ascoltare l’opinione pubblica, si trasformerebbe in macchina per influenzarla e trasformarla. I giudizi momentanei, per loro natura, impedirebbero quella continuità politica che è il sicuro alveo all’interno del quale si dovrebbe muovere una democrazia veramente riformista. C’è, però, un rischio più grave: quello di annullare la democrazia stessa. Sottoporre tutto alla diretta volontà del popolo, finirebbe per annullare una delle più grandi conquiste dell’Occidente: la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata. Il rischio di ricondurre tutto ciò che riguarda la seconda nella prima, può generare l’incognita di rendere tutto pubblico, tutto politico, in una parola di ritornare alla tentazione di una democrazia totalitaria i cui guasti sono davanti gli occhi di tutti. La democrazia rappresentativa è nata proprio come limite al pericoloso degenerare della democrazia diretta. Se quest’ultima strada è oggi in crisi, va ripensata, non certo abbandonata. Inoltre, la rappresentanza dovrebbe rispondere anche a un criterio di competenza. Si delegano alcuni perché si occupino di questioni specifiche dato che, altri, si dedicano ad altre attività. Questi ultimi, in una democrazia diretta, sarebbero di continuo distolti dalle loro

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Girolamo Cotroneo

occupazioni per occuparsi di politica a tempo pieno. Visto che dovrebbero rappresentare se stessi o essere comunque competenti per dare responsi su tematiche assai diverse, ne verrebbe sicuramente a soffrire la loro fondamentale occupazione con il duplice rischio di determinare, prima o poi, o un disamore verso la politica, divenuta troppo ingombrante, o una superficialità della stessa. Si capisce perché, allora, solo la riscoperta della “delega”, combatterebbe la rinascita del populismo, che ancora illude di rispettare le regole della democrazia, o, peggio, dietro questo populismo, il mascherato accaparramento della direzione politica e del consenso da parte di altri poteri che, oggi, sono divenuti indefinibili e, per questo, non facilmente limitabili. Girolamo Cotroneo Democrazia “adieu”?

Nel 1958, uno dei grandi filosofi europei del secolo scorso, Karl Jaspers, in un volume dal titolo La bomba atomica e il destino dell’uomo, ricordava le parole di Winston Churchill, secondo cui «la democrazia è la forma di stato peggiore, se si eccettuano tutte le rimanenti». Alcuni anni prima, precisamente nel 1943, inaugurando il suo opus maius, il celebre La società aperta e i suoi nemici, Karl Popper si era spinto ancora più in là, scrivendo che l’affermazione secondo cui «la democrazia non è destinata a durare per sempre, equivale in realtà all’affermazione che la ragione umana non è destinata a durare per sempre». Molti anni dopo, precisamente nel 1992, Francis Fukuyama nel suo – sopravvalutato, ma soprattutto contestato – La fine della storia e l’ultimo uomo, sosteneva che, dopo la crisi dei regimi totalitari nell’ultimo quarto del Novecento, la “democrazia liberale” era rimasta «la sola aspirazione coerente per regioni e culture diverse dell’intero pianeta».

Questi tre punti di vista hanno in comune il convincimento che la “democrazia” sia una forma di governo insuperabile; cosa su cui, al momento, non è difficile convenire, anche se non significa che sia priva di difetti e di rischi. Può, ad esempio, trasformarsi in quella “tirannia della maggioranza”, già paventata nel suo capolavoro, La democrazia in America, da Alexis de Tocqueville, il quale scriveva di considerare «empia e detestabile» la massima secondo cui «in materia di governo la maggioranza di un popolo ha il diritto di far tutto»; anche se aggiungeva che «nella volontà della maggioranza» si trova «l’origine di tutti i poteri». Dopo essersi chiesto se con queste parole non si fosse posto in contraddizione con se stesso, così concludeva: «Una maggioranza è come una giuria incaricata di rappresentare tutta la società e applicare la giustizia che è la sua legge»; ma se questa giuria «rappresenta la società, deve essa avere più potenza della società stessa cui applica le leggi?». A dire il vero la “tirannia della maggioranza” non è un regime autoritario: la democrazia, infatti, si capovolge nel suo opposto, la tirannia, soltanto quando viene soppresso lo strumento che fa di essa un regime diverso – e migliore – di tutti gli altri. Uno strumento che Popper indicava con queste parole: «Vi sono soltanto due tipi fondamentali di istituzioni di governo: quelle che consentono un mutamento del governo senza spargimento di sangue, e quelle che non lo consentono […] Si può scegliere il nome che si vuole per i due tipi di governi indicati. Personalmente preferisco chiamare “democrazia” il tipo di reggimento politico che può essere sostituito senza l’uso della violenza, e “tirannide” l’altro». Sul piano formale, nulla quaestio: soltanto i regimi liberaldemocratici consentono a un paese di sbarazzarsi attraverso le elezioni generali periodiche dei governanti inetti, incapaci e, vorrei

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aggiungere, corrotti, sperando di trovarne di migliori. Ma è davvero così? è questa una certezza, la garanzia che possiamo fidarci della “democrazia”? Non voglio certo entrare nella polemica politica immediata: ma riflettendo sulla situazione del nostro paese, sulle vicende di quella che impropriamente chiamiamo la Seconda Repubblica, non possiamo non constatare che la medesima classe dirigente – a volte come maggioranza a volte come opposizione, ma senza in nessun caso mutamento di uomini e di dottrine – ha guidato per circa vent’anni il paese. E nonostante non si possa certo dire che lo ha fatto con grande successo, nessuna delle elezioni generali tenute in questo periodo ha potuto liquidarla. Questo ci fa comprendere che la democrazia liberale, quale è appunto la nostra, diversamente da quanto diceva – e credeva – Popper, non garantisce il cambio della classe dirigente, anche ove questa abbia dato cattiva – o pessima – prova di sé. Ma a questa tesi Popper ne aggiungeva un’altra: quella secondo cui «le istituzioni democratiche non possono migliorare se stesse. Il problema del loro miglioramento è sempre un problema che riguarda le persone non le istituzioni». Poiché questo è senz’altro vero – ma ritornerò sul tema – credo occorra chiedersi che cosa c’è di negativo nei comportamenti delle persone – vulgo: dei politici – che inducono a dubitare della democrazia e dei suoi metodi. Diceva Giambattista Vico che a spingere gli uomini verso la politica è l’”ambizione”: e poiché la politica, alla

resa dei conti, è lotta per la conquista del potere, magari con le migliori intenzioni, una volta raggiunto questo, è assai difficile, dolo-roso, lasciarlo. Senza per questo mettere in discussione il princi-pio fondamentale della democrazia liberale, sarebbe a dire l’alternanza dei governi, accade che chi lo detiene, pure se su mandato temporaneo dei cittadini, cerca i modi più efficaci per conservarlo, senza violare, anche se non sempre, le regole e le istituzioni. Se osserviamo i comportamenti della nostra classe politica – e non escludo che, forse in misura diversa, siano quelli di tutte le classi dirigenti dei paesi a democrazia liberale – non è difficile giungere alla conclusione che ogni proposta di legge viene avanzata con il retropensiero, non se sia utile al paese, ma al partito che la propone o concorre alla sua approvazione, se fa crescere o perdere consenso, cioè voti alle elezioni. Questo fa pensare che spesso la classe politica, per mantenere il proprio potere, trasforma l’antica “ragion di Stato” – il sacrificio dei cittadini per il bene, la salvezza dello Stato – in “ragion di partito”. Ritengo sia anche questo, insieme ovviamente ad altri, uno dei motivi che inducono certi settori della cultura occidentale a indicare la democrazia come “il dio che è fallito”. Questa espressione – usata per la prima volta come titolo di un volume collettivo, apparso nel 1950, tra i cui autori apparivano i nomi di Arthur Koestler e di Ignazio Silone, per definire il comunismo – è oggi, con una piccola variante, il titolo di un volume, Democrazia: il dio che ha fallito, apparso

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Girolamo Cotroneo

nel nostro paese nel 2005, di cui è autore un filosofo politico tedesco, HansHermann Hopper; un libro che rientra tra quelli di una scuola di pensiero – il “libertarismo”, i cui testi più importanti sono apparsi a Macerata presso le edizioni “liberilibri” – i cui fondamenti si possono conoscere attraverso il volume dello scrittore statu-nitense David Boaz, dal titolo, appunto, Libertarismo, apparso nel 2007. Questa scuola di pensiero, ancora poco diffusa in Europa, tende a dimostrare che il liberalismo classico si sia ormai tanto “contaminato” con la democrazia, da trasformarsi in una dottrina – o in una “prassi” – che non considera più lo Stato, come il vecchio liberalismo, una sorta di “male necessario”, ma ne fa il centro positivo della vita sociale. Come ha scritto un altro filosofo politico appartenente alla medesima tendenza, il neozelandese Kenneth Minogue, in un volume dal titolo La mente liberal, apparso in Italia nel 2011, l’ultimo periodo storico avrebbe visto «una dottrina nata per esprimere la nostra libertà», il liberalismo, appunto, convertirsi in «un programma per ”rendere perfetta” la società»; un programma che non poteva non comportare un sempre maggiore estendersi dello Stato a danno della società civile. Siamo qui di fronte a una dottrina politica, il libertarismo appunto, che ritiene la democrazia liberale destinata a trasformarsi, o già trasformata, in “socialdemocrazia”, ponendo, sulla scia del “vecchio” socialismo, al centro della vita economica e sociale lo Stato, il “grande nemico” dell’ideologia libertaria, che rifiuta sia lo “Stato guardiano notturno” del liberalismo tradizionale, che lo “stato ultraminimo” di Robert Nozick. Così sentiamo un altro scrittore “libertario”, Charles Murray, sostenere, in un volume dal titolo Cosa significa essere un libertario, che «è possibile ritenere che meno governo c’è meglio è»; e che «una società che proceda su principî di governo limitato

sarebbe in grado di promuovere la felicità umana». Un argomento che inevitabilmente coinvolge la democrazia, essendo quest’ultima una “forma di governo”, quindi un concetto empirico, non una “concezione metapolitica” come il liberalismo: il quale ha bisogno di una forma di governo che lo assecondi; e questa può essere soltanto, nel bene e nel male, la “democrazia”, con la quale si è unito in “diade indissolubile”, come ha scritto Benedetto Croce, fin dalla metà dell’Ottocento. Non intendo certo enfatizzare questa corrente estrema di pensiero, peraltro affatto minoritaria. Lontana da me anche l’idea che il “male” di cui la democrazia stessa soffre, stia nei partiti, per cui un loro indebolimento la rafforzerebbe. Ha scritto uno dei maggiori teorici della democrazia, Hans Kelsen, che quest’ultima «può esistere soltanto se gli individui si raggruppano secondo le loro affinità politiche, allo scopo di indirizzare la volontà generale verso i loro fini politici, cosicché tra l’individuo e lo Stato, si inseriscono quelle formazioni collettive che, come partiti politici, riassumono le uguali volontà dei singoli individui». Non credo, però – nonostante i convincenti argomenti di Kelsen – si possa facilmente confutare il già ricordato Hans-Herman Hopper, quando scrive che negli attuali regimi democratici chi governa «non possiede il paese», come accade nei regimi totalitari, «ma finché è in carica gli è permesso di “usarlo” per il proprio vantaggio e a vantaggio dei suoi protetti». Ma non gli è “permesso” da nessuno: lo fa per sua scelta, per mantenersi al potere; lo fa perché usa a proprio vantaggio gli spazi, i molti spazi, di libertà che la democrazia liberale gli consente. Questa è certamente la più pesante conseguenza del ruolo assunto dai partiti politici, intenti ognuno soltanto al suo “particulare”, per dirla con Guicciardini. Le conseguenze negative di tutto questo sono molte: ma credo che la più grave sia che i partiti,

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Democrazia “adieu”?

oltre ad avere “occupato” lo Stato, hanno invaso anche la “società civile”, il luogo – secondo la definizione di Nicola Matteucci – «in cui operano le Chiese, secondo il principio di libertà religiosa, in cui agiscono le istituzioni culturali (giornali, Università), in base alla libertà di manifestare il proprio pensiero, in cui si formano e si muovono partiti e associazioni»; istituzioni queste oggi praticamente tutte in mano, in maniera aperta o nascosta, ai partiti politici. Questo è accaduto perché la “società civile”, oggi spesso enfatizzata e chiamata in causa a sproposito, si è lasciata invadere dalla politica senza opporre grandi resistenze. Abbiamo quindi visto – e vediamo – l’etica pubblica precipitare ai livelli minimi, e l’interesse generale, di cui avrebbe dovuto essere custode la classe politica, sostituito da un diffuso utilitarismo – che è altro dall’utilità –, dal perseguimento del vantaggio privato; e tanto altro ancora si potrebbe dire. Nei Frammenti di etica, apparsi per la prima volta nel 1922, Benedetto Croce iniziava un capitolo dal titolo “La nausea per la politica”, con queste parole: «”La politica è una cosa sudicia”: ecco un detto che s’ode di frequente sulle labbra della gente»; e si chiedeva come mai soltanto alla politica che, diceva, «è un’attività fondamentale dell’uomo, una perpetua forma dello spirito umano», toccasse poi «l’omaggio di quel detto poco rispettoso»; un omaggio che peraltro non riteneva del tutto immeritato. Non starò qui a riferire le ragioni del poco rispetto per la politica segnalate da Croce: ma basta dire che, dopo avere indicato, come abbiamo visto, la politica come una “forma dello spirito”, indirizzava ai politici che la degradavano accuse pesanti, come ad esempio quella di coprire azioni poco corrette «con sofismi, con lustre e con espedienti oratorii di varia forma». Alexis de Tocqueville ha scritto una volta che «non c’è democrazia senza un

po’ di corruzione». Ma il limite fisiologico consentito, sembra ormai largamente superato, visto il frequente riferimento alla classe politica come “vaso di ogni nequizia”, come responsabile della crisi, soprattutto morale, che stiamo attraversando, e che sembra confermare queste parole di Popper: «Le istituzioni sono come le fortezze: raggiungono lo scopo solo se è buona la guarnigione», ossia le persone addette a gestirle. Ma questo forse non è del tutto vero: che cosa può, infatti, la più valorosa delle guarnigioni se la fortezza è vecchia e cadente? Questo ci riporta al problema di fondo: la democrazia “in sé”, è ancora una fortezza? una garanzia di buon governo? Difficile rispondere in maniera netta, o liquidare la questione, attribuendo tutte le colpe alla classe politica, come abbiamo sentito dire a Croce, e non soltanto a lui. Assistiamo quasi con indifferenza, senza darci ragione del danno che arreca alle istituzioni democratiche, alla polverizzazione dei centri decisionali, che provoca la nascita di un numero illimitato di organizzazioni fornite di poteri contrattuali che praticano una politica corporativa e che non guardano oltre gli interessi, o i privilegi, di coloro che le compongono: e cercare di guadagnare il loro favore indebolisce l’azione di governo e la allontana dagli interessi generali. A questo si può – si deve – aggiungere il peso sempre crescente dell’opinione pubblica, l’insofferenza individuale verso ogni tipo di proibizione, anche ove opportuno e necessario, un’insofferenza che sembra riproporre l’antica convinzione di Jeremy Bentham – che però riguardava soltanto la proprietà privata – secondo cui “ogni legge è limitazione di libertà”. Tutto ciò non può certo generare ottimismo sul futuro della democrazia e forse dello stesso liberalismo. Ma pensando a tutte le loro traversie, ai colpi loro inferti dai nemici “esterni”, colpi ai quali sono sempre sopravvissuti, si può

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Angelo Airaghi

– si deve – sperare che come la mitica “araba fenice” la democrazia liberale riesca ancora una volta a riemergere dalle sue ceneri. Lo dobbiamo sperare perché la perdita della democrazia implicherebbe non soltanto la perdita della “politica”, ma anche della libertà, dal momento che – ha detto una volta Hannah Arendt – «la libertà esiste solo nel particolare infra della politica»; e nessuno finora ha potuto dimostrare il contrario. Angelo Airaghi Siamo alla fine della democrazia?

Stiamo assistendo alla fine della democrazia, almeno nel nostro paese? Probabilmente (e sperabilmente) no, ma la sua più tipica forma (la democrazia rappresentativa) presenta rilevanti segni di logoramento. Il discredito generalizzato di cui godono i “politici” e l’assenteismo crescente nei recenti turni elettorali ne sono i sintomi. Nella democrazia rappresentativa gli elettori, detentori del potere ultimo, delegano a loro rappresentanti il potere di decidere per loro conto .Il punto delicato sta nel meccanismo di espressione di tale delega. Fino alla metà degli anni ’80 il sistema adottato, almeno per la Camera, è stato essenzialmente proporzionale con preferenze. Poi sono subentrate due tendenze che, combinate, hanno fortemente compromesso il sistema: - la crisi dei partiti tradizionali, a forte radicamento territoriale e basati su semplici (o semplicistici) messaggi politico ideologici: DC e PCI; - il tentativo di puntellarne il ruolo assegnando loro segreterie pesi sempre crescenti nella designazione dei candidati, fino all’estremo rappresentato dall’attuale “porcellum”. Supponendo che le condizioni al contorno, politiche, economiche e sociali fossero simili a quelle di venti o trenta anni fa, si potrebbero immaginare due soluzioni limite per rimettere in funzione un accettabile sistema di

democrazia rappresentativa: a) Puntare al rafforzamento del rapporto elettore/eletto, con l’adozione di piccoli collegi uninominali ed elezione ad un solo turno magari precedute da primarie per le scelta dei candidati. L’eletto, senza vincolo di mandato, risponderebbe del suo operato e delle sue scelte ai suoi elettori con i quali dovrebbe mantenere, giocoforza, un rapporto costante e attivo. In tal caso i partiti potrebbero rimanere come strutture leggere, portatori di valori di fondo destinati a caratterizzare a grandi linee i loro candidati ed eletti. I candidati, per avere successo, dovrebbero possedere caratteristiche personali e professionali riconoscibili e valutabili positivamente dagli elettori. E le loro azioni individuali, una volta eletti, verrebbero giudicate direttamente e individualmente. E’, in sostanza, la ricetta inglese, figlia di una mai rinnegata tradizione liberale; b) Ritornare a partiti a struttura forte, in grado di fungere da centri di elaborazione politico/strategico/ideologica e di servizio ai propri rappresentanti. In tal caso sistemi elettorali basati sul doppio turno e con vincolo di mandato sarebbero forse preferibili. I candidati verrebbero selezionati dai partiti, tenendo conto di mix di competenze e di esperienze, anche politico/amministrative. Gli elettori, più che le persone, sceglierebbero linee politiche condividendone le visioni e le scelte strategiche. E’, in linea di massima, la soluzione europeo-continentale. Ma la premessa di similarità delle condizioni al contorno è falsa, e quindi le soluzioni per ripristinare un ragionevole sistema di democrazia rappresentativa vanno ridefinite in tale nuovo contesto che va, almeno nelle sue grandi linee, descritto. L’economia sta ancora tentando di assorbire gli effetti della globalizzazione e della finanziarizzazione; le ideologie e le grandi categorie (destra/sinistra, conservatori/progressisti) sono sempre

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Siamo alla fine della democrazia?

meno definite; il multiculturalismo pone sfide crescenti alla convivenza civile. Il quadro internazionale ha riferimenti assai più incerti che nel passato: il bipolarismo USA/URSS non è stato rimpiazzato dall’egemonia americana ma da una quantità di stimoli emergenti che non danno ancora un’indicazione chiara di tendenza. L’Europa, a sua volta, sta attraversando una grave crisi di identità con forti spinte nazionalistiche, a loro volta contestate, all’interno dei singoli paesi, da tensioni localistiche. Inoltre, le sfide poste dallo sviluppo economico alle risorse planetarie in termini di ambiente, energia, acqua e suolo sono tutt’altro che risolte e il loro potenziale deflagrante rimane come una grave minaccia alla stabilità complessiva. La tecnologia, con la nascita e l’affermazione prepotente ed invasiva della “società dell’informazione” contribuisce ad aumentare l’incertezza complessiva del quadro di riferimento. Le libertà individuali sono minacciate da un controllo esterno in grado di conoscere , sindacare e sfruttare le azioni dei singoli; tutti i dati necessari a prendere decisioni individuali e collettive sono facilmente accessibili in rete ma la loro veridicità o attendibilità è difficilissima da verificare; i sistemi informatici, sempre più complessi e integrati, rischiano in caso di grave guasto o sabotaggio di creare situazioni disastrose. Persino le guerre stanno cambiando aspetto, almeno nella parte più ricca del globo: utilizzando droni sempre più piccoli e micidiali, controllati a distanza da centri protetti, i militari del ventunesimo secolo uccidono e distruggono senza esporsi ad alcun rischio e, finito il loro turno di lavoro, se ne tornano in auto alle loro case e famiglie. Per non parlare delle implicazioni potenzialmente sconvolgenti della post-genomica e degli sviluppi delle neuroscienze. Di conseguenza, i prossimi anni e decenni saranno, probabilmente, caratterizzati da un contesto assai incerto e per certi versi imprevedibile

dove molte delle decisioni politicoeconomiche dovranno misurarsi con le grandi sfide di cui si è prima fatto cenno. In queste condizioni il vecchio detto di Luigi Einaudi “conoscere per deliberare” può costituire, a molti decenni dalla sua formulazione, uno spunto interessante per immaginare un ridisegno del nostro sistema di governo della “cosa pubblica”. Conoscere vuol dire, in questo caso, avere la capacità di raccogliere, validare e ordinare le notizie relative ad una singola situazione ed elaborarle in modo coerente fino a trarre un quadro diagnostico il più possibile corretto (dal punto di vista metodologico) ed esauriente. Questi quadri, poi, devono essere resi disponibili al decisore perché li usi per svolgere il suo compito precipuo: prendere, appunto, decisioni informate. Vi è chi sostiene che la responsabilità di compiere queste sintesi, visto che la gran parte delle notizie è facilmente disponibile in rete, può oggi ricadere sul singolo cittadino-elettore che dovrebbe però essere in grado di interpretarle correttamente , di valutarne le implicazioni a breve e lungo termine e di indicare direttamente al potere esecutivo il cammino da intraprendere. Si potrebbe, così, abbandonare la via della democrazia rappresentativa a favore di una forma di democrazia diretta basata su una specie di referendum permanente on-line. Credo che questo orientamento non tenga conto di due aspetti: la capacità di discernere tra il vero e il falso e la complessità di molti dei temi sui quali si è chiamati a decidere. Il rischio, quindi, è che i referendum diano esiti impraticabili o dannosi, ponendo i decisori di fronte al dilemma se seguire la volontà popolare fingendo di non accorgersi dei danni potenziali ovvero disattenderli venendo meno a un presupposto fondante della forma di governo prescelta. Accantonando quindi l’ipotesi di ricorso alla democrazia diretta e tornando al nostro ragionamento iniziale, si danno

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Angelo Airaghi

ancora due alternative estreme: a) I partiti si dotano di complesse strutture di analisi ed elaborazione in grado di supportare i loto eletti nell’assumere le decisioni necessarie. In parte era quello che succedeva durante la “prima repubblica”: i partiti avevano consistenti segreterie tecniche e uffici studi che “istruivano” le decisioni da prendere. Oggi questa strada appare difficile: richiederebbe cospicui finanziamenti pubblici ai partiti, proprio in un momento in cui si sta parlando di abolirli. Inoltre, analisi e diagnosi condotte separatamente su argomenti incerti e controversi potrebbero rendere più complesse le possibili mediazioni (l’attuale dibattito sull’IMU ne è, ove fosse necessario, una controprova). b) All’opposto, i partiti si organizzano in strutture leggere operanti sulla base di una legge elettorale uninominale , senza finanziamenti pubblici e accettando un robusto controllo sociale diretto sugli eletti. Ciò contribuirebbe a dare l’impressione di una politica meno ingorda e più disponibile ad una verifica continua del suo operato. Questa formula però, non garantirebbe la realizzazione di un mix di professionalità ed esperienza tra gli eletti in grado di assumere decisioni difficili nei complessi contesti descritti in precedenza. Essi quindi rischierebbe di dover dipendere (e già oggi è largamente così) dai funzionari parlamentari e dalle tecnostrutture rappresentate dai magistrati amministrativi (Consiglio di Stato e Corte dei Conti), categorie queste sottratte a qualsiasi controllo pubblico. c) Un correttivo a quest’ultima alternativa potrebbe consistere nel dare vita ad una struttura indipendente di elaborazione e diagnosi sul modello

dello statunitense OTA (Office of Technological Assessment) in grado di fornire su richiesta, ma anche di propria iniziativa, rapporti previsionali sugli argomenti in discussione che le parti potrebbero utilizzare nella elaborazione delle loro posizioni politiche. Questa struttura, di servizio al parlamento, al governo e alle forze politiche, dovrebbe operare in autonomi ama anche in totale trasparenza. Ai politici rimarrebbe il delicato e cruciale compito di scegliere, fra le varie opzioni possibili la soluzione giudicata più ragionevole e coerente con l’ideologia e la strategia premiate dall’elettorato. Ogni proposta ha in sé qualche rischio, e un eventuale OTA all’italiana ne possiede alcuni: il primo è che contribuisca all’ulteriore delegittimazione delle forze politiche diffondendo il falso mito della tecnocrazia. Il secondo è che le forze politiche possano considerare i rapporti di un tale organismo come un ostacolo o una inaccettabile limitazione al loro agire. D’altronde questo è quello che è successo negli Stati Uniti quando, all’inizio del primo mandato di Bill Clinton in una controversia con il Congresso sul bilancio federale, l’OTA venne soppresso e i suoi oltre 800 qualificatissimi dipendenti licenziati. Concludendo, l’attuale sistema italiano di gestione della cosa pubblica è in grave crisi e non sembra possibile ripristinarne un accettabile livello di funzionamento con interventi correttivi semplici e puntiformi; e neppure esistono soluzioni senza rischi. Ma il non fare nulla sperando che le “forze della natura “ da sole possano guarire il malato rischiano di portarlo alla morte.

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Storia degli ebrei italiani dalle origini al XV secolo

di RICCARDO CALIMANI

Presentazione Bernardino Regazzoni, Gianni Letta, Renzo Gattegna Ambasciata di Svizzera in Italia - 28 maggio 2013 Bernardino Regazzoni Ambasciatore di Svizzera

dello storico è di “contribuire con frammenti di verità al moto universale verso la conoscenza”. Attraverso la sua monumentale Caro Ingegner Calimani, caro Riccardo, “Storia degli ebrei italiani”, Riccardo Calimani Avvocato Gattegna, Presidente dell'Unione ci offre un’infinità di questi frammenti, delle Comunità Ebraiche Italiane arrivando a costituire uno straordinario Dottor Letta, mosaico di quindici secoli di presenza ebraica Caro Professor Caracciolo, nella penisola. Signore e Signori, Venezia: culla della diplomazia, fulcro della Desidero esprimervi la mia gratitudine per cultura ebraica italiana, capitale delle arti e della aver accettato l’invito a storia! La personalità di una serata molto Riccardo Calimani speciale. Sono particorappresenta in modo larmente onorato di unico le caratteristiche poter accogliere presso della sua Venezia: la residenza di Svizzera Console onorario di Riccardo Calimani, che Svizzera a Venezia, ci fa l’onore di Presidente della Comupresentare in questa nità ebraica di Venezia, occasione la sua ultima studioso dell’ebraismo, pubblicazione, il primo storico e filosofo, uomo volume della “Storia di scienza e raffinato degli ebrei italiani”. intellettuale. Suoi sono la Sono pure parti“Storia del ghetto di colarmente compiaVenezia” e più di una ciuto della presenza di dozzina di volumi di due oratori d’eccezione saggistica e narrativa. Bernardino Regazzoni che ci accompagnano Riccardo Calimani è questa sera, Renzo anche uomo di straorGattegna e Gianni Letta. dinaria erudizione. “Uomo dei libri”, possiede E’ per me personalmente un onore che la più impressionante biblioteca domestica che questa presentazione abbia luogo qui stasera, io abbia mai visto, libri ad ogni evidenza da lui avendo avuto il privilegio di “vedere” la letti. gestazione dell’importante libro nel bellissimo Nel volume che presentiamo in studio di Riccardo sul Canal Grande. quest’occasione, “Storia degli ebrei italiani, Marc Bloch, uno dei padri fondatori della dalle origini al XV secolo” culminano anni di storiografia europea, affermò nella sua celebre studi sul mondo ebraico italiano. Ricerche a opera “Apologia della storia” che il dovere cavallo tra storia locale, storia italiana e una 17


Gianni Letta

visione di più ampio respiro alla quale fanno da tela di fondo il Mediterraneo e l’Europa. Una storia, quella degli ebrei italiani, spesso tribolata, ma anche complessa e policentrica, che il libro ci restituisce con maestria. Facendo capo a una ricca bibliografia, affiancata da una ricerca archivistica di prim’ordine, l’autore fa riaffiorare, onorandole, le voci di migliaia di artigiani, commercianti, intellettuali, rabbini, banchieri e cittadini ebrei che hanno scritto la storia dell’ebraismo e dell’Italia, contribuendo allo sviluppo dell’economia, della cultura, della società e al consolidamento delle entità politiche che si sono succedute nella penisola. Certo, come accennato, la storia degli ebrei italiani è anche una storia dolorosa, ove violenza, emarginazione e discriminazione si oppongono a sforzi votati all’integrazione, al riconoscimento reciproco e al mutuo rispetto. A questo proposito, permettetemi di citare un episodio che mi pare illustri efficacemente la difficile situazione degli ebrei nella società italiana ed europea del tempo. Si tratta di fatti che si svolsero proprio nel mio Cantone d’origine, il Ticino, all’epoca sotto il dominio dei duchi di Milano. Cito da p. 469: “A Bellinzona (attuale capitale cantonale) il comune chiese, nel 1455, che il prestatore Michele di Mandolino venisse a stare in città. Davide, suo fratello, arrivò a dargli manforte l’anno successivo. Non passò un nuovo anno che il Consiglio della città decise di allontanarli: forti di un permesso ducale di dieci anni, i due ebrei resistettero alle sollecitazioni. Alla presenza di David il municipio di Bellinzona si riunì ancora una volta e votò una nuova espulsione, ma l’uomo non si fece intimidire. All’annuncio del provvedimento i fratelli fecero sapere che esisteva un problema: quello della restituzione dei pegni. Al fronte di questa constatazione furono loro concessi sei mesi. Gli ebrei, forti del permesso ducale di dieci anni, fecero sapere alle autorità che erano sicuri di essere benvoluti dalla maggior parte dei cittadini e che i loro guai erano frutto di invidia da parte di altri concorrenti che volevano liberarsi di loro”. V’invito a leggere nel libro l’epilogo di quest’episodio che, una volta di più, mette in evidenza l’atteggiamento ambivalente verso la presenza degli ebrei nella società italiana del quindicesimo secolo. Cittadini che sono, allo stesso

tempo, integrati ed esclusi, necessari e rifiutati. Permettetemi, in conclusione, di far riferimento all’estrema modernità di alcuni dei principali insegnamenti che il volume di Riccardo Calimani ci propone. Dai quindici secoli di vicende degli ebrei italiani possiamo trarre una profonda lezione sui rapporti tra culture, popoli e modi d’essere diversi che sono alla base della società italiana e dell’Europa tutta. La straordinaria tenacia, inventiva e coraggio di cui fanno prova gli ebrei italiani attraverso i secoli indicano la sola e unica strada percorribile, in società che, come le nostre, sono destinate ad essere multietniche e cosmopolite. Il rispetto “dell’altro”, l’integrazione del “diverso da sé” sono possibili unicamente attraverso la tolleranza e l’apertura di spazi di dialogo e mutuo riconoscimento, senza i quali le relazioni politiche, socio-economiche e culturali divengono difficoltose e, spesso, s’incrinano. In questa prospettiva, la complessa avventura delle comunità ebraiche italiane è un esempio unico e prezioso, e nel dramma anche un monito, che ci può aiutare a rispondere a numerose sfide contemporanee. Termino queste mie considerazioni introduttive augurandomi che a questo primo volume possa presto seguirne un secondo, che non mancheremo d’accogliere con altrettanto interesse ed entusiasmo. Molte grazie. Gianni Letta

È difficile prendere la parola dopo la dotta introduzione del padrone di casa. L'Ambasciatore Regazzoni, con la sua bella voce e una dizione italiana a dir poco perfetta, ha parlato del libro e dell'Autore come meglio non si poteva fare. Lo ha fatto con maestria e competenza, muovendosi a suo agio tra gli intrighi della storia e i misteri dei secoli passati, con la stessa agilità e la stessa abilità con cui frequenta le Cancellerie dell'epoca nostra tessendo e consolidando i rapporti del suo Paese con gli altri, a cominciare dal nostro, l 'Italia. Una lettura attenta e approfondita, la sua, un'analisi intelligente, acuta, a tutto campo; un piccolo capolavoro che, se ha confermato le qualità di quel diplomatico straordinario che

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Storia degli ebrei italiani

tutti conosciamo, ha rivelato anche doti nascoste o sconosciute, facendoci scoprire uno storico di grande cultura e un raffinato critico letterario. Ascoltandolo, veniva da pensare che volesse quasi rubare il mestiere a Calimani, forse perché, da parte sua, il Professor Calimani un po'... gli fa concorrenza, dal momento che - come lo stesso Ambasciatore Regazzoni ha ricordato - Calimani è anche Console Onorario Svizzero a Venezia. Riccardo Calimani è un ingegnere, ha detto l'Ambasciatore. Si, è vero! Si è laureato in ingegneria elettronica all'Università di Padova ma poi, seguendo la sua vocazione naturale, più umanistica che tecnica, si è laureato anche in Filosofia della Scienza all'Università di Venezia. E se oggi è il più affermato studioso dell'ebraismo, non possiamo dimenticare che si è formato in quella grande "fucina degli ingegni" che, in Italia, è stata (e speriamo che continui ad essere) la Rai. Calimani, infatti, ha lavorato in Rai per tanti anni, responsabile del settore programmi radiotelevisivi ed è stato poi Direttore di Palazzo Labia dal 1994 alle 1998. Ma questa è storia passata. Oggi Riccardo Calimani è il più prestigioso e autorevole studioso dell'ebraismo. E quel prestigio e quell'autorità se l'è conquistata con una produzione storico-letteraria di primordine. Più di venti libri dedicati tutti allo stesso tema. Dal primo Una di maggio pubblicato nel 1975, fino a quest'ultima Storia degli ebrei italiani pubblicata in questi giorni da Mondadori. Passando per Storia del ghetto di Venezia del 1995, I destini e le avventure dell'intellettuale ebreo del 1996, Gesù Ebreo del 1998, Paolo del 1999, Ebrei e pregiudizio del 2000, Storia dell'ebreo errante del 2002, Ebrei eterni inquieti del 2007, Il mercante di Venezia del 2008. E ho citato soltanto i più importanti, o forse i più conosciuti. Ma la lista non si ferma qui e potrei ancora continuare ... Adesso arnva questa Storia degli ebrei italiani, la sua opera più impegnativa. Seicento pagine che coprono il periodo dalle origini al XV secolo. Un altro volume (già in preparazione) ci porterà presto dal XV secolo ai giorni nostri. Un'opera monumentale. Basta la mole del volume, di questo primo volume, per rendersene conto. Ma ancor più significativa è la bibliografia: cinquanta pagine in coda al volume che dicono da sole l'ampiezza dei riferimenti, la vastità della

ricerca, la quantità e la qualità della documentazione e la profondità dello studio. Come affrontare la lettura di un'opera così densa ed importante? Penso che una guida utile a capire, e a comprendere la vastità e l'importanza di una storia come questa, ce la offra proprio l'Autore con la lettera che ha rivolto alla Comunità Ebraica di Venezia il giorno in cui e' stato eletto Presidente di quella Comunità. Era il 13 marzo di quest'anno, proprio il giorno in cui, come registrato nella prima di copertina, Mondadori licenziava questa bellissima storia. "Mi rivolgo a voi - scriveva Calimani - per invitare tutti, in questo delicato momento della vita della nostra Comunità (e anche del nostro Paese), ad essere generosi, a superare le polemiche non motivate, le insidie dell'egoismo. Tutti insieme dobbiamo collaborare e, con armonia, affrontare, senza aprioristiche preclusioni, i delicati problemi che sono davanti a noi. "Nessun ebreo aggiungeva poi Calimani - può vivere senza la propria Comunità. Abbiamo dietro alle spalle qualcosa di importante, di prezioso, che non possiamo perdere, qualcosa di intimo e di inafferrabile da trasmettere. Dobbiamo conservare il nostro essere ebrei, il nostro ebraismo e trasmetterlo alle future generazioni." "Dobbiamo - così concludeva quella lettera essere aperti al mondo che ci circonda, non solo perché ne abbiamo bisogno noi, ma perché gli altri hanno bisogno del nostro impegno, visto che siamo, talvolta nostro malgrado, sovraesposti e sovrastimati (come numero e importanza). Auspico che la nostra Comunità diventi un esempio da seguire, anche per le altre comunità di'Italia e che diventi un modello in città." È questo lo spirito con cui Calimani affronta il suo impegno pubblico a Venezia e in Italia, ma anche la sua fatica di ricercatore attento e scrupoloso, e il suo lavoro di storico. Per noi "un esempio da seguire", come lui stesso chiedeva di essere alla sua Comunità veneziana. Io che non sono né storico né critico, e neppure diplomatico, non ho né le conoscenze, né la competenza, né il prestigio per parlare di un'opera così importante. Fortuna che, prima di me, abbia parlato così bene l'Ambasciatore Regazzoni, e che, dopo di me ci sia chi, come Lucio Caracciolo e il

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Presidente Gattegna potranno farlo con l'autorità che l'Autore e l'opera meritano. Ma se io non ho i titoli per presentare questo testo perché lo faccio? A ben guardare una ragione in fondo c'è, ed è presto detta. Ma anch'essa viene dall'Autore e sta proprio nella prima pagina del libro. È la dedica. Il Professor Calimani, con incredibile generosità, ha voluto dedicare proprio a me questo libro. Non un libriccino, e non parlo della mole. Ma un libro decisivo della sua maturità di storico dell'ebraismo e di scrittore di vasta cultura. Una dedica che mi onora, mi lusinga e mi commuove. Ma debbo confessare che neppure per questa dedica ho titoli e meriti particolari. Tutto deriva dalla straordinaria generosità di Riccardo Calimani, dalla sua sensibilità, dalla sua amicizia e dal modo con cui la concepisce e la vive. Di fronte ha tanta magnanimità non mi rimane che ricorrere all'invocazione e all'interrogativo di uno dei personaggi dell'Ulisse di Joyce:

Stephen: Sii giusto prima che generoso! Bloom: Vorrei, ma sarebbe più saggio?

Ecco, Calimani è stato più generoso che giusto. Ma è stato anche saggio? Dire che di questo sono onorato e felice è certamente vero, ma è poco, troppo poco. E' invece di più, molto di più. Perché dietro quella dedica c'è qualcosa anche per me: un invito, un compito e una responsabilità. È come se Calimani, questo grande amico, volesse rendermi testimone e portavoce di una scoperta e di una verità che traspare da ogni pagina del suo lavoro, ma che è sigillata sin nel titolo. Storia degli ebrei italiani. Si badi, non degli ebrei in Italia, o dei rapporti tra gli ebrei e l'impero Romano e la Chiesa Cattolica, ma "ebrei italiani". Accetto perciò volentieri questo ruolo di testimone, e ne sono fiero! Non potrebbe essere diverso quel titolo! Vi è amore all'Italia e al popolo italiano, di cui gli ebrei sono parte essenziale. Senza di loro non esisterebbe la civiltà italiana. E quest'amore emana da un'altra dedica che sta sotto quella a me generosamente donata, ed è, appunto, alla nostra Italia in quanto tale. Vale di più perché gli Ebrei sono parte essenziale di noi italiani, ma sono parte perseguitata. Una dedica

senza rancore, ma con dolcezza. Una dedica in tre parole ebraiche I-Tal-Jah, Isola della rugiada divina. Questa etimologia del nome Italia - I-Tal-Jah: l'isola della rugiada divina, una etimologia sconosciuta ai più nonostante si trovi nel Genesi, perché così viene chiamato il paese su cui il Signore ha riversato con abbondanza una delle benedizioni che Isacco invocò sulle terre di suo figlio Giacobbe: la rugiada ristoratrice.

Dio ti concede Rugiada del cielo E terre grasse e abbondanza di frumento e di mosto Genesis 27.28

Ne ha scritto Attilio Milano, altro grande storico dell'ebraismo italiano, che spiegava come gli ebrei italiani sin dai tempi remoti, volendo ricercare da dove scaturisse il presagio della loro buona fortuna, lo ritrovassero proprio nel nome del paese dove abitavano, e che ad essi pareva ricalcato sulle tre parole ebraiche: I-tal-jah. Una etimologia del cuore, evidentemente, che dimostra tuttavia con quanta speranza si sia radicata da ventuno secoli la pianta ebraica in Italia. Anche se non sempre dalla "buona rugiada". Attilio Milano però intitolava la sua opera fondamentale Storia degli ebrei in Italia. A differenza di Calimani che racconta proprio la storia degli ebrei italiani perché gli ebrei italiani sono parte essenziale dell'identità italiana. Gli ebrei italiani non sono meno italiani dei cattolici italiani. Non si dà identità italiana senza gli ebrei italiani. Vituperati, negati, ma anche apprezzati, amati. Gli italiani tutti sono anche ebrei. Una parte di ebraismo compone il tutto di ciascuno di noi. Ci è entrata nell'animo. Perciò si parla di radici giudaicocristiano-cattoliche-romane. Ed anch'esse sono dentro ciascun ebreo italiano. Non è una petizione di principio o una mozione degli affetti. Il libro documenta esattamente questa commistione dove però la singolarità ebraica non è mai dissolta. C'era sin dagli inizi parentela tra il modo di essere degli ebrei e quello dei romani repubblicani, anche prima del cristianesimo. Calimani mostra questa strana simpatia. C'era un'eccentricità ebraica che però era vicina al cuore romano, assai più delle religioni orientali

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condite di magia. La razionalità romana che si manifestava soprattutto nel diritto si incontrava per tutti quei secoli di Repubblica, Impero e dissoluzione dell'Impero, con la razionalità ebraica molto pratica, dotata però di quell'enigma del Dio senza nome e senza fattezze materiali. Tutto questo già nell'antica Roma non senza violenze e intolleranze, genera una attrazione formidabile, quasi un'affinità elettiva extra biblica... Il diritto romano riconosce prerogative e diritti agli ebrei, che saranno mantenute anche più tardi in età cristiana, nonostante tutto, nonostante la rotella gialla di stoffa che il IV Concilio Lateranense impose nel 1215, imitando il califfo Omar che quasi 600 anni prima, nelle zone di dominio arabo, aveva decretato fosse attaccato alla schiena di ebrei e cristiani. Eppure, nonostante queste vessazioni, mai venute meno durante tutti i diciassette secoli trattati da Calimani in questo primo volume, nonostante la volontà di alcuni Papi e di pochi frati predicatori di sradicare gli ebrei, gli ebrei hanno resistito. Cacciarli, volerli far sparire era un compito impossibile: fu sempre chiaro che questo intento equivaleva in realtà a strappare via l'identità italiana da se stessa, e il popolo, pur negli alterni umori, lo ha sempre sentito. La decisione del IV Concilio Lateranense solennissimamente proclamata fu peraltro in pratica rigettata, nelle sue parti odiose, innanzitutto a Roma. Torna spesso nel libro questa idea che Calimani fa sua, senza peraltro indulgenze di nessun genere: l'Italia non è la Spagna. E dire che gli ebrei ne hanno patite ... Colpisce in questo racconto di Calimani la totale assenza di rancore, il non mettersi mai troppo dalla parte degli ebrei rispetto al resto degli italiani, quasi nella consapevolezza che gli ebrei sono più italiani degli altri. É notevole la sincerità con cui Calimani racconta un fatto (a pag. 206, nel paragrafo Alessandro VI e la "lozana andalusa", ultimo paragrafo). "Alessandro VI, papa Borgia, nei primi mesi del suo pontificato a Roma (1492), accolse gli ebrei che giungevano profughi dalla Spagna e dalla Sicilia. Gli ebrei romani, contrariati, raccolsero diecimila fiorini d'oro e li offrirono al Papa chiedendogli di non accettare quei profughi.

Al che questi reagì con sdegno. «Che novità è mai questa? Ho sempre sentito che gli ebrei si distinguono per la loro reciproca compassione, ed ecco che costoro si comportano con crudeltà». E allora ordinò che tutti, indistintamente, fossero espulsi. Gli ebrei capirono l'antifona. Raccolsero altri ventimila fiorini e chiesero al Papa di accettare tutti". Chi più italiano, nella sua imperfezione, di questi ebrei? Il Papa Borgia, peraltro catalano, ci fa un figurone... Del resto gli ebrei sono gli italiani per eccellenza, minoranza fin che si vuole, ma durevole. Arrivavano in Italia ondate migratorie e di invasori, goti, longobardi, bizantini, angioini, franchi, spagnoli, arabi. Chi restava fedele a se stesso, dando così anche una certa stabilità all'Italia era la "comunità ebraica". La Chiesa cattolica c'è, la sua gerarchia non ha vuoti, ma i suoi fedeli vanno e vengono. A volte i monarchi cristiani sono barbari convertiti, e perciò durissimi contro i giudei, e poi sono sconfitti e chi subentra è più mite. Ma gli ebrei restano. Si spostano, sono meno dell'uno per cento, ma permangono, sono come lo zoccolo duro degli italiani. La Chiesa in questo libro è trattata come una sorella minore, come oso dire parafrasando la celebre definizione di ''fratelli maggiori"data da Giovanni Paolo II agli ebrei durante la storica visita del 13 aprile 1986 alla sinagoga di Roma. A dire la verità papa Ratzinger l'ha poi corretta, questa definizione, chiamando gli ebrei "Padri nella fede". E anche qui, in questo libro sulla storia d'Italia (perché non è solo storia degli ebrei ...), questa definizione si palesa vera. Furono per primi gli ebrei a portare nella nostra patria la fede nel Dio Creatore ed invisibile, nemico degli idoli, e irriducibile a qualsiasi simulacro fatto da mano d'uomo. La storia italiana raccontata da Calimani è un fiume, e in queste acque navigano costantemente gli ebrei, a volte si cerca di emarginarli, si cerca di annegarli, con le calunnie di omicidi rituali di bambini, con le sassaiole della Settimana Santa, con vescovi che dirigono la folla ad incendiare le sinagoghe ed altri che le proteggono, ma

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sempre nel pieno della corrente italiana. Gli ebrei italiani nei secoli dovettero adattarsi, spostarsi da sud a Nord. Accogliere l'arrivo di altri fratelli ebrei provenienti dalla Francia o dalla Germania. Essere pronti con il bagaglio al piede. Ma così radicati da non andarsene mai da questa terra. L'autore si domanda nel momento di tirare le somme (ultimo paragrafo di pagina 501) "Quale forza interiore permise agli ebrei di resistere a così numerose difficoltà, a tante discriminazioni? Non vi è alcun dubbio: il loro attaccamento culturale, religioso, mentale ed esistenziale al giudaismo". Io vorrei dire persino qualcosa di più e la dico da cattolico italiano. Questa resistenza dipende si dall'attaccamento al giudaismo tuo e dei tuoi, carissimo Riccardo. Ma anche dal fatto che l'ebraismo ha una pepita d'oro di verità che nessuno può sognarsi di eliminare. In questa resistenza vedo la prova storica di una verità teologica. Essa ormai, dal Vaticano II e con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è stata detta e ripetuta. Ebrei e cristiani si incontreranno e saranno una cosa sola nel definitivo riconoscimento dell'unica verità, e sarà l'ultimo giorno! Il lavoro di Calimani mostra come questa tesi, che ha tutelato nei secoli gli ebrei d'Italia, viene da Sant'Agostino e soprattutto da San Gregorio Magno, i quali hanno riconosciuto, non solo per decreto giuridico di tolleranza, ma per sostanza di verità, il diritto degli ebrei a praticare la loro fede. Gli ebrei - secondo questa visione - sono prova vivente della verità ulteriore del cristianesimo. In particolare secondo Gregorio Magno non ne erano la prova in negativo, ma il necessario complemento. Certo, una formula inaccettabile per chi è di fatto considerato cittadino di serie B, servo, senza diritto politico, ma - soprattutto in Gregorio - questa considerazione divenne simpatia profonda, fino a prefigurare l'incontro finale (pag 109). Del resto la presenza degli ebrei risulta sempre decisiva. Sono una piccola minoranza, ma Papi e Principi dedicano ad essi mille energie, a volte negative, a volte molto negative. Ma in Italia, con molte inaccettabili soprusi e violenze, mai si sono registrati nei secoli di cui stiamo parlando le violenze totali

rispetto alla Spagna ed altri Paesi europei. Innocenzo III, che tra i Papi è stato il maggiore nemico degli ebrei, se ne usci così: "Benché l'infedeltà degli ebrei sia infinitamente condannabile, essi, tuttavia, non devono essere troppo perseguitati dai fedeli" (pagina 173 secondo capoverso). Detta cosi fa un po' ridere, perseguitarli ... ma non troppo! C'è qualcosa che impedisce la volontà di distruzione, in quei secoli, in Italia. C'erano vincoli giuridici posti dai Romani e dai primi Papi , il codice di Teodosio e così via (pag 104). Ma io ritengo esista un mistero di Israele, che certifica la sua natura di popolo eletto. Eletto non solo per se stesso, ma per tutti, di profonda utilità per tutti, e che rende preziosissimo il resto di Israele provvidenzialmente ancora qui tra noi, senza che noi - che pure ci sentiamo spiritualmente ebrei, come disse Pio XI dei cattolici - ce lo siamo meritati! Senza gli ebrei il totalitarismo vincerebbe. Non a caso i totalitarismi di qualsiasi colore, presto come il nazismo o più tardivamente come il comunismo, puntano all'eliminazione di Israele. C'è una irriducibilità dell'ebraismo che lo rende alla fine quel sasso che impedisce al totalitarismo di affermarsi. Fosse pure un totalitarismo con le insegne cristiane. Ed è un vincolo che - lo vediamo ora nella difficilissima situazione dello Stato di Israele vale anche per Israele stesso, il quale non può che essere democratico e antitotalitario. Dai Papi, riprendendo Gregorio Magno, non viene più alcuna scomunica agli ebrei, nessuna accusa di deicidio, e ci mancherebbe, ma neanche alcun invito più alla conversione, bensì semplicemente l'offerta reciproca di amicizia, dinanzi alla figura di Gesù Cristo ebreo, nella assoluta garanzia reciproca di una libertà religiosa che non è semplicemente tolleranza, ma stima e amore. Il metodo è questo: non la contesa dialettica, ma la condivisione di un'amicizia sotto lo sguardo del Dio di Abramo. Non a caso l'unica persona nominata nel testamento di Giovanni Paolo II è il rabbino capo di Roma Elio Toaff... Qualcuno, dopo che ho citato Wojtyla e Ratzinger si domanderà, e papa Francesco? Ho ritagliato un pezzo del suo dialogo con i

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giovani dei movimenti sabato scorso a Roma. Anch'egli mostra che i cristiani sono figli della saggezza ebraica. Non solo dell'Antico Testamento - come dicono i teologi - ma persino del Talmud. Una cosa impensabile nei secoli di cui parla Calimani, quando copie di questo libro erano spesso messe al rogo ... Dice papa Francesco, e scuserete la citazione un po' lunga: "La domanda che facevate voi: come si deve vivere per affrontare questa crisi che tocca l'etica pubblica, il modello di sviluppo, la politica. Siccome questa è una crisi dell'uomo, una crisi che distrugge l'uomo, è una crisi che spoglia l'uomo dell'etica. Nella vita pubblica, nella politica, se non c'è l'etica, un'etica di riferimento, tutto è possibile e tutto si può fare. (...) Vorrei raccontarvi una storia. (...) E' la storia che racconta un midrash biblico (credo sia un midrash haggadah cioè narrativo e non giuridico, ndr) un Rabbino del secolo XII. Lui narra la storia della costruzione della Torre di Babele e dice che, per costruire la Torre di Babele, era necessario fare i mattoni. Che cosa significa questo? Andare, impastare il fango, portare la paglia, fare tutto ... poi, al forno. E quando il mattone era fatto doveva essere portato su, per la costruzione della Torre di Babele. Un mattone era un tesoro, per tutto il lavoro che ci voleva per farlo. Quando cadeva un mattone, era una tragedia nazionale e l'operaio colpevole era punito; era tanto prezioso un mattone che se cadeva era un dramma. Ma se cadeva un operaio, non succedeva niente, era un'altra cosa. Questo succede oggi: se gli investimenti nelle banche calano un po' ... tragedia ... come si fa? Ma se muoiono di fame le persone, se non hanno da mangiare, se non hanno salute, non fa niente! Questa è la nostra crisi di oggi! E la testimonianza di una Chiesa povera per i poveri va contro questa mentalità". E' interessante che Francesco si appoggi alla sapienza ebraica, proprio sul tema delle banche! Strappando così da troppe teste anche italiane un pregiudizio radicatissimo sulla negatività ebraica nella finanza. Calimani spiega bene come sia nato. Due gli ordini di ragioni. Il primo è teologico. Il Deuteronomio dice: "Fa' pagare interessi al

forestiero ma a tuo fratello non far pagare gli interessi". A questo tema, che attraversa tutta la storia degli ebrei italiani è dedicato un interessantissimo capitolo, che non è solo narrazione di fatti ma anche di storia della teologia e dell'interpretazione dei testi. In buona sostanza - sintetizzo - siccome la Chiesa vieta il prestito con interesse in senso universale, e invece la Bibbia lo autorizza agli ebrei qualora lo facciano con il forestiero, essendo gli ebrei peccatori professi, tanto vale che siano loro a prestare il denaro con interesse ai cristiani. Non analizzo qui le varie disquisizioni, fatto sta che questo accadde e fece molto comodo per lo sviluppo dell'economia dei comuni e sul finire del Medioevo, e anche ai sovrani. Gli ebrei avevano liquidità (e questo è il secondo ordine di ragioni) perché altre attività e possessi di immobili non erano permessi o consigliabili, essendo essi continuamente a rischio di espulsione, causa la teorizzazione di alcuni Papi, tra cui il "famigerato" Innocenzo III, dell'ebreo che doveva essere per sempre errante come Caino. Gli ebrei italiani furono con questa loro attività "feneratizia" (termine che ho riscoperto nel libro e che vuol dire, da foenus, provvigione, usura) garantirono lo sviluppo economico dell'Italia intera. Vorrei anche accennare a quella che ritengo la seconda tesi centrale del volume che emerge dal racconto. La prima è la coessenzialità degli ebrei all'Italia. La seconda è il carattere di questa permanenza. Essi sono il segno del divino che non si può sistemare con pratiche umane o magiche. L'atteggiamento di attesa, il modo di vivere il tempo come speranza. Questo carattere si manifesta ancora prima dell'arrivo del cristianesimo. Già allora la presenza dei Giudei - i quali si sentivano attratti da Roma, mentre a sua volta Roma percepiva il fascino di Gerusalemme - era vissuta dai romani in modo differente da altre presenze non indigene. Le altre presenze erano tollerate. A pagina 12 trovo scritto (secondo capoverso): "la loro influenza (degli ebrei) non solo economica ma anche culturale, fu subito capace di suscitare (...) reazioni alternativamente positive o negative, ma mai di indifferenza". Mai di indifferenza!

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L'ebraismo tiene viva la vita. Non l'ebraismo come filosofia, ma l'ebraismo come vita concreta, impedisce l'indifferenza. Certo, vedendo il tremendo percorso della storia, anche in Italia, con il consenso attivo e silente dato alla Shoa a cominciate dalle abominevoli leggi razziali, era bastevole la tolleranza, era meglio l'indifferenza dell'odio. Ma Israele ha nella sua natura di essere popolo eletto, e dunque suscitatore di odio e invidia, per chi non lo accoglie come dono, come faccio io oggi, e sono sicuro con me il popolo italiano. Da ultimo, non voglio evitare un argomento che questo libro tocca. Vale a dire l'editto di Milano del 313, di cui si festeggia la ricorrenza in modo solenne. Esso segnò la libertà religiosa, ma si trasformò presto, documenta Calimani, nel suo contrario. Credo che questo debba essere un monito. Il Cristianesimo autorizzato divenne prepotente. Io vorrei dire questo. Non è il Cristianesimo o il Cattolicesimo romano ad avere in sé questa pulsione. Essa è piuttosto una tentazione degli uomini che ha che fare con la cupidigia di potere, che viene prima della religione e usa la religione. In questo senso l'Editto di Milano è da riscoprire oggi per tutti noi. Come occasione non solo e non tanto per codificare e rendere più solida la tolleranza, ma per lavorare insieme per una libertà religiosa che aiuti il mondo a ritrovare il binario di una vita buona e utile, piena di pace. E che l'Italia sia davvero I-Tal-Jah, isola della rugiada divina! Renzo Gattegna Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

A volte l’apparenza inganna. E’ questo il caso dell’opera che presentiamo oggi , la “Storia degli ebrei italiani “ scritta da Riccardo Calimani. Il libro infatti ha l’aspetto di un grosso volume di oltre cinquecento pagine, ma in realtà è un’agile e veloce sintesi. Qualcuno potrebbe chiedere come ciò possa essere possibile. La risposta si trova sfogliando il testo che contiene una grande quantità di

argomenti: storia, geografia, filosofia, teologia, usi e costumi, leggi ebraiche e leggi, promulgate dagli stati, riguardanti gli ebrei. Riccardo Calimani, come sempre, non si limita a raccontare, anche se racconta con grande precisione, citando una mole impressionante di documenti. Ma Riccardo su ogni argomento lascia trasparire, anzi manifesta, la sua personale opinione e prende decisamente posizione. Ci si potrebbe chiedere se ciò non sia eccessivo o censurabile, se uno scienziato non dovrebbe mantenere un maggior distacco. Non sono in grado di rispondere ma, conoscendo Riccardo, il suo stile, il suo coraggio, il suo gusto per la polemica, sono certo che un atteggiamento distaccato e asettico sarebbe incompatibile e inconciliabile con il suo carattere. Questo appare chiaro leggendo sia questa sua ultima opera, che tutte le altre che ha precedentemente pubblicato. Abitualmente, lui aggredisce, non le persone, ma i temi, le idee, i problemi. Ora consentitemi una breve digressione: Riccardo, con la sua sincera e affettuosa irruenza, ha, meritatamente dedicato questo libro al Dott. Gianni Letta. Ebbene su questa dedica, non solo sono d’accordo, ma sono entusiasta. Cerco di sintetizzare in poche parole le motivazioni: innanzi tutto, ma non solo, una grande e profonda amicizia, ma c’e un altro fattore determinante che merita di essere rivelato. Le comunità ebraiche hanno ogni anno due eventi di grande rilevanza, il Giorno della Memoria, il 27 gennaio e la Giornata Europea della cultura ebraica, ogni prima domenica di settembre. Inoltre, attualmente, sono in corso le procedure e i lavori per realizzare, a Ferrara, il Museo Nazionale del Ebraismo Italiano e della Shoah. In tutte queste iniziative, il dott. Gianni Letta, per anni, avendone compreso l’alto valore morale, oltre che culturale, ha rappresentato il governo italiano con grande autorevolezza, disponibilità e sincera amicizia. Di questo sento il dovere di dargli atto ed ho il piacere di cogliere questa occasione per ringraziarlo pubblicamente. Ma torniamo al libro di Calimani, composto

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Storia degli ebrei italiani

di diciassette capitoli, che non seguono rigorosamente le regole classiche dei libri di storia, Viene affrontata una successione di fatti e di argomenti, selezionati e collegati, attraverso i quali l’autore illustra la sua personale visione sulle condizioni di vita degli ebrei, sull’ebraismo e su ciò che gli ebrei hanno rappresentato e simboleggiato nella mente e nei comportamenti delle società circostanti. Riccardo appare affascinato da quella che egli definisce ”la tormentata avventura degli ebrei nell’isola della rugiada divina: I-Tal-Jah“. Dalla lettura si percepisce lo sforzo di obbiettività che egli compie ma, conoscendolo bene da molti anni, ho percepito con chiarezza l’incanto, l’orgoglio, il trasporto da cui viene colto nel raccontare una storia che egli sente propria, della propria gente, dei propri antenati;

a questa storia egli riserva, da libero pensatore, critiche e encomi, secondo i suoi personali parametri e criteri di giudizio. Caratteristico è il suo modo di rifiutare qualsiasi tipo di cieca obbedienza, di dogmatismo, di conformismo. In questo si concretizza la fortuna di noi lettori , in quanto l’autore riesce abilmente ad evitare i rischi di apparire presuntuoso, irriverente, eretico o anarchico, e si lascia apprezzare per la libertà espressiva, qualità alla quale gli ebrei, e gli ebrei italiani in particolare, sono educati e abituati da sempre. Ringraziamo quindi Riccardo Calimani per averci donato quella che lui stesso definisce “storia bimillenaria e straordinaria avventura , tanto tormentata, quanto poco nota”. Sicuramente ora questa storia è più conosciuta o almeno più conoscibile.

Per gentile concessione dell’Autore, pubblichiamo uno stralcio del primo capitolo del secondo volume, nel quale si sintetizza la storia degli ebrei in Italia fino al XV secolo, oggetto del primo volume.

Riccardo Calimani

Nel primo volume ho narrato le vicende appassionanti di una piccola minoranza che, dal II secolo a.e.v. fino al XV secolo, ha vissuto nella Penisola e ha avuto un ruolo molto importante, sia dal punto di vista culturale, che economico e sociale, tale da suscitare stupore e interesse. Di questa presenza sono rimaste molte testimonianze: si pensi, solo per dare un esempio, alle catacombe ebraiche di Roma, di cui pochi conoscono l’esistenza. Gli ebrei romani, arrivati in città ben prima dei papi, sono, a buon diritto, uno dei gruppi più antichi di abitanti in città. A parlare tuttavia, non vi sono solo le pietre. Gli scrittori romani, di fronte al giudaismo, agli ebrei e ai riti religiosi che consideravano poco comprensibili, hanno reagito con colorite espressioni polemiche. Cicerone, impegnato a difendere il suo cliente Flacco, non

apprezzò i loro schiamazzi in tribunale. Terenzio Varrone, Seneca, Quintiliano, Tacito, Giovenale, Marziale Petronio, Ovidio, Tibullo, Cassio Dione, per citarne solo alcuni, hanno dedicato agli ebrei pagine dalle quali emergono, tra l’altro, pregiudizi e incomprensioni, capaci di gettare un fascio di luce non solo su di loro, ma sulla mentalità degli stessi romani. È interessante scoprire come i privilegi politico-sociali, di cui gli ebrei godevano nei territori dell’Impero romano, sin dai tempi di Cesare e di Augusto, abbiano subito lente e continue trasformazioni nel corso dei secoli, fino al momento in cui, con la vittoria di Costantino nel IV secolo e con la crescita di una polemica antigiudaica sempre più accesa, la loro condizione giuridica nell’Impero romano subì un primo profondo cambiamento, con la perdita di antiche consuetudini.

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Riccardo Calimani

Gli scritti di Giustino, di Tertulliano, di Origene, di Eusebio da Cesarea, di Ambrogio, di Cirillo di Alessandria, di Giovanni Crisostomo, di Agostino svilupparono, tra il II e il V secolo, un genere letterario cri-stiano, detto Adversus Iudaeos che coglieva spunti e riflessioni dai testi ebraici, allo scopo di riaffermare, con maggior fora e legittimità, le verità evangeliche. Il confronto tra Chiesa e Sinagoga, su chi fosse il Verus Israel e che favorì il formarsi di stereotipi antiebraici tra IV e XI secolo, divenne una vera e propria ombra oscura capace di influenzare, all’ interno di un quadro politico, già turbolento e instabile, le condizioni sociali e giuridiche della presenza degli ebrei in Italia, in I-Tal-Jah, Isola della rugiada divina. Grandi protagonisti della storia del mondo mediterraneo, Teodosio I e Teodosio II, Teodorico, Giustiniano, intervennero, sia pure con modi differenti, su quel processo di iniziale parificazione di tutti gli abitanti dell’Impero romano che era stato avviato da Settimio severo (IIIII secolo) e attuato dal figlio Caracalla (III secolo) e che aveva coinvolto anche gli ebrei. Teodosio II (V secolo), con le prescrizioni contenute nel Codice Teodosiano, cercò di conciliare la necessità di proteggerli, cercando, tuttavia, di ridurne l’influenza e di limitarne i diritti. Teodorico (V-VI secolo) affermò almeno in teoria: Religionem imperare non

possumus. Cassiodoro, il suo ministro, invece, combatte l’ostinazione ebraica con particolare acredine. Giustiniano (V-VI secolo), nella nuova stesura del suo Codice, mantenne in vita solo metà delle leggi sugli ebrei contenute in quello di Teodosio, sancì il nuovo equilibrio che si era in-staurato tra Stato e Chiesa e ridusse gli ebrei al rango di cittadini minori, sottoponendoli a molti oneri fiscali ed economici, riducendo le loro possibilità di ascesa sociale, ma, nello stesso tempo, conferendo loro una certa autonomia all’interno della sfera religiosa, anche permettendo l’applicazione del diritto privato ebraico all’interno delle comunità. Tra il 1000 e il 1555 novantotto papi, di cui diciassette a n t i p a p i , governarono la Chiesa di Roma, in un’alternanza di periodi di opulenza e di momenti di tragica debolezza. Si può facilmente intuire che il rapporto con gli ebrei non fu sempre uguale, anzi subì oscillazioni e contraccolpi. Il confronto, sempre teso, in qualche caso divenne anche aspro. Fu Gregorio Magno, nel VI secolo, con la bolla Sicut Iudaeis, a gettare le basi di un nuovo quadro normativo, che conteneva qualche privilegio e limiti precisi che non dovevano essere superati. Da quel momento l’atteggiamento dei papi, dettato da differenti esigenze umane e politiche, non sempre armoniche e coerenti tra di loro, come conseguenza di considerazioni teolo-

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giche, umanitarie ed economiche, pur tra tante oscillazioni, divenne di fondamentale importanza non tanto e non solo per la vita degli ebrei romani, ma anche per quella degli ebrei di tutta Italia. I papi si ispirarono alla teoria del popolo testimone di sant’Agostino, tenere in vita il popolo di Dio, conculcarlo e convertirlo alla vera fede: questi assiomi divennero un punto di riferimento essenziale della politica pontificia. In queste pagine non vi è traccia di quell’impostazione che è stata definita storia lacrimosa, e che considera la storia degli ebrei come una lunga sequenza di discriminazioni. Le vicende ebraiche sono narrate all’interno di una storia umana densa di fatti storici, politici, economici, ma anche di paradossi di avventure, di contraddizioni nel tentativo di dipanare un singolare destino, quello ebraico, capace di sorprendere. L’accusa di omicidio rituale, più volte reiterata nel corso dei secoli, l’imposizione del segno giallo, il rito del possesso, le discussioni sulle gravose tasse da imporre, il grande e controverso dibattito sulla liceità del prestito ebraico: tutti questi grandi temi che coinvolsero profondamente la Chiesa e gli ebrei si inseriscono all’interno di vaste tragedie europee, dominate da eventi epocali, quali ad esempio, le crociate o la nascita dei tribunali dell’Inquisizione. Questi ultimi, nati per combattere gli eretici, solo in un secondo tempo si occuparono dell’infedeltà ebraica e, come si vedrà, con le conversioni forzate e la loro immediata conseguenza, lo sviluppo del perturbante fenomeno del marranesimo, diventeranno tragico strumento di repressione e morte, mandando al rogo, in grande quantità e per lunghi secoli, eretici, streghe ed marrani ed ebrei. Il marrano diventerà nel XVI e nel XVII secolo un ambiguo fantasma capace di turbare il sonno di tanti ebrei e cristiani in Europa.

Il XIV secolo in Europa Gli ebrei in Europa e nel Mediterraneo arrivarono all’alba del XVI secolo con una pesante eredità storica. La lunga ostilità della Chiesa aveva lentamente, ma inesorabilmente logorato la loro condizione giuridica e ridotto i margini di autonomia e di libertà. Nel periodo delle Crociate la situazione era cambiata ancora più radicalmente, assumendo contorni ancora più drammatici. Negli ultimi tre secolo XIII, XIV, XV, inoltre, la pressione della Chiesa nei loro confronti era diventata sistematica, alimentata da nuove vessazioni e da un’Inquisizione che, nata per combattere le eresie, aveva finito, come si è detto, per occuparsi anche troppo di ebrei di ebrei. Il Trecento fu in Europa un periodo funestato da straordinari eventi sinistri. Negli anni 1315-1322 una carestia gravissima aveva imperversato in Europa causando la morte di milioni di persone. Pochi anni dopo, una peste mortifera aveva distrutto intere popolazioni e i superstiti erano prostrati e in preda alla paura. “Chi si trova in preda al dubbio - ha scritto Baruch Spinoza - viene facilmente sbattuto qua e là, e ciò tanto più facilmente, se sia agitato dalla speranza o dal timore, mentre poi, nei momenti di fiducia, è pieno di iattanza e furbizia. Il timore fa insanire gli uomini; la causa, per cui ogni superstizione ha origine, vive e prospera, è soltanto la paura”. E la paura fu in quegli anni la regina incontrastata in Europa e il lungo processo di deterioramento della condizione ebraica finì per accentuarsi, senza possibile rimedio. Alla persecuzione sporadica si sostituì il massacro sistematico, all’esplosione di violenza episodica si associò il metodo, sempre più raffinato, della tortura e nuove terribili accuse, dall’omicidio rituale all’avvelenamento dei pozzi, ammorbarono l’aria in modo persistente e conquistarono le menti.

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La malvagità ebraica era sotto gli occhi di tutti. L’epidemia di peste finì per condensare ataviche paure e recenti timori di vendetta. Occorreva dare una risposta al flagello: chi era il colpevole? Certo il diavolo, ma anche le streghe e gli ebrei che potevano desiderare di vendicarsi. La leggenda della vendetta, basata su motivi plausibili, si diffuse con rapidità straordinaria: un ebreo di Toledo aveva distribuito sacchetti di veleno a emissari ebrei che li avevano portati in ogni luogo di Europa per renderla un enorme cimitero. Il duca Amedeo di Savoia fece arrestare alcuni ebrei e, per indurli a confessare, li torturò. Furono costretti ad ammettere colpe non commesse e le loro confessioni finirono per diffondersi in ogni città di Europa, passando rapidamente di bocca in bocca e diventando plausibili e credibili. Clemente VI, nel settembre 1348, pubblicò una bolla in cui si spiegava che gli ebrei erano vittime della peste né più né meno dei cristiani. Nel febbraio del 1349 a Strasburgo, ciò nonostante, duemila ebrei furono bruciati collettivamente nel cimitero e i loro beni distribuiti al popolo. Fu il tempo del massacro e del rogo. In Germania gli Judenschlaeger, i flagellanti di ebrei, andavano di paese in paese, di città in città, accusandoli di aver profanato l’ostia. Né gli interventi della Chiesa, né quelli delle autorità imperiali si rivelarono efficaci. Bande di sbandati, detti pastorelli, terrorizzavano le contrade europee colpendo le comunità ebraiche: poi essi rivolsero la loro furia anche contro il clero e allora la Chiesa reagì con durezza maggiore e, non senza sforzo, ebbe ragione di loro. Se Giovanni XII attaccò i pastorelli con le parole della fede, Filippo V li sconfisse con le sue truppe. “Voi ci appartenete nella persona e nei beni e noi possiamo usarne e fare di voi quello che vogliamo a nostro piacimento”. La teoria della schiavitù era arrivata alle estreme conseguenze. Gli

ebrei, servi della Camera Imperiale, erano ormai merce di scambio e sottoposti a ogni angheria. Arbitrarie erano le continue espulsioni e le successive riammissioni, codificate in modo tale da sembrare consuetudine legittima. “Gli ebrei diventarono del tutto legalmente degli eterni erranti in molte terre europee”. Joseph ha Cohen, un cronista dell’epoca, nella sua opera Emek habaka (La valle delle lacrime), ha raccontato che gli ebrei erano disgustati della vita. Nella letteratura e nell’arte gli ebrei si trasformarono in un fantasma, che turbava i sogni di ogni buon cristiano e che suscitava inquietudini crescenti, frutto anche, forse, dei sensi di colpa dei persecutori. Satire, leggende, ballate contenevano parole che esaltavano la perfidia ebraica. Vetrate e facciate delle chiese riprendevano motivi di polemica teologica, trasformandoli in immagini e inculcandole in modo subliminale, nelle menti dei fedeli in preghiera. In Francia, in Germania, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, paesi dove gli ebrei erano quasi scomparsi a causa delle espulsioni, restavano i loro fantasmi a turbare le anime dei cristiani: i connotati umani si erano dissolti ed erano subentrate sembianze diaboliche. La teologia era ancella della paura e diventava il veicolo di emozioni antiebraiche, intense e virulente che, pur frutto della precarietà dei tempi, diventavano via via persistenti e radicate. La stessa parola ebreo acquistava connotazioni negative: falso, canaglia, traditore, profanatore. Lo spirito del tempo si impossessò della primitiva storia cristiana, nutrendola di un sadismo insospettato: i misteri della Passione o dell’Ostia Santa si caricavano di significati arcani e potenzialmente violenti. Alcuni giochi, cui partecipavano vaste masse popolari e che ricostruivano gli avvenimenti della Passione o della

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distruzione di Gerusalemme, erano tipici del XIV secolo e gli ebrei recitavano, guarda caso, la parte dei tormentatori del messia, eccitando gli animi alla violenza. Nelle arti figurative, nei trattati teologici, nelle rappresentazioni teatrali o nei sermoni, emergeva la preoccupazione realistica di rappresentare la crocifissione in termini terribilmente cruenti e con precisione ossessiva. Se l’arte è lo specchio dell’immaginario dell’epoca, si può arguire che fossero tempi di grande e diffusa sofferenza per gli uomini (e, del resto, i turbamenti naturali, politici e sanitari lo testimoniano), ossessionati dall’idea del diavolo, dell’inferno e delle streghe. Simili scenari apocalittici non potevano non lasciare un segno profondo: all’inizio del XV secolo nacque in Europa l’idea della danza macabra, con infernali festeggiamenti sul ciglio di un burrone, condizione metaforica e reale della perdizione dell’umanità intera. Che peste e festa fossero associati, non era così strano. Il desiderio della festa diventava insopprimibile, mentre imperversava il terribile morbo che portava alla morte. Oramai l’ebreo non poteva più difendersi con la razionalità, magari solo apparente e perdente, della disputa teologica: nei quadri è dipinto con le sembianze di un scorpione o come una “troia”, la serva con il naso adunco e la pelle scura. Non a caso, veniva sempre accostato al principe delle tenebre, che domina l’inconscio e il conscio di larghe masse popolari e di tanti illustri pensatori e uomini di cultura dell’epoca. San Tommaso stesso, affermando che gli Unni erano nati dai demoni, aveva offerto la base teologica su cui costruire l’ipotesi di un diavolo corporale; e chi, se non gli inquinatori dei pozzi, i portatori di peste o i profanatori di ostie, poteva essere identificato in modo completo a questa mitica figura?

della paura, il consolidarsi in Europa, di un’immagine carica di stereotipi antigiudaici dell’ebreo e della sua demonizzazione, ma anche il tempo dei processi, (il primo a Tolone nel 1335) e degli autodafé che si concludevano con il rogo degli imputati. E’ stato l’inizio della terribile, quanto crudelmente inutile, caccia alle streghe: trentamila bruciate, secondo la stessa testimonianza del Santo Uffizio del 1404, una pagina oscura e abominevole della storia umana. Tra gli ebrei, il diavolo e le streghe esistevano affinità elettive: non solo la coda, la carne, l’odore, il foetor judaicus, ma anche caratteristiche speciali e malefiche, capaci di far scaturire potenze psichiche inaspettate al servizio della magia e della perversità. In Spagna il 1391 fu un anno cruciale. Ci furono numerose conversioni forzate e molti ebrei divennero formalmente cristiani, pur continuando a praticare in segreto i riti ebraici e, in molti casi, la loro condotta, considerata irregolare, finì sotto esame nei tribunali dell’Inquisizione. E questa situazione si riverberò per tutto il secolo successivo con gravi conseguenze. Il Quattrocento fu, in Europa, un secolo tumultuoso. Le accuse di omicidio rituale diventarono più frequenti più pericolose e cariche di conseguenze mortifere. In Austria questa psicosi causò, negli anni Venti, espulsioni radicali. L’arciduca Alberto li fece cacciare dalle terre austriache e l’imperatore Sigismondo, che svolse un’azione moderatrice in terra tedesca, non riuscì a imporsi sui predicatori pieni di zelo e negli anni Trenta ci furono espulsioni da Colonia, da Regensburg e da Lindau. Martino V cercò di porre un freno alle violenze, promulgando un’importante bolla per ricordare che il cristianesimo era nato dal giudaismo, che l’esistenza degli ebrei era una testimonianza Il XV secolo in Europa indispensabile, cercando di bloccare quei Il XIV secolo non è stato solo il tempo gruppi che volevano creare disordini 29


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all’interno dello stesso campo cristiano, ma rimase inascoltato. In Spagna la presenza dei conversos, marrani, con la loro carica di ambiguità, aveva aumentato il disagio sociale e politico creando condizioni di profondo malessere. La Chiesa locale si rammaricava di non essere in grado di esercitare, come avrebbe voluto, un buon controllo delle anime e reagiva con rabbia alla presenza insinuante di una quinta colonna che avrebbe potuto scatenare conseguenze inaspettate al suo interno. Temuti dalla Chiesa, i marrani erano disprezzati molto spesso dagli ebrei che li consideravano dei rinnegati, ma, nonostante le diffidenze, di cui erano oggetto da ogni parte, essi guadagnavano all’interno della società spagnola posizioni di crescente influenza. Il cripto-giudaismo finì, quindi, a poco a poco, per acquistare connotazioni minacciose e a scatenare reazioni patologiche terribili con quelle nozioni proto-razziste connesse all’idea della limpieza del sangue. I rappresentanti delle comunità spagnole si riunirono nel 1432 a Valladolid per elaborare uno statuto, ispirato alla prudenza, che, ratificato da Giovanni II, diventò legge in Castiglia e che fu interpretato come un codice di comportamento ebraico, per prevenire che altri imponessero regole più dure e ispirate a maggiore malizia. Era un documento che voleva essere la sintesi di esigenze diverse: da un lato, rivendicava con forza il diritto di lezione democratica dei rappresentanti del Kahal, dall’altro imponeva restrizioni all’uso di gioielli e vestiti di lusso da parte degli ebrei più ricchi e si concludeva con queste frasi ad ispirate ad una solennità particolare: “Sopra tre colonne riposa il mondo: sulla Torah, sulla adorazione di Dio e sulle opere di carità e su tre cose si sostiene il mondo: sul diritto, sulla verità e sulla pace”. La Chiesa di Roma reagì con durezza, sia allo statuto di Valladolid, sia ai nuovi

fermenti culturali ebraici che in Spagna erano particolarmente vivaci e suscitavano imbarazzi negli ambienti ecclesiastici. Eugenio IV, che pure aveva ratificato in un primo momento, le decisioni di Martino V, mutò atteggiamento in modo repentino e chiese che la bolla di Benedetto XIII, pur morto in odore di eresia, fosse applicata nel 1434 in tutta la Spagna. Alle tradizionali misure discriminatorie, che tendevano alla separatezza tra ebrei e cristiani, se ne aggiunsero altre di tipo vessatorio, come l’introduzione di prediche coatte e il blocco delle lauree universitarie. Verso gli ebrei convertiti il papa manifestò una certa benevolenza, ma sostennne che non dovevano sposarsi tra di loro. La violenza dei predicatori lo spinse a una maggiore tolleranza, ma, poco dopo, cambiò idea e dette il suo avallo a un nuovo giro di vite. Con Nicolò V la situazione migliorò un poco: vietò che le sinagoghe fossero trasformate in chiese e che si facessero battesimi coatti, ma già la natura difensiva di questi provvedimenti dimostra quanto la situazione politica e sociale si fosse deteriorata. E se la situazione in Spagna, pur tra alti e bassi, era peggiorata. le posizioni severe di Giovanni da Capistrano in terra tedesca, le accuse di profanazione dell’ostia e di omicidio rituale avevano reso l’atmosfera irrespirabile in tutta Europa. Anche in Italia i fatti di Trento e di Portobuffolè (accuse di omicidio rituale e roghi pubblici) avevano reso drammatica la già precaria situazione degli ebrei.

Il prestito e gli ebrei Fenomeno sociale ed economico che, nel XIV e nel XV secolo, ha raggiunto un livello di straordinaria importanza in Italia, il prestito degli ebrei si è rivelato una questione su cui studiosi e teologi hanno dibattuto lungamente. Nel Trecento la diffusione dei banchi di pegno fu accettata, nonostante l’ostilità della Chiesa, tra grandi difficoltà ed

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incertezze. Nel Quattrocento, di fronte alla consapevolezza che il ruolo economico degli ebrei, pur nella loro esiguità numerica, era diventato troppo importante, al dibattito teorico si sovrappose una reazione cristiana alimentata dallo zelo e dalla predicazione dei frati minori e dalla concorrenza dei monti di pietà. Anche in questo caso, nel Cinquecento e nei secoli successivi, il XVII e il XVIII, gli echi di questa diatriba continuarono a manifestarsi non solo a livello teologico, ma anche e soprattutto, come vedremo, a livello economico e politico. Tracce disperse nel Nord e presenze numerose e influenti a Roma e nel Sud della Penisola. Oggetto del primo volume sono state le tracce archeologiche e non, disperse nel Nord della Penisola in Lombardia, in Piemonte nella Terraferma veneta, tra il Po e e gli Appennini, ma soprattutto la costante e persistente presenza ebraica a Roma e, ancora di più, nelle regioni del Sud, in Calabria, in Sicilia, in Campania,

in Puglia, in Sardegna. Della presenza ebraica a Roma si è già accennato, in questa premessa, fuggevolmente. Sempre presenti, sin dal tempo dell’Impero romano, sulle rive del Tevere, gli ebrei hanno subito, per primi, i differenti atteggiamenti assunti dai papi nei loro confronti, cambiamenti di umore politici ed economici che si sono propagati e hanno influenzato tutta la Penisola. Nel Sud le vicende ebraiche hanno avuto sviluppi differenti: presenti per diciassette secoli in modo capillare in decine e decine di città, cittadine, borghi e villaggi, come ha testimoniato Beniamino da Tudela e di cui le catacombe di Venosa hanno confermato antiche suggestioni, gli ebrei sono stati spazzati via da quei territori sotto dominazione spagnola in seguito all’espulsione del 1492. Sarebbe cominciato un nuovo difficile periodo, culminato prima con la lunga età dei ghetti, poi con un lento cammino verso l’emancipazione.

R. Gattegna, G. Letta, R. Calimani, L. Caracciolo 31


Commemorazione di Giacomo Matteotti 10 giugno 2013

Nella ricorrenza dell’89° anniversario della morte di Giacomo Matteotti, la Fondazione Giacomo Matteotti - Onlus, in collaborazione con la Fondazione Nenni, ha voluto ricordare il Martire antifascista in un Convegno tenuto presso la Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei Deputati, alla presenza di numerosi studenti e docenti dei Licei “G. Peano” di Monterotondo e “Talete” di Roma. E’ stata inoltre proiettata la versione completa del film Il delitto Matteotti di Florestano Vancini (1973), alla presenza della figlia del regista. Ha presieduto l’incontro il Prof. Carlo Ghisalberti (Professore Emerito di Storia moderna) ed hanno partecipato il Prof. Giuseppe Tamburrano (Presidente della Fondazione Nenni), la Dott. Gianna Granato (Fondazione Nenni) ed il Dott. Antonio Casu, Direttore della Biblioteca della Camera dei Deputati. Pubblichiamo di seguito gli interventi di Emmanuele F. M. Emanuele, Angelo G. Sabatini e Italo Arcuri.

Emmanuele Emanuele Guerra mondiale, nello stato di Pres. Onorario della Fondazione disaffezione nei confronti della nazione, Giacomo Matteotti nella profonda crisi economica prima ancora che sociale nella quale si Sono molto felice di essere qui oggi imbatteva l’Italia di quell'epoca, si nella mia veste esclusiva di Presidente ebbero dei fenomeni non diversi da onorario della Fondazione Matteotti che, quelli che viviamo oggi, fenomeni di tra le tante incombenze della mia vita, è ribellismo, di convincimento che tra quelle a cui tengo di più. Sono attraverso la violenza potessero particolarmente lieto di essere qui in risolversi i problemi. Si arrivò a una fase questo luogo sacrale della Repubblica, la patologica che scosse le fondamenta Camera dei Deputati, alla presenza di della vecchia democrazia liberale così tanti giovani in età fine scolare − mi instaurando un regime che dapprima sembra d'aver capito che siete liceali alla non parve, come sarebbe accaduto fine del vostro percorso di studi − successivamente, assolutista e con delle perché parlare di Matteotti, nella connotazioni estremamente pericolose, stragrande maggioranza dei casi nella ma parve come la soluzione al problema nostra epoca, significa parlare di del momento: il problema del disordine, qualcuno che non viene ricordato, che della disoccupazione, del bisogno non viene annoverato tra i protagonisti economico, della crisi, del futuro. In della memoria. Questo è un dolore quella stagione sorsero speranze che si grande che io provo perché nella mia concretizzarono in una pluralità di gioventù, nella mia stagione degli studi, partecipazione, un movimento che prese come quelli che oggi voi affrontate, quel il potere in treno, senza colpo ferire, per nome suonava come monito al coraggio, via dell’ignavia della classe dirigente di come monito al convincimento e alla quell'epoca che accettò passivamente difesa dei propri convincimenti, e che questo accadesse senza mobilitarsi. soprattutto era un esempio concreto di A me pare molto simile quello che oggi cosa dovesse fare un uomo nel futuro viviamo in un momento di identica crisi, della propria vita. forse meno grave di quell’altra, in un Non sono uno storico, il professor momento di sbandamento collettivo, in Ghisalberti lo è e probabilmente vi un momento di disoccupazione intratterrà raccontandovi nel dettaglio la giovanile − si è parlato del 40-45% storia, ma credo che occorra ricordare di giovani che non trovano lavoro che al termine della prima grande al termine della loro attività di studi 32


Commemorazione di Giacomo Matteotti

universitari − in un momento di crisi di un Paese che non ha più un’attività industriale, da 16 anni non abbiamo una legge sull’industria e da 27 anni non abbiamo una legge sull'agricoltura. Abbiamo una crisi nella ricerca che ormai scuote alla base la nostra rappresentatività mondiale perché non riusciamo a essere più competitivi come lo eravamo in epoche apparentemente lontane. Abbiamo infine, ed in forma più grande,una crisi dei valori. In una situazione siffatta, in cui voi giovani vi ponete giustamente il problema del domani, “che cosa sarà di noi?”, suonano sirene discordanti che in qualche modo non sono meno pericolose del passato, o almeno così io le leggo, sirene che portano lontano verso situazioni che sono di non ritorno. Tornando indietro, in quella stagione in cui i giovani diedero una risposta corale, convinti che la quarta sponda e la possibilità di una trasformazione radicale della democrazia di allora fosse la strada maestra da perseguire, si arrivò in senso assolutamente letterario a una crisi dell'individuo, si perse il valore dell'individuo e della libertà. Una voce si levò: Matteotti levò la voce nel momento in cui il Fascismo stava per diventare regime e fu la voce di un uomo libero, di un uomo solo. Nella Resistenza, che vedremo dopo, quando la guerra era perduta, quando era più facile far sentire la voce, quando l'America era alle porte, si eressero molti difensori della libertà, molti scesero in

campo per dire “basta con il Fascismo”, abbatterono le mura, abbatterono le statue, abbatterono le aquile, dopo. Matteotti si eresse prima e lo fece con la conoscenza dell'uomo che non aveva paura, dell'uomo che aveva dei principi, dell'uomo che credeva fondamentalmente ai grandi valori della spiritualità del socialismo e soprattutto del convincimento della vicinanza ai meno fortunati. Veniva dall’Oltrepò, una zona malarica e di grande bisogno economico. Matteotti fu un eroe. Si parla di un martire ma io vorrei parlare in termini di eroismo, eroismo civile che Matteotti ha rappresentato nella coscienza di tutti coloro i quali, dopo la Resistenza, dopo la liberazione, hanno pensato alla nuova Italia come punto di riferimento pregnante. Io, allora giovane meridionale, ho sempre pensato che Matteotti fosse la persona con cui identificare il mio percorso intellettuale, l'individualità, la capacità di dire no, quello che credo che i giovani di oggi dovrebbero sentire: il no al conformismo, la non paura della istituzione se quest' istituzione sbaglia, il non tirarsi indietro e dire “è un problema che non mi riguarda” perché qualunque cosa accade in questo mondo ci riguarda e bisogna avere il coraggio e la coerenza di dire “io non sono d'accordo”, anche pagandone le conseguenze. Molti dicono che con Matteotti iniziò il Fascismo. Per me Matteotti ha significato la fine del Fascismo. Io credo che il Fascismo cominciò a finire il

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Angelo G. Sabatini

giorno in cui Matteotti morì perché senza di lui, senza quell'esempio, non ci sarebbero stati i tanti emigranti, i tanti uomini che lasciarono l'Italia per organizzarsi, non ci sarebbe stato il dopo. Nella vita bisogna ricordare chi per primo ha difeso la libertà. Oggi non si fa più tanto ricordo di Matteotti, accadono anche cose strane in questo Paese, si dimenticano i protagonisti di una grande tradizione, sono rimossi improvvisamente periodi storici, spariscono dai libri; io invece credo che, grazie al Direttore, alla Presidente della Camera e soprattutto a voi giovani che in una giornata così bella di sole siete venuti qui ad ascoltare noi vecchi, le speranze non sono perdute. Onoriamo la memoria di questo grande eroe e portiamocelo sempre dentro perché questi eroi sono quelli che fanno la differenza nel tempo della vita. Grazie infinite. Angelo G. Sabatini Presidente Fondazione Giacomo Matteotti - Onlus

Ricordare oggi Matteotti è un dovere per chi crede alla democrazia, così come vi credono gli amici che qui in occasione della ricorrenza dell’ottantanovesimo anno dalla morte offrono qualche riflessione sul significato del sacrificio che il Martire antifascista offrì alle generazioni successive. E’ un dovere ricordare, specialmente ai molti giovani qui presenti, che 89 anni fa Giacomo Matteotti veniva barbaramente ucciso dai nemici della democrazia e del socialismo. La logica della dittatura nascente, attraverso lo squadrismo, spingeva i nuovi barbari a compiere sull'altare della forza e della violenza il rito sacrificale di un nemico considerato un ostacolo all’affermazione piena di un regime che allo strumento della ragione ha preferito quello della violenza. Per questa via, che è estranea allo spirito della civiltà moderna ma che è dura a morire nella

prassi istitutiva delle dittature di ogni tempo, si compiva il destino di uno degli uomini più puri e rappresentativi della democrazia, in generale, e del socialismo riformista, in particolare. Il suo martirio, il cui significato per la storia politica italiana va oltre ogni ambito più strettamente ideologico, è posto al crocevia delle diverse strade da cui è stato attraversato un Paese, come l'Italia, proiettato alla realizzazione, in chiave moderna, del compito civile e politico che il Risorgimento aveva affidato alle nuove generazioni. Un crocevia difficile, dove i problemi e le anomalie di un Paese fortemente caratterizzato da spinte politiche contrastanti e da consistenti spinte anarcoidi venivano ingigantiti ed esasperati dal clima di inconciliabile e incomprensibile diversità di cui si nutriva il socialismo italiano. Il quale si trovava a rappresentare la speranza e lo strumento di una trasformazione che si sarebbe forse potuta guidare e promuovere costruttivamente, qualora sulla differenza avesse prevalso l'unità e all'immagine di un socialismo tutto occupato a trovare nel proprio seno terreno di conflitto ideologico e strategico si fosse sostituita quella di una forza politica organicamente strutturata e armonicamente proiettata verso la realizzazione di uno Stato moderno. Entro la vita di questo socialismo tormentato si è consumata in Italia gran parte della vitalità pratica insita in una idea cosi carica di promesse, ma anche la più estrema scommessa tra due figli diversi del socialismo: Benito Mussolini e Giacomo Matteotti. Ironia della sorte: la storia della democrazia italiana trovava nel 1924 schierati in campo e combattenti a loro modo vigorosi, l'un contro l'altro armati, due figli del socialismo. Le vicende legate a questa lotta sono ormai note. Gli storici hanno lavorato abbastanza; e i risultati delle loro ricerche sono soddisfacenti. Quel lavoro

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Commemorazione di Giacomo Matteotti

storiografico ha anche dato frutti preziosi nella comprensione della figura del più autorevole martire della violenza fascista. Cosicché l'immagine eroica di un Matteotti sacrificato e nobilitato dal martirio è andata acquistando contorni ben definiti, estendendosi il terreno della sua ricchezza morale, politica e intellettuale in un'ampiezza che va oltre il ritratto agiografico che il lavoro storico dominato dalla passione politica tende a favorire. Oggi quel ritratto è più asciutto, ma più vero ed abbiamo l’immagine di un uomo che, sospinto dall’ideale riformista, quell’ideale ha cercato di incarnarlo negli scritti e nell’azione. Quando parliamo di Matteotti siamo forzati dalla tragedia della sua morte ad inserire la orgogliosa personalità in un'aurea di mito che ne offusca i contorni precisi, facendo, talora, dimenticare che Giacomo Matteotti era un uomo vissuto da uomo e morto da uomo. Alla politica indirizzò il suo interesse e la sua attività giovanissimo. Si iscrisse al Partito socialista, lui benestante, a 14 anni, attiratovi dalla viva sensibilità umana e dal fervido entusiasmo delle prospettive di rinnovamento dell'arretrata società contadina del suo Polesine, che agli inizi del secolo era afflitta da povertà estrema, con disoccupazione, analfabetismo e malattie carenziali a livelli oggi inimmaginabili. Organizzatore instancabile, ricco di fermenti e di idee, apostolo sempre a fianco dei poveri e degli sfruttati, fu il fondatore e animatore di una rete capillare di Camere del lavoro, di cooperative, di circoli socialisti nella sua provincia. Attivissimo e combattivo consigliere comunale e provinciale traeva rapidamente prestigio nel partito a livello nazionale, dalla sua attività pubblicistica e dalla profonda conoscenza, scientificamente maturata, di problemi amministrativi e scolastici. Nel '22 divenne segretario del Partito Socialista Unitario al quale si dedicò con abnegazione affrontando lucidamente e

con competenza tecnica i grandi problemi del Paese in quegli anni travagliati. Particolarmente coraggioso, intuì quel grave pericolo dell'ascesa fascista, non esitò a combattere il partito di Mussolini a viso aperto, in Parlamento e nelle piazze, affrontando dimostrazioni ostili e violenze, la dialettica degli squadristi, con animo indomito e senza tentennamenti. La sua morte maturò nel clima elettorale del '24. In campo fascista i fanatici che volevano lo Stato strumento della rivoluzione si trovavano contrapposti ai revisionisti che volevano il disarmo delle squadracce e l'abbandono della violenza, cioè rendere lo Stato progressista e democratico, con liste allargate alle persone capaci e competenti, anche d'altra fede politica. Le opposizioni non seppero che proporre l'astensione dalle elezioni, preludio dell'Aventino, per mettere Mussolini di fronte a una disfatta morale. Matteotti, temperamento battagliero (i suoi compagni lo chiamavano "Tempesta"), combatté l'astensionismo che considerava un incoraggiamento alla non scesa in campo. La sua uccisione fu la conseguenza di un comportamento ispirato alla costanza con cui gestiva la sua missione politica e al martellamento degli interventi contro il fascismo dilagante. La sua azione non aveva tregua. Egli rappresentava quella categoria di politici che dedicavano la propria vita a individuare i problemi del Paese e a indicarne le soluzioni. L’impressione che si ricava dalla lettura e dall’analisi dei discorsi parlamentari di Matteotti è prima di tutto quella di una mole imponente di attività. Appare perciò del tutto convincente l'immagine che di Matteotti ha tracciato Oddino Morgari su “Rinascita socialista” (Parigi, 1-15 Maggio 1930): ... «Era un analizzatore ed un documentatore: specie rara in Italia, ... Passava ore ed ore nella biblioteca della Camera a sfogliare libri, relazioni, statistiche, da cui

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Angelo G. Sabatini

attingeva i dati che gli occorrevano per lottare, con la parola e con la penna, badando a restare sempre «fondato sulle cose». Credeva che il fare così fosse un debito di probità intellettuale verso se stesso, il nemico ed anche verso le masse, le quali hanno diritto di pretendere che i loro condottieri non le illudano, ciò che è poi un modo di tradirle, anche se involontario... Era un lavoratore instancabile onnipresente... Compulsava e sforbiciava libri, giornali, pubblicazioni ufficiali per ricavare il materiale da far servire alla lotta; scriveva lettere ed articoli, correggeva bozze di stampa. Diramava circolari; accorreva nascostamente nei luoghi dove più imperversava il fascismo; alla Camera parlava in riunioni, in commissioni e nell'aula...». In Parlamento si impose dunque subito: forse ancor più che ai compagni, agli avversari al Governo. I suoi discorsi erano sempre ascoltati e suscitavano contrasti e polemiche. Nelle questioni di finanza, di economia, di politica interna il suo impegno sembrava operare all'interno dello stato «borghese» liberale, perché la gestione della cosa pubblica fosse ispirata da criteri di rettitudine, di efficienza, di tutela dell'interesse della collettività contro gli assalti avidi dei gruppi privati. Ma, in mezzo alle argomentazioni rigorosamente logiche e documentate fondate sullo studio e sulla padronanza della materia trattata, viene sempre allo scoperto l'animo del socialista, il senso profondo della lotta di classe, la sollecitudine, l'amore per le masse, per i contadini nel suo Polesine, il grido di ribellione contro la sopraffazione e l'ingiustizia. Ma il ritratto di un Matteotti più pragmatico che ideologo, grazie proprio agli approfondimenti e alle analisi degli orientamenti critici degli ultimi anni, si è arricchito di spessore e di consistenza. Nella storia della democrazia italiana e del socialismo riformista, nel bene e nel male, Matteotti si colloca come un

preciso riferimento: per il socialismo rappresenta l'assertore costante, anche se a volte con qualche oscurità, della linea riformista; una collocazione che non abbandonerà mai, anche quando alcune situazioni particolari (per esempio l'esplodere della esasperazione delle masse popolari nell'immediato conflitto mondiale) lo avrebbero spinto in tale direzione. Per la democrazia italiana ha rappresentato di fatto, per una specie di felice paradosso, il punto critico del valore delle istituzioni democratiche. Queste sopportavano l'attacco maggiore in coincidenza con la morte di Matteotti; ma questo atto decisivo era anche l'emergere di un riferimento ideale insopprimibile. Entro il peso e la scorza di una realtà repressiva che mortificava le istituzioni democratiche quell'evento circolò come una tacita maledizione nel cuore del fascismo e come una implicita forza morale in quanti nell'esilio e in patria attendevano l'ora della ripresa. La morte di Matteotti diede vigore interiore a molti che la prepotenza del fascismo andava fiaccando. Si comprende, allora, la verità contenuta nelle affermazioni più volte riportate dagli studiosi di Matteotti, che furono di Roberto Bracco: «Il suo martirio ha salvato l'Italia», e di Michele Saponaro: «La morte di un uomo che restituirà la vita spirituale ad una nazione». Al di là dello spirito misticheggiante e forse retorico di tali affermazioni c'è la verità della fede in un valore supremo. Ricordare Matteotti oggi serve non solo per capire la statura politica del personaggio, ma anche per fornire incitamento a coloro che ancora credono al riformismo come ad una formula di corretta organizzazione e di soddisfazione dei bisogni e dei diritti umani. Cosa possiamo oggi fare perché la memoria di questo grande antifascista non venga offuscata o offesa da atti poco nobili, come quello di volergli togliere il nome da una piazza?

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Commemorazione di Giacomo Matteotti

A noi spetta il dovere di intendere appieno il significato politico della partecipazione di Matteotti alle vicende del movimento socialista e dei suoi contributi alla vita e ai problemi del nostro paese. Perciò noi dobbiamo restituire alla sua figura di combattente per la democrazia la dimensione storica che gli compete, facendo convergere il nostro sentimento di venerazione verso una puntuale ricostruzione del suo pensiero e delle sue azioni politiche. Ciò servirà a diffondere lo spirito etico della politica e il peso che lui ha avuto, in sede politica, nell’identificare lucidamente la natura reale del fascismo. Se si pensa a quale triste condizione di crisi ideale la politica oggi versa guardare a Matteotti può significare la ripresa di un impegno forte verso la costruzione di una società autenticamente democratica. L’entusiasmo con cui oggi in questa sala della Camera dei deputati lo stiamo ricordando è il segnale di una disposizione palese in molti di noi a ricercare esempi nobili di uomini che agendo in Parlamento per la libertà e la democrazia hanno affrontato difficoltà e persecuzioni fino al martirio. E Matteotti è il capostipite di un gruppo molto ampio di coloro che offrendo la propria vita hanno contribuito a fare dell’Italia un Paese moderno e civile. Ad essi va la riconoscenza di tutti coloro che alla barbarie della dittatura preferiscono il progresso della civiltà nella libertà. Italo Arcuri Vicesindaco di Riano Flaminio Autore del libro Il corpo di Matteotti

Il corpo di Giacomo Matteotti fu rinvenuto il 16 agosto 1924, dopo sessantasei giorni dal rapimento e dall’assassinio, in una boscaglia in località Quartarella, nel Comune di Riano. Riano, che è a circa 25 Km dal posto in cui ci troviamo in questo momento, è oggi un paese di oltre 10mila abitanti.

All’epoca dei fatti contava poco meno di mille residenti. Il sottoscritto, una decina di anni fa, vi si è trasferito per sfuggire al caos quotidiano della vita cittadina. Di Riano ora sono attualmente amministratore. Ricopro, esattamente da due anni, il ruolo di Vicesindaco con delega alla Cultura. Il primo giorno del mio insediamento ufficiale in Comune mi sono recato presso l’Ufficio Anagrafe per visionare il Registro degli Atti di morte relativi al 1924. Lì ho trovato l’annotazione, scritta in elegante e burocratica grafia, dall’allora Sindaco di Riano, Italo Graziano, in cui si notificava ufficialmente l’avvenuto ritrovamento del corpo di Matteotti. Mi sono subito accorto che l’annotazione del Sindaco però conteneva due errori materiali: il primo relativamente al mese di nascita di Giacomo Matteotti (era erroneamente indicato “giugno” 1885 invece di maggio) e il secondo relativamente al cognome della madre di Matteotti, Isabella Garzarolo, che nell’Atto in questione veniva invece scritto con la “a” finale. Insieme all’impiegata dell’Anagrafe del Comune, mi sono immediatamente messo a cercare se esistevano “toppe” o documenti riparatori a quegli errori e ho scovato il certificato di una “sentenza di rettificazione” emessa dal Tribunale Civile e Penale di Roma, deliberata nella Camera del Consiglio del 12 ottobre 1925 (vale a dire quattordici mesi dopo il rinvenimento del corpo di Matteotti) che, su carta intestata Vittorio Emanuele III, ordinava al Sindaco di Riano di riparare a quei due errori. Molto probabilmente l’iter della sentenza di correzione fu fatto partire dalla moglie di Giacomo Matteotti, la signora Velia Titta Ruffo. E fu fatto partire per onorare degnamente la figura del marito e per non mancare ulteriormente di rispetto alla madre di Giacomo Matteotti, che, all’epoca dei

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Italo Arcuri

fatti aveva 74 anni e che fino a quel momento aveva già patito le pene dell’inferno, avendo perso sei figli, alcuni addirittura in tenerissima età, e il marito. Una donna “priva di cultura ma di fortissimo carattere e di grande acume per gli affari”. Una donna che, quattro giorni dopo il rapimento e l’assassinio di suo figlio Giacomo, come dimostrano i resoconti giornalistici dell’epoca, si dichiarava “pronta a versare qualunque somma, a spendere magari l’intero patrimonio, pur di riaverlo”. Da qui sono partito per la mia ricerca e per la stesura del mio libro, che vuole sfidare l’oblio e il silenzio, vuole infondere un piccolo balsamo contro la malattia civile che tende a far scomparire qualunque traccia della nostra memoria storica. Il titolo Il corpo di Matteotti altro non è che un omaggio ad un personaggio che, ancora oggi, a distanza di 89 anni, sprigiona una carica ideale incredibile e suscita emozioni, entusiasmi e turbamenti. E lo fa ancora di più da morto, da eroe e da martire. Quando Benito Mussolini decise che era ora di farla finita con Matteotti, in verità, lui pensava di cancellarne ogni traccia. Per i fascisti, il simbolo da distruggere era il corpo di Matteotti. Tutto, ma proprio tutto, secondo Mussolini, doveva portare alla “dematteizzazione” della società italiana. La cosa, per paradosso, non gli riuscì e la figura di Matteotti lo ha continuato a perseguitare anche dopo la morte. A conferma di questa testi basti notare che, dal giorno del ritrovamento del corpo e fino agli inizi del 1927, presso la Macchia della Quartarella di Riano – per volere espresso di Mussolini – è stato attivo un servizio di piantonamento dei militi dell’Arma onde evitare che diventasse luogo di raccolta di fiori e di croci prima, e meta di celebrazioni antifasciste poi, come in effetti stava già accadendo. Il mio lavoro, quindi, è anche una lotta contro noi stessi, perché l’ignoranza non

prenda il sopravvento e la perdita di contatto con il passato non diventi una costante della nostra già abulica civiltà. E’ anche il modesto tentativo di rispondere alla provocatoria e retorica domanda di Roberto Farinacci, il gerarca fascista, il fautore principale del manganello e dell’olio di ricino, che, dopo il delitto, sul giornale “Cremona Nuova” scrisse: “Che fare dunque? Continuare a parlare di Matteotti?”. Il ritrovamento del corpo, dunque. Sabato 16 agosto 1924. Alle ore 9 di mattina quel che rimaneva di Giacomo Matteotti fu ritrovato in una cavità angusta e poco profonda, dentro la Macchia della Quartarella. “Un metro e venti di lunghezza massima, 45 centimetri di profondità, da 40 a 70 cm di larghezza”, scavata dagli assassini “a forma di uovo, orizzontalmente”. Secondo le ricostruzioni giornalistiche del tempo, e secondo la vulgata mediatica più in voga, il corpo di Matteotti venne ritrovato casualmente da un cane - dal nome “Trapani” (visto che ci sono anche degli studenti qui con noi oggi, e che sicuramente conoscono Roberto Saviano, perché è uno degli scrittori contemporanei forse più noti al mondo, voglio far presente loro che persino Saviano, nel suo ultimo libro, dal titolo Zero, Zero, Zero, che è un’inchiesta intorno al mondo della cocaina, a pagina 404 del suo libro, nel capitolo dedicato ai fiuti dei cani anti-droga, in modo enfatico, ricorda il cane del brigadiere e parla del corpo di Giacomo Matteotti) di proprietà di un brigadiere dei carabinieri, Ovidio Caratelli. Ovidio era il figlio di Vincenzo, uno dei guardiani della tenuta del Principe Boncompagni Ludovisi, che era il proprietario di tutti i terreni di Riano. Attenzione: Boncompagni Ludovisi era anche un senatore del Regno d’Italia molto vicino al fascismo. Il cadavere di Matteotti fu rinvenuto completamente denudato, con dei lembi di carne ancora aderenti alle gambe. Il resto non era più che uno scheletro. Il

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Commemorazione di Giacomo Matteotti

cranio del tutto spolpato. Il corpo era piegato violentemente in due, i piedi del deputato socialista si trovavano nei pressi della testa. Pensate, in buona sostanza, ad un cartone di pizza da asporto piegato in due prima di essere gettato nel cestino… Fu, dunque, davvero il cane Trapani e il brigadiere a trovare il corpo? La verità secondo ciò che ho avuto modo di leggere, vedere e capire in questi due anni di personale ricerca, in cui ho letto, visto e interpretato tutto ciò che era possibile, è che il ritrovamento del corpo fu un’operazione “pilotata”. L’opinione pubblica chiedeva sempre più notizie, l’attenzione dei giornali, quelli non chiaramente asserviti al fascismo, era sempre alta e vigile, e gli occhi internazionali guardavano a ciò che stava succedendo in Italia con molta preoccupazione. Il fatto che il ritrovamento del corpo, inoltre, sia avvenuto il giorno dopo più festivo dell’anno la dice lunga… Il Parlamento era chiuso, tutti gli italiani erano in vacanza e anche i giornali quel giorno non uscivano in edicola… Se a tutto questo – ossia: il brigadiere, il Principe, il ferragosto… - aggiungiamo il fatto che, quattro giorni prima del ritrovamento, vale a dire il 12 agosto 1924, al 18° Km della via Flaminia, sotto un ponticello stradale, fu ritrovata la giacca, in tessuto cheviot, tutta crivellata di colpi, di Giacomo Matteotti, allora possiamo concludere che la causalità nel ritrovamento del corpo di Matteotti c’entra davvero poco. Modestamente, io stesso, nel mio libro pubblico a pagina 82 un intero articolo dato alle stampe sul quotidiano “L’Epoca”, datato 26 agosto 1924, diretto da Tullio Giordana – dal titolo eloquente “La fossa, il complice e il mistero” – che più di ogni altro mette in mostra le lacune, i difetti e le contraddizioni degli interrogatori e dei racconti dei protagonisti sui misteri, i silenzi, gli equivoci e l’omertà attorno al corpo ritrovato. Pensate che “L’Epoca”,

nel 1925, proprio per le posizioni scomode assunte sul caso Matteotti, venne chiuso dal regime senza se e senza ma. L’articolo de “L’Epoca” riportava la testimonianza di un cittadino – il teste R. – secondo cui di tanto in tanto qualcuno, da Roma o non si sa dove, “andava a coprire la fossa in cui le ossa erano mosse di notte dalle bestie da preda”. Il racconto rimase, ahimè!, solo la narrazione di un cittadino a cui non è stato dato credito alcuno da parte degli investigatori. La censura della stampa, che da lì a poco Mussolini avrebbe decretato, fece il resto, impedendo che il ferro della verità venisse battuto mentre era ancora caldo il sentimento dell’indignazione popolare. Sulla scia di quest’articolo de “L’Epoca”, chi di dovere non si è mosso, non ha sondato, non ha fatto ricerche e tralasciando, volutamente, la cosa, ha finito con il sotterrare per la seconda volta il corpo di Matteotti. Giacomo Matteotti rimase a Riano, nel piccolo cimitero del paese trasformato in camera mortuaria, tre notti e quattro giorni, fino a quando il 19 agosto 1924, alle ore 15, del tutto inaspettatamente, fu trasportato a Monterotondo e da lì caricato sul vagone ferroviario del treno “Triestino”, partito da Roma e fatto fermare lì per l’occasione. Sul luogo del ritrovamento del corpo esiste ora un Monumento in suo ricordo. Monumento che lo scorso anno, come Amministrazione abbiamo fatto restaurare e illuminare. Per chi oggi ha modo di percorrere la Via Flaminia, anche di notte, quindi, quel luogo sprigiona luce e infonde chiarezza. Quella chiarezza che, scusate se attualizzo troppo, dovrebbe espandersi oggigiorno con sempre maggiore più forza ed energia su tutto il mondo civile, politico e sociale del nostro Paese, che sta attraversando uno dei momenti più bui della storia della Repubblica. In queste ultime settimane ho avuto modo di incontrare tanti giovani studenti. Sono stato in alcune scuole

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Italo Arcuri

della provincia di Roma a parlare di Giacomo Matteotti, a presentare il libro e devo dire che l’attenzione verso questo personaggio in molti di loro è ancora viva… Sarà il racconto dei genitori. Sarà sicuramente la bravura del corpo insegnante italiano… Sarà tutto questo e altro ancora ma sono certo che tutto dipende dalla nostra volontà, e parlo degli insegnanti, parlo degli amministratori, parlo dei politici, parlo

mamma di uno studente di scuola media e mi ha detto che suo figlio, nella sua stanzetta, ora, dopo aver sentito parlare di Giacomo Matteotti, accanto al poster di Che Guevara ha appeso al muro, la foto ingrandita, in rigoroso bianco e nero, di Matteotti seduto allo scranno del Parlamento… Un semplice gesto che riempie però il cuore e la mente di speranza. Chiudo facendo parlare Giacomo

dei giornalisti, parlo degli storici e degli accademici di professione, di continuare a raccontare la storia d’Italia per quella che è. L’attualità di quella storia è più che mai presente. A tal proposito, e vado a concludere, vi voglio raccontare un piccolo aneddoto, proprio per far capire come la capacità rievocativa di quei fatti relativi a Matteotti sprigioni anche nei giovani più disincantati e distratti qualcosa di positivo: giorni fa mi ha telefonato la

Matteotti. Vi leggerò il breve passo di una lettera scritta dal deputato socialista alla moglie il 6 aprile del 1928. Ve la leggo per far capire quanto l’insegnamento, il monito e il messaggio di Giacomo Matteotti sia ancora estremamente attuale. “Ognuno vedendo da vicino le cose del proprio tempo, le crede le più grandi, le più decisive della storia; la quale invece va ad assai piccoli passi, e spesso ritorna anche indietro”.

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LE MASCHERE DELL’ARTE

La 55ma Biennale di Venezia Teresa Emanuele

Durante la settimana inaugurale, la 55ma Biennale di Venezia appare ancora una volta sconfinata, troppo ampia, straripante di persone, oggetti, visioni, proposte ed idee, tutte così diverse fra loro che credo risulti difficile, agli occhi dell’osservatore distratto e mondano, riscontrare una qualsiasi coerenza visuale e comunicativa nella vastità dei contenuti proposti. Fin dal suo esordio nel 1895, la Biennale di Venezia aspira a fornire una dettagliata overview su ciò che accade nel mondo dell’arte contemporanea. La Biennale rappresenta inoltre una vera e propria piattaforma per le nuove tendenze artistiche che qui, come mai altrove, si confrontano e si influenzano vicendevolmente. Dal dopoguerra ad oggi, la Biennale di Venezia ha rivelato in anteprima grandi stagioni artistiche quali l’Espressionismo, la Pop Art, l’Arte Concettuale o il gruppo degli Young British Artist. Quest’anno l’apparente incoerenza e confusione contenutistica non sembra fornire i presupposti per asserire che la 55ma Biennale di Venezia rappresenti il lancio di una nuova e significativa corrente artistica della portata di quelle poc’anzi menzionate; non si respira aria di “manifesto” del nuovo contemporaneo. L’individualismo creativo che da anni permea la scena artistica è tuttora presente; gli artisti scelgono ognuno il proprio mezzo comunicativo, il più possibile dissimile da quello altrui, per esprimere la propria ispirazione. Tuttavia i vari padiglioni nazionali, nella lunga promenade fra i Giardini e l’Arsenale, sembrano coerentemente impregnati di una spiccata e coesa poetica riflessiva.

E la riflessione quest’anno, ancor più delle precedenti edizioni, sembra essere orientata non solamente allo “stato attuale dell’arte”, ma anche allo “stato attuale della storia dell’uomo”. Sempre più numerosi sono infatti le istallazioni video rappresentative della crisi finanziaria, o di situazioni di estrema indigenza e dolore; frequenti anche i documentari incentrati sul tema della disoccupazione, e ancora riferimenti ai temi dell’immigrazione clandestina e alla sue drammatiche conseguenze. Le opere che trattano il delicato e scottante tema della guerra (come quelle di Richard Mosse che, nel padiglione irlandese, reinterpreta paesaggi incantati attraverso i brutali e sanguinosi occhi della guerra; o come l’istallazione di Vadim Zacharom, per anni rimasto al buio di un sottoscala moscovita, che rompe il silenzio con un’esplicita e poetica protesta contro il regime di Putin) alternano alla presa di coscienza e allo spirito di denuncia un ineludibile aspetto documentaristico e demagogico. Non scevri da riferimenti didatticoambientalisti risultano alcune istallazioni incentrate sul dramma del global warming e le sue ripercussioni sul futuro del pianeta. In timing perfetto con il prossimo collaudo del MOSE, il contestato sistema di dighe mobili che dovrebbe innalzarsi e creare una barriera per proteggere Venezia dall’acqua alta, previsto per il prossimo autunno. Appare quindi chiaro che l’arte visuale si faccia oggi portavoce del malessere globale, e che gli artisti si sentano in dovere – o sentano l’esigenza – di denunciare la propria indignazione ed il

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Teresa Emanuele

proprio dolore relativamente a tematiche di grande attualità. Si potrebbe obiettare che raccontare o reinterpretare scottanti temi di cronaca non sia necessariamente sintomo di umanità o un’esigenza di denuncia, bensì una strumentalizzazione dei drammi di questo mondo – e dell’era che stiamo vivendo, “trasfigurata in arte”. Pur condividendo la critica alla mera strumentalizzazione della sofferenza per finalità emotivo-divulgative, non posso ignorare che l’analisi in chiave artistica e creativa di questi fenomeni rappresenti un linguaggio comune e condiviso anche dalle culture più lontane. In qualche modo la recessione ha risvegliato ad ampio raggio la sensibilità verso i valori di un tempo. Quello che fino allo scorso decennio si limitava ad essere un sociale interrogarsi sui temi di attualità, appare oggi come un atteggiamento privilegiato di chi ha i mezzi per trattare temi socio-politici attraverso il raffinato strumento dell’estetica. Inoltre, la crisi sembra aver ridimensionato le follie megalomani di alcuni artisti show-off, per lasciare il passo, in questi tempi di spending review, ad un piacevolissimo ritorno alla tecnica e alla manifattura. Dove il messaggio non è globale, ecco che i vari padiglioni assumono la loro connotazione più prettamente nazionalista. Se questa connotazione appare sfumata rispetto ai ricordi del passato, essa riemerge attraverso l’interessante esordio di ben 10 (su 88 partecipanti) nuove nazioni nella lista dei padiglioni nazionali, fra cui Città del Vaticano. Il Padiglione Italia, pur non incentrando la propria tematica su

questo spirito di denuncia visuale, rappresenta in chiave contemporanea le difficoltà del momento e la profonda crisi che tanto efferatamente ha colpito il nostro modo dell’arte attraverso l’innovativa via del crowd-funding, suggerita del curatore Bartolomeo Pietromarchi: una sottile denuncia alla scarsità (per non dire inesistenza) di fondi per rappresentare la nostra arte alla nostra Biennale. La mostra centrale della Biennale, curata da Massimiliano Gioni ed intitolata Il Palazzo Enciclopedico, traccia un percorso espositivo che si articola dai Giardini fino all’Arsenale, includendo oltre 150 artisti da 38 paesi. Ispirata al progetto di Marino Auriti del 1955 per un museo a 136 piani, ideato per ospitare tutto il sapere dell’umanità (dalla ruota al satellite), la mostra affronta lo studio del visuale con un approccio antropologico, incentrandosi sul regno dell’immaginario e sulle funzioni dell’immaginazione, in un’era in cui più nulla, o quasi, è lasciato alla stessa. Riceve il Leone d’Oro come migliore artista (l’equivalente della statuette degli oscar per il mondo dell’arte) l’inglese Tino Sehgal per un progetto teatrale e performativo, parte del percorso espositivo del Palazzo Enciclopedico, in cui un piccolo gruppo di persone, muovendosi sul pavimento, canticchia emettendo suoni senza significato e battendo il tempo. Lascia di che riflettere che la giuria scelga di premiare "per l’eccellenza e per lo spirito innovativo che l’artista ha apportato nel campo delle discipline artistiche” ad un’opera effimera poiché priva di forma fisica.

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Sfidare il limite

Dicibilità, pensabilità e parabola trasgressiva in M. Foucault Viviana Meschesi

La crisi del logos e la "scoperta" dell'incommensurabilità della coppia di termini pensabilità/dicibilità, che apre una insanabile frattura nel pensiero epistemico, è stata oggetto di molti ed interessanti dibattiti di filosofia contemporanea, che si accompagnano alla più ampia riflessione sulla dimensione della trasgressione, considerata da molti conditio sine qua non del soggetto contemporaneo, da altri ricusato in favore di diversi orizzonti. Abbiamo allora deciso di riflettere in maniera emblematica e problematica sulle posizioni di Michel Foucault sull'argomento, poiché ci sembra una sicura via di problematizzazione e tematizzazione di nodi teoretici che hanno altresì ricevuto - e continuano a ricevere - i più disparati contributi. Cercare di comprendere i motivi e gli interrogativi suscitati dal filosofo francese, soprattutto in relazione al tema del "limite" e della "trasgressione", inseriti in un'ampia prospettiva di possibilità di senso, permette di cogliere - a nostro avviso - una delle peculiarità del contemporaneo, oggetto attualmente di numerose operazioni non solo filosofiche. In questo breve scritto, che non ha naturalmente pretese esaustive ma più che altro suggestive di ulteriori approfondimenti, cercheremo di tracciare, nella riflessione foucaultiana, la coaugulazione della tematica relativa a pensare il limite in maniera non trasgressiva, laddove per trasgressione, in senso stretto, si intende quel movimento di "glorificazione del limite", che trova cioè la sua densità nel contatto

e dunque in un'inevitabile dialettica col limite stesso. Partendo dal soggetto, continuamente "esposto" al movimento dissolutivo. Tale affermazione è solo apparentemente, a nostro avviso, in contraddizione con una certa lettura della riflessione foucaultiana. E' noto, infatti, come Foucault abbia dedicato diverse pagine della sua opera al concetto di trasgressione, in particolar modo legato alla dimensione della sessualità (andando a convergere nel progetto incompiuto di uno studio ad essa dedicato), ma un'attenta lettura permette l'emersione di una vera e propria parabola di tale concetto, che arriverà ad un suo esaurimento in favore dell'esperienza del dehors, resa possibile da una radicale messa in discussione del soggetto, così come è stato mutuato dalla tradizione filosofica. La trasgressione, che dopo un'attenta analisi, viene considerata troppo collusa col limite e dunque nella necessità del "ritorno" ad una pensabilità e dunque ad "una" ragione da Foucault smascherata nei suoi meccanismi di potere, subisce una vera e propria riformulazione, per così dire, "performativa" nella letteratura stessa: nel suo "dire" infatti la letteratura, a differenza della filosofia che conduce al limite della funzione dicibilità-pensabilità (e che ritrova parola esclusivamente in una teologia negativa), "mette in atto" la trasgressione che dunque trova migliore definizione in "esperienza" del fuori. In tale esperienza il soggetto si scopre dissoluto e allo stesso tempo "dicibile" in una caleidoscopica molteplicità senza reductio ad unum.

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Viviana Meschesi

Preferendo di gran lunga la problematizzazione della posizione di Foucault1, e in ciò condividendo in pieno la riflessione di Blanchot, che vede tale punto di vista troppo facilmente interpretato come esclusivamente diffidente nei confronti di ciò che egli chiama "volontà di verità"2 , vorremmo delineare un asse di corrispondenza tra le posizioni più mature del Nostro, in cui emerge una declinazione più autonoma di soggettività attraverso la "cura di sé", e l'idea di modificazione della soggettività (è lo stesso Foucault ad avvertirci che "il soggetto costituisce il tema generale delle mie ricerche"3) - non più legata al mito dell'interiorità - che giunge al limite, schiudendo una rinnovata funzione di quest'ultimo in rapporto al il suo "doveroso" superamento. La filosofia in questo gioca un ruolo fondamentale. Proprio ne L’ermeneutica del soggetto4, Foucault le concede una interessante definizione Proviamo, insomma, a definire la filosofia la forma di pensiero che si interroga su ciò che permette al soggetto di avere accesso alla verità, la forma di pensiero che cerca di determinare le condizioni e i limiti entro cui può avvenire l’accesso del soggetto alla verità. 5 Dunque non una filosofia che si interroghi su quel che è vero e quel che è falso, ma che si orienti alle “condizioni” e alle conseguenti “modificazioni” che il soggetto deve operare su se stesso per avere accesso al vero. Foucault definisce poi in modo specifico tali modificazioni, o meglio tutte quelle pratiche atte alla realizzazione di tali trasformazioni soggettive, come “spiritualità”6 . Egli è molto chiaro nel definire un vero e proprio "prezzo da pagare" la modificazione del soggetto, da una dimensione per così dire conchiusa nell'atto conoscitivo (dimensione per altro "naturale" ed in quanto tale incompatibile con la verità) ad una di apertura alla Differenza. Una Differenza im-pensabile e allo stesso tempo dicibile, dove nel limite epistemologico il soggetto si modifica attraverso un lungo lavoro, nella polarità

incommensurabile - poiché non più sorretta dall'equazione dell'episteme- tra dire e pensare. Il soggetto padrone del linguaggio viene "spossessato", divenendo prodotto della funzione enunciativa. Allo stesso tempo, attraverso questo lavoro su di sé Foucault parlerà in questo frangente della funzione della "meditazione" - il soggetto si scoprirà nomade per via dell'effetto stesso degli eventi discorsivi che si producono7. Cosa significa e quali conseguenze per tale operazione, nella sfida di un confine non oltrepassato e allo stesso tempo di una chiara percezione di essere in un non-luogo, terra di mezzo, dove chi esce dai suoi confini non vi ritorna? Foucault giungerà alle estreme conseguenze. Dopo una lunga parabola, come vedremo più avanti, dedicata al concetto di trasgressione, il filosofo arriverà alla conclusione che non può darsi un genuino movimento sistema-trasgressione-sistema-trasgressione8 se non a patto di una sorta di teologia negativa, nell'impensabilità della Differenza seppur paradossalmente dicibile. Il Nostro ce ne offre un esempio mirabile ne Le parole e le cose9: riprendendo a sua volta Borges, Foucault ci svela il nucleo ispirativo del suo capolavoro: Questo libro nasce da un testo di Borges: dal riso che la sua lettura provoca, scombussolando tutte le familiarità del pensiero-del nostro cioè: di quello che ha la nostra età e la nostra geografia- sconvolgendo tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglìo degli esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro. Questo testo menziona “una certa enciclopedia cinese” in cui sta scritto che “gli animali si dividono in: a) appar-tenenti all’ Imperatore; b) imbalsamati; c) addomesticati; d) maialini da latte; e) sirene; f) favolosi; g) cani in libertà; h) inclusi nella presente classificazione; i) che si agitano follemente; j) innumerevoli; k) disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello; l) et cetera; m) che fanno l’amore; n) che da lontano sembrano mosche”.

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Sfidare il limite. Dicibilità, pensabilità e parabola trasgressiva in M. Foucault

Commenta Foucault: Nello stupore di questa tassonomia ciò che balza subito alla mente, cioè che, col favore dell’apologo, ci viene indicato come il fascino esotico di un altro pensiero (non occidentale), è il limite del nostro, l’impossibilità pura e semplice di pensare tutto questo10. Sebbene questa comunicazione si presenti sotto la forma adeguata ed ortodossa dell’elenco rigoroso, rispettando cioè le regole del dire, il meccanismo paradossale che presiede a tale enumerazione rende impossibile ogni capacità di sistematizzazione intesa come reductio ad unum11. Il dire e il pensare sembrano dunque dissociati e

cosa significhi in questa dimensione la trasgressione. Per Foucault tale concetto, preso a prestito dal vocabolario di Battaille e che rimanda a Nietzsche, Blanchot e Klossowski, subisce - come sopra accennato - una vera e propria parabola. Foucault le dedica un saggio, Preface à la trasgression, nel 1963, designandola come possibile sostituta di ciò che è la “contraddizione” per il pensiero dialettico12 e diviene originaria di un linguaggio altro - ancora non formato - ma promettente malgrado tanti segni sparsi, è quasi tutto da far nascere il linguaggio in cui la trasgressione troverà il proprio spazio13.

l’episteme colpita da una ferita inguaribile. Il classico tema del pensare dopo il grido d'allarme dell'indebolimento del logos, voragine ab-soluta, che ci pone davanti la domanda di come pensare, di come narrare, non avendo a disposizione che un vocabolario al di qua del limen, motiva il noto rovesciamento foucaultiano dell’adeguatio del linguaggio all’oggetto in favore della piena autonomia dell’oggetto che ha come conseguenza il tentativo destruens del significante epistemico. Ecco allora che tale "dire impensabile" ci conduce direttamente al nodo della nostra domanda, verso una riflessione su

La "denaturalizzazione"14 della sessualità, operata dal moderno, non ha liberato quest'ultima, ma l'ha piuttosto condotta "al limite della nostra conoscenza e della legge e del linguaggio”, designando "la linea di schiuma di ciò che il proibito può appena appena raggiungere sulla sabbia del silenzio"15; la sessualità è per il Nostro piuttosto una scissione "non già intorno a noi per isolarci e designarci, ma per tracciare in noi stessi il limite e per designare noi stessi come limite"16. Si staglia così la prima concrezione filosofica del limite e dell'impossibile perchè la trasgressione diviene il modus in

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grado di ricostituire il sacro nella sua assenza, in un mondo dove "l'uomo è senza Dio"17. Ed è proprio questa assenza a portarci [...] fin dentro una notte dove Dio è assente e dove tutti i nostri gesti si rivolgono a questa stessa assenza in una profanazione che contemporaneamente la designa, la scongiura, si esaurisce in essa, e si trova ricondotta per mezzo suo alla propria purezza priva di trasgressione (c.n.).18 La morte di Dio, togliendo all'esistenza il limite dell'Illimitato, costringe il soggetto moderno all'impossibilità dell'esteriorità e dunque ad un ripiegamento che improvvisamente illumina, nell'interno, "il regno illimitato del Limite": la propria finitudine. Essa diviene l'esperienza dell'impossibile in un gesto che concerne il limite stesso attraverso la "singolare esperienza" della trasgressione. La trasgressione dunque è un gesto che "concerne" il limite, ed "è là, in questa sottigliezza della linea, che si manifesta il bagliore del suo passaggio"19. Ed è a questo punto che Foucault chiarifica il movimento di tale esperienza: la trasgressione supera e non cessa di ricominciare a superare una linea che, dietro ad essa, subito si richiude in un'ondata di poca memoria, recedendo così di nuovo fino all'orizzonte dell'insuperabile20. Il limite e la trasgressione devono l'uno all'altra la densità del loro essere. Essi si ritrovano indissolubilmente legati, pena una inesorabile de-sostanzializzazione. Cos'è d'altronde il limite al di fuori del gesto "glorioso" del suo attraversamento e negazione? E che sarebbe la trasgressione, d'altro canto, se non l'esaurimento che essa è nell'istante in cui oltrepassa il limite? Questo intrico, che garantisce esistenza alle parti, è positivamente definito come "tutto ciò che da tutte le parti lo supera"21 sotto il segno della violenza. Violento è il movimento del limite che apre all'illimitato, violenta è la trasgressione che porta il limite verso il limite del suo essere, rivolgendo a ciò che l'incatena il

suo tentativo di cancellazione. Giacché appare chiaro, a questo punto, che la trasgressione non sta al limite come il nero al bianco, Foucault utilizza la suggestiva metafora del "lampo nella notte" per dar voce a tale "avvolgimento"22 e per tentare di liberarla dalla dimensione del "negativo", in favore di un'affermazione dell'illimitato che lo apre per la prima volta all'esistenza. La trasgressione designa "l'essere della differenza" e forse la filosofia contemporanea ha già messo a tema l'idea di un'affermazione non positiva nella distinzione fatta da Kant tra nihil negativum e nihil privativum "che, come ben si sa, ha aperto la strada del pensiero critico"23. Nell'estraneità più siderale dunque a tutto ciò che possa ricondurre alla negazione del demoniaco, la trasgressione si apre piuttosto ad un'alleanza col divino, nel tentativo di indicare lo spazio dove quest'ultimo "si rappresenta"24. Foucault indica in ciò uno degli infiniti segni che dimostrano che il nostro cammino è una via di ritorno e che noi stiamo diventando ogni giorno più greci25. Seppure il Nostro si affretti a negare tuttavia che ciò vada inteso come la promessa di una terra d'origine nella piena lucidità del fatto che "nessun movimento dialettico, nessuna analisi del costituito e del suo fondamento trascendentale (Foucault concede a Kant il fatto di aver aperto la questione attraverso il discorso metafisico e la riflessione sui limiti della ragione, ma di averla poi bruscamente chiusa nella questione antropologica) può essere d'aiuto alla possibilità di pensare una simile esperienza"26, getta qui - a nostro avviso- le premesse che contribuiranno alla necessità del superamento del movimento trasgressivo stesso. L'idea levinasiana dell' "ebreo che deve parlare greco" che sancisce la necessità del ritorno nelle maglie della dialettica rende molto bene l'impasse esperita da Foucault nei confronti della trasgressione: a ben vedere, infatti, il

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movimento trasgressivo corre continuamente il rischio, che è nella sua stessa costituzione, di assorbimento in nuovi processi di costruzione di senso che tendono a chiuderla in "significato". Qual'è lo spazio di questo pensiero e quale linguaggio può dare a se stesso?27 Pensabilità e dicibilità necessitano di un nuovo orizzonte, non più sorretto dalle coordinate dialettiche. Ciò non significa tuttavia fine della filosofia, che naturalmente in tali coordinate ha costruito le sue possibilità di senso, ma fine della soggettività filosofica. In un linguaggio sdialettizato, nel cuore di ciò che esso dice, ma anche appunto alla radice della sua possibilità, il filosofo sa che "noi non siamo tutto": ma egli apprende che lui stesso, il filosofo, non abita la totalità del proprio linguaggio [...], egli scopre di avere accanto a sé un linguaggio che parla e di cui non è padrone. 28 Finita l'epoca dei commentari29 compito della filosofia diviene il porre attenzione allo scarto che si crea tra pensiero e linguaggio. Forse questo "progetto in rovina" troverà soddisfazione se si cercherà di "parlare di questa esperienza e di farla parlare all'interno stesso dell'insufficienza del suo linguaggio, precisamente là dove le parole le mancano, dove il soggetto che parla svanisce, dove lo spettacolo ondeggia dentro l'occhio stravolto”30 dove solo allora una diversa "esperienza" del limite potrà riempire il movimento trasgressivo incoraggiandolo ad un'uscita definitiva, senza ritorno, in un dire che interroghi "l'essere nudo del linguaggio", la sua "essenza bruta", nei modi e nei termini che Foucault presenta nel successivo saggio Il pensiero del di fuori 31 del 1966, non prima però di chiudere questa riflessione con un rimando che sarà la premessa e lo sviluppo del saggio successivo: il rimando è ai testi di Battaille, in particolare all'immagine dell'"occhio rovesciato", nella quale "egli (Battaille, n.d.a.) indica il momento in cui il linguaggio, arrivato ai suoi confini, fa irruzione fuori di se stesso [...] e rimane

così al limite di questo vuoto, parlando di se stesso in un linguaggio secondo dove l'assenza di un soggetto sovrano disegna il suo vuoto essenziale e frantuma senza tregua l'unità del discorso"32, possibilità verace di un linguaggio non dialettico della filosofia. Il linguaggio non più della trasgressione, ma del fuori, comincia a delineare i propri contorni. Foucault ravvisa dunque propriamente nella "letteratura" il luogo di questa esperienza, dove la dispersione si pone in contrasto col ritorno del segno su se stesso. Il soggetto della letteratura non è il linguaggio "nella propria positività"33 - così come era stato descritto nel saggio precedente il movimento trasgressivo quanto piuttosto il vuoto in cui esso si trova quando si mette a confronto con l'argomentazione epimenidiana34. L'evidenza dell'"io sono", forse consapevole del pericolo rappresentato dall'esperienza nuda del linguaggio, ha cercato l'elusione dell'incompatibilità tra dicibile e pensabile, che però ora si affaccia in aspetti assolutamente diversi della cultura: nello scrivere, nei tentativi di formalizzazione del linguaggio, nello studio dei miti e della psicanalisi, e soprattutto nel tentativo di conferire un differente statuto a quel logos "che costituisce come il luogo di nascita di tutta la ragione occidentale"35: [...] questo pensiero, in rapporto all'interiorità della nostra riflessione filosofica e in rapporto alla positività del nostro sapere, costituisce quel che si potrebbe chiamare in una parola "il pensiero del fuori"36. Oltre Battaille è ora Blanchot a "dare parola" a questa esperienza attraverso delle vere e proprie più-che-metafore di rosenzweighiana suggestione: la finzione37, l'attrazione38, la negligenza e lo zelo39. Ciò che è in gioco, nell'esperienza del fuori è l'incessante fluire del linguaggio, che nessuno parla, e che non si risolve in alcun silenzio. E' la nudità del desiderio di Sade, l'assenza degli dèi di Holderlin, lo smascheramento nietzscheano, il

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congedo dal linguaggio di Mallarmè, la violenza di Artaud, il doppio di Klossowski, la trasgressione di Battaille. Ecco che la trasgressione viene da Foucault di nuovo tematizzata, ma è evidente la sua diversa assunzione. Il Nostro, ribadendo l' "estrema difficoltà di conferire a questo pensiero [quello del fuori, n.d.a.] un linguaggio che gli sia fedele" giacchè "qualsiasi discorso puramente riflessivo rischia infatti di ricondurre l'esperienza del fuori alla dimensione dell'interiorità"40, tratteggia il movimento della trasgressione come movimento in relazione alla Legge, nel tentativo di evocarla nella punizione. Tentativo tuttavia in parte fallimentare se lo si interpreta nei termini di "potere" di attrazione al medesimo: La trasgressione può in tal modo accingersi a infrangere il divieto tentando di attrarre la legge fino a sè; ma di fatto essa si lascia sempre attrarre dal ritrarsi essenziale della legge; essa avanza ostinatamente nell'apertura di un'invisibilità di cui non trionfa mai.41 Le Sirene ed Euridice coaugulano questo movimento tendere l'orecchio verso la voce argentina delle sirene, girarsi verso il volto proibito che già si è nascosto, questo non significa solo trasgredire la legge per affrontare la morte [...] significa sentire d'un tratto crescere in sè il deserto all'altra estremità del quale [...] scintilla un linguaggio senza soggetto assegnabile, una legge senza Dio, [...] un volto senza occhi e senza espressione, un altro che è lo stesso42. La trasgressione è insufficiente in sé a render ragione di questa esperienza, può certamente aprire il movimento ma non può concluderlo, allo stesso modo della negazione dialettica che fa entrare "quel che si nega nell'interiorità inquieta dello spirito"43. Dove nessun movimento dialettico, nessuna analisi del costituito, nessuna possibilità di ascolto può aiutare a pensare od esperire l'alterità, la trasgressione entra in gioco per forzare la legge a rendersi visibile, provocandola o forzandola nei suoi trinceramenti, arrivando sempre più lontano verso il di fuori in cui essa è ritirata, rovesciandosi

nel contrario della punizione - visibilità della legge infranta - in un tentativo tuttavia per Foucault destinato a fallire nella glorificazione del limite stesso. L’ operazione di affaccio sul fuori, nella zona di frontiera indicata dalla Legge con tutta la sua capacità - così come è stata descritta dallo stesso Foucault in più parti della sua opera - di organizzazione della trasgressione stessa in “una tattica generale di assoggettamento”44 non può essere garantita nei modi e nei termini collusi con il ritorno all'interiorità. Emblematico, a tal proposito, è che Foucault ravvisi i prodromi del pensiero del fuori proprio in "quel pensiero mistico che, dopo i testi dello Pseudo-Dionigi, ha vagato ai confini del cristianesimo", mantenendosi "per circa un millennio sotto le forme di una teologia negativa"45 seppure con la riserva della constatazione di un movimento ancora di ritorno all'interiorità. Dalla trasgressione come affermazione non positiva del saggio del ‘63 si passa dunque alla messa a tema della negazione come possibilità di uscita senza ritorno. Negare il proprio discorso - dice Foucault ispirandosi ancora a Blanchot e alla sua produzione letteraria che vede tale negazione in atto - significa passare incessantemente al di fuori di sè lasciandolo dietro, nella libertà di un nuovo inizio. E’ lo stesso Blanchot a corroborare questo passaggio in un saggio in occasione della pubblicazione de Les lois de l’hospitalitè di Klossowski, proprio riferendosi a sua volta ad un saggio di Foucault nato per la medesima occasione46, affermando che “[…] da ciò derivano conseguenze infinite non solo per quanto riguarda l’enunciazione dei “problemi ultimi” [...] ma conseguenze che riguardano la nostra logica, nella quale il principio d’identità si trova tutt’a un tratto battuto in breccia, senza pertanto cedere il posto al non meno tranquillo principio dei contrari quale è invocato nella dialettica”47. Negativo è infatti per Blanchot non ciò che si oppone allo stesso, ma l’infinita distanza

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e lo scarto insensibile: Il divieto, in questo caso, non è più positivo, la cui trasgressione-come succederebbe nella logica hegeliana- sarebbe ancora necessaria per dar luogo alla negatività, che allora si accontenterebbe di ripristinare ad un livello superiore fino a raggiungere qualche assoluto definitivo; il divieto segna il punto dove il potere cessa ( e in questo punto, il primato dell’ego, come la logica dell’identità) mentre la trasgressione è l’esperienza di ciò che sfugge al potere, l’impossibile stesso.48 "Non riflessione, ma oblio; non contraddizione, ma contestazione che annulla; non riconciliazione, ma ripetizione"49. Se per Derrida, ma anche per Levinas, lo spazio non dialettico rimane presso l’unico linguaggio esistente e pensabile, quello epistemico, per sfidarlo nei suoi limiti e nelle sue potenzialità, per Foucault uscire dalla dialettica significa dunque distruggere il luogo occupato dal soggetto-filosofo e moltiplicare tanto i soggetti significativi che i soggetti implicati. Il soggetto non padrone del linguaggio si moltiplica e si declina come orizzontalità. Linguaggio che nessuno parla: ogni soggetto vi disegna unicamente una flessione grammaticale50. Foucault ripensa lo spazio della filosofia negandole ogni altezza e profondità, per cercare di ricollocare tale spazio nella superficie dei discorsi, dove la letteratura svolge un ruolo performativo ed emblematico di questa esperienza. Allora, in tale prospettiva, a nostro avviso, le domande si moltiplicano: cosa significa allora soggiornare sul limite, dove l’approssimarsi alla Differenza (che forse è lo Stesso), in una prospettiva non più trasgressiva ma declinata dal dehors, è incoraggiata da un linguaggio senza pensiero, da un dicibile impensabile? E in tale rottura epistemica senza ritorno dov’è il soggetto? E quale soggetto? Nel limite è il linguaggio, fattosi poi scrittura – dice Foucault- che per sfuggire alla morte duplica se stesso all’infinito, per lasciare traccia. Il filosofo

francese, nel saggio Il linguaggio all’infinito51 sottolinea che innanzitutto e a differenza dell’ideogramma che rappresenta immediatamente il significato, la scrittura alfabetica occidentale è già in se stessa una forma di duplicazione che ci rivela una scrittura che non significa la cosa, ma la parola, che come in un gioco di specchi, suscita il doppio del suo doppio “scoprendo” un infinito possibile ed impossibile”52, che mantenga la parola al di là della morte, o potremmo dire al di qua del limite. Foucault ci segnala la storia narrata da Borges “dello scrittore condannato a morte al quale Dio accorda, nell’istante stesso in cui lo si fucila, un anno di sopravvivenza per terminare l’opera cominciata; quest’ opera sospesa nella parentesi della morte è un dramma in cui per l’appunto tutto si ripete, la fine (che resta da scrivere), riprendendo parola per parola l’inizio (già scritto), ma in maniera da mostrare che il personaggio che si conosce e che parla dalle prime scene non è proprio lui, ma quello che si prende per lui”53. La rottura foucaultiana con la transitività ha mostrato chiaramente i suoi contorni, suscitando con forza la domanda - ineludibile a questo puntoinerente la soggettività che opera nel limite e nello spazio tra dire e pensare. Domanda aperta, in cui il soggetto “disperso” e fragile poiché eccedente ad ogni forma di individuazione scopre fecondità nel limite, laddove esso prende il posto del fondamento, e non si esime da una modificazione attraverso un lento e costante lavorìo nella costituzione di un "rapporto del sé con la verità"54 come il Foucault degli scritti più maturi non esita ad indicare.

CHALLENGING THE LIMIT Speakability, thinkability and trasgressive parabola in M. Foucault This short paper focuses on trying to trace, in Foucault's reflection, the coagulation of the issue related to think the limit in a not-

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transgressive way, whereas for transgression, in the strict sense, we intend the movement of "glorification of the limit," which finds its density in contact and therefore in an inevitable dialectic with the same limit. Starting from the subject, constantly "exposed" to the dissolutive movement. The crisis of the logos and the "discovery" of the incommensurability of the pair of terms thinkability/speakability, which opens an irreparable rift in the epistemic thought, was the subject of many interesting discussions of contemporary philosophy, that accompany the wider reflection on the measurement of transgression, considered by many scholars conditio sine qua non of the contemporary subject, declined by others in favour of different horizons. So we decided to reflect about a poignant and problematic Michel Foucault’s position on the subject, as there seems to be an interesting way of problematization and theming of theoretical nodes which have also received - and continue to receive - the most different contribu-tions. Trying to understand the reasons and the questions raised by the French philosopher, especially in relation with the theme of "limit" and "transgression", placed in a broader perspective of possibility of meaning, allows us to capture-in our opinion-one of the peculiarities of the contemporary, subject of several operations not only philosophical. The assertion about the not- transgressive thinking is only apparently, in our view, inconsistent in relation to a certain reading of Foucault's reflection. It’s well-known, in fact, as Foucault has devoted several pages of his work to the concept of transgression, especially related to a dimension of sexuality (going to converge in the unfinished project of a study dedicated to it), but a careful reading allows the emergence of a true parabola of this concept, which will come to an end of its life in favour of the experience of the dehors, made possible by a radical questioning of the subject, as it has been borrowed from the philosophical tradition. The transgression, which is considered, after a careful analysis, too colluding with the limit and therefore in need of the "return" to an area for thinking and therefore to "one" reason unmasked by Foucault in its mechanisms of power, suffers a real “performative” reformulation in the

literature itself: in its "saying " in fact the literature, unlike philosophy that leads to the limit the function speakability-thinkability (and finds words exclusively in a negative theology), "puts in place" the transgression, that finds therefore the best definition in the "experience" of the outside. In this experience the subject discovers himself as dissolute and at the same time "speakable" in a kaleidoscopic multiplicity without reductio ad unum.

1 Si veda a tal proposito, per citarne alcuni, i saggi di

S. Natoli, L'epistemologia di M. Foucault e di C. Sini, Il sapere archeologico entrambi contenuti in AA.VV., Effetto Foucault, Feltrinelli, 1986, in particolare cfr. pag. 1212 Cfr. Blanchot, M. Foucault tel que je l'imagine, Fata Morgana, 1986, tr.it. M. Foucault come io l'immagino, Costa e Nolan, 1988, Genova, pag. 24. Blanchot vede altresì un disconoscimento delle intuizioni foucaultiane anche - e di pari passo - nell'attribuzione di un "rifiuto sospettoso dell'idea di ragione (con valore universale)", ibidem , chiarificando più avanti: " Almeno è certo che Foucault, come non chiama in causa la ragione in sè, ma il pericolo di certe forme di razionalità o razionalizzazione, così non si interessa al concetto di potere in generale, ma alle relazioni di potere, alla loro formalizzazione, alla loro specificità, alla loro messa in gioco", pag. 35. 3 In M. Foucault, Il soggetto e il potere, in H.L. Dreyfus – P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pag. 237. 4 Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1981-1982, Seuil-Gallimard, Paris 2001, tr.it. L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (198182), Feltrinelli, Milano, 2003. 5 Ibi, pag. 17. 6 "Definiremo insomma "spiritualità" l'insieme di quelle ricerche, di quelle pratiche e di quelle esperienze che potranno essere costituite dalle purificazioni, le ascesi, le rinunce, le conversioni dello sguardo, le modificazioni d'esistenza, e così via, che non tanto per la conoscenza, bensì per il soggetto, per il suo stesso essere di soggetto, rappresentano il prezzo da pagare per avere accesso alla verità", ibidem. 7 cfr. Foucault, Histoire de la folie à l’âge classique, Gallimard, Paris 1972, trad. it. Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, pag. 653. 8 Si veda a tal proposito, V. Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in Rosenzweig, Benjamin e Levinas, Mimesis, Milano, 2010.

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9 M. Foucault, Les mots et les Choses: un archéologie des sciences humaines, Gallimard, Paris, 1966; tr.it. Le parole e le cose, Bur, Milano, 1967. 10 Ibi, pag. 5-6. 11 A tal proposito Catucci parla della possibilità che in un "altrove", posto nella lontananza di una diversità storica e geografica radicale, ordini siano possibili o lo siano stati, che non si accordano in nessun modo con i nostri e che definiscono perciò i codici di un'esperienza incomparabile con quella che conosciamo. Cfr. Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Bari, 2000. 12 "forse un giorno essa (la trasgressione, n.d.a.) apparirà altrettanto decisiva per la nostra cultura, altrettanto nascosta nel suo fondamento, quanto lo è stata fino a poco tempo fa, per il pensiero dialettico, la contraddizione”, in Prèface a la trasgression, in “Critique”, agosto-settembre, 1963, tr.it. Prefazione alla trasgressione, in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano, 1971, pag. 58. 13 Ibidem. 14 Ibi, pag. 55. 15 Ibidem. 16 Ibi, pag. 55-56. 17 Ibi, pag. 56. 18 Ibidem. 19 Ibi, pag 58. 20 Ibidem. 21 Ibi, pag. 59. 22 "Forse qualcosa di simile al lampo nella notte, che dal fondo del tempo conferisce un essere denso e nero a ciò che nega, la illumina dall'interno e da cima a fondo, le deve pertanto la sua viva luminosità, la sua singolarità lacerante ed eretta, si perde in questo spazio che si designa con la sua sovranità, e infine tace dopo aver dato un nome a ciò che è oscuro", ibidem. 23 Ibi, pag. 60 24 Ibi, pag. 61. 25 Ibidem. 26 Ibidem. 27 Ibi, pag. 63. 28 Ibi, pag. 64. 29 Tale idea lo porterà tra l’altro ad avviare un dibattito con Derrida, il quale viene giudicato come l’ultimo rappresentante di una “assai vecchia tradizione”(in Foucault, Mon corps, ce papier, ce feu, in Histoire de la folie à l’age classique, op.cit., pag. 508), ovvero quella della filosofia nella sua ricerca dell’originario e al suo carattere sovra-storico. Mentre tutto è storico, il soggetto-filosofo si individua in una posizione che attraverso il “commento” (modalità fondamentale

della filosofia, ribadita dallo stesso Derrida, in Derrida, Cogito et historie de la folie, in L’ecriture et la différence, Seuil, Paris, 1967; tr.it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971, pag. 42) ritrova l’eccedenza del significato sul significante in una “autorità senza limiti”. 30 Prèface a la trasgression, op.cit., pag. 63. 31 M. Foucault, Le pensèe du dehors, Fata Morgana, 1986, tr.it. Il pensiero del fuori, SE, 1998. 32 Prèface a la trasgression, op.cit., pag. 69. 33 Le pensèe du dehors, op.cit., pag. 14. 34 Cfr. Ibi, pag. 11-13. 35 Ibi, pag. 17. 36 Ibi, pag. 18. 37 "la finzione consiste dunque non nel palesare l'invisibile, ma nel palesare quanto sia invisibile l'invisibilità del visibile", ibi, pag. 25-26. 38 "l'esperienza pura del fuori, e la più nuda", ibi, p. 30 39 "appartiene all'essenza dello zelo l'essere negligente, il credere che quel che è nascosto sia altrove", ibi, pag. 32. 40 Ibi, pag. 23. 41 Ibi, pag. 37. 42 Ibi, pag. 49-50. 43 Ibi, pag. 24. 44 M. Foucault, Surveiller et punir, Gallimard, Paris, tr.it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, 1993, pag. 300. 45 Le pensèe du dehors, op. cit., pag. 18. 46 Blanchot, Il riso degli dèi, apparso su “La nouvelle Revue Française” (luglio 1965) in occasione della pubblicazione di Klossowski, Les Lois de l’hospitalitè, Gallimard, Paris, tr.it. Le leggi dell’ospitalità, Sugar Editore, 1968. Il saggio di Foucault, La prosa di Atteone, apparso su “La nouvelle Revue Française” (marzo 1964) fu scritto per la pubblicazione del medesimo libro di Klossowski. 47 Blanchot, Il riso degli dèi, op. cit., pag. XXII. 48 Ibidem. 49 Le pensèe du dehors, op. cit., pag. 24. 50 Ibi, pag. 56. 51 Apparso su “Tel quel”, autunno 63, tr.it. in Scritti letterari, Feltrinelli, 1971, pag 73-85. 52 Ibi, pag. 75. 53 Ibidem. 54 Foucault, Discourse and Truth. The Problematization of Parrhesia (corso tenuto a Berkeley nell’autunno del 1983), a cura di J. Pearson, Northwestern University Press, Evanston Ill. 1985, trad. it. Discorso e verità nella Grecia antica, a cura di A. Galeotti (introduzione di R. Bodei), Donzelli, Roma 1996, pag 109.

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LETTURE

GRAZIELLA PAGLIANO, Confronti. stico, perché teso appunto a individuare Narrazioni recenti di Roma antica e del coincidenze nella sensibilità comune. Il suo Impero, Biblink, Roma 2013 tratto di maggiore originalità è forse nel tentativo di «individuare il senso Nella Premessa alle sue Finzioni, Jorge attribuito agli eventi narrati anche Luis Borges lamenta ironicamente il attraverso l’analisi della struttura «[d]elirio faticoso e avvilente […] del formale»: una scelta di campo che compilatore di grossi libri, del privilegia soprattutto l’approccio dispiegatore in cinquecento pagine d’un narratologico. concetto la cui perfetta esposizione orale Il libro si compone di quattro sezioni, capirebbe in pochi minuti! Meglio distinte appunto in base a principi fingere che questi libri esistano già, e formali. E se le prime due restano presentarne un riassunto, un ancora legate a questioni storicocommentario» (Jorge Luis Borges, Opere cronologiche (Dalla fondazione di Roma I, Milano, Mondadori, 1984, p. 621). alla morte di Giulio Cesare e Le Lasciati da parte i presupposti ribellioni contro Roma), le altre si paradossali di questa affermazione, il soffermano più diffusamente sui due lavoro di Graziella Pagliano (già docente “sottogeneri” del poliziesco in ambito di Sociologia della Letteratura presso romano e del viaggio-avventura fino ai l’Università degli Studi Roma Tre) suoi estremi confini. La strutturazione risponde in parte a queste stesse generale, estremamente fluida e esigenze: di fronte a un profluvio di schematica, si presta bene tanto alla testi, di non sempre comprovata qualità lettura diffusa quanto alla più rapida letteraria, il compito del critico può certo consultazione. Ogni capitolo si essere quello di selezionare, di scegliere compone di numerose schede di lettura, «fior da fiore», ma sarà anche quello di introdotte da una breve premessa di evitare che un bagaglio di conoscenze, di carattere più teorico. Le schede, stimoli e riflessioni possa andare per estremamente dettagliate, condensano in sempre perduto, gettato al proverbiale poche pagine le trame dei singoli libri, macero. E viviamo pure nell’epoca dei soffermandosi in particolare sulle cultural studies, dove il testo letterario strutture narrative e sulle tipologie dei non è più tanto il culmine di una personaggi. In nota sono riportati i dati progressione autoreferenziale, quanto biografici essenziali degli autori, mentre piuttosto “sintomo” e strumento un’attenzione costante è riservata alla privilegiato per penetrare i mutamenti in presenza di mappe, citazioni di fonti o corso nella società attuale. bibliografie, che rafforzano lo spessore Con l’agile ma densissimo volume delle ricostruzioni storiche. I giudizi Confronti. Narrazioni recenti di Roma Antica critici sono molto contenuti, laddove il e del suo Impero, Graziella Pagliano sceglie primo intento resta di carattere così un taglio diagonale, per approcciarsi puramente informativo: solo nei casi più alla sensibilità attuale con una scelta di lampanti sono sottolineati pregi e difetti genere assai ristretta, ma sorpren- dei testi più eccentrici. L’obiettivo è dentemente prolifica. Limitando l’analisi piuttosto quello di tracciare l’identikit di un agli ultimi vent’anni, l’autrice individua genere, che rivela molte più consonanze oltre ottanta testi di ambientazione con il mondo attuale di quanto una rapida romano antica, nei quali «gli eventi, il analisi potrebbe suggerire. mondo, sono presentati secondo [una] Il primo capitolo parte da un concezione moderna o postmoderna, presupposto tratto da György Lukács, pur collocati nel tempo antico con secondo il quale «il romanzo storico grande precisione». Il punto di vista propone la monumentalizzazione e scelto è spiccatamente internazionali- insieme la privatizzazione della storia». Per 52


LETTURE

questo motivo, l’analisi dei libri non si concentra tanto sull’attendibilità della rappresentazione storica, quanto piut-tosto sull’indagine della psiche dei suoi grandi protagonisti. Da qui possono emergere vari chiaroscuri, prese di posizione anche apologetiche, o accentuazioni della “modernità” dei singoli caratteri: protagonisti privilegiati sono Cesare e i triumviri, ma ampio spazio occupa anche la figura di Cleopatra, che si presta alle più decise attualizzazioni. Il capitolo successivo è invece dedicato alle narrazioni delle ribellioni antiromane, anche per le loro «implicite correlazioni con le vicende antiche e recenti transoceaniche, europee, italiane». Queste possono portare all’insorgere di caratteri più anacronistici, anche se i libri analizzati in questa sezione si distinguono soprat-tutto per una maggiore attenzione alle culture extra-romane: protagonisti non sono infatti soltanto Spartaco e gli schavi ribelli, ma anche fanciulle icene e avventuriere franche. Già questa rapida carrellata aiuta a comprendere come una cre-scente attenzione sia dedicata proprio alle figure femminili, i cui ruoli sempre più attivi e determinanti riflettono la mutazione avvenuta nella contemporaneità. Di ben più ampio volume, il terzo capitolo è dedicato invece al «poliziesco romano». Qui, la premessa alle schede di lettura si distende maggiormente, assumendo tratti più spiccatamente teorici: a una breve storia del genere, si accompagna l’individuazione delle sue caratteristiche peculiari, ma anche un interessante excursus comparatistico sui rapporti tra poliziesco (noir) e romanzo rosa. Nella lettura dei singoli libri, un elemento che torna costante (ma diffuso in tutte le quattro sezioni del saggio) è il problema della corruzione, con evidente richiamo all’attua-lità. Sul piano narratologico, spicca anche il fatto che l’investigatore «raramente affida alla giustizia il colpevole, suicida o a sua volta ucciso, mentre la vittima appare spesso colpevole a sua volta». Per un genere dominato dalla serialità, non potevano poi mancare i personaggi ricorrenti: ampio spazio è così dedicato alle inves-

tigazioni del senatore Aurelio Stazio, nei libri di Danila Comastri Montanari; e altrettanto ne trova il personaggio di Falco, creato da Lindsey Davis. ugualmente esteso è infine l'ultimo capitolo, dedicato all'avventura e al viaggio. Anche qui il collegamento con la contemporaneità è molto forte, specie laddove si osserva che nel viaggio «la percezione dello spazio, o geocritica, individua l’attenzione sensoriale, visuale, olfattiva, uditiva, tattile, con un punto di vista postcoloniale, collegandola alla dimensione temporale, forse acuita dall’ipermobilità postmoderna». Anche l’etica che guida il viaggiatore è intensamente attualizzata, come pure la valutazione di fenomeni come l’immigrazione e il contatto con culture straniere. Assai stimolante è il parallelismo stabilito con il genere poliziesco, ugualmente volto a individuare problematiche sociali, eppure meno incisivo sul contesto (proprio per la particolare tendenza a non punire il colpevole). L’autrice non manca di sottolineare le difficoltà poste da un genere decisamente “intermedio”, le cui storie risultano spesso difficili da riassumere. E nella grande varietà delle narrazioni ana-lizzate, emergono da un lato impostazioni più sostenute sul piano scientificoantropologico, ma anche aperture alla magia e al soprannaturale, giu-stificate in parte dall’ambientazione più eso-tica. uno spazio particolare è infine dedicato alle narrazioni a ridosso del crollo dell’Impero, dove l’avventura è stimolata proprio dall’incerta cartografia entro cui è ambientata. Lo studio di Graziella Pagliano si dimostra insomma assai ricco di stimoli e prospettive, e sembra rinunciare a una sistematizzazione teorica stringente proprio per esaltare il proprio ruolo di strumento, lasciando emergere con maggiore chiarezza le innumerevoli sfaccettature di un genere, le potenzialità di un percorso di ricerca che merita sicuramente ulteriori approfondimenti.

SIMONE REBORA 53



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