TEMPO PRESENTE 392-393 ago-set 2013

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TEMPO PRESENTE

N. 392-393 agosto-settembre 2013

euro 7,50

LE ANIME DEI PARTITI * ANTIFEMMINISMO * TELEMORFOSI * DEMOCRAZIA DI MASSA

* PARLA IL CAPO DELLO STATO * LETTURE

g. cantarano a. cantelmi a. casu c.g. de michelis s. nasti g. pecora a.g. sabatini a. scarpellini c. vallauri Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


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Angelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALE

Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Corrado OCONE - Gaetano PECORA Luciano PELLICANI - Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI CONSIGLIO DEI GARANTI

hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE

Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI GRAFICA

Adriano MERLO PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel/fax 06/8078113 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)

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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura N. 392-393 agosto - settembre 2013

PRIMA PAGINA

Giuseppe CaNtaRaNo, Le diverse anime dei partiti, p . 3 OSSERVATORIO

Cesare G. De Michelis, antifemminismo futurista tra italia e Russia, p. 6 attiLio sCaRpeLLiNi, telemorfosi. un romanzo italiano, p. 13

GaetaNo peCoRa, alle origini della democrazia di massa, p. 25 UOMINI E IDEE

Parla il CaPo dello Stato, Di tito LuCRezio Rizzo, p. 30 aNGeLo G. sabatiNi, il presidente saragat, p. 31

aNtoNio Casu, Francesco Cossiga. il tormento e l’estasi della passione politica, p. 33 LETTURE

aNtoNio Casu - Nino mi chiamo. Fantabiografia del piccolo antonio Gramsci, di Luca paulesu, p. 39 auGusto CaNteLMi - Un economista eclettico, a cura di alberto Quadrio Curzio e Claudia Rotondi, p. 40 CaRLo VaLLauRi, Nella terra estrema. reportage sulla Calabria, di Giovanni Russo, p. 41 saLVatoRe Nasti - Ventotene. Un’isola di confino, di Filomena Gargiulo, p. 42 CaRLo VaLLauRi - Politics e il nuovo socialismo, a cura di alberto Castelli, p. 45 saLVatoRe Nasti - Per l’italia, di Carmelo Lentino e Roberto Messina, p. 46



PriMa PaGiNa

Giuseppe Cantarano

Le diverse anime dei partiti

Che l’europa sia ormai il nostro destino politico, non c’è più nessuno che lo mette in dubbio. tranne i soliti e incalliti demagoghi. Che per raccattare un pugno di voti, non esitano a lisciare il pelo del populismo. auspicando fantasiose quanto improbabili fuori-uscite. perfino dalla moneta unica. L’europeizzazione dell’italia - diciamo pure così - deve considerarsi, invece, un processo irreversibile. e deve riguardare certo i mercati e la finanza. Ma anche le istituzioni, evidentemente. e la macchina burocratico-amministrativa. Nonché i diritti. individuali e collettivi. e i partiti? Non fanno altro – chi più chi meno – che inneggiare all’europa. anche con toni talvolta un po’ troppo esageratamente retorici. e tuttavia, la loro vita interna, i loro comportamenti restano contrassegnati da quella peggiore italianità – colta lucidamente da Leopardi - che ha reso la nostra democrazia una vera e propria anomalia. altro che paese normale di cui parlava, qualche anno fa, Massimo D’alema. prendiamo il caso del pdl. Nelle ultime elezioni ha perso ben sei milioni di voti. Ripeto: sei milioni di voti. tracollando dal trentasette al ventuno per cento. ebbene, in qualsiasi altro paese europeo normale il leader e il gruppo dirigente di quel partito non avrebbero esitato un minuto di più a dimettersi. e a sparire dalla scena politica. in italia - nell’europea italia - invece leader e gruppo dirigente non solo restano saldamente al timone di quel partito. Ma governano il paese. Grazie ad un pd – che di voti ne ha persi solo tre milioni e mezzo rispetto al 2008 smarrito e senza uno straccio di linea politica. Che dopo lo streaming patetico di bersani con i rappresentanti del M5s, si è rivolto al Cavaliere. Con cui aveva del

resto governato. sostenendo il governo Monti. e contro cui aveva ingaggiato una campagna elettorale finalmente netta. e a tratti aspra. all’insegna dell’alternativa perentoria al berlusconismo. il pd di bersani ha ottenuto un quarto di voti in meno rispetto a Veltroni. e addirittura ha perso ben tre milioni rispetto ai voti fatti registrare da occhetto nel 1994. Diciamoci la verità. Nessun tipo di “emergenza” può giustificare – e legittimare – un’alleanza di governo simile. Cosiddetta di “larghe intese”. sarebbe inimmaginabile in europa. La Grosse Koalition tedesca? suvvia. La CDu – tanto per dire – non ha mai avuto un berlusconi tedesco come suo leader. allearsi con il diavolo, purché si metta in salvo il paese. Certo. Ma questo iper realismo non mostra, per ora, attitudini salvifiche. anzi. perfino il “compromesso storico” è stato subdolamente riesumato. per far digerire l’indigeribile. Ma allora si trattava di giganti. Vi ricordate di Moro e berlinguer? ora invece di nani, avrebbe detto qualcuno. e di qualche ballerina come suadente contorno. un partito – il pd – che avrebbe dovuto, senza fare nulla, stravincere le elezioni e “non le ha vinte”, come si è detto. un partito – il pd – che non è stato in grado di trovare uno straccio di accordo parlamentare per eleggere il presidente della Repubblica. esponendosi al ridicolo. un partito – il pd – che dagli otto punti del “governo di cambiamento” proposti da bersani dopo le elezioni, sommessamente china - con un pizzico di vergogna - la testa a berlusconi. Disponibilissimo a costituire il governo con gli odiati “comunisti”. a patto che gettino alle ortiche quegli otto punti. Detto fatto. Ricevuto ed eseguito.

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Ma per fare insieme cosa? Quei pochi provvedimenti varati sinora – tranne forse quello sui beni culturali – difficilmente possono giustificare un “compromesso” tra programmi e visioni della società culturalmente e politicamente inconciliabili. La verità è che il pd non è mai nato. Come ripete spesso – e inascoltato – Massimo Cacciari. altro che errori di comunicazione. o campagne elettorali non azzeccate. e illudersi che il prossimo congresso e l’individuazione di un leader – come il sindaco di Firenze Renzi, ad esempio – possano magicamente ricompattare il diviso gruppo dirigente. e conferire finalmente una chiara identità politica al partito. beh, tutto questo non farebbe altro che protarne inesorabilmente l’agonia. Le due anime che convivono – forzatamente - nel pd non sono, politicamente e culturalmente, compatibili. possono certo collaborare e sancire alleanze di governo. Ma non possono coabitare nello stesso partito. e non servono, certo, ulteriori controprove per dimostrarlo. prendiamo il “manifesto” di Fabrizio barca. Lucidamente proteso verso la costruzione di un grande partito socialdemocratico europeo. strutturalmente e solidamente organizzato. e che ha nel mondo del lavoro e nel sindacato il suo blocco sociale privilegiato di riferimento. Con la prospettiva di ricomporre il frantumato e disperso arcipelago dei post o ex comunisti. a partire da sel. ebbene, come si concilia questo disegno politico con il progetto di Renzi? si è mai visto, in europa, un partito che si proclama di sinistra, ospitare al suo interno due culture politiche antitetiche? Quella socialdemocratica di barca – e di D’alema, di bersani, del candidato alla segreteria Cuperlo – e quella liberista e cattolico-popolare di Renzi? Che strizza l’occhio al popolo del Web e alla “società liquida” teorizzata da bauman? e che intercetterebbe consensi, diciamo così, moderati?

si è mai vista, in europa, una sinistra che si affida, per ben due volte, al “governo del presidente”? e che accetti supinamente la sua “agenda di governo” dettata ad un parlamento plaudente e obbediente? si è mai vista, in europa, una sinistra che invece di occuparsi seriamente e responsabilmente - della crisi che attanaglia il paese, della frattura che si è scavata tra mercato e democrazia e di quella tra democrazia e rappresentanza, chiacchiera vanamente sulle primarie? invece di interrogarsi sulla crescita delle disuguaglianze - qui nel nostro paese e nel resto dell’occidente - il pd è preoccupato delle modalità delle primarie. Come dovranno svolgersi? potrà votare al secondo turno chi non ha votato al primo, non presentando una ragionevole giustificazione? potrà candidarsi alla presidenza del Consiglio chi non ha partecipato alle primarie per la segreteria? Concretissimi, realissimi interrogativi. Come concretissimi e realissimi sono quelli riguardanti la riformulazione dell’imu. o se si debba aumentare o diminuire l’iva. Mentre le imprese continuano inesorabilmente a chiudere. i disoccupati crescono. e i giovani rinunciano a studiare. e a cercare addirittura lavoro. Concretissimi, realissimi interrogativi. Mentre il paese volge drammaticamente al declino. Verso il naufragio. un naufragio – per parafrasare Hans blumenberg – che non avrà spettatori. Che non avrà, certamente, il pd, come spettatore. Condannato a naufragare nel pelago che non riesce a “dominare”. Come potrebbe culturalmente dominarlo se – solo per fare qualche esempio – la metà dei suoi elettori ha più di cinquantacinque anni? e più di un terzo oltre sessantacinque? Certo, la questione generazionale non spiega tutto. tantomeno l’ultima sconfitta elettorale. Ma ci dice una cosa. Forse. e cioè, che il pd è un partito vecchio. se lo confrontiamo con il movimento di beppe Grillo. il sessanta per cento degli

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le diverse anime dei partiti

elettori del M5s ha meno di quarantacinque anni. Ma ancor più sorprendente è un altro dato. secondo una ricerca Demos, nel 2008 soltanto il trentuno per cento dei giovani tra i diciotto e i ventinove anni ha votato per il pd di Veltroni. Mentre ben il quarantanove per cento ha scelto berlusconi. ancor più clamoroso è il dato degli studenti. il quarantadue per cento dei quali votò berlusconi. Mentre solo il trentasette per cento optò per la sinistra. un fenomeno in evidente e clamorosa controtendenza, rispetto a quanto avviene nel resto dell’europa. se il trend – come si dice – continuerà ad essere questo, non è difficile prevedere che il peso del pd, nella politica e nella società italiana, tenderà ad essere sempre di più irrilevante. precludendo alla sinistra ogni chance di candidarsi al governo di questo paese. senza il supporto consociativo della

destra, evidentemente. basti pensare che dopo le dimissioni di bersani, il timone – si fa per dire – del partito è stato affidato ad epifani. il quale è stato segretario di un sindacato – la Cgil – che conta cinque milioni e mezzo di iscritti. oltre tre milioni dei quali, però, sono pensionati. e - badate bene - non è un dato trascurabile. Resta davvero difficile immaginare che un partito di pensionati possa ragionevolmente candidarsi al governo del paese. Certo, serve il ricambio generazionale della leadership. al di là dell’impronta politico-culturale che il futuro pd assumerà. Cattolicoliberal-democratica, alla Renzi, oppure socialdemocratica alla barca – o alla Cuperlo. Ma oltre al ricambio generazionale della leadership è necessario il ricambio della base elettorale. perché senza il consenso, senza i voti, non c’è futuro per quel che diventerà il pd. e non c’è futuro per la sinistra, soprattutto.

L ’ e C o D e L L a s t a M pa

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oSSerVatorio

Cesare G. de Michelis

antifemminismo futurista tra italia e Russia

La questione dell’atteggiamento nei confronti della donna ha goduto di una notevole fortuna nell’ambito degli studi sul futurismo, sia a livello descrittivodocumentario che a livello critico, più recentemente grazie a silvia Contarini il cui contributo, la femme futuriste. Mythes, modèles et représentations de la femme dans la théorie et la littérature futuristes1, attesta, «il tragitto ondivago che va dalla ripulsa del femminile al ritorno all’ordine e alla rivalorizzazione della donna» (Luca somigli). può essere non inutile mettere a raffronto la misoginía futurista con la sua ricezione in Russia, nell’intento di pervenire -come nel riflesso d’uno specchio deformante- a una esegesi più articolata del prototipo italiano, stante il fatto che su pochi argomenti il movimento marinettiano ha avuto posizioni contraddittorie quanto sul tema dei ruoli di genere. all’origine dell’antifemminismo futurista ci sono, ovviamente, le dichiarazioni del Primo manifesto di Marinetti (1909): al punto 9, «Noi vogliamo glorificare […] il disprezzo della donna», e al punto 10: «Noi vogliamo […] combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria». in seguito Marinetti ha tematizzato più volte l’assunto: cito per tutte la formulazione che ne offrì a Lucini in una famosa lettera che questi pubblicò nell’articolo Come ho sorpassato il futurismo e che fu subito nota in Russia grazie a Lunačarskij2: «tu puoi stimare molto le donne, e io coricarmici sopra come su dei materassi». più che favorevole al ‘libero amore’

(vagheggiato nel Manifesto del partito futurista, 1918), è difficile non definire ‘maschilista’ un atteggiamento del genere; il quale si espresse con le Mépris de la femme4 fino al libello Come si seducono le donne (Firenze, 1917) e al romanzo l’alcova d’acciaio (Milano 1921). Ma siccome nei decenni successivi Marinetti diverrà marito premuroso di benedetta Cappa e padre affettuoso (di tre figlie femmine!), la letteratura apologetica ha intrapreso l’arduo compito di spiegare che in fondo stava scherzando, e che anzi con le sue tirate sulla donna egli intendeva perseguire la ‘liberazione’ della medesima dalle consuetudini sociali che ne avevano limitato sin lí l’emancipazione. Così Giordano bruno Guerri, nel suo Filippo tommaso Marinetti. invenzioni, avven-ture e passioni di un rivoluzionario5, scrive ad esempio (p. 86): «La polemica marinettiana non coinvolge la donna in quanto tale, ma una precisa immagine stereotipata e fatale che pullulava nella società e nella letteratura rosa»; anzi (p. 87): «l’antifemminismo futurista era una provocazione artistica, l’ennesima sfaccettatura dell’opposizione globale al passatismo […]. Marinetti, in linea con i presupposti radicali e libertari della sua rivoluzione, affronta tra i primi in italia il tema dell’emancipazione femminile». a riprova del fatto che nel futurismo c’era spazio (eccome!) anche per le donne, vengono di solito allegate le numerose e talora eccellenti artiste che si sono realizzate nell’ambito del movimento futurista, sia in italia che in Russia. a cominciare (in italia) dalla moglie di Marinetti, benedetta, per prose-

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guire con molte artiste russe (Gončarova, Guro, Večorka, Rozanova), ed anche con alcune ‘russe’ personalmente legate a qualche futurista italiano (penso ad esempio a aleksandra ekster, che a parigi s’incontrò con ardengo soffici), ovvero che vissero stabilmente in italia, come eva Kühn amendola che fu per qualche tempo futurista col nome marinettiano di “Magamal” (su di essa -col nome di ‘adela Kun’- Mira otasević ha scritto anche un romanzo epistolare). all’‘altra metà del cielo’ futurista sono state dedicate nell’anno centenario ampie ricognizioni, da Giancarlo Carpi (Futuriste, Roma 2009), da Valentina Mosco (donna e futurismo, fra virilismo e riscatto, Firenze 2009) e dalla stessa assieme a sandro Rogari (le amazzoni del Futurismo, Firenze 2009). La rilevante presenza di protagoniste nella storia del futurismo ha spesso fatto da sostituto fattuale alla discussione sull’anti-femminismo, ovvero è servita da dimostrazione ellittica del fatto che il movimento in quanto tale fosse tutt’altro che misogino. Ma proprio il nodo ‘teorico’ dell’atteggiamento futurista nei confronti della donna, in particolare considerato nella sua evoluzione diacronica, è quello che è rimasto un po’ in ombra. il quadro offerto dalle proposizioni del Manifesto va intanto completato con la voce di una delle protagoniste, anna Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cessiat-Vercell (1875-1953), la pronipote di Lamartine nota come “Valentine de saint point” che, col Manifesto della donna futurista (1912) e il successivo Manifesto futurista della lussuria (1913) propose una ‘superfemmina’ di stampo virile che si realizza nella soddisfazione dei sensi (terza variante del modello descritto dalla Contarini: “la maîtresse stupide et sensuelle, la compagne héroïque attendant son homme à la maison, la femme virile qui se doit d’être l’égale de l’homme, la femme réceptacle et source de tous dangers”). scriveva la saintpoint: «La lussuria è una forza […]. La donna, che colle sue lagrime e il suo

sentimentalismo ritiene l’uomo ai suoi piedi, è inferiore alla prostituta che spinge il suo maschio a conservare per vanagloria col revolver in pugno la sua spavalda dominazione sui bassifondi della città». il suo discorso c’entra qui non solo e non tanto perché fu per un certo tempo l’amante di Marinetti e nemmeno perché, accanto ad apollinaire, fu uno dei rari casi di ‘futurismo francese’; quanto perché la ricezione delle sue tesi ha innescato una curiosa serie di equivoci che hanno lasciato il segno - sia in Russia che, di riflesso, in italia sull’idea futurista della donna. i manifesti di Valentine de saint-point vennero tradotti in russo nelle antologie di Genrich tasteven7, Michail engel’gardt8 e Vadim Šeršenevič9: nel suo saggio de Marinetti à Maiakovski (Fribourg 1942) Graziella Lehrmann si avvalse della versione del primo, attribuendo a lui le reboanti dichiarazioni della saint-point: «un adepte enthousiaste de Marinetti […], écrivait […] ces mots fidèles aux doctrines du maître: “la dépravation est une force…”» etc., dando inizio a una serie di distorsioni, innescate da alfredo Galletti che ne il Novecento (1951) riprendeva la stessa frase attribuita a tasteven dalla traduzione francese di Grjaduščij Cham (l’avénement du Cham, 1922) di Dm. Merežkovskij; cosí, da Curzia Ferrari (Poesia futurista e marxismo10) a benjamin Goriély (le avanguardie letterarie in europa11) si è diffusa l’idea di un’anima slava più ‘peccaminosa’ di quella occidentale, riservando a quest’ultima le osservazioni futuriste originarie. Ma, seguendo pedissequamente la Lehrmann, perfino Marinetti (nelle memorie di Una sensibilità italiana nata in egitto [1944]12) attribuí al suo anfitrione e traduttore le parole dell’amica parigina d’un tempo: «tasteven […] è il mio più misterioso invitante e impresario […] e scrive un articolo parlando di me “la depravazione futurista è una forza…”» etc. tasteven non aveva mai discettato di

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‘depravazione’ né di intrecci da bordello; e dieci anni dopo Ja. el’sberg - noto ancora come Šapirštejn-Lers13 - cadde invece nell’equivoco opposto, di attribuire quelle parole allo stesso Marinetti: «L’intensa attività vitale [dell’imperialista] richiede il massimo di distrazione, e lui non cerca di nascondere il suo harem: “la lussuria – scrive Marinetti – concepita fuor di ogni concetto morale e come elemento essenziale del dinamismo della vita, è una forza“». Durante la famosa tournée in Russia (febbraio 1914), Marinetti condensò il tema ‘della donna’ in formule che risuonarono più volte tra interviste e

donna d'oggi ama solo il lusso, gli accessori dell’amore, non l'amore in sé». Certo, non gli dispiacque la disponibilità delle signore russe che incontrò durante il suo soggiorno, e trent’anni dopo ricorda14: «-o festoso seducentissimo mio passato di gloria letteraria artistica a pietroburgo e a Mosca aiuto aiuto soccorrimi risorgendo e ricostruendoti nella tua palpitante vita con le febbrili smanie di tante braccia femminili ed erano tutte belle quelle donne accese di languore e voluttà al sentire il mio genio irruente imporre una formidabile invincibile italianità».

dichiarazioni ai giornali. ad esempio, intervistato dal “Rannee utro” (Mosca, 28. i. 1914) dichiarò: «Noi rifiutiamo la donna moderna, col suo amore piccante e rammollito. La donna d’oggi ama gli accessori dell’ amore - il lusso e la mollezza - più dell’ amore in sé. ecco perché noi riteniamo deleteria l’influenza d’una donna del genere. in nome della lotta creatrice, in nome dell’eroismo e del coraggio, noi futuristi abbiamo un atteggiamento negativo nei confronti della donna»; e in un’altra intervista, alle “birževye vedomosti” (pietroburgo, 1. ii. 1914), specificò: «abbasso le donne! abbasso l'anacronistico ‘cherchez la femme!’ La

Commentando a Mosca il comportamento delle donne russe, aveva anche dichiarato al quotidiano “Nov’” (Mosca, 12. ii. 1914): «Le nostre donne, a Roma, sono assai più modeste della donna russa, più sottomesse ai pregiudizi. Da voi, russi, l’emancipazione della donna procede in modo senza confronto più veloce che in italia». Gentili parole di circostanza, o eco -sia pur vago- delle prospettive prefigurate alla ‘questione femminile’ in Russia? Certo è che la polemica marinettiana si esprimeva lí nel contesto di una tradizione culturale che da un buon mezzo secolo (sia pure limitatamente agli ambienti urbani e progressisti) aveva elaborato una visione della donna

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assolutamente sovversiva. si pensi a Čto delat’ (1863) di N. Černyševskij, la cui eroina, Vera pavlovna, «piacerebbe assai poco a noi meridionali che abbiamo sempre amato nella donna la soavità», come scrisse G. b. arnaudo nel suo saggio sul Nichilismo (torino 1879), uno dei primi in europa dedicati al movimento radicale russo. e si tenga conto che, nello stesso 1909 in cui appariva il manifesto futurista, apparve anche uno dei testi fondanti del femminismo nel XX secolo, il volume Social’nye osnovy ženskogo voprosa di aleksandra Kollontaj. a ciò si potrebbe aggiungere la forma assunta dall’autoaffermazione di alcune scrittrici russe che inclinavano verso un ‘protofemminismo’ maschileggiante, assumendo pseudonimi e pose maschili: già Nadežda Chvoščinskaja aveva pubblicato con lo pseudonimo di “V. Krestovskij” un romanzo sull’emancipazione femminile, Bol’šaja Medvedica (1865-8); e zinaida Gippius, all’inizio del XX secolo, firmava i suoi articoli pubblicistici come “anton Krajnyj”, mostrandosi - dice Daniela Di sora presentando in traduzione italiana uno dei suoi racconti più famosi, l’eterno femminino15 - «alfiere di una nuova sessualità, in cui i confini fra maschile e femminile si confondono». per tornare al futurismo, va intanto fermata l’attenzione sul fatto che nelle formulazioni del primo manifesto l’antifemminismo marinettiano si sdoppia nel “disprezzo della donna” da un lato, e nell’avversione al “femminismo” dall’altro. e non è la stessa cosa. il primo -il più ovvio- è anche il più facile da riportare ai canoni della belle époque. scriveva “panda”, presentando il Manifesto ai russi (“Večer”, 8. iii. 1909): «Ma chi, sui 15-17 anni, non ha disprezzato le donne e non s’è vantato della forza del proprio pugno?»; e M. osorgin, riferendo della serata al Lirico di Milano (ljudi buduščego, in “Russkie vedomosti”, 12. ii. 1910), chiosava: «tutt’altra accoglienza attende la sua

propaganda del disprezzo della donna. Viva le donne!, replica sdegnato tutto il teatro, e i fischi delle locomotive diventano fischi e basta. L’oratore è costretto pertanto a spiegare che “i futuristi non temono i fischi, temono soltanto i facili segni d’approvazione”. stavolta la prodezza futurista suscita in ugual misura fischi e applausi calorosi. tuttavia il disprezzo della donna, proclamato dal fondatore del futurismo italiano, gli si rivolta letteralmente sulla testa, già priva di capigliatura. Le allusioni esplicite, ad alta voce, non finiscono più…»16, il poeta Valerij briusov (che era stato ospite di “poesia”, 7-9, 1909), nel 1914 vi vedeva anzi un punto di sostanziale differenza tra il futurismo in italia e in Russia: «in una cosa però si sono distinti nettamente dagli italiani, i nostri futuristi russi: nella loro idea dell’amore e della donna. Com’è noto, la scuola di Marinetti va predicando il ‘boicottaggio’ della donna. i poeti russi si sono rivelati troppo romantici per farlo. Nei loro versi l’amore è restato, anche se cercano di conferirgli in ogni modo una sfumatura da cocottes. alcuni riconoscono perfino d’avere istinti tutt’altro che futuristi, quando [come scrive Šeršenevič] “le sussurrerò Mia cara”»17. Cosí il prezrenie k ženščine (‘disprezzo della donna’ o mépris de la femme) entra senza sforzo nel dibattito russo su Marinetti e il futurismo. Diverso è il caso del ‘femminismo’ che, sull’onda lunga delle idee di Hubertine auclair (1882), ibridate col ‘suffragismo’ di emmmeline pankhurst (1903), malgrado i precedenti russi sopra ricordati, restò indigesto. all’epoca, il neologismo (feminizm) era di recente importazione in Russia, non era stato ancora metabolizzato. engel’gardt lo omette nella sua traduzione del Manifesto, mentre nel suo articolo Galopom, vperëd! (in “Vestnik znanija”, V, 1914) Romual’da baudouin de Courtenay lo rende con “feticismo” («protiv fetišizma»). in seguito, la nozione stessa del femminismo sarà avversata in uRss

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per motivi ideologici (“Movimento borghese per la parità nei diritti delle donne con gli uomini, nel quadro dello stato borghese”), riscuotendo l’ironico disprezzo di Maksim Gor’kij (in Žizn’ Klima Samgina, 1925-35): «il femminismo, il suffragismo, caro mio, sono trovate dei poveri di spirito».

‘Femminismo’ e ‘suffragette’ non stavano tanto bene neanche a Marinetti, che se ne era potuto fare un’idea all’epoca del viaggio a Londra (1910), quando le sue incerte parole di solidarietà non vennero affatto apprezzate dal pubblico femminile, forse per la nota d’ironia che vi risonava. se in Contro l’amore e il parlamentarismo (1915) difendeva sí «il diritto delle suffragette» ma nel contempo compiangeva «il loro entusiasmo infantile pel misero e ridicolo diritto al voto», a posteriori, nelle memorie stese nel 1944 (Suffragette e indian docks, in Una sensibilità italiana nata in egitto), ironizzava apertamente su «le suffragette armate di palle di piombo». il femminismo, del resto, fu avversato subito dalla ‘brutale donna futurista’, Valentine de saint-point, che nel Manifesto della donna futurista (1912) dichiarò esplicitamente: «Ma niente Femminismo. il Femminismo è un errore politico. il Femminismo è un errore cerebrale della donna, un errore che il suo istinto riconoscerà. Non bisogna dare alla donna nessuno dei diritti reclamati dalle femministe. accordarglieli non porterebbe a nessuno dei disordini auspicati dai Futuristi». Che cosa ha importato l’antifemminismo futurista italo-francese nella sua ricezione da parte dei futuristi russi? il tema – essenzialmente nella variante del ‘disprezzo della donna’ – ha riscosso effettivamente poco successo, e non dico solo in poeti come severjanin o Šeršenevič (o pasternak, o aseev), ma anche in Majakovskij, «il cui gigantismo costitutivo si esplica nei temi d’amore. passioni grandi, non passioncelle da puttaniere e pennacchino» (a. M.

Ripellino18): altro che il “materasso” di cui menava vanto Marinetti! Qualche accenno alla ‘questione femminile’ – nel senso della emancipazione – è rintracciabile in Velimir Chlebnikov (osvoboždennaja ženščina. Černyj Jar ), ma solo con riferimento ai suoi interessi ‘orientali’, persiani («in generale - scriveva Chlebnikov - i popoli dell’oriente sono popoli del dominio dell’uomo sulla donna»), senza alcuna relazione con il tema futurista. il quale invece compare a tutto tondo in aleksej Kručenych, ma in forma tale che probabilmente non avrebbe trovato conforto nei suoi colleghi italiani. La lingua, solo la lingua (voskresenie slova): tutto si concentra lí, per il fondatore e teorico della zaum’ (linguaggio “de l’autre côté de l’intelligence”, come propose di rendere il’ja zdanevič in una lettera ad ardengo soffici del 196220). in un libretto di ‘autoscrittura’, Vzorval’ (1913), tra parolacce russe ed espressioni in false lingue straniere, compare la seguente dichiarazione: «per brutale disprezzo della donna e dei bambini21, nella nostra lingua ci sarà solo il genere maschile» specificando con motivazioni pseudo-ideologiche in revoljucija i jazyk (rivoluzione e lingua, 1922): «la riduzione delle parole al genere maschile conferisce alla lingua virilità, concisione e asprezza sonora, cosa che corrisponde pienamente allo spirito del linguaggio rivoluzionario». Dalle parole ai fatti: in Pobeda nad solncem (1913): «a quanto pare, l’unica opera al mondo in cui non vi sia nessun ruolo femminile», scrive M. boehmig nella Postfazione alla traduzione italiana22), il ‘viaggiatore in tutti i secoli’ canta una canzone da cui il femminile e il neutro scompaiono: ozer spit Mnogo pyli Potop… Smotri vsë stalo mužskim ozer tverže železa ne ver´ staroj mere.

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antifemminismo futurista tra italia e russia

Come gli scrisse pasternak, «se si porta all’incandescenza più fanatica l’asserzione del contenuto della forma, bisogna dire che tu sei il più contenutista di tutti» (Vzamen predislovija23). Ma, nella Russia sovietica, gli anni Venti non sono anni in cui si apprezzi la difesa delle vedute rivoluzionarie con la lingua ‘trasmentale’ (zaumnyj: “ultraintellettiva”, per seguire zdanevič), priva di femminile e neu-tro; e l’ultima difesa della misoginia marinettiana spetta al ‘trockista’ Nikolaj Gorlov (Futurizm i revoljucija. Poezija futuristov, Moskva 1924), che ripercorre ovvi luoghi comuni declinati secondo il marxismo più vieto che anticipano le moderne forme apologetiche, confondendo inoltre il “femminismo” con la “femminilità”: «L’antifemminismo di Marinetti ha la stessa origine [dell’estetica della guerra]. per strano che possa parere, il suo punto di partenza è una tendenza rivolu-zionaria […]. per Marinetti il principio ‘femminile’ è un principio d’inerzia. per lui la donna è l’anello di congiunzione tra i cimiteri del passato (i musei) e il tipo di vita che si conforma a quelle anticaglie (opportunismo e utilitarismo). e bisogna riconoscere che, nelle forme di vita organizzate dalla proprietà privata, è proprio cosí. La donna, estraniata dalla vita sociale, chiusa nella scatoletta della famiglia, la donna che sta con tutto il suo

orizzonte nel guscio d’una chiocciola, è divenuta il sostegno d’un costume retrogrado e fatiscente, in odio a ogni rivoluzionario. Marinetti non tollera un costume del genere e si scaglia contro la donna come contro la sentinella che lo difende, senza capire che si tratta d’una sentinella asservita, che è stata messa di guardia a [quella] forma di vita dal suo eterno e onnipotente padrone, la proprietà privata»24. Non credo che, se avesse potuto conoscere quel testo, Marinetti ne sarebbe rimasto contento. Forse nel 1914, chissà; ma nel 1923 Marinetti aveva sposato benedetta in una chiesa cattolica25 e assieme all’anticlericalismo stava svaporando anche la sua misoginia militante; e il 1924 è l’anno del Congresso futurista di Milano col quale il marinettismo imboccava la via della ‘mummificazione’ entro l’ordine fascista26 che esaltava sempre più decisamente la donna ‘fattrice’, lasciando la virilità agli uomini. Non è che le cose siano poi andate meglio nella Russia sovietica: dalle posizioni del “libero amore” («al raggiungimento dei 18 anni di età, ogni ragazza non sposata è obbligata a registrarsi all’ufficio dell’amore libero presso il commissariato della sicurezza sociale»), che - al pari del primo manifesto cubofuturista -

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Cesare G. de Michelis

identificavano in puškin e nella sua tat’jana l’avversario da battere, si passò nel giro di quindici anni a una rivalutazione della solida famiglia ‘comunista’ con il suo bravo ruolo della donna-lavoratrice. se nel 1918 aleksandra Kollontaj scriveva che «al posto della precedente famiglia, si svilupperà una nuova forma di rapporti tra l’uomo e la donna: l’unione cameratesca e cordiale di due membri della società comunistica, liberi e in-

dipendenti»27, al tempo di stalin le teorie a favore dell’ amore libero vennero decisamente combattute, non c’era più nessun ‘futurismo’ che tenesse: nel 1948 magnificava le conquiste femminili dell’uRss, che consentivano alle donne «di assolvere la loro naturale vocazione: essere madri, educatrici dei figli, padrone di casa». una posizione, commenta C. Carpinelli, che «certamente stonava con tutto il suo pensiero politico precedente»28.

Note

significa ovviamente “glande”. 17 trad. it. in C. G. De Michelis, op. cit. 18 Majakovskij ride, Majakovskij piange, ne l’arte della fuga, Guida, Napoli 1987. 19 in “Krasnyj voin”, 1921; ried. in “Russkaja Mysl’”, n° 4118, 1996. 20 iliazd, lettre à ardengo Soffici. 50 années de futurisme russe, in Carnet de l’iliazd club 2, paris 1992. 21 Come in altre lingue, in russo “bambino“ (ditja) è neutro. 22 Doria di Cassano Jonio, 1996. 23 in a. Kručenych, Kalendar’, Moskva 1926, trad. it. in Quintessenza, Marsilio, Venezia 1990. 24 trad. it. in C. G. De Michelis, op. cit. 25 La madre di benedetta, amalia Cipollini, era di famiglia valdese; incontrando zdanevič a parigi nel 1923, gli disse che “erano sposati solo civilmente” (iliazd, lettre à a. Soffici [1962], in Carnet de l’iliazd club, 2, paris 1992, p. 34). 26 u. Carpi, Bolscevismo immaginista, Liguori, Napoli 1981. 27 a. Kollontaj, Semja i komminističeskoe gosudarstvo, Moskva 1918; trad. it. in W. Giusti, documenti intorno alla rivoluzione russa, ispi, Milano 1940, p. 105. 28 in un articolo per “sovetskaja ženščina”, cit. in C. Carpinelli, donne e famiglia nella russia sovietica, F. angeli, Milano 1998, p. 65.

1 paris 2006. 2 “La Voce”, n. 15, 10. iV. 1913. 3 a. Lunačarskij, Marinetti e lucini, trad. it. in C. G. De Michelis, l’avanguardia trasversale, Marsilio, Venezia 2009. 4 Raccolto ne le futurisme, paris 1911. 5 Mondolibri, Milano 2009. 6 Magamal, beograd 1995; a. parmeggiani ne ha tradotto alcune pagine nell’antologia [M. Mitrović ed.] Sul mare brillavano vasti silenzi immagini di trieste nella letteratura serba, trieste 2004. 7 Futurizm. Na puti k novomu somvolizmu, 1914; alcuni brani in C. G. De Michelis, op.. cit... 8 prefazione a Marinetti, Futuriuzm, s.-pb. 1914; alcuni brani in C. G. De Michelis, op.. cit.. 9 Manifesty ital’janskogo futurizma, M. 1914. 10 ed. Contra, Milano 1966. 11 trad. it. Feltrinelli, Milano 1967. 12 a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1969. 13 obščestvennyj smysl russkogo literaturnogo futurizma, Moskva 1922; trad. parziale in C. G. De Michelis, op. cit. 14 in originalità russa di masse distanze radiocuori [1944], Voland, Roma 1996. 15 Roma 1993. 16 trad. it. in C. G. De Michelis, op. cit.; lysina

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oSSerVatorio

attilio Scarpellini

telemorfosi un romanzo italiano Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso (Guy Debord)

Finalmente vivere servirà a qualcosa! Nel 2008 il regista Fabrizio arcuri lavora all’allestimento uno spettacolo che si intitola one day e il cui sottotitolo suona, in modo piuttosto sintomatico, “finalmente vivere servirà a qualcosa”. L’idea di uno spettacolo destinato a ricoprire un’intera giornata ha qualcosa di borgesiano, ricorda quella cartografia che nel testo dello scrittore argentino L’artefice (1960) si sovrappone con tale precisione ai contorni e all’estensione del mondo reale dal metterlo drammaticamente in discussione. e’ un’idea che farà strada anche a partire dal fallimento produttivo del progetto che, invece di affossarlo, ne rilancia il senso in modo altrettanto leggendario, trasformandolo in un riferimento virtuale che moltiplica il suo potere sul mondo: il libro , con la drammaturgia elaborata da Magdalena barile sulla base delle improvvisazioni degli attori dell’accademia degli artefatti, diviene così la sua giusta fine o il suo giusto inizio. L’affresco epico-grottesco immaginato a suo tempo da arcuri era visivamente ispirato a una gigantografia dell’artista cinese Wang Qingsong che sarebbe poi stata esposta al palazzo delle esposizioni di Roma per la mostra “Cina XXi secolo”. dormitory è un’immagine gremita e concentrazionaria, rappresenta la Cina contemporanea come un immenso dormitorio, un alveare di letti sovrapposti e comunicanti

dove decine di personaggi, ciascuno nella sua cella, affrontano la propria vita in modo diverso, ma condividendo la ristrettezza dello stesso spazio. e’ una metafora della globalizzazione calata in un mondo in cui tutti, come dice il sociologo ulrich beck, “sono chiamati a rispondere con soluzioni biografiche a problemi sistemici”, l’impietoso still life di un paradosso noto come individualismo conformista. La casa immaginata da arcuri come scenografia di one day doveva aprirsi squadernando la sezione di un interno brulicante: stessa idea di una perdita di confini tra il pubblico e il privato, ma mentre per l’artista cinese il collante tra le nude vite crudelmente sovraesposte in dormitory è la bulimia dei consumi, la ridondanza dei marchi, un collettivismo delle merci che sostituisce (e prosegue nella gradazione dello sviluppo) quello del mito comunista, per il regista romano era (e sarà, dal momento che il suo spettacolo attende sempre di essere realizzato) il continuo sdoppiamento tra la biografia e la rappresentazione, tra attore e personaggio, all’interno di un mondo che, perduta la fragranza del reale, la sua innocenza esperienziale, si presenta già predisposto alla propria spettacolarizzazione. per l’umanità di one day, insomma, lo spettacolo è una seconda natura che si innesta nella prima, facendo smottare la sua presunta spontaneità dalle parti del reality show e di tutte le forme dell’iperrealtà televisiva. il sottotitolo, “finalmente vivere servirà a qualcosa”, in questo senso, non si applica solo allo spettacolo in quanto tale, nella sua conquista organica del

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tempo di vita degli spettatori che per ventiquattro ore si trasferiscono nella sua durata, ma alla materia stessa di una vita che, fuori dalla sua metafora teatrale, appare sempre più orientata alla propria reificazione in immagine. il regista dei tre pezzi facili di Martin Crimp e del ciclo epico di Mark Ravenhill si disponeva così a utilizzare il palcoscenico come uno spazio di decostruzione, e una possibilità di critica vivente, dei meccanismi di superfetazione mediatica che innervano e potenziano la realtà del reale, trasformandola in quella che Jean baudrillard, nei suoi ultimi libri ha chiamato “Realtà integrale” o “telemorfosi”. intrattenimento e parodia di tutti gli intrattenimenti chiamata a praticare una ritorsione brechtiana dello spettacolare sul politico (che già di per sé denuncia la sua avvenuta mutazione in una transpolitica delle apparenze) one day doveva essere l’exploit di quella critica della rappresentazione attraverso la rappresentazione che fa del teatro dell’ accademia degli artefatti uno dei rari esempi di teatro politico ancora esistenti nel nostro paese. Con il suo plot sviante di bambini rapiti e terroristi ceceni, puntando non tanto alla cronaca come referente, quanto alla cronaca come standard di comunicazione, one day vedeva lontano nell’orizzonte di una mediatizzazione della vita che già segnava culmini di irrealtà vicini all’implosione. Col suo sguardo warholiano comprendeva, senza ovviamente poterlo contemplare, il set di avetrana dove le lacrime di sabrina e di Michele Misseri hanno offerto una dimostrazione quasi sublime di come il vero possa trasformarsi in un momento del falso; o la provvidenziale irruzione al Marassi del teppista serbo noto come ivan che, con i suoi bicipiti tatuati di date arcaiche, ha tenuto in ostaggio la platea televisiva, cancellando l’evento programmato con l’evento inatteso che è il vero, nascosto desiderio coltivato da ogni audience. La famiglia tipo rap-

presentata sulla sua scena era pronta ad accogliere le vergini portate al Drago, i padri e le madri che prostituiscono le figlie con entusiasmo e senza alterare di molto la propria morale piccolo borghese; tutto in qualche modo era prevedibile per una polaroid scattata nel tempo, anche la mutazione antropologica di una lingua che, ben oltre l’omologazione televisiva, unisce la volgarità globish (“ti devo briffare”) a quella del gergo locale (“ne vedrai di ogni”), dove la parola amò, declinata con o senza accento, è il collante unico di tutte le relazioni. il romanzo delle intercettazioni è il nuovo feuilleton; da un punto di vista artistico c’è solo da rimpiangere la ripetitività e la sconfortante mancanza di talento dei suoi protagonisti: anche forzando oltre ogni limite i colori di un personaggio come Nicole Minetti non si potrà mai ottenere una sola Coralie (l’eroina di Splendore e miseria delle cortigiane di balzac), studiando a fondo Fabrizio Corona si arriva appena alle soglie di Rastignac o di Julien sorel (e poi si ricade nel baratro prosaico del nulla). il tramonto del personaggio, insomma, non è più un problema formale della rappresentazione: è un dato della psicologia sociale, un frutto dell’incapacità di raccontarsi a se stessi nell’ambito di un’esistenza liquida, dove i comportamenti, come diceva Hannah arendt, prevalgono largamente sulle azioni. i personaggi di one day, infatti, sono il risultato della snervante diversione di un’identità solo supposta, volutamente mitica (la Madre, il padre, il Figlio), in un multiverso di immaginari (cinematografici, musicali, mediatici) che appartengono a tutti e a nessuno nel mondo in cui il destino individuale è la più illusoria e bruciante delle finzioni. i segreti che custodiscono sono fittizi, inconsistenti, o smaccatamente falsi. Nella loro casa di vetro il privato non esiste, l’intera vita appare spostata sul terreno di una continua sperimentazione: “tutta la nostra realtà è

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divenuta sperimentale. in assenza di destino, l’uomo moderno è consegnato a una sperimentazione senza limiti su se stesso.” si vive di interviste, di videomessaggi, di esibizioni e di pseudoconfessioni, mitizzando se stessi davanti agli altri. ancor prima dell’esplosione planetaria dei social network, si cambia incessantemente di profilo. La nipote di Mubarak Una menzogna ripetuta tante volte diventa verità (Goebbels)

Karima el Marhoug, alias Ruby Rubacuori, ovvero la nipote di Mubarak, potrebbe entrare nella casa scoperchiata di one day, accanto alla misteriorsa Dolly bell di cui non si capisce se sia un coniglio di pezza, una bambola gonfiabile o la prostituta protagonista di un film dell’epoca d’oro del cinema di emir Kusturica. Come la stessa ragazza marocchina ha confidato in un’intervista alla bild, cambiare versione è la storia della sua vita. probabilmente, invece, finirà con l’entrare nello spazio sperimentale di un vero reality: simona Ventura, la vestale dell’isola dei famosi, ha già dichiarato che la presenza al suo show di Raffaella Fico, una delle pin-up coinvolte nelle feste di arcore, è una cartina di tornasole politica. La sua eventuale esclusione nelle prime fasi del gioco, ha aggiunto sorniona, ci farà capire “cosa veramente pensano gli italiani di questa situazione. se l’italia è indignata o no.” Fino a qualche tempo fa i pessimisti più radicali temevano che le elezioni si stessero trasformando nell’epifenomeno dei sondaggi, ma non potevano neanche lontanamente immaginare che ai vertici della nostra Stimmungdemokratie, delegati a registrare il tasso reale di indignazione morale del paese, i reality show si apprestassero a soppiantare gli istituti di statistica. La conduttrice, del resto, ci tiene a rimettere a posto le gerarchie della telemorfosi: “Non sono io – dice – che convoco le ragazze che sono state ad arcore. e’

arcore che chiama quelle che sono venute all’isola.” (poi, scaltramente, aggiunge che ognuna con il suo corpo “fa quello che vuole”: ci mancherebbe solo che il corpo visivo e quello vissuto venissero confusi in una unica pseudocategoria come quella che attualmente vede gli spacciatori di immagini e i procacciatori di relazioni confondersi sempre di più ai reclutatori di prostitute…). Guardate bene, avverte la celebrante dei riti isolani, dove il sogno nasce. Rispetto a un desiderio democraticamente condiviso, il potere ha solo il privilegio distintivo del passage à l’acte: può fare quello che tutti sognano ed è questo che in larga misura continua a legittimare il suo continuo presentarsi come un sogno realizzato. “sono il sogno di tutte le italiane”, come sembra si annunciasse il premier silvio berlusconi al telefono con una delle ragazze (nate, come ha spiegato Giuliano Ferrara, davanti al televisore e cresciute nel culto della suo sorriso numinoso). tra i commenti on-line alle immagini caricate su Youtube dell’ intervista di Nadia Macrì ad annozero spiccava quello, estatico, di un utente che investiva il premier del potere taumaturgico di incarnare i sogni proibiti di tutti i maschi italiani eterosessuali: “spero che se le sia ingroppate tutte”, giubilava l’anonimo, “perché lui è il presidente del Consiglio e se lo ha fatto è un po’ come se lo avessi anche fatto io”. L’apice della corruzione assoluta: iscrivere nel reale tutto quello che apparteneva all’ordine del sogno. Forse non ci si aspettava che la fantasia prendesse il potere in un senso così letterale e che da quel momento ogni atto del potere sarebbe stato avvolto da una patina fantastica. Giulian Ferrara, che con una certa intelligenza ha intuito il pericolo di questa confusione, ha dichiarato che la telefonata di berlusconi in questura è stata un errore ma che poi ci è stato costruito sopra “un romanzo per entrare nelle vite degli altri”: il problema è che da tempo la scena su cui

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questa vita (e questa alterità) può rendersi invisibile non esiste più, da tempo è stata trasformata in una proiezione dell’immaginario, in un bene eucaristico che la collettività viene invitata a consumare (un po’ come quell’immagine, e poco importa che sia vera, in cui il premier sfila nudo davanti alle ragazze di arcore, in attesa di offrirsi a ciascuna di loro, nello spazio discreto del sacrificio), da tempo il privato è diventato la merce principale sul terreno della rappresentazione pubblica - e tutto ciò che è pubblico, di conseguenza, è stato simbolicamente distrutto. se il potere si costruisce come icona – “icona pop” come proprio il direttore del Foglio aveva a suo tempo, non si sa quanto ironicamente, definito il presidente del Consiglio – non ci si può lamentare, poi, se diverrà oggetto di una sfigurazione: il volto attonito e sanguinolento disegnato da Massimo tartaglia con il suo folle passage à l’acte (che incarna anch’esso un desiderio collettivo) è solo l’altra faccia del volto cristallizzato in un eterno sorriso; le foto domestiche che sulle pagine di “una storia italiana” esibivano la felicità familiare come trionfale valore aggiunto nella lotta per la competizione politica, nello smaccato tentativo di privatizzare quest’ultima, già alludevano alla foto segreta, probabilmente impossibile, di cui tutti sono stati poi alla spasmodica ricerca. No, non è la magistratura a scrivere il romanzo italiano scaturito dall’immaginazione di un potere osceno che non riesce più a controllarne i flussi, a distinguere la realtà dalle finzioni con cui l’ha continuamente investita. in Gottland, Marius szczygiel racconta i paradossi del trattamento ideologico a cui i dirigenti dei partiti comunisti dell’europa dell’est sottoponevano la realtà, persino quella geofisica: così, nel corso di un convegno scientifico, un tal Kopecky, ministro dell’informazione nella Cecoslovacchia staliniana, poteva affermare che l’elbrus era la vetta più alta d’europa, screditando l’opinione corrente che

attribuiva questo primato al Monte bianco come “un anacronistico retaggio del cosmopolitismo reazionario.” il parlamento italiano non dispone fortunatamente di una narrazione così totale e devastante come quella comunista per mutare i dati ordinari del sapere geografico. Ma un suo organo, la giunta per le autorizzazioni a procedere, si è spinto anche più in là nel commercio pirandelliano tra il vero e il verosimile, decretando la plausibilità di un’affermazione evidentemente immaginaria: chiamando la questura di Milano, silvio berlusconi agì nella convinzione che Karima el Marough, meglio nota come Ruby Rubacuori, fosse veramente la nipote del presidente egiziano Hosni Mubarak. siamo, insomma, nel paradosso del soldato di guardia al teatro di baltimora che, nel 1821, ferì l’attore che interpretava otello pensando che si trattasse di un vero negro colto in flagrante mentre stava tentando di strangolare una donna bianca. Ruby Rubacuori configura quella che stendhal, sfogliando il littré, definiva illusione perfetta, uno stato che si riscontra molto di rado sulla scena e più frequentemente nei sogni. una persona può essere scambiata per un personaggio e il soprassalto di un clown nella sua progressione dal finto al vero diventare un gesto che chiama in causa la dimensione sovrana; in questo slittamento indeterminato tra il berlusconi uomo, il berlusconi cittadino e il berlusconi presidente del Consiglio, ogni possibilità di trattenere una verità si smarrisce, si confonde e, fatalmente, viene consegnata all’arbitrio di una convenzione formale. se fossimo a teatro, potremmo almeno condividere il godimento supremo di un’ alchimia che salda l’essere e il non, attendere quel momento sorprendente di cui parla Katherine Mainsfield in una pagina dei suoi diari, il momento in cui si si smette di recitare e “i due caratteri si sono confusi (…) la finzione è diventata azione reale.” Finzione perfetta, azione reale:

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questo momento, anche se può sembrare incredibile, è quello in cui silvio berlusconi, annunciato dal suo caposcorta, parla con il funzionario della questura di Milano e afferma di essere il presidente del Consiglio, mettendo ogni sua dichiarazione successiva sotto l’aura di autenticazione della sua funzione (cioè della sua finzione) sovrana: è perché berlusconi è il presidente del Consiglio che la ragazza fermata può essere la nipote del presidente egiziano Mubarak, un delicato affare di stato. se mentendo si riesce a mentire anche a se stessi, si diventa veri. D’altronde, come dice l’umorista americano arthur bloch, nessuno è più sincero di un politico che mente. il meccanismo dell’auto-inganno è stato variamente analizzato in passato e di recente. “Le sabbie mobili delle dichiarazioni menzognere di tutti i tipi – scriveva Hannah arendt a proposito dei retroscena sulla politica americana in Viet Nam svelati dai cosidetti Pentagon Papers – volte a ingannare gli altri quanto se stessi, sono in grado di fagocitare qualsiasi lettore tenti di esaminare questo materiale, il quale, sfortunatamente, ha costituito la struttura portante della politica interna ed estera degli stati uniti per quasi un decennio” . e l’auto-inganno risulta ancora più pericoloso dello stesso inganno, perché l’ingannatore che inganna se stesso, dice ancora la arendt, “perde ogni contatto non solo con il suo pubblico, ma anche con il mondo reale, che però può ancora toccarlo, perché costui può estrarre da esso la mente, ma non il corpo” il romanzo delle intercettazioni rappresenta uno slittamento ulteriore rispetto ai Pentagon Papers, perché qui non si tratta più, come nel caso di Johnson e Nixon, di falsificare dei fatti in nome dell’immagine internazionale di un paese, o di un qualunque altro “superiore” interesse, ma di utilizzare la menzogna come strumento di ricreazione dell’illimitata sperimentazione esistenziale a cui il potere dà accesso. Non è la menzogna ad essere instrumentum regni, è

il regno che diviene lo strumento della menzogna, senza alcuna preoccupazione per l’ordine trascendente di verità che eventualmente la giustifica, come ancora accadeva nel mondo totalitario dove l’auto-inganno era fondato sulla fede nei fini ultimi del processo rivoluzionario: la ragione del potere non risiede più fuori di esso, e nemmeno è immanente ai suoi atti, è anch’essa confusa in un vorticoso movimento di privatizzazione autoreferenziale, e dunque di derealizzazione narcisistica, del mondo. poco importa che la finzione sia creduta, anche nella Cecoslovacchia di Novotny, probabilmente, la gente ha continuato a non credere che l’elbrus fosse la montagna più alta d’europa: il potere, anzi, consiste proprio in questa capacità di negare l’evidenza, formalizzando una narrazione unica (o un’unica lingua per raccontare le cose), una narrazione sovrana. Lo scontro con la magistratura, che parla di “abuso della qualità di presidente del Consiglio” (e fondamentalmente, quindi, di una privatizzazione della funzione sovrana) è particolarmente urticante perché non ha per oggetto l’opinione su quanto accaduto alla questura di Milano, ma appunto il potere di istituire un racconto dotato di caratteri sovrani, capace di produrre (o di inibire) effetti reali. Nel frattempo, si avanza insinuante una nuova ipotesi epistemologica (della quale non si misurano ancora del tutto gli effetti devastanti): l’idea che la verità sia riconducibile a uno statuto maggioritario e che dissentire rispetto ad esso equivalga a un attentato contro la democrazia (il golpe mediatico, quello giudiziario etc.). anche nel caso della versione del cosiddetto Rubygate ufficializzata dal parlamento, il vero è diventato un momento del falso. il romanzo conquista in tal modo una sua effettività. Mentre la politica scivola parallelamente nell’irrealtà. avevamo già avuto il sospetto, del resto, che i vari tony, George, Vladimir, per non dire dell’impresario circense chiamato

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Muhammar Gheddafi, con i suoi cavalli berberi, i suoi plotoni di odalische e la lanterna magica dell’epopea anticoloniale impressa sulla camicia, non fossero dei personaggi del tutto reali. ora sappiamo che il Mubarak del Cairo, contro cui masse di persone scendevano in piazza nelle città egiziane, non è esattamente il Mubarak di arcore, non può esserlo, appartiene a un altro ordine della percezione, l’ordine della fiabesca Realtà integrale dove ogni corpo, ogni luogo, vengono ricostruiti a immagine e somiglianza di una sovranità del desiderio che coincide magicamente con i desideri del sovrano. Dopo la telefonata, la questura consegna, o più che altro restituisce, Karima el Marhoug al “favoloso mondo di Nicole Minetti” , riconoscendo implicitamente di non poter esercitare alcuna giurisdizione su un’entità immaginaria. Cosa è reale, dunque? solo il desiderabile, come berlusconi ammise in una famosa conferenza stampa con l’amico putin dove, con il colpo di spugna di una battuta – e sempre col sorriso sulle labbra – cancellò di incanto le sofferenze della popolazione cecena sottoposta alle sistematiche esazioni delle armate russe soltanto perché tali sofferenze erano sgradite all’ospite. La sofferenza, berlusconi lo ha fatto più volte capire, è estranea al mondo “straordinariamente estetico” in cui il tycoon televisivo ha, fin dall’inizio della sua discesa in campo, deciso di immergere il paese. sospeso tra Disneyland e i castelli in cui gli aristocratici del marchese De sade sperimentano il limite estremo dell’abiezione e pescano nel pozzo senza fondo del desiderio, arcore non è né una residenza privata, né un luogo politico, è il set utopico di una transustanziazione del reale nell’immaginario e viceversa, la scena di un’epifania dionisiaca del potere a cui si viene iniziati, come Nicole Minetti spiega, con la sua lingua ineffabile, all’amica invitata. “Ne vedrai di ogni” è la promessa visionaria di un potere spettacolare e delirante che si pone all’inizio e alla fine di ogni possibile godimento:

fantastico e abietto, munifico e tirannico, paternalista e stupratore, sontuoso e squallido. tutti possono in qualche modo accedervi, i requisiti sono interclassisti: l’alto e il basso si ritrovano a contatto, come nelle migliori tradizioni della fiaba sentimentale o della cerimonia libertina, Fede e Mora, intendenti del sogno ad occhi aperti, battono il sottobosco televisivo con la scarpetta di Cenerentola. tutto vi è in un certo senso permesso, ma all’interno di rigide regole di rappresentazione, la prima delle quali impone di non dire mai quello che si è o quello che si fa. “e poi ci sono io, dice Nicole Minetti alla fine del suo elenco, con un’espressione che assume un tono involontariamente sapienziale – e che emana forti, romanzesche ombre di consapevolezza - che faccio quello che faccio.” Ma quando Nadia Macrì, alterata dall’alcool, confessa al premier di essere una prostituta viene cacciata via. o almeno, così si racconta. il corpo ludico, ammantato dalla finzione del desiderio, è sovranamente ambito. il corpo fuori di scena, letteralmente osceno, quotidianamente crocefisso da quella finzione – e dallo scambio che comporta – è inammissibile, anche se si tratta, con ogni evidenza, dello stesso corpo. uomo per eccellenza del visivo, imprenditore di una nuova forma di immortalità, il sovrano di arcore non può accettare una caduta oscena, mortale che lo deprime e di cui proprio il denaro, per altri versi pieno di grazia, è la cartina di tornasole. Una crisi di realtà

un eccesso di immaginario finisce per occludere ogni potere dell’immaginazione: è solo vedendo meno, dice Rousseau, che si riesce a “immaginare di più”. Quel regime della percezione che baudrillard definisce telemorfosi, di cui la televisione propriamente detta è ormai solo un dettaglio olografico , non ammette vuoti e zone morte, è una saturazione permanente di tutti gli schermi disponibili dove il reale,

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snervato da una continua messa in scena, ha smesso di costituire un mistero ineffabile su cui esercitarsi. sui loro siti i giornali del premier non esitano a diffondere i video artigianali delle “vere” feste di arcore, quelle in cui non accade nulla e dove ad essere spiata è una rassicurante banalità. e’ una specie di omeopatia visiva per rintuzzare le immaginazioni troppo sbrigliate – esaltate proprio dai non detti delle intercettazioni - ma anche per sedare le fibrillazioni di una società che, passando attraverso lo specchio di arcore, teme sempre di più di dover fare i conti con se stessa: ecco il potere che siede a tavola come ciascuno di noi in uno di quei megaristoranti di provincia con sale adibite ai matrimoni, ai battesimi, ai compleanni (o, come una suggerisce in tv una deputatessa della maggioranza, pur di sottolineare la medietà dell’immagine, nel salone delle feste di un villaggio Valtour), appesantito e un po’ annoiato davanti a uno spettacolino di ballerine, squallido ma decisamente innocente. al lato opposto di queste sequenze da videofonino a cui la precarietà dell’inquadratura conferisce una stimmate di autenticità (“autentiche” come i filmini che giriamo nelle grandi occasioni delle nostre vite familiari e, al pari loro, noiose, insignificanti, piatte), ci sarebbe il mitico scatto che mostra la flagrante depravazione del premier. in un caso e nell’altro, tutti sembrano convinti che le immagini siano dei fatti. se ci sono immagini, è proprio perché da immaginare non c’è più nulla: la realtà in persona si offre nella sua trasparenza definitiva, palmare, tautologica. La fotografia ultima è, non a caso, immediatamente impugnata dalla difesa di berlusconi: se essa esiste, dicono gli avvocati, è sicuramente falsa – cioè se essa esiste, ogni immaginazione ulteriore non potrà che interrompersi e morire con essa, alle soglie di una verità inafferrabile che il potere, da parte sua, respinge sempre al mittente come un effetto distorsivo, una patologia del suo

sguardo ossessionato. Nessuno saprà mai cosa è veramente accaduto sul Monte Moria: il muro dell’osceno è invalicabile, la follia del passage à l’acte non è rappresentabile. siamo in pieno dentro “l’esigenza contraddittoria e simultanea di non essere visti e di essere perpetuamente visibili”. Ma soprattutto, questo dibattito attorno all’intermittenza del visibile, al dileguarsi del dio dalle cangianti apparenze della sua trasgressione in forme umane, svaluta la profondità della testimonianza rivolta a quel che non si vede e che, in quanto tale, eccede l’ordine della prova. La mouse trap del racconto giudiziario e quella del racconto sovrano, in questo senso, si chiudono ermeticamente una sull’altra, occludendo nel loro scontro parossistico ogni trascendenza, ogni fuga in avanti nel (o del) simbolico. Difficilmente il romanzo delle intercettazioni si presterà alla stessa forzatura poetica che pier paolo pasolini imprimeva al suo “romanzo delle stragi”, facendo rintoccare, prima di ogni squarcio aperto sulla tela opaca della storia della prima repubblica, il metronomo oscuro di quell’ ”io so” (e già solo quest’ “io” di pubblica crocefissione, quest’io luterano, dreyfusardo, riveste un’identità che oggi suona più inconcepibile che improponibile) pronto a testimoniare non quel che si vedeva – anche se pur sempre, è vero, attraverso il visibile – ma quello che, appunto, non si poteva vedere. “io so./io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato golpe (…)/io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969./ io so i nomi dei responsabili delle stragi di brescia e di bologna (…)” La prima cosa che viene in mente, rileggendo questa pagina per l’ennesima volta, è il permanere del suo paradosso, poiché tutti questi nomi saputi, invece, ancora oggi non li conosciamo (ma non è, appunto, l’italia che si è costruita nella rimozione di questa coscienza estrema che non li conosce o che continua a riconoscerli

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senza volerli conoscere?). “io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi./ io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o si tace (…)”. e’ nel buio dell’esperienza e dell’istinto (“tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell’istinto del mio mestiere”) che pasolini attinge la luce della sua veggenza, indimostrata (come ogni profezia che si rispetti) perché ciò che vede al di là dello schermo è anzitutto l’essenza, l’essenza criminale dei poteri italiani. Ma ciò che nel processo telemorfico in cui la nostra realtà è immersa viene continuamente screditato è proprio l’esperienza, quella facoltà “che sembrava inalienabile”, come dice Walter benjamin e che per l’autore de il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov era alla base di qualunque arte del racconto. Le quotazioni dell’esperienza sono cadute. e si direbbe, aggiunge benjamin, che continuino a cadere senza fondo: “ogni occhiata al giornale ci rivela che essa (l’esperienza) è caduta ancora più in basso, che non solo l’immagine del mondo esterno, ma anche quella del mondo morale ha subito da un giorno all’altro trasformazioni che non avremmo mai ritenuto possibili.” Di una realtà continuamente tradotta in spettacolo, anche e soprattutto nel momento in cui sembra esondare dallo schermo per troppa compressione, deflagrare nelle coscienze che si chiedono fin dove potrà spingersi la sua proliferazione di colpi di scena, non si può dare alcuna esperienza, e tanto meno, come dimostra il romanzo italiano, un’esperienza morale: la sua sdrammatizzazione, la sua derealizzazione, sono in agguato nelle sue stesse iperboli. un sottile sentimento di incredulità si confonde all’incantamento morboso con cui l’opinione pubblica accoglie la scena iperreale del Rubygate: tutte queste fantasie realizzate da un uomo di 74 anni non possono

essere vere, un tale livello di corruzione della realtà nel sogno perverso di un sovrano (per di più democratico) è impensabile se non ammettendo che la cronaca politica è ormai una forma superiore, la forma compiuta, di spettacolarità delirante. anche l’utente di Youtube estasiato dalla potenza sessuale del premier, in fondo, non riesce a credere ai propri occhi. ogni volta che l’interessato ridimensiona la propria vicenda con una battuta (sul “bunga bunga”, sulle minorenni etc.) non fa che speculare sulla riserva mentale di questa incredulità. e tuttavia, ogni volta, sembra non resistere alla tentazione narcisistica di presentarsi tra le righe dei suoi rilanci sarcastici, come il vero uomo dei sogni, il leggendario libertino che lo si accusa di essere, il recordman da dieci ragazze a notte: negando l’abnorme, incredibile realtà del castello di accuse in cui lo si vorrebbe incastrare, continua ad ammiccare alla sua rappresentazione come se essa fosse un livello superiore di realtà. il clown si rintana nello statista, lo statista si chiude nel silenzio, la molla dell’eccitazione si comprime, ma poi inesorabilmente scatta all’infuori, e scherzando scherzando pulcinella si confessa. La negazione diventa un biglietto di ingresso nella Shangri la della deregulation sessista scritto con l’inchiostro simpatico di un desiderio condiviso che, in ultima analisi, costituisce la grande macchina di complicità sociale a cui la telemorfosi berlusconiana continua a sostenersi. Lo spettatore non riesce a staccarsi dallo spettacolo perché, fuori di esso, teme di precipitare in quel vuoto (“di carità e di cultura” per continuare a citare pasolini) che sente ribollire sotto le finzioni e da cui la commedia del potere, tutto sommato, lo protegge: lo schermo non ci scherma che a noi stessi, alla miseria esperienziale di una vita da voyeur, all’intervallo di piacere sempre più breve, sempre più derisorio, che separa una dose di irrealtà da quella successiva. La realtà resta il retaggio dei poveri, di quelli

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che si affacciano all’orizzonte della comunicazione globale che ha ereditato la storia con il rilievo anacronistico dei loro corpi e su di essi continuano a misurare il valore della loro testimonianza contro il potere. per giorni, gli organi di informazione italiani cercano di arginare l’irruzione, sulla stessa scena in cui impazzano le vicende della “nipote di Mubarak”, delle fiumane nordafricane che, con o senza l’aiuto dei social network, si riversano sulle piazze di tunisi, di algeri, del Cairo, poi di tripoli e di bengasi, chiedendo a gran voce le dimissioni dei propri capi. in questa contemporaneità sembra agire persino una beffarda vendetta del referente che non sfugge a comici e a satirici, mentre viene tenuta a rispettosa distanza dai media “seri”. Ma è solo un momento, in cui il romanzo italiano si avvita ulteriormente su quella crisi di realtà che lo debilita e nel contempo ne rilancia la “cattiva infinità”, poiché non c’è alcun cielo dietro le gesta farsesche di questi dèi e tutti (e più di tutti coloro che lo negano) lo hanno sempre saputo. sulle spiagge vicino a tripoli la televisione mostra una lunga fila di fosse scavate nella sabbia: esse segnalano che, come dice Wislawa szymborska in una delle sue poesie, il corpo c’è e c’è e c’è. C’è e tra i paesaggi in cui l’anima vaga, “ora certa, ora incerta della propria esistenza”, non trova riparo. il corpo c’è e proprio nel suo non trovare riparo non può essere nascosto: esso è tornato ad essere un’enormità. Davanti a questa enormità, silvio berlusconi, impresario di corpi televisivamente immortali, tycoon della politica come spettacolo globale, esita, vacilla, cercando inizialmente di replicare il colpo negazionista della Cecenia, di nascondere il massacro dietro il cartello “non disturbare”, vecchia e immarcescibile divisa della realpolitik. un velo cereo, una corrusca ombra di tempesta, offusca il suo sorriso, mentre a malincuore parla di “vento di libertà”, di “gioventù e di internet”, cita imprecisate “violenze”- e

nel frattempo cerca di instillare il dubbio sul “dogmatismo anti-occidentale” delle nuove masse arabe. Non è addolorato, è indispettito perché le circostanze lo obbligano a scoprire quello che ha sempre saputo: il rais da Mille e una notte che aveva installato la sua tenda beduina in una villa della zona residenziale di Roma è un assassino seriale. “Diffidate dei pagliacci”, avverte una delle prosperose donne di altan, “possono diventare feroci”. Nel suo giro di frasi, silvio berlusconi riesce a non citare mai Muhammar Gheddafi. Ma ormai il corpo c’è: ogni omissione non fa che renderlo ancor più mostruosamente visibile.

Postilla. La seconda repubblica di Bayreuth Ho scritto telemorfosi su richiesta di Fabrizio arcuri che mi aveva domandato di affrontare il problema di se e come la realtà possa ancora essere raccontata in tempi di saturazione mediatica. il testo avrebbe dovuto essere pubblicato in un libro edito per conto del teatro stabile di torino e del festival prospettiva di cui arcuri è condirettore artistico. Dal momento che sono incapace di scrivere alcunché senza muovere da un oggetto concreto, da un esempio, avevo scelto come modello della mia argomentazione uno spettacolo dello stesso arcuri che non è mai andato in scena, ritenendolo il tentativo più ambizioso che fosse stato compiuto fino a quel momento per ingabbiare una realtà intossicata dall’ immaginario nel format di una rappresentazione. Dallo spettacolo che non era mai stato fatto, il testo muoveva verso quello spettacolo continuo che la politica italiana inscena ogni giorno speculando sul voyeurismo di un pubblico che ormai la segue come si segue una telenovela, cioè con un miscuglio di rassegnazione e di partecipazione, di emozione e di incredulità, mobilitando nei confronti del racconto politico la stessa riserva mentale che solitamente accompagna la fruizione di

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una qualunque fiction, più o meno vera, più o meno onesta. La citazione di Guy Débord che apre il testo (“nel mondo realmente rovesciato il vero è un momento del falso”) diceva chiaramente che la società dello spettacolo era il suo presupposto, ma anche che l’argomentazione avrebbe chiamato in causa il problema fondante di ogni rappresentazione, che non è quello del suo rapporto con la realtà, ma quello del suo rapporto, appunto, con la verità. e’ il problema posto dal principe amleto quando ordisce assieme agli attori la mouse trap in cui la coscienza del Re dovrebbe restare imprigionata – con un atteggiamento opposto a quello della società dello spettacolo, sulla scena di elsinore si tratta di far tralucere il vero attraverso il falso, di stagliare la verità sullo sfondo della finzione. Questa finalità si ripercuote sul processo finzionale stesso, cioè sul “come” la recitazione degli attori riuscirà a rendere credibile la trasposizione di un vero omicidio (forse sarebbe giusto dire di questo omicidio) sulla scena di un delitto immaginario (di quel delitto): ed è ancora questione, come dice il principe, di reggere lo specchio alla natura, “di mostrare alla virtù il suo volto, al disdegno la sua immagine, e perfino la forma e l’impronta loro all’età e al corpo che il momento esige.” L’ultima frontiera del potere, dunque, è la verità, e l’ultima frontiera della verità è la rappresentazione. Ma non è più alla natura che la rappresentazione deve porgere lo specchio (questa immagine, che già per san paolo aveva a che vedere con la conoscenza e che d’altro canto richiama l’invenzione della prospettiva centrale, è ancora quella che Mallarmé utilizzava per definire il romanzo ottocentesco: uno specchio trascinato per le strade), ma a un secondo specchio predisposto nel teatro della realtà che è il luogo “rovesciato” in cui il potere si dà già come rappresentazione. Nel mondo shakespiriano i re compaiono spesso accanto ai loro fools, in una sorta di sdoppiamento, forse perché, para-

frasando un’annotazione di brecht, la commedia, più spesso della tragedia, “non prende alla leggera” le sofferenze degli uomini. Ma cosa accade quando il re e il giullare, l’attore e il sovrano si uniscono nella stessa persona? Quando ho scritto telemorfosi non avevo ancora visto la versione de la resistibile ascesa di arturo Ui di bertolt brecht allestita da Claudio Longhi al teatro argentina di Roma. La lezione non è mai teorica, l’arturo Ui è per l’appunto una Parabelstück, una “commedia parabolica”. e al centro di questa parabola sulla scena di Longhi si vede avanzare uno specchio davanti al quale umberto orsini, in quel momento nella parte dell’attore, appronta la sua vestizione: seduto su una poltroncina, al centro di una scena piena di cavolfiori che visti da lontano sembrano enormi gardenie - i fiori preferiti dai nottambuli e dai gangster - mentre alle sue spalle delle cassette di plastica impilate disegnano vaghi profili di grattacieli, si imbelletta lentamente, con ironica pazienza. si ravvia un po’ i radi capelli bianchi, si passa un pennello sopra il labbro superiore, un’attrice pettina una parrucca di capelli lisci e neri dall’aria unta appesa vicino allo specchio su cui si sta rimirando. una voce registrata scandisce la vestizione, è la sua stessa voce che recita il monologo di antonio davanti al feretro di Cesare nel Giulio Cesare di shakespeare. poi l’attore si applica due baffetti sotto il naso e fa per prendere la parrucca, e in quell’istante, guardando verso il pubblico, ha una piccola, geniale resipiscenza, un lieve sorriso gli appare sulla faccia, come per dire: devo proprio? Chi me lo fa fare, in fondo? e’ soltanto un momento, dopo il quale indossa la parrucca e davanti a noi appare adolf Hitler. se la trasformazione desta così tanta emozione, e quasi una specie di euforia, non è soltanto perché ad animarla c’è un grande attore ritrovato in quella energica frugalità che secondo strehler lo rendeva naturalmente brechtiano. Ma perché in questa metamorfosi si gioca il senso più

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recondito della misteriosa epifania di adolf Hitler nella nostra storia che, dopo brecht, dopo Chaplin, (ma anche dopo Vogliamo vivere di Lubitsch) Longhi rende con lo sdoppiamento di un’immagine, chiamando in causa un dispositivo meta teatrale classico (in fondo conosciuto fin dai tempi di shakespeare: il doppio ruolo ) come simbolo del momento in cui il potere sta per trasformarsi in immagine. e difatti, a trasformazione avvenuta, ecco comparire in scena il poderoso microfono della radiofonia anni quaranta e anche un televisore su cui scorrono i filmati del vero Hitler e delle sue parodie. orsini si è fatto in tre: fin dall’inizio è stato arturo ui e il suo doppio hitleriano, quindi, con uno squarcio nel processo di rappresentazione, è stato l’attore che insegna al piccolo gangster di Chicago ad essere adolf Hitler, a muoversi, a sedersi, a camminare e a parlare come un capo. prima di quel momento, il gangster che interpretava era una figura piccola, incurvata, balbettante che si muoveva con la nevrotica circospezione di un infelice parvenu tra i borghesi arricchiti del trust dei cavolfiori tronfi nei loro smoking… Ma in quello sguardo gettato in platea, messaggio in bottiglia lanciato attraverso la quarta parete, è impossibile non leggere un’estrema istanza di salvezza del lavoro dell’attore, una confessione che è anche una ritorsione ironica sul pubblico: voi, non io, avete voluto che io sia questo. Con brecht, con Longhi, con il teatro, siamo ancora nel tentativo di dar conto dell’avvento della massima illusione, della simulazione definitiva, attraverso la mostrazione della sua genealogia e lo smontaggio dialettico degli elementi che compongono la sua illusoria organicità: in scena, come accade negli ultimi film di Godard, non appare mai una sola immagine, ce ne sono quasi sempre due alla volta. se la qualità politica, per così dire, di quell’immagine ci sembra lontana da noi – come ad esempio è apparsa a Franco Cordelli in una recensione sul Corriere della sera – è

perché i livelli di iconizzazione del potere a cui siamo abituati rispondono a una degradazione talmente forte di quel modello, nel frattempo banalizzato da un’archeologia dell’immaginario, che il suo nesso con il nostro presente ne risulta vanificato o, peggio, condizionato da un approccio ideologico. pensando a berlusconi, diciamo che non è il fascismo il problema. e in effetti, non lo è. eppure, nella scena del trucco dell’attore, torniamo all’origine di quel movimento di estetizzazione della vita politica che Walter benjamin segnalava come il principale carattere formale del fascismo e che tuttavia non si è esaurito con il fascismo. al gangster che diviene leader carismatico, al clown che si installa trionfalmente al posto del sovrano ereditando lo stile grandioso della storia, basta un passo avanti per fagocitare il suo doppio finzionale e attoriale, eliminare l’ingombrante alterità del segno e trasformare il potere nella scena del suo Gesamtkunstwerk: “i popoli tendono l’orecchio – scriveva brecht nel 1938 – per sentire ciò che ha da dir loro il Fürher della seconda repubblica tedesca quella di bayeruth,”. e già in questa “seconda repubblica”, tutto è proiezione: la berlino micenea che albert speer progetta per conto dell’ex ritoccatore di cartoline, le immagini moltitudinarie delle fiaccolate illuminate dalla luna, opera wagneriana dal vivo che Leni Riefensthal, investita da Hilter, come lei stessa racconta, della missione di fare il suo cinema, immortala nelle sequenze di triumph des Willens (titolo scelto personalmente dal produttore), ignorando il cupo presagio nascosto nell’ammasso festoso di corpi e di braccia levate su cui il film si chiude. Cineasta e architetto virtuale, pittore mancato per colpa di un complotto ebraico all’accademia delle belle arti di Vienna, stregato dalla musica come un adolescente dentro le sue cuffie – sarà lui stesso a ordinare alla radio di berlino di accompagnare la sua morte con l’adagio della sinfonia n. 7 di bruckner diretta da Furtwangler – Hitler è comunque un

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autore deciso a fare sul serio con la materia più delicata di ogni finzione artistica che è sempre il destino degli altri, poiché è da loro, e soltanto da loro in fondo, che promana il suo potere: i dittatori non sono nulla in sé, sono il terminale di un desiderio collettivo, la risonanza mimetica di un’idiosincrasia di massa che attecchisce in quella straordinaria “crisi di testi” che brecht segnala nel suo scritto dedicato al più grande di essi che è anche “il più grande di tutti gli artisti”, l’artista del tutto e del niente. “alla musica, senza la quale non può vivere, comanda di abolire i testi” perché “non ha bisogno di testi. L’ascoltatore il testo può farselo da solo. La musica può cavarsela solo coi suoni. in fondo anche lui, nei suoi discorsi, se la cava quasi solo col suono.” i dittatori cristallizzano il suono di un’epoca, il suono e il sogno: il testo non è che la riscrittura icastica, debolmente tradotta, della vibrazione idiosincratica in cui si immedesimano e del sogno che, prima di loro, nessuno sapeva di sognare. il loro mimetismo è assoluto, proprio nella misura in cui la loro arte è totale: non prevede un solo ruolo, una sola maschera, una sola competenza, ma tutti i ruoli, tutte le maschere, tutte le competenze come la signora Ceausescu che eccelleva nei saperi più disparati, dalla letteratura francese alla chimica, o stalin che stabiliva la parola definitiva sulla linguistica. il loro corpo, presente e sognato, comunica vita e potenza su tutti i teatri in cui si degna di apparire, la loro energia iconica permea anche i settori dell’esistenza su cui il potere non aveva alcuna presa: “vivere è diventato più allegro!” prescriveva uno slogan staliniano degli anni 30, mentre sui muri della costruenda metropolitana di Mosca il popolo stesso veniva raffigurato da Lapsin ed altri artisti in sfarzose allegorie traboccanti di beatitudine… Ma tutto questo, suona la replica, era la tragica storia, la tragica musica del Novecento: a dispetto di brecht, che voleva disinnescare il fascino dei grandi massa-

cratori, trattandoli come piccoli gangster, a dispetto di Chaplin, che scrutava la comica e inquieta somiglianza tra il grande dittatore e il più piccolo degli uomini – l’angelico barbiere ebreo che alla fine si impadronisce del microfono – essa continua a presentarsi a noi nelle forme di quella “vendetta di shakespeare” evocata da Cases proprio a proposito dell’arturo Ui, cioè nelle forme di una rappresentazione grandiosa nel sogno e nell’orrore. (Dopo le prime repliche dello spettacolo diretto da Longhi, l’attrice sonia bergamasco mi ha confidato di essersi sentita disturbata da quella svastica rossa e nera che un proiettore disegnava sullo schermo dorato del sipario mangiafuoco del teatro: vi era in essa una insopportabile compiacenza estetica, una specie di brivido nero e glaciale. Forese è lo stesso brivido che percorre le pagine delle benevole di Jonathan Littell o che susan sontag ha recensito in “Fascino fascista”, come se il cinema nazista dovesse sempre colpirci a tradimento in qualche oscura parte di noi stessi. La bergamasco metteva spontaneamente a confronto quel bagliore bello e sinistro con l’asciuttezza di Shoah, il film aniconico di Claude Lanzmann dove ogni possibilità di immaginare è deposta nell’urna della testimonianza, consegnata alla voce dei sopravvissuti. una rottura ontologica con l’umano rende il nazionalsocialismo incomparabile con altre forme di potere, persino di potere totalitario, almeno secondo Lanzmann. Ma l’uso dell’immagine, la trasformazione del potere in immagine, è il lascito che il suo cortocircuito storico trasmette al postmodernismo che, laddove banalizza quelle vecchie icone, stemperandone il carattere tragico, prosegue e sviluppa fino alle estreme conseguenze il processo di estetizzazione del politico che le ha prodotte). (Marzo 2011. Da il clown e il dittatore. Potere del teatro e teatro del potere).

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oSSerVatorio

Gaetano Pecora

alle origini della democrazia di massa Discutendo con biagio De Giovanni

“ogni atto del pensiero deriva da un senso di irritazione”1. Così emile Cioran. Quando poi i pensieri si distendono per quattrocento fittissime pagine e l’autore vi profonde i tesori più ricchi della sua dottrina, allora si può star certi: quella la contrarietà che gli ha dato l’attacco, l’ha turbato dentro e l’ha impegnato per intero. L’insoddisfazione da cui prende ala questo saggio di biagio De Giovanni (alle origini della democrazia di massa. i filosofi e i giuristi, editoriale scientifica, Napoli 2013) nasce dal contrasto, a suo dire troppo scolpito e rilevato nei contorni, tra il dispotismo da un lato e la democrazia dall’altro. Quasi che il primo, rovesciando d’impeto le verità della seconda, le precipitasse nel loro esatto contrario. e invece no: il dispotismo “è un compagno che sta annidato nello stesso principio democratico”2, sempre quello, sempre il medesimo, che con la bella felicità della coerenza ora può sorridere al riscatto dell’umanità e ora può piegarla sotto il giogo del comando più duro. Quale, dunque, il principio che lega due conclusioni così opposte nel circuito del suo stesso sviluppo? L’interrogativo tira in gioco l’eguaglianza, che per De Giovanni coincide con la natura “dell’uomo vista nella sua più semplice immediatezza”3 “nella sua più elementare pulsione”4.

L’uomo – aggiunge - è un “ente desiderante eguaglianza”5. sarà. pure, per quanti sforzi si facciano per ripulirla e tirarla a lucido, la “natura umana” ha sempre qualcosa di scivoloso che sfugge alla presa di definizioni troppo perentorie. Quante volte, per dire, sull’eguaglianza ha fatto premio il bisogno di sicurezza! e che pensare di moltitudini che per lungo corso di secoli si sono acconciate alla servitù più remissiva? e allora, cos’è “natu-rale”? La servitù, la sicurezza o l’egua-glianza? No: tanto, troppo diversi gli uomini che hanno cavalcato la scena del mondo, per calarli tutti negli stampi di una formula definita una volta e per sempre. immagino l’obiezione dell’autore: non io – dirà – ma i padri fondatori della moderna democrazia (Marx, Rousseau, tocqueville) hanno scolpito l’eguaglianza sul frontone della natura uma-na. se di arbitraria generalizzazione si tratta, dunque, il dito accusatore va puntato contro di loro e non verso di me. può darsi. anzi, diciamo la verità: è sicuramente così per Rousseau e per Marx per i quali il corso degli eventi non è stato avviato dagli individui e dalla competizione fra gli individui. Davvero per loro al principio di tutto ci fu l’organismo, la comunità, la fusione dell’io nel noi collettivo. solo di poi si è prodotta la caduta, e l’uomo è ro-

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tolato giù giù lungo il pendio della “volgare avidità”, della “brutale cupidigia di godimenti”, della “sordida avarizia” e “della rapina egoistica della proprietà comune”6. Ma la stessa fatalità che lo ha “corrotto, perduto” gli farà ritrovare se stesso ed egli celebrerà la sua “natura comunitaria”7 in una “forma superiore di tipo sociale arcaico”: la tribù8. Dall’unità originaria e dalla naturale eguaglianza, dunque, alla frantumazione, alla scissione; e dalla scissione ancora di nuovo all’unità, sia pure ad una unità più vitale ed opulenta (e non è detto che per Rousseau l’opulenza sia precisamente un bene). Come che sia, è questo il ritmo ternario che Rousseau prima e Marx poi (ma Marx con un di più di profondità filosofica) imprimono alle vicende umane che per essi partono dall’eguaglianza e all’eguaglianza ritorneranno come per effetto di una catena necessaria che finisce con il chiudersi in un circolo legato, come un anello che si risaldi sempre al suo punto di partenza. Va bene per Rousseau e per Marx, dunque. Ma che dire di tocqueville? Veramente pure lui pone l’eguaglianza in quel primo punto dove sta l’origine e la natura propria di ognuno di noi? Veramente anche tocqueville riporta “la democrazia alla condizione umana e alla volontà elementare di eguaglianza e la colloca in un punto primigenio”9? se fosse così l’epoca delle stratificazioni sociali, delle gerarchie che premevano sui sacrificati da Dio e sui segnati dal destino, l’epoca che fece la delizia dei pochi i quali trascorrevano la loro esistenza tra lo scintillio degli ori e i ricami delle sete, quell’epoca, la sua epoca, l’epoca che gli diede i natali, che lo accolse adolescente e che poi fece di lui un uomo, quell’epoca – dico – avrebbe dovuto bene sollevargli il petto di una virulenta, fosforica ostilità. Quando invece è esattamente il contrario: anche quando tocqueville si fa più carezzevole con i possibili sviluppi positivi della democrazia, anche quando nelle sue pagine tira un’aria di fresco e il periodo non volge a tempesta, anche

allora l’accento col quale ricorda i trascorsi aristocratici ha un che di commosso e si ha l’impressione che egli se ne è dovuto dividere col pianto nell’anima. prova che le radici tornavano, tornavano sempre e che solo con grande strazio e senza mai riuscirci completamente egli riusciva a tagliarle fuori da un orizzonte vitale che non poteva più senza smentirsi – rinserrare nel cerchio stretto dell’eguaglianza naturale. e che in quanto naturale doveva valere sempre e dappertutto, in ogni tempo e per ogni luogo. se però trascorriamo dall’universale al particolare e abbracciamo distese meno vaste, che indugino solo sui territori della democrazia, allora sì, De Giovanni ha cento, mille ragioni dalla sua: veramente l’uomo democratico è dominato dalla passione dell’eguaglianza, e davvero questa passione lo incammina per sentieri torti che a forza di curve e di serpentine possono condurlo su terreni diversi, dove gli si rivelano orizzonti completamente differenti da quelli che egli scrutava all’inizio. all’inizio è tutto un tumultuare di sentimenti fieri ed indipendenti: siamo eguali, così ragiona l’uomo democratico, e il mio prossimo non è né peggiore né migliore di me; perché, dunque, dovrei sacrificare la mia volontà alla sua? se l’una vale l’altra, che ognuno si tenga la propria e rimanga padrone del suo destino. Questo, beninteso, finché il confronto è con i propri concittadini, uno ad uno considerati. Quando però il confronto è con l’insieme della cittadinanza, il singolo avverte di colpo la propria piccolezza e abdica d’un subito alla sua individualità. perché questa improvvisa torsione? Ma precisamente perché egli si sente eguale agli altri (e gli altri giudica pari a sé), sicché “non trovando nulla che lo innalzi sopra gli altri e che lo distingua, diffida di se stesso non appena si sente osteggiato; non solo dubita delle proprie forse, ma arriva a dubitare del suo diritto ed è molto prossimo a riconoscere d’aver torto non appena i più lo asseriscono”10. e’ così che lo stesso principio di eguaglianza che al principio trasaliva di fermenti individua-

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listici, alla fine rischia di annegare i singoli “in una omogenea totalità di eguali”11. Vedete? basta nulla, appena un rapidissimo scarto, perché coloro che scioglievano inni all’individualità si trovino a salmodiare l’osanna del popolo; dove, naturalmente, il popolo va inteso alla maniera di Carl schmitt, come comunità che oltrepassa gli individui e che li supera in una entità superiore da cui, poi, essi ricevono dignità e ragion d’essere. siamo alle solite, al solito contrasto tra individualismo e organicismo, conten-denti di antica ruggine che si disputano la democrazia senza che mai nessuno dei due riesca a conquistarla definitivamente alla propria causa. Non ci riesce l’organicismo di schmitt. Ma neppure ci riesce l’individualismo di Kelsen perché – secondo De Giovanni – nella democrazia di Kelsen compare solo l’individuo razionale “liberato da ogni ceppo, vincolo materiale, o presupposto”12; l’individuo, dunque, “stilizzato fino ad apparire come la propria silhouette, la propria maschera… e qui – avverte l’autore – si avverte il rischio di un’astrattezza radicale”13, che è poi la stessa, identica astrattezza che attraversa da parte a parte il suo normativismo giuridico (quello di Kelsen, voglio dire), costruito come il normativismo è, “sul nulla”14 da un “dotto”, elegante, raffinatissimo; ma tanto dotto ed elegante quanto, ahilui!, “lontano dalla vita”15. Confesso che queste pagine su Kelsen le ho lette due volte: la prima, quando – avvinto al filo del ragionamento – non sono riuscito a staccarmi dalle considerazioni di De Giovanni: potentissime, queste considerazioni, per capacità di scavo e sottigliezza di analisi. La seconda, allorché – giunto al termine del percorso – e pur ammirato per così industre lavorazione – ho sentito dentro di me levarsi una vocina di insoddisfazione che mi invitava a ritornare indietro, a camminare sui passi compiuti da De Giovanni per vedere se qui e là non si desse qualche scarto o qualche inciampo che pure convenisse segnalare. Non foss’altro per evitare quell’ indolente sterilità che è la maledizione di chi fugge il dissenso.

e dov’è il dissenso? potrei indicarlo subito, come di volata; che però, appunto per tanta sollecitudine avrebbe un po’ della perentorietà apodittica. Meglio allora invocare la pazienza del lettore ed invitarlo lungo un ragionamento pulito, al termine del quale la risposta si annuncia da sola, quasi direi con la confidenza delle cose spontanee. Kelsen, come è noto, fa derivare la validità e quindi l’obbligatorietà delle singole norme dall’appartenenza ad un ordinamento che è efficace nel suo complesso. Le norme cioè, singolarmente considerate, sono obbligatorie quando appartengono ad un sistema che è obbedito, se non sempre, nella più parte dei casi, almeno “complessivamente” come usa dire. ora, una volta subordinata la validità alla efficacia dell’ordinamento, si dà il caso che Kelsen, sì proprio lui, abbia avuto ben chiaro che “l’efficacia non è un fatto bruto, grezzo e nemmeno poi tanto misterioso: un ordinamento è tanto più efficace quanto più è giusto, cioè quanto più è rispondente ai bisogni e alle aspirazioni dei consociati”16. per dirla con Kelsen: “se esaminiamo i motivi degli uomini che creano, applicano e obbediscono il diritto, troviamo nelle loro menti talune ideologie, tra le quali ha una parte essenziale l’idea di giustizia”17. Come si vede, anche in Kelsen il potere non cubat in ulla; e anche qui il diritto muove dal brulichio della vita che si agita al fondo della collettività. anzi, ne è come il distillato; è il distillato di quei costumi, di quei valori, di quelle credenze, di quei rapporti di forza (si capisce, esiste anche la forza!) che gli preesistono e che ascendono dalle profondità remote, talora oscure e limacciose, dell’anima popolare. ecco perché per Kelsen - cito - “la creazione del diritto positivo non è certo una creazione dal nulla” (eccolo qui, perentorio come non mai, il non cubat in ulla); il legislatore – aggiunge Kelsen – è sempre “guidato da taluni principi generali”18. bisogna aggiungere altro? sì, bisogna

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Gaetano Pecora

aggiungere ancora due cose: la prima è che per Kelsen, questi principi non sono “una creazione arbitraria dell’individuo isolato, ma sono sempre [“sempre”, quindi anche in democrazia] il risultato della reciproca influenza che gli individui esercitano ognuno sull’altro entro un dato gruppo, sia esso la famiglia, la tribù, la classe, la professione, e in certe circostanze politiche ed economiche. ogni sistema di valori – prosegue – e specialmente un sistema di morale e la sua idea centrale di giustizia, è un fenomeno sociale, il prodotto di una società”19. stando così le cose, non credo si possa sostenere che Kelsen abbia sottratto l’individuo all’irrazionalità del magma vitale sciogliendolo da ogni ceppo e vincolo materiale (ricordiamo? sono le parole esatte di De Giovanni). e penso anche che si veli di dubbio la pagina in cui De Giovanni scrive che nel sistema giuridico di Kelsen “non c’è niente prima, nessun presupposto, nessun fondamento; tutti i fatti reali che stanno prima non sono i presupposti di un sistema che germina proprio dal non aver presupposti”20. La seconda precisazione è che questo fermento vitale da cui il diritto trae ritmo e colore deve venir indagato, come è ovvio e doveroso che sia, ma dai sociologi, non dai giuristi. perché sono i sociologi, non i giuristi, coloro che spiegano la realtà e che descrivono il mondo dei fatti; essi, non i giuristi, attendono all’evento reale e al perché e al per come dell’effettivo comportamento umano (compreso, evidentemente, quello del legislatore). i giuristi, per contro, hanno a che fare con il mondo del dover-essere, con l’idealità delle norme, profondandosi essi nella conoscenza non di ciò che realmente accade, ma di quel che deve accadere secondo il dettato delle prescrizioni giuridiche. Delle prescrizioni giuridiche, abbiamo detto. e arriviamo al punto. e’ sicuramente vero, infatti, che l’ordinamento statale non può prescindere da quei principi generali che lo avvolgono e lo stringono da presso; ma è altrettanto vero che di principi morali, politici o

religiosi si tratta; certo non di principi giuridici. Non trattandosi di principi giuridici, essi “di conseguenza, non possono imporre dei doveri giuridici o conferire dei diritti soggettivi a uomini o stati”21. a meno che… a meno che – come spiega Kelsen – “l’ordinamento giuridico, obbligando gli organi che creano il diritto a rispettare talune norme morali o principi politici, trasformi queste norme e questi principi, in norme giuridiche” 22, in norme cioè che per essere giuridiche devono venire assistite - se non tutte, almeno la più parte - da sanzioni così e così organizzate. e’ vero: più avanti De Giovanni riconosce che la vita, “l’esistenzialità (come la chiama) – viene recuperata attraverso l’efficacia, l’effettivo rapporto tra obbedienza e norma… Ma – aggiunge – il mondo del diritto è pur sempre il mondo della norma”. e certo che è il mondo della norma! Ma non perché Kelsen voglia “esorcizzare la pura forza imbrigliandola nella norma”23, o porre la norma “come un argine all’irrazionalità24”. il diritto è il modo della norma, della forma della norma, perché Kelsen attende ad una teoria generale del diritto, che per essere generale, come dall’alto di un panorama, vuole dominare tutti gli ordinamenti giuridici. tutti, intendiamo? Quelli esistiti e quelli esistenti. il che è possibile ad una sola condizione. a patto di indugiare sulle loro costanti e sulle loro uniformità; a patto insomma di fermare l’attenzione su quello che unisce gli ordinamenti e così unendoli permetta di stringerli insieme in formule riassuntive e, appunto, generali. ora, quali che siano i contenuti delle norme giuridiche (variabili, variabilissimi, a seconda dei tempi e dei luoghi); quali che siano i soggetti che predispongono tali contenuti (qui il popolo, lì il despota mesopotamico, lì ancora una gerarchia di ottimati), e quali che possano essere le finalità da rag-giungere (mutevoli come solo mutevoli sanno essere le aspirazioni degli umani), da che mondo è mondo, sempre, dap-pertutto,

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le norme giuridiche impiegano una sola e identica tecnica per raggiungere quei fini e disciplinare quei contenuti. e questa tecnica – lo dico un po’ alla buona – consiste nel promuovere il comportamento “buono” (che è considerato buono) punendo quello cattivo; nel favorire il lecito, castigando l’illecito; e castigandolo beninteso con l’espediente delle sanzioni. Lo specifico del diritto, quel che secondo Kelsen non cambia mai, non è lo scopo perseguito né la materia regolata, ma è la struttura, la forma della regolamentazione, ossia la regolamentazione mediante la minaccia di atti coercitivi. Quel che valeva ieri per il legislatore dell’antica babilonia vale oggi per il legislatore della Repubblica italiana. Da qui, dall’invariabilità della loro struttura, da qui non dal tentativo di sterilizzare il potere o di esorcizzare la forza, da qui – dicevo – da questa invariabilità strutturale, da qui l’obbligo di restringersi alla “forma” del diritto. sempre che, naturalmente, del diritto voglia discorrersi scientificamente. Che è poi il discorso dei positivisti à la Kelsen. ecco perché la sua è una teoria generale (che investe la generalità degli ordinamenti) e perciò stesso formale del diritto. Dalla scienza (intesa come conoscenza delle costanti) passando per la generalità, fino a raggiungere la forma: la quale forma è poi l’oggetto della scienza: e così, legando l’un elemento all’altro con una catena serrata, Kelsen chiude il suo cerchio. Kelsen chiude il suo cerchio. e io chiudo il mio ragionamento. Non prima però di aver ricordato quello che diceva Giuseppe prezzolini. “Non ci sono libri veramente nostri – avvertiva – se non quelli che abbiamo sottolineato, virgolato, crocettato, annotato”25. un po’ per l’argomento affrontato, un po’ per le soluzioni proposte, un po’ per quello che ho imparato, un po’ per tutto questo messo assieme, confesso che non mi è stato facile staccarmi dalle pagine del libro di De Giovanni. Non prima, almeno, di averle sottolineate e postillate, proprio come alla maniera di prezzolini. talora (e assai spesso) segnandole con punti

esclamativi (che sono quelli di plauso e di consenso); talaltra (assai meno di frequente) notandole con punti interrogativi (che sono quelli di perplessità). ecco: alcuni di questi interrogativi ho voluto sottoporre all’attenzione del lettore (e di De Giovanni, in particolare), convinto come sono che egli passando sulla gobba dei punti interrogativi, battendoci e ribattendoci sopra, me li restituirà diritti e affusolati. affusolati, è il caso di dire, come i punti esclamativi. Del resto, sapete cos’è il punto interrogativo? “il punto interrogativo è un punto esclamativo che si è afflosciato”. Note

1 e.M.Cioran, Quaderni. 1957-1972, adelphi, Milano 2007, p. 123. 2 b. De Giovanni, alle origini della democrazia di massa. i filosofi e i giuristi, editoriale scientifica, Napoli 2013, p. 1. 3 ivi, p. 42. 4 ibid. 5 ivi, p. 41. 6 F. engels, l’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 100. 7 K. Marx, la questione ebraica, editori Riuniti, Roma 1996, p. 17. 8 K. Marx, lettera a Vera Zasulic, cit. da pellicani, la società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario, etaslibri, Milano 1995, p. 193. 9 b. De Giovanni, alle origini della democrazia di massa, cit., p. 281. 10 a. De tocqueville, la democrazia in america, in Scritti politici, vol.ii, utet, torino 1968, p. 754. 11 b. De Giovanni, alle origini della democrazia di massa, cit., p. 4. 12 ivi, p. 291. 13 ivi, p. 290. 14 ivi, p. 342. 15 ivi, p. 343. 16 N. bobbio, Studi per una teoria generale del diritto, Giappichelli, torino 1970, p. 92. 17 H. Kelsen teoria generale del diritto e dello Stato, etas, Milano 1978, pp. 177-178. 18 ivi, p. 254. 19 H.Kelsen, la metamorfosi dell’idea di giustizia, ora in l’anima e il diritto, edizioni Lavoro, Roma 1989, p. 100. il corsivo è aggiunto. 20 b. De Giovanni, alle origini della democrazia di massa, cit., p. 293. 21 H. Kelsen, teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. 254. 22 ivi, p. 134. 23 b. De Giovanni, alle origini della democrazia di massa, cit., pp. 295-296. 24 ivi, p. 346. 25 G. prezzolini, ideario, Ciarrapico ed., Roma 1983, p. 175.

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uoMiNi e iDee

angelo G. Sabatini - antonio Casu

parla il Capo dello stato di tito Lucrezio Rizzo

Fervono dibattiti di stampa, di politica e di studio, circa il ruolo rivestito dal Capo dello stato, che nel corso della storia repubblicana - pur a Costituzione immutata - ha subito una crescente visibilità, tale da passare dall' interpretazione della funzione che in origine doveva risultare più vicina a quella del “confessore che non del predicatore” (cosí Vittorio zincone), a quella in ultimo definita “a fisarmonica" (cosí Giu-liano amato), per la capacità espansiva dei poteri presidenziali in presenza di maggioranze deboli e inefficienti, come di una rilevante instabilità di sistema. tito Lucrezio Rizzo, Consigliere della presidenza della Repubblica, Docente universitario è autore del libro Parla il Capo dello Stato. Sessanta anni di vita repubblicana attraverso il Quirinale 1946-2006. oltre alla preziosa opportunità di conoscere e di servire l'istituzione presidenza della Repubblica nell'arco – ad oggi – dei cinque titolari avvicendatisi a far data da pertini, l'a. si è avvalso dell'esame accurato di documenti di archivio, quotidiani d'epoca e contributi di dottrina, che hanno supportato un'analisi nella quale l'identità umana di ciascun presidente si è proiettata nella dimensione istituzionale, al fine di capire meglio il ruolo effettivo di ciascun Capo dello stato, attraverso il vissuto personale ed alla formazione politico-culturale di ciascuno.

L'ottica perseguita dall'a. è stata quella di fornire una ricostruzione seria ed attendibile, senza incorrere in fastidiosa erudizione. Ciò allo scopo di avvicinare il più possibile alle istituzioni i giovani ed i meno giovani, ricostruendo i travagli, le tensioni ideali, i momenti difficili e quelli felici di un'italia filtrata, nell'arco di oltre 60 anni, tramite l'esperienza pubblica degli inquilini del “Colle” per eccellenza. il tema ineludibile delle “esternazioni presidenziali”, trasversale ai vari mandati, è correlato alla centralità venuta ad assumere dal Capo dello stato per cui oggi non si discute più della legittimità – ormai acquisita – delle stesse, ma solo dei limiti del correlato potere: qui viene evi-denziato che ogni qualvolta il Capo dello stato non possa altrimenti esercitare, con la necessaria incisività ed efficacia, la funzione di garanzia dei valori e dei principi contenuti nella Costituzione, ogni esternazione legata a quella garanzia va considerata come la forma più alta ed aggiornata del ruolo che il presidente della Repubblica è chiamato ad interpretare, “viva voce della Costituzione”, come dice il Calamandrei.

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(dal sito web di Gangemi editore)


il Presidente Saragat nelle riflessioni di tito lucrezio rizzo

Angelo G. Sabatini alta funzione istituzionale. Il Presidente Saragat nella riflessione L’intento di Rizzo è chiaro: togliere dal di Tito Lucrezio Rizzo limbo della aristocrazia istituzionale i presidenti che dalla nascita della presentato da Gaetano Gifuni, Repubblica hanno ricoperto il segretario generale onorario della prestigioso e oneroso incarico con presidenza della Repubblica, tito impegno e orgoglio per analizzarne il Lucrezio Rizzo, Consigliere Capo del contributo da essi dato alla vita Quirinale, ha dato alle stampe un istituzionale reale del paese e per volume dal titolo accattivante Parla il considerarli partendo dalla loro umana Capo dello Stato. il sottotitolo introduce esperienza di attori impegnati a recitare la bene all’intento dell’autore: Sessanta anni parte di primari nel complesso e di vita repubblicana attraverso il Quirinale variegato teatro della vita politica italiana. (1946-2006), da enrico De Nicola, uno sguardo rapido sul succedersi dei primo presidente della Repubblica, fino personaggi descritti con amorevole cona Carlo azeglio Ciampi. siderazione, ma non con partigianeria, L’impostazione che Rizzo dà al suo del loro valore ci fornisce una visione scritto (collocare la d’insieme dei servifunzione di presitori dello stato dente sul terreno accumunati da una della sua formazione forte ispirazione culturale e politica) ideale e dal rispetto avrebbe potuto legitdelle regole formali timare anche l’inseriche presiedono al mento dell’attuale loro mandato. uoinquilino del Quirimini scelti a tanto nale, Giorgio Napoalto prestigio per i litano, nella Galleria meriti politici e dei personaggi che, culturali acquisiti figli della Nuova nell’esperienza di italia, repubblicana, una partecipazione hanno maturato costante, a volte l’onore e l’onere di sostinata, alla difesa alire al Colle: Napolicostituzionale dell’ tano ha maturato oragire politico e mai una lunga espeamministrativo conrienza politica e anni siderato fondamento di intensa gestione inalienabile del del mandato di preprogresso civile di sidente ed è meriuna nazione. tevole pertanto di essere collocato qui scorrendo la nutrita lista dei presidenti nel pantheon dei capi di stato e ricevere che hanno operato nella funzione di il sigillo della riflessione storica sul suo Capo dello stato ci imbattiamo in una operato. La pubblicazione di Rizzo varietà di personaggi con storie avrebbe potuto non attendere la fine del personali diverse e per cultura e per stili rinnovo di mandata e inserirlo nella politici. Gli eventi di cui sono stati attori lunga lista dei presidenti della o spettatori li collocano in una scala di Repubblica italiana. La scelta da parte di valori diversi per le circostanze che Rizzo è caduta sulla opportunità di l’hanno formati politicamente ma rinviare ad altro tempo la costruzione di meritevoli di una uguale considerazione. un medaglione completo del ed è questa l’immagine che di loro Rizzo personaggio che attualmente riveste così ci dà presentandolo al pubblico di lettori 31


angelo G. Sabatini

con l’imparzialità di un analista non condizionato dalla storia personale di chi, partecipe della vita interna del palazzo presidenziale, guarda con occhio attento alle storie personali di ciascun presidente per presentarle al lettore cercando di costruire un colloquio ideale con ciascuno di loro. Così si attua una correlazione proficua tra l’identità umana di ciascun presidente, la dimensione istituzionale di cui è gestore e servitore e il cittadino-lettore che nella distanza ravvicinata ne comprende meglio il ruolo ma anche il peso della funzione che è costretto a gestire nei momenti difficili della vita politica del paese. seguendo Rizzo nella narrazione della storia della presidenza della Repubblica si coglie anche l’apporto che la narrazione reca al chiarimento della personalità dei singoli personaggi. e’ il caso di Francesco Cossiga e di Giuseppe saragat. Di Cossiga ne parla in questo stesso numero di “tempo presente” antonio Casu. La lettura del ritratto di saragat ci offre l’occasione di spendere due parole di riflessioni sulla commemorazione che la Fondazione socialismo ha organizzata per i 120 anni dalla fondazione del partito socialista. sul terreno storiografico è un episodio particolarmente infelice quello verificatosi nel contesto delle celebrazioni sui 120 anni di storia socialista. Da qui la spinta a porre in comparazione il ritratto che Rizzo fa del presidente saragat e la dimenticanza a considerare l’opera politica di lui nella storia del socialismo italiano. e’ stato un errore non porre attenzione su una delle figure rappresentative della vita repubblicana, Giuseppe saragat, assertore e difensore di quel socialismo riformista che, voluto da turati, treves e Matteotti, in lui ha trovato l’occasione di affermarsi e tradursi in eventi politici utili alla salvaguardia della democrazia italiana in momenti critici e pericolanti. L’episodio cui mi riferisco è la celebrazione dei 120 anni della nascita del partito socialista italiano promosse dal Comitato delle Fondazioni socialiste e organizzata dalla Fondazione socialismo il 12 dicembre 2012.

un parterre di personalità politiche e istituzionali tra le quali spicca la figura del presidente della Repubblica, ha potuto ascoltare tre relazioni ad opera del presidente della “Fondazione socialismo” Gennaro acquaviva e dagli storici piero Craveri e Massimo salvadori. il carattere commemorativo, introdotto dal presidente della Camera Fini e dal presidente della Fondazione Camera dei Deputati bertinotti, ha spinto forse gli oratori a privilegiare la palinodia di un movimento politico che a fatica si è liberato dall’incanto operaistico di natura comunista. una liberazione che, come è noto, ha avuto invece la spinta migliore grazie all’ impegno profuso in tal senso proprio da quel riformista “incallito e pervicace”, saragat, verso cui non solo il partito Comunista ma la stessa componente fusionista del partito socialista a volte ha rivolto anatemi di eresia. orbene, gli interventi degli oratori presenti alle celebrazioni dei 120 anni del partito socialista italiano hanno pressoché ignorato uno dei più accaniti difensori del più moderno socialismo in italia. soltanto lo storico Craveri in un breve passo del suo intervento dice ” Va fatto omaggio al coraggio e alla determinazione di Giuseppe saragat che ruppe con quegli indirizzi (fusionismo)...”. Gli altri hanno ignorato (o volutamente taciuto) il pensiero e l’opera di saragat. se questa dimenticanza (non vorrei pensare che fosse oblio!) fosse stata manifestata da commentatori legati a quella storiografia d’ispirazione comunista che gestiva il giudizio sull’opera di saragat in modo culturalmente più elegante rispetto al giornalista Mario Melloni che “shakespearando (ma di shakespeare aveva solo il furto di un nome di un personaggio Fortebraccio e poco del pathos drammatico dello scrittore inglese) su “paese sera” ironizzava sui socialdemocratici allorché, lasciato il quotidiano de-mocristiano “il popolo” passava, folgorato come s. paolo sulla via di Damasco, senza scrupoli di coscienza politica al quotidiano comunista “L’unità”.

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Francesco Cossiga. il tormento e l’estasi della passione politica

Non bisogna comunque meravigliarsi se storici socialisti si sono tenuti lontani dal ricordare che saragat, il più colto dei socialisti europei, ha dato al socialismo italiano l’occasione per svincolarsi dalla soggezione di compagni prigionieri della caverna platonica senza l’impegno a venir fuori dalle illusioni che l’italia avrebbe percorso la via della modernizzazione politica grazie al vincolo, diretto o indiretto, all’utopia di stampo sovietico. Gli eredi di Nenni e di quanti lo sorreggevano nel difendere con determinazione l’unità d’azione con i comunisti di togliatti non riuscivano a cogliere il messaggio salvifico che veniva da saragat; ma pare che ancora oggi pensano con risentimento alla scelta di civiltà che l’uomo politico piemontese veniva compiendo. ignorano o fingono di ignorare che la ricostruzione storica dello sviluppo del socialismo in italia non può tenere in non cale uno dei leader che con la scissione di palazzo barberini, sofferta ma decisa con fermezza, ha segnato un momento decisivo nella salvaguardia della democrazia nel nostro paese. Ma non tutti nel giudicare l’opera di saragat si sono astenuti o hanno condannato la scelta del 1947. Va dato merito, per esempio, a Gaetano arfé o a Claudio Martelli per aver guardato con più attenzione e con giudizio equilibrato alla scelta di saragat. apprendiamo invece con soddisfazione che, grazie anche alle ricerche di Franco Fornaro e di Michele Donno, il ritratto che di saragat ci offre Rizzo nel suo recente volume consente di cogliere la quotidiana passione politica e la vasta cultura che hanno segnato la vita del presidente saragat.

Antonio Casu Francesco Cossiga. Il tormento e l’estasi della passione politica 1. in generale, il libro di tito Lucrezio Rizzo si presenta come una galleria di ritratti delle dodici personalità che hanno rivestito la più alta carica

istituzionale dell'ordinamento repubblicano italiano, escluso ovviamente il presidente attualmente in carica, ma incluso Cesare Merzagora che svolse funzioni di supplenza durante la malattia di antonio segni. sul piano stilistico, il libro è chiaro e scorrevole, e tratteggia profili politicoistituzionali che, secondo le intenzioni dell'autore, peraltro dichiarate sin dall' inizio, non hanno carattere agiografico né memorialistico, ma mettono correttamente in relazione la vita pubblica con le caratteristiche personali, la formazione politica, e tutti gli altri elementi soggettivi e biografici idonei a chiarificare o inquadrare le condizioni o il contesto nel quale sono maturate le scelte o le posizioni più qualificanti. La lunga esperienza professionale maturata dall'autore nell'amministrazione del Quirinale lascia trasparire un rispetto profondo per la carica, ed anche per le persone che l’hanno rivestita, e tuttavia non gli preclude talvolta la formulazione di giudizi rispettosamente critici, quando suffragati dall'evidenza storica e documentale. a tal fine, Rizzo si è valso anche di fonti di prima mano, tra le quali in particolare l'archivio della presidenza, ma anche di tutte quelle fonti (dottrina, giornali, ecc.) che sostengono e danno credibilità al giudizio storiografico. Nello specifico, il fine precipuo dell' opera, e il suo merito, consiste nel voler descrivere – attraverso la ricostruzione delle varie presidenze – l'evoluzione del ruolo del presidente della Repubblica, a partire dalle esitazioni e dalle cautele del costituente, che hanno tratteggiato un potere di equilibrio e di garanzia all' interno della nuova forma di governo, fino alla crescita esponenziale e progressiva degli ultimi venti anni, che lo hanno reso spesso - soprattutto nella recente transizione istituzionale, iniziata ma non ancora compiuta - non solo l'istituzione che incontra il maggior favore popolare, che sarebbe un dato di indubbio prestigio ma di relativa incisività, ma anche quella che ha dimostrato una

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antonio Casu

reale capacità di indirizzo e orientamento, oltre alla più elevata capacità di raccordo tra paese legale e paese reale. 2. una delle ragioni per le quali l'autore mi ha chiesto di presentare il suo libro è che di recente ho scritto un libro sul pensiero di Cossiga su thomas More, dal quale si evince la filosofia politica del presidente sardo. Non mi sottraggo all'invito, che anzi - da sardo della diaspora - raccolgo volentieri. in effetti, di Cossiga l'autore mette immediatamente in evidenza i tratti assolutamente peculiari: la sua "anima foscolianamente inquieta", l'amor patrio, la sua formazione di "cattolico sui generis (che) non mise mai la sordina all’intelligenza sua vivissima, che privilegiava il primato della coscienza su ogni dogmatico assioma", i suoi modelli di virtù morali e civili, tra i quali Rizzo ascrive thomas More, Rosmini, Newman, Maritain, pascal, s. agostino, Manzoni, cioè "cristiani operosamente vissuti nella sintesi tra Fede e Ragione". Rizzo descrive con trasporto la vita segnata dal tormento interiore di un uomo che si ispirava a thomas More, e quindi al primato della coscienza ma che, in occasione del sequestro e dell'uccisione di aldo Moro, si trovò a scegliere la ragion di stato. acuta inoltre l'interpretazione della sua cosiddetta "follia", "che taluni gli ascrissero e che egli stesso non disdegnò con qualche compiacimento di autoattribuirsi", da intendersi nel senso del "teatro elisabettiano, dove il protagonista, simulando la pazzia, poteva dire ciò che da savio non avrebbe altrimenti potuto esprimere". e tuttavia, nel delineare la sua figura, proprio per non incorrere nel rischio dell'agiografia, Rizzo non si sottrae a rilievi critici, ad esempio quando si

riferisce al ruolo di Cossiga rispetto alle infiltrazioni di elementi delle forze dell'ordine, negli anni settanta, tra i movimenti eversivi, elementi che avrebbero cooperato a fomentare disordini per legittimare poi l'intervento dei reparti di sicurezza pubblica. effettivamente, come dice Rizzo: "il suo percorso politico fu un continuo alternarsi di cadute e di ascese, di gioie e di dolori, di accuse e di sospetti infamanti, che si alternarono con rassicurazioni e consensi solidamente conseguiti: esso incarnò - forse più e meglio di ogni altro - il travaglio della storia politica dell' italia stessa." Di Cossiga, Rizzo illustra le varie componenti del pensiero istituzionale, in politica estera come in quella interna, con un'attenzione speciale al suo pensiero istituzionale, al suo attaccamento al parlamento come baluardo della democrazia, come traspare dai suoi interventi nelle sedi pubbliche, dai suoi messaggi alle Camere, e perfino dai suoi appelli agli studenti. Certo, Cossiga è stato un uomo di forti contrasti, e il libro di Rizzo non li mette in ombra. un presidente eletto perché, a suo stesso dire, nel partito non contava nulla, e ritenuto poi, da una parte dello schieramento politico, fin troppo invadente; descritto al suo discorso d’insediamento come “un garante tranquillo”, “in punta di piedi”, e poi protagonista di esternazioni - o “picconate” che dir si voglia – tali da alienargli un vasto consenso, ma anche da procurargli un certo favore presso l’opinione pubblica, e via dicendo. tale era l’uomo. L’uomo che nel 1966 fu preposto da Moro, quale sottosegretario alla difesa, a sovrintendere (politicamente e amministrativamente,

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Francesco Cossiga. il tormento e l’estasi della passione politica

ma non operativamente, precisa Rizzo) a Gladio, e lo stesso che aprirà al Governo D’alema, cioè al primo comunista a divenire capo dell’esecutivo in italia. il difensore delle prerogative parlamentari che critica “i signori del parlamento” e fa ricorso al potere di rinvio ex art. 74 Cost., per ben 22 volte, di cui quindici soltanto nell’ultimo anno e mezzo del suo mandato. il giurista colto che entra in conflitto con parte della magistratura e instaura un braccio di ferro con il Consiglio superiore della magistratura, che intendeva far precedere l’elezione del Vicepresidente da un dibattito programmatico, per riaffermare che l’auctoritas del presidente non aveva carattere meramente morale od onorifico. il democristiano doc che non lesina critiche profonde e strutturali alla Democrazia cristiana, corrosa, dice, dal “tarlo dell’oligarchia di partito”. il protagonista controverso della politica atlantica come di quella mediterranea. La figura centrale di molti eventi politici di grande rilievo, e forse anche di alcune pagine della storia nazionale che restano ancora da definire. occorre al riguardo che il giudizio storiografico, come è giusto che accada, maturi il necessario distacco dall’attualità, si sedimenti e si consolidi. può oggi essere utile, invece, esaminare più da vicino la filosofia politica di Cossiga e in particolare la sua concezione della politica e delle istituzioni. e certo ci sarà occasione, in altra sede, di approfondire il rapporto tra tali concezioni e l’effettività della loro attuazione concreta. 3. in una conferenza del 1991 nel Liechtenstein, Cossiga descrive la politica come luogo della concretezza e della decisione, ben distante da quello della speculazione teoretica, e dunque dall’ideale platonico, secondo cui è bene che i filosofi siano anche politici, e i politici anche filosofi, ideale che – quando si è realizzato – ha prodotto esempi negativi, come per lui sono le esperienze politiche riconducibili all’ideologia marxista. D’altro lato, ben consapevole che la concretezza senza riferimenti ideali non è meno nociva della idealità senza

concretezza, muove una critica serrata al pragmatismo corrente, “il muoversi cioè senza riferimenti e scelte ideali vincolanti; il che poi in fondo significa muoversi per rimanere sempre in qualche modo sulla cresta dell’onda, per raccogliere a tal fine e comunque il consenso, per mantenere il potere, rinunciando però all'uso del potere per un disegno compiuto.” per Cossiga, “il politico che fa solo il filosofo diventa un “ideologo”, e cioè (…) chi all'idea sostituisce lo schema o l’intenzione spesso strumentale di un modello, mentre il politico senza una filosofia diventa un pragmatico, e (…) uno che agisce senza un pensiero forte che viva nell’azione, o che più semplicemente agisce senza pensare in termini di verità, o almeno di ricerca della verità, e quindi del bene.” e aggiunge: “Machiavelli, che non era un santo, ma neanche un malvagio e che certo sciocco non era, ha scritto che li stati non si governano con li paternostri, ma ha scritto anche in altra occasione che senza religione gli stati vanno in rovina, e qui per religione certo si intende un sistema di valori universali in un orizzonte libero all'infinito e all’eterno.” La visione di Cossiga della politica ha dunque una radice etica e un contenuto normativo. Ha una radice etica, perché ritiene debba fondarsi, come si è visto, sui valori, anzi su un sistema di valori universali. ed ha anche, e conseguentemente, un contenuto normativo, perché l’azione del politico dispiega i suoi effetti sulla collettività determinando il quadro delle regole di funzionamento della società. La figura del politico deve dunque tener conto di questa duplice valenza, deve porsi in rapporto positivo nei confronti della sua collettività, deve governarla ma anche orientarla, e orientarla in modo conforme ai suoi valori di riferimento, procedendo in piena sintonia con la collettività, senza velleitarie fughe in avanti né adeguandosi agli umori della piazza. Cossiga declina le qualità che sono

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necessarie al politico, che “deve possedere il dono della pazienza, della ironia e soprattutto della autoironia”. Nelle espressioni che Cossiga dedica all’ autoironia si percepiscono gli echi di thomas More, l’unico santo che ci abbia lasciato una preghiera per il buonumore, nella quale si prendono le distanza da “quella cosa troppo invadente che si chiama <io>”. La suprema virtù, l’ironia, da intendersi non solo e non tanto come propensione temperamentale, ma come espressione di una disposizione all’ascolto, alla valorizzazione dell’altro, Habermas direbbe alla inclusione dell’altro. paola Ricci sindoni ha descritto l’ironia come il frutto di una “disciplina pratica” che “esige un incontro e una comunicazione, così da essere dialogicamente efficace”, che non può “di per sé garantire l’accesso alla verità, ma certamente (…) è capace di eliminarne gli ostacoli, le barriere, le false piste che l’allontanano”. se pazienza e ironia sono le qualità personali del politico, i compiti che Cossiga assegna al politico sono altrettanto chiari, ed in primo luogo annovera l’ascolto dei bisogni sociali e la mediazione degli interessi. Nella odierna società complessa e stratificata, ritiene Cossiga, “il primo compito del politico è quello di riconoscere i diversi valori e interessi che si presentano nella società e di dare loro la possibilità di esprimersi, facendosene in qualche senso avvocato”. tuttavia, la rappresentazione dei bisogni individuali e collettivi non può esaurire il compito del politico, che deve anche operare una sintesi armonica, realizzare una “mediazione tra l’ideale e la realtà”, idonea a soddisfare le aspettative senza assecondare il particolarismo né strumentalizzare la frammentazione sociale. La rappresentanza di valori e interessi e la responsabilità della sintesi decisionale sono dunque due componenti ineliminabili della politica. Cossiga osserva che nella rappresentanza degli interessi “non vi è nulla da vergognarsi, perché l’angelismo non è solo una malattia della

mistica, ma anche di certa etica e mistica politica, anche di quella che sinceramente vuole essere cristiana”, mentre all’opposto “una politica ridotta alla sola rappresentanza degli interessi sarebbe una assai povera cosa”. Cossiga ribadisce e precisa la necessità di ancorare l’azione politica ad un sistema di valori, e riprende in modo articolato il concetto di bene comune. “Compito del politico – sostiene – è ricondurre la rappresentanza degli interessi all’interno di una visione del bene comune del popolo o di un ideale storico concreto”. Non si tratta però di un concetto astratto, bensì “del bene comune possibile, del passo avanti che è storicamente possibile fare verso la realizzazione del bene comune”. il modo di perseguire concretamente il bene comune possibile è quello di orientare la lotta politica a un duplice obiettivo: non solo la difesa dei valori e interessi dei quali si è portatori sia come individui sia come membri di gruppi sociali, ma anche la loro rappresentazione in forme e termini compatibili con il funzionamento generale del sistema politico e con gli altri valori e interessi presenti nella società, al fine di pervenire ad un assetto generale armonico, non dominato da settarismi o particolarismi. il processo democratico, fondato sul consenso, culmina nella decisione politica, di cui l’uomo di governo deve assumersi la intera responsabilità”. La decisione è dunque il momento conclusivo del processo di formazione della volontà politica. “Come non c’è politica senza rappresentanza della moltitudine dei valori e degli interessi e senza sintesi politica, così non c’è politica senza decisione.” La decisione politica non può tuttavia sconfinare nell’arbitrio. a tal fine è necessario mantenere uno stretto legame tra potere e responsabilità. “Quando, per un qualunque motivo, questo legame viene a cadere, allora diventa impossibile il corretto esercizio del potere politico e subentra l'arbitrio di gruppi di potere irresponsabili e incontrollati, che mani-

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polano gli organi teoricamente abilitati a parlare a nome del popolo, o di fatto si sostituiscono addirittura ad essi!”. occorre dunque salvaguardare l’ineliminabile funzione di garanzia dei contenuti e dei limiti della decisione politica, e dunque in sostanza del corretto svolgimento del processo democratico, che affida la decisione alla maggioranza, ma nel rispetto delle regole fondative del patto sociale e istituzionale dal quale nessuno può essere escluso. Cossiga affida questo supremo ruolo di garanzia alle istituzioni. il ruolo delle istituzioni si fonda per Cossiga su un rispetto quasi sacrale: “le istituzioni, infatti, sono fatte per gli uomini e non gli uomini per le istituzioni”. inoltre, è decisa in Cossiga la riaffermazione della sovranità popolare, “diritto naturale dei popoli”, al contempo fonte di legittimazione e destinatario finale del processo democratico. Conseguentemente, le istituzioni assolvono pienamente al loro ruolo di garanzia solo se e quando percepite dal popolo come vicine e necessarie alla vita civile. “Le istituzioni non sono semplicemente dei meccanismi giuridici, opere di ingegneria costituzionale. esse sono anche forme operative della autocoscienza della nazione”. su di esse incombe l’onere di tradurre i valori costituzionali in “concreta protezione e possibilità di realizzazione” della persona. per contro, ai cittadini spetta di rispettarle, “al fine di rispettare e garantire le libertà di tutti”, che esse tutelano. “in ultima istanza infatti – conclude Cossiga – questo è il ruolo delle istituzioni: costituire il potere e disciplinarne l’utilizzo, difendere i diritti e la dignità della persona contro le prevaricazioni di esso, conseguirlo per il bene comune”. il compito di mediare tra l’ideale e la realtà conduce il politico su un sentiero molto arduo, lastricato di problemi concreti ai quali serve rispondere con pari concretezza e determinazione. infatti, a suo avviso, mentre il filosofo o il vescovo, ciascuno nel proprio ordine,

hanno “il compito di affermare e difendere un principio ideale nella sua integrità”, senza ridurre l’altezza dell’ideale morale alla misura della capacità di realizzarlo; al contrario il politico “deve realizzare l’ideale nella misura del possibile”, accettando di dover passare il testimone ad altri, e alle future generazioni. Quando si passa al “come”, riaffiora il travaglio del politico realista, il conflitto tra primato della coscienza e ragion di stato. infatti, “il politico deve (…) essere un uomo disposto a molti compromessi”, perché “l'impegno di stare nel mondo non solo impone dei compromessi sul contenuto che l’azione politica realizza, ma anche sul suo metodo e la sua forma”. Dalla ricostruzione del pensiero di Cossiga sulla politica, si evince dunque con chiarezza che l’approccio di Cossiga, che traspare spesso a proposito di thomas More, è essenzialmente laico. Lo attesta il suo convincimento che il politico debba orientare la sua azione traendo ispirazione da un sistema di valori universali, i quali non sono necessariamente, o esclusivamente, religiosi. Lo conferma l’affermazione che il rischio di compromettere la propria integrità personale è perfino minore di quello di corrompere “la fibra morale e la sostanza spirituale di ciò che chiamiamo patria”. e lo ribadisce infine l’intuizione secondo cui thomas More “è certo un martire della fede cristiana e della Chiesa cattolica, è un martire per la difesa dei diritti della coscienza, ma è anche un martire per la difesa delle istituzioni”; come anche l’affermazione che le lettere di More presentano “l’immagine di un santo straordinariamente umano e attuale” per il suo approccio laicale e per la modernità del rapporto tra responsabilità individuale e responsabilità sociale. Cossiga riconduce infatti il martirio di More – “non cercato né chiesto” – alla “prospettiva permeata di ragionevolezza e coerenza tra la sua fede e la lealtà civile”. L’analisi della figura e della vicenda di

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More è dunque emblematica per mettere a fuoco il pensiero di Cossiga. in qualche modo, Cossiga si richiama a More quando vuole declinare i principi della buona politica. e di More mette in risalto il legame, organico, tra fedeltà religiosa e laicità dell’azione politica. “thomas More - scrive - fu difensore, è vero, della Chiesa, ma anche della concezione seriamente laica dello stato, e perciò della inviolabilità della coscienza umana, in particolare del suo nocciolo di libertà religiosa, di assoluta autonomia dell'uomo nel rapporto con Dio”. per Cossiga, l’eredità e l’attualità di thomas More consistono proprio nell’aver affermato “con singolare modernità il principio di divisione tra i fini e le competenze della Chiesa e dello stato, e insieme la laicità dello stato e la sacra laicità della Chiesa”, con ciò legittimando l’opposizione della coscienza alla tentazione del potere, sempre presente, di non riconoscere niente non solo sopra di sé, ma neanche accanto a sé. Così si spiega dunque la definizione, apparentemente paradossale, di Cossiga il quale definisce More, santo per cattolici e anglicani, “il primo grande campione dello stato laico”. “More ebbe sempre ben chiara la distinzione tra la sfera del temporale e quella dello spirito, tra politica e religione, tanto che fu proprio per aver voluto mantenere ben ferma questa posizione che egli morì, vittima di quella forma di clericalismo alla rovescia (pericolosa almeno quanto il clericalismo propriamente detto) che fu il giurisdizionalismo e che in inghilterra si chiamò appunto enricismo e che ebbe manifestazioni di intolleranza gravissime nella persecuzione dei cattolici, iniziata proprio in inghilterra e condotta poi in modo particolarmente duro anche contro protestanti dissenzienti come i puritani. (…) e come spesso accade ai grandi testimoni della libertà e della fede, egli cadde vittima non delle leggi ma dell’abuso di esse. Non sulla base di leggi, per quanto inique o discutibili, egli fu condannato, ma sulla base del tradi-

mento di un suo collaboratore che prestò contro di lui falsa testimonianza.” e’ forte nel cattolico Cossiga la rivendicazione di laicità. “il laico ha una sua vocazione specifica. (...) il laico è il sacerdote del tempo, è il sacerdote della storia, è il sacerdote della comunità temporale. La vocazione specifica del laico è quella del sacerdozio delle cose del tempo (...) nella ricerca, nella tecnica e poi, aggiungo, nella politica, che è l'espressione temporale della virtù della giustizia e della carità. o la politica viene considerata infatti una proiezione temporale della carità, cioè del servizio altissimo agli altri, o la politica non può assolutamente considerarsi una vocazione per il cristiano.” ecco dunque che il primato della coscienza e la laicità non sono tra loro in contraddizione. More è per Cossiga un modello di testimone e di martire valido non solo per i credenti, ma anche per i non credenti, in quanto martire consapevole “in nome della libertà della coscienza di fronte a un potere che voleva imporsi come libertà”, e quindi “testimone e martire del primato della coscienza sia nella religione che nella politica”. postulando l’esistenza di imperativi morali attingibili sia secondo la fede e che secondo la ragione, due tipi di conoscenza che “non sono due verità” ma “due approcci per conoscere le regole morali”, Cossiga esprime il convincimento che il politico “democratico” non può non accogliere il carattere vincolante del nesso tra etica e politica, ed inoltre non può disconoscere il carattere sostanziale, non puramente tecnico, della democrazia, che non può dunque essere ridotta a pura forma della rappresentanza o a mera procedura per la determinazione delle élites di governo. Dal carattere sostanziale della democrazia rappresentativa discende l’esigenza di una politica che “si rivolge a tutti gli uomini”, e dunque “è bene che i cattolici tengano conto dei diversi tipi di libertà che questa vuole assicurare”. L’autentica laicità dei cattolici in politica non si traduce, in definitiva, nel “rendere “laica” la propria fede”, ma nel rispetto della libertà di tutti e di ciascuno.

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Luca Paulesu, Nino mi chiamo. il numero di matricola del detenuto Gramsci, Fantabiografia del piccolo A ntonio 7047, stampigliato tra le prime pagine. Le note Gramsci, Feltrinelli, Milano 2012 a margine, le chiose e perfino le sottolineature riscoperte da paulesu e dagli altri membri della famiglia nel corso del tempo. e ancora, attraverso la sua antica frequentazione delle lettere e dei documenti di casa Gramsci, i rapporti familiari che si rivelavano nello scambio di libri. La corrispondenza tra libri, fotografie e memorie di famiglia. il ruolo dei familiari e degli amici nel favorire la costituzione della biblioteca, come nel caso della cognata tania schucht, alla quale antonio scrive in carcere nel 1928 per richiedere esplicitamente il V e il Vi volume di il Libro di Luca paulesu non è soltanto “una Guerra e pace; o dell’amico piero sraffa che gli singolare biografia a vignette” di Nino, apre un credito illimitato presso la libreria Gramsci da ragazzo, come avverte la terza di sperling & Kupfer di Milano. copertina. e’ vero che l’autore ricostruisce e poi, la ricchezza e l’ampiezza dei suoi l’infanzia, e anche l’identità, dell’avo che non interessi, frammisti ormai a quelli dei suoi ha conosciuto, perché nato circa trent’anni familiari: dal tolstoi che Nino tanto amava dopo la sua morte. ed è anche vero che per (capace di suscitare “torrenti di emozioni”) a questa via ci riconduce a tratti al pensiero e alla Gide, da Maupassant a proust, da Dickens a vita del Gramsci più noto, ormai maturo, bacchelli, a Jerome. La scoperta de il primato antonio. dello spirituale di Jacques Maritain. e quindi, Ma c’è un aspetto, questo sì, davvero superato il confine formale della prima fila singolare, nel libro di paulesu. per scoprirlo delle librerie, lo stupore nel rinvenire una dobbiamo addentrarci in modo non varietà di indirizzi e filoni estremamente frettoloso nella sua prefazione al libro, che ampia, da Grazia Deledda (la preferita di non ci appare come una mera declaratoria teresina, la sorella di Nino, che invece non la degli intenti perseguiti e dei percorsi scelti. in amava - a pearl s. buck, a simone de beauvoir, verità, le partizioni interne all’opera, costruite a ernest Hemingway, ma anche a Cassola, su un canone binario: testo-vignette – e Remarque, Morante, Musil, Joyce, Wilde. una persino note di corredo, si badi non al testo, biblioteca che rappresenta la sedimentazione e ma alle vignette – non si comprendono a la stratificazione della biblioteca di Gramsci fondo se non si esplora il senso e la portata con le rivisitazioni dei suoi cari, le loro della prefazione, che a mio avviso rappresenta riscoperte, le loro preferenze. non solo l’introduzione o l’invito alla lettura, Non è un caso che “il ricordo più nitido” che ma il cuore narrativo del libro. paulesu conserva della nonna teresina è L’origine del libro risiede infatti nella quello “di lei che, seduta nella poltrona di pelle biblioteca di famiglia. Con uno stile del soggiorno, all’arrivo dei nipoti, chiude un scorrevole, paulesu rievoca - talvolta con romanzo e lo appoggia in grembo”. tenerezza – i libri di Nino, e poi quelli di La straordinaria dimensione intellettuale di antonio. Le sue preferenze, le sue scelte di Gramsci incombe sulla scena, e la sua lettura, non solo quelle politiche ma anche, impronta segna le generazioni non solo fuori non meno rivelatrici, quelle letterarie. La delle mura familiari, nel mondo, ma anche – preoccupazione costante del periodico invio inevitabilmente – dentro le mura, nel vissuto di libri alla casa di Ghilarza. Le dediche, e le dei suoi cari. Quasi un’eredità, un compito che storie e i rapporti umani che esse narrano. Lo non può essere disatteso. stato di usura dei volumi, segno evidente del Luca paulesu matura così il suo proposito gradimento che essi ebbero nel corso delle narrativo, in quelle mura, sedendosi al tavolo generazioni. i timbri degli istituti di reclusione. dove antonio disegnava, riproducendo “con 39


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l’immaginazione la disposizione esatta del tavolo in quello spazio”. un’eredità, quasi una predestinazione. La biblioteca finisce per giganteggiare, diventa “la casa”. Questo è il destino ricorrente della biblioteca, icona del sapere e ancor di più del desiderio umano di trovare – per il tramite della conoscenza – le chiavi di accesso a una vita più umana, a un ordine più razionale perché più a misura d’uomo. per il più grande intellettuale politico italiano del Novecento, la costruzione di un “nuovo ordine” era un affare molto serio, un compito imprescindibile tanto del singolo quanto della collettività. L’importanza che Gramsci attribuiva alla cultura, allo studio sono dirimenti. “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” è il motto riportato proprio sulla testata de l'ordine Nuovo nel 1919. e d’altronde la biblioteca, come l’utopia, è un non-luogo, un archetipo. evoca un ordine, anzi l’ordine. Come intuiva borges, nella sua biblioteca di babele, la biblioteca è immagine e rappresentazione del cosmo (“non può che essere l’opera di un dio”) e allo stesso tempo manifestazione della speranza che il disordine apparente della realtà riveli un ordine insospettato (“l’ordine”). “Questa elegante speranza” conclude borges “rallegra la mia solitudine”. L’ordine generale, esterno, finisce inevitabilmente per intrecciarsi con quello interno. Lo chiarisce Gramsci, e lo sottolinea paulesu quando - nella nota di commento ad una sua vignetta che scaturisce dalla nota considerazione di Feuerbach secondo il quale “l’uomo è quello che mangia” – riporta una riflessione di Gramsci per il quale., allo stesso modo, “l’uomo è il suo appartamento”, contesto primario nel quale “si manifesta il complesso dei rapporti sociali”. e dunque aggiungo - per le stesse ragioni, l’uomo è la sua biblioteca. paulesu, nel suo libro per immagini, ritrae antonio Gramsci così come lo riscopre tra letture e racconti, ed effettivamente mette a fuoco il suo attaccamento allo studio come riscatto dalla povertà, dalla figura deludente del padre, dalla salute precaria, dall’emarginazione di classe.

e mette a fuoco anche il Gramsci pubblico, i suoi rapporti con amici e avversari. La distanza di togliatti, ritratto come l’ “amico immaginario”, suo compagno di studi al Collegio Carlo alberto di torino, insieme con angelo tasca, che lo inizierà alla passione politica. La distanza da Croce, Gentile, D’annunzio. La polemica contro gli indifferenti, perché per Gramsci non si può sapere senza comprendere, e non si può comprendere senza passione civile, senza partecipazione al destino comune. Ma la dimensione dominante del libro è la sfera privata. e’ l’attenzione posta alla educazione e alla crescita intellettuale dei più piccoli della sua famiglia, come nel caso di una delle rare rimostranze nei confronti del direttore del carcere di turi avverso le periodiche requisizioni di volumi inviati alla famiglia, perchè era stato impedito l’invio di un libro per bambini, il fantasma di Canterville e il delitto di lord arthur Sevile di oscar Wilde. e’ soprattutto la formazione, nella sedimentazione degli studi e delle letture, nella costruzione della sua biblioteca, di un peculiare umanesimo. La sua biblioteca rivela che il Gramsci privato aspira, come quello pubblico, all’universale. e lui, Nino, ritratto sempre solo, piccolo, spesso triste, talvolta inerme. Nino che prefigura quell’eroe tragico che sarà antonio, la vittima consapevole della sua coerenza ideale. Nino di fronte all’enormità dei problemi del mondo. Ma in questo, ad onor del vero, la sua condizione di solitudine è anche, anzi a maggior ragione, la nostra. Antonio Casu

Alberto Quadrio Curzio - Claudia Rotondi, Un economista eclettico. Distribuzione, tecnologia e sviluppo nel pensiero di Nino A ndreatta, Il Mulino 201 3 “L’evocazione degli scalpellini medioevali, che mi viene in mente soprattutto in questi giorni di protagonisti vocianti che cercano l’immediato consenso, i riflettori su qualcosa

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di effimero e che lasciano il campo a un nuovo effimero qualche ora dopo. Mentre gli scalpellini medioevali facevano perfettamente anche quelle guglie che non davano sulla facciata e che soltanto i piccioni e Dio potevano vedere. un immagine che sta a ricordare la necessità di fare bene le cose non per un titolo di giornale o per l’apertura di telegiornale, ma perché è giusto farle bene”. Nel presentare alla Camera dei deputati il volume “un economista eclettico Distribuzione, tecnologie e sviluppo nel pensiero di Nino andreatta” di alberto Quadrio Curzio e Claudia Rotondi, il presidente del Consiglio enrico Letta ricorre a un concetto che al professor andreatta piaceva molto: ossia, “fare le cose perché si devono fare e non per dare un risultato immediato”. un concetto - aggiunge Letta – gradito anche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che non è voluto mancare alla presentazione del saggio.

“alieno all’ostentazione”, è in fondo il tratto marcante della personalità di Nino andreatta, che al contrario di tanti poteva invece vantare contatti ed amicizie di primissimo piano, come nel campo economico con i premi Nobel Franco Modigliani e amartya sen. e proprio per strappare il velo di modestia e discrezione – confessa Letta che di andreatta è stato l’allievo preferito – nasce l’idea del volume curato da alberto Quadrio Curzio e Claudia Rotondi. “Fin dagli esordi della sua produzione scientifica, a metà degli anni Cinquanta, Nino andreatta dimostra un interesse rilevante per i problemi relativi alla distribuzione del reddito, della crescita economica e allo sviluppo”. Concetti – scrivono gli autori – “che si ritrovano anche nella sua azione politica e di

governo come progettista di un intervento pubblico flessibile, ma non certo casuale, che può facilitare e orientare l’agire degli operatori del mercato, sia soddisfare quei bisogni sociali che il mercato da solo non si rivela in grado di conseguire”. Ma un tratto caratteristico della personalità di andreatta è il suo eclettismo. a parte gli studi e la produzione scientifica, attraverso libri e pubblicazioni, andreatta ha ricoperto cariche di primo piano anche nell’attività politica: incarichi di partito, deputato, senatore e più volte ministro. scrive su “La Repubblica” del 27 marzo 2007, edmondo berselli all’indomani della morte di andreatta, giunta dopo sette anni di coma: “adesso una formula sbrigativa potrebbe illustrarlo come il vero padre del partito democratico. Non significherebbe nulla se non si avesse in mente la volontà feroce con cui aveva cercato di opporsi al tramonto della Dc e dei popolari, il sostegno scettico a Mino Martinazzoli, l’impegno da naufraghi nel patto per l’italia con Mario segni. soltanto dopo che la navicella dei centristi si era arenata, con i suoi sei milioni di voti, sull’ultima spiaggia alle elezioni del 1994, aveva compiuto la sua scelta… Convinto che una traccia della Dc di De Gasperi, cattolica, liberale e soprattutto sobria, dovesse essere l’eredità degli ultimi profughi della sinistra democristiana. e che una scia della moralità comunista potesse indurre tutta la sinistra, a fare i conti con la sfida, così difficile, dell’uguaglianza in una società diseguale. in quegli anni, parlare del partito democratico era una fantasia intellettuale. Forse, il pregio maggiore di andreatta è consistito nel pensare che nulla fosse reale come la fantasia”. Augusto Cantelmi

Giovanni Russo, Nella terra estrema. Repor tage sul l a C al abr i a , Rubbettino 2013 Giovanni Russo, grazie al talento originale che l’ha sempre contraddistinto, offre un interessante reportage sulla Calabria, “terra estrema”. una cultura “meridionalista” e liberale ha caratterizzato il suo lungo percorso

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che abbiamo sempre seguito con interesse, perché egli è uno scrittore che unisce ad una formazione di alto valore culturale una intima passione che si avverte anche questa volta, nelle belle pagine di un libro arguto e dilettevole. È una raccolta di scritti che si apre con un saggio intenso di Vito teti che rievoca alcuni aspetti salienti della sua attività di scrittore, iniziando da quando scrisse Corrado alvaro a cominciare da itinerario italiano del 1933 sino a una serie di successivi testi, anche in riferimento a Carlo Levi e poi con il famoso libro baroni e contadini. ed osserva come in effetti sia per l’emigrazione dei meridionali al Nord – il “grosso esodo contadino”, come lo chiamò – che per tratti successivi che tenevano conto delle forme di “modernizzazione forzata e distorta” imposta a quelle terre, chiariva che nel Mezzogiorno era stata realizzata “una industrializzazione senza sviluppo e addirittura falsa”.

proprio sulle prospettive per l’avvenire di quella regione, e dell’intero sud, Russo ha cercato di inquadrare le sue acute osservazioni, in svariati approfondimenti dal “paese solitario” (1949) alla “gerarchia del latifondo” (1960). ed è nei “primi incontri in Calabria” che lo scrittore meglio colpisce con la rude eppur leggera rappresentazione di persone, tipizzate nelle singole diversità ed umanità, dal barone al parroco (1950). La Calabria – precisa in un altro articolo (1964) – è il problema più grave della Nazione. È dalla prima legge di riforma agraria egli vede le concrete realizzazioni per la crescita di quelle popolazioni, insieme alla lotta contro il brigantaggio in un susseguirsi di analisi e di critiche come per “l’illusione all’in-

dustrializzazione” (1964) sino alla “faida per il capoluogo”, eventi che segnano la fine della civiltà contadina (non senza analogie – si può osservare – con pasolini pur nelle differenziazioni di terre a condizioni diverse. ed ancora “un messaggio di speranza e di amore”, pur quando quelle speranze venivano meno. e cedendo la parola alla Reggio ribelle (1970) c’è una continuità di spiegazioni logiche sino alla descrizione di una vera e propria “autoproduzione della rivolta” che tanti presunti intellettuali e politici non seppero comprendere al verificarsi di scontri inattesi e di barricate (1968) sino alla marcia dei trentamila calabresi a Roma (1958). L’insieme di questi scritti costituisce un colto condensato di studi veri e propri per far comprendere “le radici della nuova mafia” (1988) per poi tornare nuovamente ad alvaro (1992). i gesti, i ragionamenti, la timidezza, persino i silenzi, si ritrovano infatti in alvaro mentre Milano diventava la “capitale della ‘ndrangheta. Quindi una lettura, o meglio una rilettura, che, nel riportarci indietro in eventi, sciagure e delusioni, conferma pienamente le geniali intuizioni di Giovannino, il suo equilibrio straordinario nel valutare fatti e personaggi mentre gli anni passano ed egli conferma e potenzia le sue qualità, il suo spirito di osservazione, il suo arguto argomentare. È un libro che non riguarda solo i calabresi, ma quanti hanno a cuore le storie dell’intero paese attraverso il richiamo ad epoche e momenti non trascorsi invano. Carlo Vallauri

Filomena Gargiulo, V entotene, isola di confino - Confinati politici e isolani sotto le leggi speciali, 1 9261 943 , Edizioni L'ultima spiaggia 2009

se oggi chiedessimo a un giovane cosa sia Ventotene, probabilmente ci risponderebbe che è una città turistica (sempre che l'abbia mai sentita nominare e che abbia un minimo di nozioni di geografia). sì, certo, è un'isola dell'italia centrale, ed anche da circa cento milioni di anni. pochi di quei giovani, però, saprebbero rispondere che cosa Ventotene

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abbia rappresentato, soprattutto durante il ventennio fascista, per la società italiana (ed europea) moderna. una risposta precisa, puntuale, la fornisce Filomena Gargiulo nel suo libro Ventotene, isola di confino, con il quale racconta (sì, "racconta", questo è uno dei suoi pregi principali) e spiega come e perché quell'isola spoglia, quasi uno scoglio in mezzo al Mediterraneo, sia divenuta così tristemente conosciuta alle nostre più recenti generazioni passate. Nell'antichità, divenuta colonia romana, vi furono inviate in esilio, per diverse ragioni, molte donne come, per esempio, Giulia, figlia dell'imperatore augusto; agrippina maggiore, madre di Caligola e nonna di Nerone; Giulia Livilla, sorella di Caligola. ancora oggi vi si possono vedere i resti di Villa Giulia a punta eolo. poi, parecchi secoli dopo, Ferdinando iV di borbone ordinò la costruzione di un carcere a santo stefano, un isolotto poco distante da Ventotene: inaugurato nel 1795, divenne Carcere di stato per ergastolani durante il Regno d'italia e poi fu soppresso nel 1965 per le inumane (anche per degli ergastolani) condizioni in cui ci si viveva. inizialmente luogo di confino per detenuti comuni, Ventotene divenne, fra gli anni 1926 e 1943, un posto dove tenere lontani e rendere inoffensivi (almeno così credevano...) gli oppositori del regime fascista. Ma non era solo una questione strettamente politica: vi si mandavano, per esempio, anche i testimoni di Geova, praticamente lì si raccoglievano quelli che erano considerati "scomodi" ma che non avevano commesso reati tali da poterli mandare in un carcere vero e proprio. si può ben comprendere, quindi, come centinaia di persone possano essere state mandate a Ventotene, come anche in altri luoghi sufficientemente isolati, per situazioni che non avevano nulla a che fare con la politica o con l'antifascismo. Le ragioni per cui si poteva essere inviati al confino erano le più svariate, ma anche le più bizzarre. e non servivano processi o sentenze: bastava una soffiata, una lettera anonima. Chi decideva era una Commissione formata dal prefetto, che la convocava e le presiedeva, dal questore, che fungeva contestualmente da

pubblico accusatore e da giudice, dal comandante locale dei carabinieri e da quello della milizia più un procuratore del re che aveva il compito burocratico di accertare la regolarità della seduta: sostanzialmente le decisioni venivano prese dai primi due. il rischio di subire una tale punizione era, quindi, altissimo per chiunque. Gli avversari politici più "pericolosi" venivano controllati e spiati in ogni momento, al punto che, in occasione di una ricorrenza speciale (tipo il 1° maggio), bastava vestirsi in modo più elegante del solito o mangiare un pasto particolare per essere, da un giorno all'altro, presi e mandati al confino, senza nemmeno un minimo di processo o di preavviso. Filomena Gargiulo, anche utilizzando le preziose testimonianze di alcuni dei protagonisti e della popolazione locale, ci descrive come vivevano i confinati, ci mostra

fotografie del tempo ed altre fatte dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra, frutto di minuziose ricerche negli archivi. Veniamo così a conoscere la vita reale, quotidiana, di coloro che vi hanno passato tanti difficilissimi anni. Ventotene non era una prigione in senso stretto, ma già le dimensioni di questo pezzo di terra di macchia mediterranea danno un'idea di come si trascorrevano quei giorni interminabili: una striscia lunga meno di tre chilometri e larga circa 800 metri. e il nome stesso dell'isola fa comprendere come anche il clima non fosse proprio salubre; e questo fu determinante nel far diventare tale luogo un posto ove poter debilitare la resistenza fisica e psicologica degli avversari politici. Mentre i confinati cosiddetti 'comuni' collaboravano all'economia del posto

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lavorando nei campi con un salario irrisorio pur di non stare senza fare nulla, quelli politici erano, in maggioranza, intellettuali che discutevano fra loro di cultura e, inevitabilmente, di politica, di ciò che stava accadendo nell'italia di quel tempo. Ma il regime non valutò appropriatamente lo "spirito" di tali avversari mandati al confino, ché erano spinti da ideali così prepotenti da essere difficili da combattere. D'altra parte a Ventotene furono raccolti (basta dare una scorsa agli elenchi dei confinati) donne e uomini particolarmente robusti da questo punto di vista: da alessandro pertini a Camilla Ravera, da umberto terracini ad adele bei, pietro secchia, Giuseppe Di Vittorio, ernesto Rossi, altiero spinelli, Luigi Longo, Giorgio amendola, Lelio basso, Mauro scoccimarro, Giuseppe Romita, Giovanni Roveda, Walter audisio, Riccardo bauer, eugenio Curiel, ilario tabarri, pietro Grifone e tanti altri. tutti personaggi che hanno poi contribuito alla fondazione della nostra Repubblica ed alla formazione della Costituzione dell'italia democratica di oggi. e chissà quanti ancora vi si sarebbero mandati se non fossero stati assassinati prima dai fascisti. in questo libro ci viene descritto tutto: i cameroni (che oggi non esistono più) dove stavano i tavolacci per dormire, la delimitazione con avvisi e filo spinato dello spazio dell'isola nel quale i confinati potevano muoversi, le scarsissime condizioni igieniche in cui erano costretti, la censura alla quale veniva sottoposta la loro corrispondenza. anche i rapporti con la popolazione locale dovevano essere limitati alle essenziali necessità, tipo entrare in un negozio per acquistare qualcosa, senza soffermarsi a parlare d'altro. alcuni di essi venivano addirittura costantemente controllati e seguiti a tre metri di distanza (fa sorridere il passaggio in cui viene raccontato come sandro pertini a volte allungava il passo costringendo il suo controllore a corrergli dietro facendogli venire il fiatone). Le infrazioni alle regole venivano punite con umiliazioni e vessazioni di ogni tipo. sin dall'arrivo nell'isola (in catene l'uno con l'altro) venivano sequestrati i documenti di identità e sostituiti da una tessera che si era obbligati a portare sempre con sé, pena l'arresto ed il carcere duro: da subito veniva

applicata la tecnica della costrizione alla perdita della propria individualità. Nonostante qualcuno abbia detto (anche di recente) che quegli avversari politici venivano mandati in villeggiatura al mare, il lavoro di Filomena Gargiulo ci dà l'esatta condizione della vita alla quale erano costretti gli internati, che non era certo quella di vacanzieri! in realtà, riunendo coattivamente nella colonia di confino "alcune personalità di altissimo spessore culturale e morale", il regime fascista "aveva inconsapevolmente trasformato quell'isola prigione, in un’occasione speciale e irripetibile per la storia futura del nostro paese". Con il sacrificio economico di ciascuno dei confinati si riuscì a creare una biblioteca e a spendere circa cento lire al mese per l'acquisto di nuovi libri, usufruendo anche di particolari sconti concessi dagli editori. ogni giorno una cinquantina di confinati vi andavano a prendere nuovi libri per poi stimolare dibattiti, discussioni su quegli argomenti, riuscendo a reagire "all'isolamento, alla perdita del lavoro, all'allontanamento dai propri affetti, alla perdita stessa dell'identità, dimostrandosi vitali, adoperando il tempo che avevano a disposizione per approfondire, coalizzarsi, trasmettere idee, crescere culturalmente e umanamente”. Non è un caso, fra l'altro, che lì fu scritto il Manifesto per un’europa libera e unita, il cosiddetto Manifesto di Ventotene, in concreto la base della futura unione europea, ad opera di altiero spinelli, ernesto Rossi ed eugenio Colami. proprio per quest'opera oggi Ventotene è ben conosciuta in europa e nel resto del mondo. Ma non era così per tutti, perché ognuno contribuiva dando il meglio di sé. Giuseppe Di Vittorio, per esempio, era un contadino autentico e lavorava la terra dalle cinque del mattino fino a sera e riforniva gratuitamente di latte ed ortaggi freschi chiunque ne avesse bisogno e con questo salvò parecchie vite fra i confinati di Ventotene. alcuni appassionati di musica riuscirono a formare persino una orchestrina con la quale passavano il tempo; scopriamo così che terracini era un appassionato violinista, altri suonavano il mandolino ed anche molto bene, stando alle testimonianze raccolte (alcune, a

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tratti, molto divertenti: ernesto Rossi a volte sbottava perché non ne poteva più dei noiosi esercizi a cui si sottoponevano i 'musicisti'). Questo è il tipo di storie che ci sono raccontate nel godibilissimo libro della Gargiulo, storie dalle quali, attraverso la sofferenza dei protagonisti, traspaiono la semplicità, l'umanità, il coraggio e la ricchezza intellettuale di uomini e donne che non hanno voluto cedere ai soprusi di un regime. eroi di un tempo appena passato il cui ricordo ci lascia esempi sempre vividi e valori morali del cui sostegno tutti abbiamo - ancora oggi bisogno. Ventotene isola di confino, scritto da una maestra di scuola elementare, dovrebbe essere letto da tutti per evitare che, come qualcuno ha già detto, ignoranze pregresse gettino il seme di ignoranze future. Salvatore Nasti

Alberto Castelli (a cura di), Politics e il nuovo socialismo per una critica radicale del marxismo (Marietti 1820, Genova – Milano 2012)

a livello internazionale – e particolarmente negli scambi tra esponenti culturali europei e analoghi loro corrispondenti nord-americani – emerse, tra la fine degli anni ’30 e l’inizio dei ’40, con ulteriori necessari approfondimenti nell’immediato dopoguerra, una corrente di pensiero – espressa in vario modo in riviste, non di larga diffusione ma di singolare interesse culturale e politico – chiaramente delineata negli scritti di andrea Caffi (e di Nicola Chiaromonte), nonché di paul Goodman, e Wight Mac Donald. Quest’ultimo è stato valido sostenitore di un socialismo nettamente critico nei confronti delle esperienze oppressive realizzate in unione sovietica, e nello stesso tempo proiettato all’impegno per la piena affermazione dell’individualità delle singole persone nella molteplicità delle situazioni e degli ostacoli al pieno dispiegamento dei diritti civili e sociali. Hanno mostrato interesse alle tesi esposte anche due scrittrici europee di grande impatto umano e culturale come simona Weil e Hannah arendt. punto

culminante nella diffusione di tali idee fu in usa la rivista “politics”, il cui rilievo nel confronto ideologico viene ora richiamato in una diffusa ricostruzione a cura di alberto Castelli, politics e il nuovo socialismo per una critica radicale del marxismo (Marietti 1820, Genova – Milano). e lo stesso curatore illustra nella prima parte, “le nuove strade della politica”, il corso di quella corrente e segue lo sviluppo della rivista, pubblicata tra il 1944 ed il 1945, spiegandone contenuti e significato anche in riferimento alle posizioni “ribelli” di intellettuali come albert Camus e, in seguito, quello che sarà primo presidente della Cecoslovacchia libera, Vaclav Havel. e le opinioni espresse riconducevano anche a precedenti come la pubblicazione del Communist party di New York partisan Review, fondata nel 1934: viene quindi sottolineato tra l’altro il ruolo che proprio in quegli anni svolsero i seguaci e ammiratori di trotskij nel periodo del suo esilio americano. esponenti di questi gruppi denunciavano soprattutto le perniciose conseguenze sia del collettivismo burocratico messo in atto nel paese dei soviet sia il pericolo costituito dal possibile conflitto tra le grandi potenze, nella persuasione che comunque la guerra era da condannare e quindi erano necessarie scelte politiche dirette a prevenirne l’eventualità. tra i collaboratori principali di politics troviamo andrea Caffi (autore in quel periodo di un saggio sui rapporti tra masse e politica, paul Goodman (che dal 1942 aveva assunto negli usa una posizione anarchica e pacifista), simone Weil, che nel ’33 aveva denunciato il rapido ampliamento delle spinte “nazionaliste” sempre più forti in europa, prima di scrivere il suo straordinario saggio sociologico sulla condizione operaia. e sarà in prima linea Mac Donald a manifestare le sue idee dal 1945 nella rubrica “le nuove strade della politica”, di cui il volume riporta ampi estratti. Vista da oltre oceano, l’europa appariva trascinarsi tra contraddizioni di istanze rivoluzionarie e aperte adesioni a istituzioni statali accentratrici e negatrici delle libertà. Contro lo “stato totale” la critica è serrata, come documentate sono pagine riportate nel libro che oggi impressionano per la chiarezza delle analisi nel denunciare “la grande

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menzogna” dell’enigma russo, come venne definita la terribile esperienza stalinista. e contro l’accettazione di quanto avvenuto in urss vengono indicati e sostenuti argomenti e relative dimostrazioni dei pesantissimi sacrifici imposti alle popolazioni in nome di un modello che appariva rivolto prevalentemente alla distruzione dei valori umani. a queste posizioni venivano contrapposte le idee già note di tolstoj, e poi quelle più recenti dell’Harendt. Di Caffi (ci permettiamo qui rinviare al nostro saggio sullo scrittore pubblicato nel “Dizionario biografico della treccani) viene riportato il saggio sull’esigenza di garantire la piena autonomia del “popolo europeo”, oltre alla conclusione tratta dell’esperienza bellica, con l’indicazione di un “programma

progresso vanamente perseguito e risoltosi nell’opposta regressione civile. La possibilità di realizzazione degli ideali socialisti conduceva a richiamare il principio che “la radice è l’uomo”, titolo di un suo saggio, pieno di considerazioni sulla guerra mondiale, la lotta di classe, l’inganno del proletariato da parte di comunisti russi, come l’inviolabilità delle persone umane non assicurate da parte degli stati assolutisti o sedicenti democratici. La lettura di questo libro appare una delle più chiare e antiveggenti prese di posizione in difesa di un rinnovamento del socialismo non violento. pagine certamente tuttora valide e ammonitrici, anche se non si può non osservare come nelle posizioni sopra descritte si rintraccia quell’eccesso di speranza utopica che spingerà a sottovalutare il significato delle politiche riformatrici realizzate nell’inghilterra laburista come nelle altre esperienze europee del Welfare. Carlo Vallauri

Carmelo Lentino e Roberto Messina, Per l’Italia. Interviste sulla gioventù. Idee e progetti per un ricambio generazionale (Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2012)

socialista”, critico nei confronti degli errori commessi dalle sinistre in nome di pressanti valori nazionalisti, e invece tenace assertore delle prospettive di cui si auspica l’affermazione su ”scala mondiale”. un rilievo ampio e preciso è dedicato nel libro a paul Goodman e alle sue valutazioni sullo sviluppo economico, e la crisi delle democrazie. La necessità di “essere radicali” nelle scelte politiche, significa affrontare i problemi alle radici, secondo la tradizione americana assunta da Mac Donald a base della “rivoluzione” da effettuare, superando gli “errori” e le “deviazioni” del pensiero marxista che, come il miraggio della rivoluzione proletaria, stava conducendo ad organizzazioni statali prive di ogni garanzia per la libertà e i diritti dell’uomo, in nome di un

in italia sembra che nessuno pensi al futuro, come se non fosse competenza di coloro che oggi sono adolescenti e giovani. Quando si parla di cambio generazionale si cercano quei giovani già “vecchi dentro” perché “pensano” come chi ha il potere, come per perpetuarlo all’infinito, sempre uguale. Non c’è fiducia nel nuovo, nel diverso, nel “mai accaduto prima”. si vede sempre il futuro come una naturale evoluzione del vecchio. al contrario, le cose che cambiano nella nostra vita sono talmente tante che, messe insieme e soprattutto con l’accelerazione sempre più prepotente dell’era tecnologica, provocano non una evoluzione bensì una trasformazione, spesso radicale, di necessità e di comportamenti. ovviamente, e come sempre è

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accaduto ovunque e da che mondo è mondo, sono i giovani a pensare ad una società diversa, innovativa, più pratica e veloce. Nella sua prefazione antonio Catricalà lamenta che i giovani non hanno voce, non partecipano alle scelte economiche e politiche dell’italia. se è così, come effettivamente è, perché allora i cosiddetti “vecchi” non si preoccupano abbastanza di loro? Qualcuno dovrà pur assumersene la responsabilità. Chi detiene il potere dovrebbe possedere saggezza e duttilità di pensiero, pensare non soltanto al proprio futuro ma anche – e soprattutto – di quelli che sono giovani oggi e che domani dovranno progettare quello delle successive generazioni. possono apparire considerazione ovvie, ma – a pensarci bene – non lo sono.

quando essi riusciranno a spogliarsi delle scaglie di egoismo di cui spesso sono ricoperti. a titolo esemplificativo ricordo che alcune popolazioni di indios utilizzano le scaglie di certi pesci come punte per le proprie frecce. parlavamo di responsabilità del distacco fra vecchie e nuove generazioni. in parte è un fenomeno naturale che c’è sempre stato; ma in questi tempi la distanza fra vecchi e giovani è aumentata considerevolmente, per un verso a causa della maggiore longevità e per l’altro per una maggiore precocità del genere umano. La tecnologia rende più rapidi i tempi della vita, ma nel senso che le novità si consumano sempre più velocemente, i pensieri corrono, saltando a pie’ pari considerazioni che ormai si danno per scontate; sempre più spesso vediamo giovani e giovanissimi inventare “apps”, softwares che si sostituiscono ai ragionamenti umani. e dall’altra parte vi sono persone che con l’andare del tempo mantengono intatte le capacità di ragionamento e di azione. Ma il problema è più grande: viviamo in un mondo globalizzato ove regna incontrastato il “mercato”, siamo governati dal “regime del mercato”, quando invece dovremmo essere noi a “governare il mercato”. Giovani senza lavoro e soprattutto con scarsa cultura e che servono solo a “consumare” - sono il prezzo che i tanti “vecchi” pagano per mantenere il potere dei pochi “vecchi” che governano il nostro paese. sarebbe molto utile, al riguardo, informarsi sui discorsi fatti all’oNu dal presidente dell’uruguay José Mujica, detto “il presidente povero”. Per l’italia è un libro che aiuta a farsi un’idea più precisa dell’italia di ieri, di oggi e di domani (e così via).

Dalle tante interviste pubblicate in questo interessante libro ne escono fuori parole a volte vuote, a volte ottimistiche, a volte anche “belle”. sono promesse? e saranno mantenute? i comportamenti concreti dei politici, dei sindacalisti, degli imprenditori ci daranno una risposta. (essere giovani e non essere rivoluzionari e' Domani o dopodomani, o forse mai. il una contraddizione, prima che politica, presidente Napolitano richiama (e, per la biologica. - salvador allende) verità, lo ha spesso fatto) coloro che hanno il potere di prendere decisioni a Salvatore Nasti non far ricadere le proprie colpe sui giovani, ma ciò potrà accadere solo 47


il volume comprende gli atti del Convegno su “la formazione dello Stato unitario” tenutosi a Palazzo Montecitorio il 6 giugno 2011 nell’ambito delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’italia. Gli interventi sono stati integrati da altri svolti in occasione di incontri realizzati a tagliacozzo il 18 marzo 2012 e presso la Biblioteca della Camera dei deputati il 12 e 19 marzo 2012 sul tema “in difesa del risorgimento” nell’ambito del Progetto della Fondazione Giacomo Matteotti - onlus su “Pensiero politico e letteratura del risorgimento”. in appendice sono riportati gli interventi che le più alte autorità dello Stato hanno pronunciato in occasione della cerimonia celebrativa dell’Unità d’italia che ha avuto luogo nell’aula di Palazzo Montecitorio il 17 marzo 2011. il volume comprende gli interventi di ester Capuzzo, antonio Casu, Carlo Ghisalberti, Guido Melis, Giulio Napolitano, Guido Pescosolido, angelo G. Sabatini, Franco Salvatori, rosario Villari.


Il volume comprende gli Atti del Convegno tenutosi in due parti, il 29 novembre 2011 presso l’Aula Moscati della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” sulla letteratura, ed il 16 dicembre 2012 presso la Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio sul pensiero politico, nell’ambito del Progetto “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento” della Fondazione Giacomo Matteotti - Onlus in occasione delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Nelle rispettive Appendici si è ritenuto utile inserire due interventi in arricchimento e in sintonia con i temi del Convegno. Il volume coprende gli interventi di Emilio Baccarini, Giuseppe Cantarano, Rino L. Caputo, Fabiana Candiloro, Fulvio Conti, Girolamo Cotroneo, Giovanni Dessì, Angelo Fàvaro, Marina Formica, Andrea Gareffi, Carlo Ghisalberti, Nicola Longo, Elisabetta Marino, Giuseppe Monsagrati, Pamela Parenti, Guido Pescosolido, Fabio Pierangeli, Giorgio Rebuffa, Angelo G. Sabatini, Marcello Teodonio, Fulvio Tessitore, Lucio Villari.



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