TEMPO PRESENTE 394-396 ott-dic 2013

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TEMPO PRESENTE

N. 394-396 ottobre-dicembre 2013

euro 7,50

SEGNI E SIGNIFICATI DI UNA CRISI (3) * IL PENSIERO POLITICO DEL XX SECOLO * IL PACIFISMO DI GIACOMO MATTEOTTI * DIZIONARIO DEGLI EBREI ITALIANI * KEYNES * LETTURE

a. aghemo l. bazzicalupo m. broglia e. capuzzo a. casu g. pacifici f. pezzuto g. malgeri m.l. napolitano a.g. sabatini c. salvi c. vallauri v. zanone Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


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Angelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALE

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hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE

Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI GRAFICA

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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura N. 394-396 ottobre-dicembre 2013 PRIMA PAGINA

Segni e significati di una crisi (3) ValeRio Z aNoNe , la crisi della democrazia è sociale prima che politica, p. 3 a NtoNio C asu , i rischi della democrazia corporativa, p. 5 l auRa BaZZiCalupo , Democrazia e neoliberalismo, p. 10 G ioRGio paCifiCi , Democrazia! Democrazia!, p. 14 f RaNCesCo p eZZuto , Democrazia senza etica?, p. 19 OSSERVATORIO il peNsieRo politiCo Del XX seColo di RoCCo peZZimeNti aNGelo G. saBatiNi, p. 24 CesaRe salVi, p. 26 Giampaolo malGeRi, p. 29 matteo l. NapolitaNo, p. 31 UOMINI E IDEE alBeRto aGhemo, il pacifismo intransigente di Giacomo matteotti, p. 35 esteR CapuZZo, Breve dizionario biografico degli ebrei dell’italia unita, p. 38 massimo BRoGlia, Goodbye Keynes? di franco Reviglio, p. 41

LETTURE a CuRa Di CaRlo VallauRi Stenografie di viaggio di Giovanni ansaldo, p. 43 Genocidio. Una passione europea di George Bensoussan, p. 44 I partiti politici italiani dall’unità ad oggi di paolo Carusi, p. 45 Vaticano rapace di massimo teodori, p. 46



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segni e significati di una crisi (3) Valerio Zanone, Antonio Casu, Laura Bazzicalupo, Giorgio Pacifici, Francesco Pezzuto

Valerio Zanone democrazia ha dimostrato di essere la La crisi della democrazia è sociale tecnologia del potere meglio idonea al prima che politica governo delle società complesse. prima di inoltrarsi nelle crisi attuali Dovunque in occidente, ed a maggior della democrazia, ancora una ragione in italia, si scrivono libri e precisazione è d’obbligo. il potere che la indicono convegni sulla crisi della democrazia attribuisce ai suoi destinatari democrazia. sul significato del termine non è illimitato. la democrazia che si è occorre intendersi. se si attribuisce al formata attraverso alla periodizzazione termine “crisi” un significato simile a dei diritti è la democrazia liberale, dove quello classico, qualcosa che fa pensare l’aggettivo inserisce nel codice genetico ad una apertura di giudizio, si potrebbe del sostantivo i limiti oltre i quali il dire che la crisi è un connotato potere di maggioranza non può intrinseco alla democrazia, non neces- procedere. Con la separazione dei poteri sariamente negativo: anzi la democrazia e la loro sottomissione al patto è raccomandabile, in quel senso, come la costituzionale, la democrazia riconosce tecnologia del potere più idonea a agli individui una sfera di libertà inrestare sempre aperta alle crisi ed a violabili, l’armatura dei diritti rinnovarsi superandole, come quelle fondamentali. febbri infantili da cui si usciva cresciuti l’area della democrazia liberale si può di statura. tracciare in alto a sinistra del quadrante peraltro per duemila anni il termine di Nolan, un incrocio di assi cartesiani stesso di democrazia è stato usato dalla che in orizzontale segna dal meno al più dottrina politica con accezioni quasi la libertà di mercato ed in verticale segna sempre negative. la sua fortuna dal meno al più i diritti civili. l’angolo decorre in sostanza soltanto dalla sto- inferiore a sinistra (libertà economiche ria moderna, con la periodizzazione dei e civili al minimo) è dei totalitari. l’andiritti: i diritti civili del settecento, i golo opposto, superiore a destra (libertà diritti politici dell’ottocento, i diritti economiche e civili al massimo) è dei sociali del Novecento, oggi i nuovi libertari. l’angolo inferiore a destra (il diritti insorgenti dalle nuove tecnologie. massimo di mercato e il minimo di diritti Dunque la democrazia è una civili) è dei conservatori. Resta l’angolo invenzione della modernità, che superiore a sinistra, dove il massimo di contiene nel nome la propria promessa: diritti civili si combina con il mercato la promessa di affidare il potere ai suoi aperto ma regolato dalle leggi, e la destinatari. ma poiché per definizione la libertà di iniziativa privata si acdemocrazia è sempre aperta alle crisi, compagna con scelte pubbliche di anche l’attuazione della promessa è redistribuzione a favore degli individui e sempre esposta a rilievi critici. Norberto gruppi svantaggiati. politicamente, abiBobbio usava osservare che la maggior tano da quelle parti le famiglie storiche parte degli studi sulla democrazia della democrazia occidentale; liberaltrattano delle sue promesse non democratici, socialdemocratici, cristiamantenute. e peraltro, per la capacità di no-democratici. rinnovarsi attraverso le crisi, la la democrazia sin qui descritta 3


Valerio Zanone

presenta un insieme di connotazioni liberali. ha in sé un connotato relativistico, in quanto l’armatura dei diritti individuali comporta il pluralismo dei valori e quindi la legittimazione del compromesso kelseniano. ha in sé anche un connotato procedurale in cui è fondamentale la libertà di discussione. Nella democrazia che negli anni settanta si definiva partecipativa ed oggi si definisce deliberativa, la procedura fondamentale è nel momento della discussione prima che in quello della decisione. ancora, e qui ci avviciniamo all’analisi sulla crisi della democrazia in termini globali, la democrazia liberale ha fra i connotati costitutivi il rapporto fra la democrazia come scambio fra le idee ed il mercato come scambio fra gli interessi. all’origine il rapporto fra democrazia e mercato ha una radice storica comune. il regime rappresentativo è il portato delle rivoluzioni contro le gerarchie tradizionali condotte dalla borghesia produttiva e commerciale. libertà basali quali la libertà di iniziativa, di circolazione, di competizione, sono princìpi fondativi tanto del mercato quanto della democrazia. ma dagli ultimi anni del Novecento in poi, la globalizzazione ha divaricato l’asimmetria fra i mercati, rapidamente diventati globali, e le democrazie, ancora legate al formato nazionale. i mercati globali sono debolmente regolati da istituzioni globali. il potere della democrazia è soverchiato dal potere della finanza. la dimensione globale della crisi democratica consiste nello squilibrio crescente fra i poteri della rappresentanza politica ed i poteri della finanza e delle comunicazioni. la profezia kantiana del governo cosmopolitico rimane lontana sull’ orizzonte. Nell’ordine internazionale la tappa di avvicinamento più rilevante nella seconda metà del novecento rimane l’unione europea, che però segna il passo appunto per deficit democratico. la crisi della democrazia può essere

descritta per cerchi concentrici; il cerchio globale dell’asimmetria fra mercati ed istituzioni, poi il cerchio europeo dell’ancora incompiuta cittadinanza comune. adesso conviene stringere il cerchio sugli aspetti specifici del caso italiano. la crisi della democrazia si manifesta oggi in italia con intensità più grave rispetto ad altre parti d’europa. in tutta l’europa la democrazia oggi è scossa da uno sciame sismico che in italia è aggravato dalla fragilità delle istituzioni, e la fragilità delle istituzioni è insieme causa ed effetto dal discredito verso la politica. Nella graduatoria del discredito verso la politica, la posizione di fondo (cinque per cento appena di consensi), è occupata dai partiti. la democrazia non può funzionare senza soggetti che spartiscano il popolo sovrano e lo ricompongano in parti dotate di una voce, ossia la democrazia non può funzionare senza partiti. Nella società della comunicazione di massa, dove il messaggio politico si trasmette essenzialmente attraverso la televisione, la natura associativa dei partiti tende ad indebolirsi a vantaggio dell’identificazione spettacolare con la persona del leader; il vincolo di partito passa dalla membership alla leadership. l’indebolimento dell’identità associativa apre spazio all’antipolitica e favorisce l’idea che le scelte pubbliche disattese dal sistema rappresentativo vadano affidate al capo dell’esecutivo. sulla forma di governo una pluralità di varianti dal parlamentarismo al presidenzialismo può rivendicare la legittimazione democratica. ma nello stato presente della democrazia in italia, c’è qualcosa di malsano nell’idea che invece di mobilitare per le scelte pubbliche le responsabilità di tutti, si affidi a uno solo il carico di risolverle. Con le elezioni nazionali del 25 febbraio 2013, sono stati smantellati gli ultimi residui del sistema partitico di origine ciellenistica, durato mezzo se-

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La crisi della domocrazia è sociale prima che politica

colo e crollato nel 1994. il crollo dei partiti storici diede inizio nel 1994 ad un bipolarismo montato al rovescio, senza reciproca legittimazione fra i due poli e quindi tendenzialmente centrifugo. il veemente contrasto fra i due poli si è tradotto in sfiducia verso le istituzioni, la crisi della politica è degenerata in crisi della democrazia. Dopo vent’anni di esercizio, nel 2013 i due poli hanno perduto rispetto alle elezioni precedenti dieci milioni di voti, sei a destra e quattro a sinistra: e l’87 per cento di quei dieci milioni perduti dai due poli è andato al movimento di protesta Cinquestelle, ossia alla politica dell’antipolitica. tuttavia la crisi dei partiti e i malfunzionamenti del sistema pubblico spiegano solo in parte la crisi della democrazia. il cuore del problema ha essenzialmente carattere sociale. le democrazie liberali funzionano in sistemi sociali di benessere diffuso, sul tempo lungo nessuna democrazia liberale sopravvive all’impoverimento dei ceti medi. Vero è che per la ragione pubblica deve considerarsi motivo di scandalo il crescere della povertà e non il crescere della ricchezza: ma anche il crescere della diseguaglianza diventa motivo di scandalo sociale. Ciò accade in italia. la forbice delle diseguaglianze nei redditi si allarga al premere della recessione. l’economia italiana perde capacità di competizione sui mercati globali per un insieme di fattori che si potrebbero definire le 7 piaghe d’italia: il cuneo troppo largo nel costo del lavoro, il costo dell’energia industriale, il deficit di infrastrutture soprattutto al sud, la pressione fiscale squilibrata e complessivamente eccessiva, i tempi della giustizia, l’ipertrofia burocratica, gli inquinamenti malavitosi. tutti quei fattori risalgono a responsabilità politiche annose e plurime, cui deve aggiungersi la responsabilità di aver consumato negli ultimi decenni più di quanto il paese era capace di produrre, mettendo il costo a carico

dei posteri; e di aver utilizzato il debito non in investimenti per il futuro, ma per indulgere a politiche assistenziali non estensibili alle nuove generazioni. l’avvio del rientro sarebbe stato possibile dieci anni fa grazie alla riduzione degli interessi sul debito portata in dote dall’unione monetaria, ma l’opportunità non è stata raccolta anche per la gelata dell’economia occidentale. l’impoverimento dei ceti medi; l’iniquità delle diseguaglianze nelle condizioni di vita; la perdita di competitività sui mercati globali; il degrado del sistema pubblico; l’umiliazione del capitale umano formato dalla nuova generazione; sono essenzialmente questi nell’italia d’oggi i fattori che mettono a rischio la democrazia. la crisi è sociale prima che politica.

Antonio Casu I rischi della democrazia corporativa

uno dei fondamenti dell’accezione liberale della democrazia è, per dirla con Kelsen, che la democrazia è intrinsecamente relativa, e che tale connotato, che viene solitamente opposto alle critiche di relativismo che alla cultura contemporanea provengono in particolare dal pensiero religioso e specialmente dalla Chiesa cattolica, è imprescindibile, perché la democrazia si realizza proprio nel contemperamento dei diritti di tutti e di ciascuno e dunque si sostenta nell’equilibrio dei rispettivi valori, nella misura in cui sono riconosciuti dall’ordinamento, con forme e modalità garantite dall’assetto politicoistituzionale che le è proprio, e in modo specifico dal costituzionalismo moderno. Da questo angolo di visuale, la democrazia non può riconoscersi in una etica, senza avviarsi su quel piano inclinato che, come altre volte in passato, la porterebbe verso una crisi irrimediabile e aprirebbe la prospettiva

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Antonio Casu

di uno stato etico, e comunque di uno stato totalitario. Da un versante diverso, ma complementare, a partire da popper fino ad oggi, si precisa che solo tutelando i diritti civili e politici di ciascuno, e quindi di tutti, la democrazia può riuscire a tutelare effettivamente le minoranze, evitando così di incorrere in quella “dittatura della maggioranza” che, dall’apologo di pericle in poi, costituisce l’infausta nemesi paventata da ogni sincero democratico. in questo ragionamento vi è, al fondo, una cesura del continuum tra etica e democrazia, e più in profondità, in alcuni autori, perfino tra etica e politica. eppure, al di là delle intenzioni, evidentemente e meritoriamente finalizzate a mettere al riparo la casa comune della democrazia dal rischio dell’ evanescenza e della mancanza di legittimazione, questo ragionamento incorre in un’aporia fondamentale, un vero e proprio paradosso etico della democrazia, perché una cosa è lo stato etico, altra l’assenza o il rifiuto di una cornice di valori etici condivisi. infatti la democrazia è e rimane, sia pure nelle varie definizioni che le sono state attribuite, il sistema politicoistituzionale maggiormente vocato a dare voce e spazi di rappresentanza alla società civile. Quando la coesione sociale si allenta e la conflittualità interna si innalza, la stessa possibilità di operare della democrazia è messa a repentaglio, perché essa è sottoposta a richieste di rappresentanza degli interessi sempre più pervasive da parte dei gruppi di pressione meglio organizzati, che da una parte riducono oggettivamente gli spazi di mediazione del potere pubblico, e dall’altra comprimono diritti e interessi dei singoli e dei gruppi che non sono in grado di organizzarsi efficacemente ovvero la cui capacità di auto-tutela risulta di minore efficacia. Certo, è vero che la democrazia moderna è continuamente sottoposta alle tensioni derivanti da molte spinte

centrifughe, sia dall’alto (dimensione sovrannazionale e trans-nazionale) che dal basso (rivendicazioni autonomistiche e separatistiche), e si trova oggi a fronteggiare la sfida più pericolosa: la sua stessa capacità – in uno scenario globalizzato dai contorni nuovi e in parte ignoti - di tutelare i più deboli dalle forzature valoriali e giuridiche dei più forti. si dirà che così è sempre stato, che il diritto è in ultima analisi la formalizzazione dei rapporti di forza. e tuttavia assistiamo oggi ad una fase ulteriore, consistente in un processo di giuridicizzazione delle istanze di gruppi sociali che non si limitano ad esigere maggiori tutele dall’ordinamento, ma richiedono la delegittimazione del diritto di critica, quando si rivolge contro i loro interessi. si instaura così un processo di disaggregazione sociale, che si articola in alcune fasi successive: la delegittimazione dell’altro, inteso come ostile e non come parte del processo democratico; la conseguente richiesta di una sanzione giuridica, sempre più di indole penalistica, delle posizioni di critica espresse a danno della propria identità di gruppo; la limitazione, e dunque in realtà la frantumazione, del diritto costituzionale alla libertà di opinione. in tal modo, la tutela costituzionale dei diritti, anche quando univoca e solenne come nel caso della Costituzione italiana, sembra non essere più sufficiente. o meglio, viene percepita come una sorta di tutela residuale, per i cittadini e i gruppi che non dispongono di strumenti più idonei per tutelarsi. le categorie forti, al contrario, esigono una sorta di “tutela rafforzata”, che ne legittimi pubblicamente il ruolo sociale acquisito. ed ecco che il processo di giuridicizzazione dei diritti, se non sottoposto ad un quadro di riferimento generale e organico, che ne assicuri le compatibilità interne, rischia di contribuire alla rottura della coesione

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I rischi della democrazia corporativa

sociale, che si fonda proprio sull’equilibrio dei diritti, non sulla preminenza di alcuni, nonché sulla tolleranza delle opinioni espresse, anche quando (o forse proprio quando) opposte e critiche, e non sulla loro criminalizzazione. su questa strada, il rischio è che in luogo della temuta nemesi della democrazia imbelle, si inveri una differente nemesi, la strisciante e inavvertita apparizione, invece che del monopolio statale dell’etica, di una nuova democrazia a più livelli di legittimazione etica, e dunque a diseguali livelli di piena legittimazione democratica. Con il risultato che l’articolo 3 della Costituzione sarebbe di fatto ridimensionato a poco più di una petizione di principio, con ciò realizzando una vera e propria deriva democratica. la democrazia rappresentativa, passata da tempo dalla sua dimensione partecipativa a quella procedurale, sembra avviarsi ad una nuova fase: la democrazia corporativa, risultante dall’equilibrio, intrinsecamente precario, tra i suoi azionisti di maggioranza, con il conseguente progressivo ampliamento della fascia di esclusione sociale e politica. si tratta evidentemente di un corporativismo differente da quello che si è storicamente inverato, apertamente codificato e rivendicato. la tutela degli interessi settoriali, privilegiati rispetto a quelli comunitari, non viene apertamente declinata, ma al contrario si realizza e si espande al di sotto della soglia della trasparenza democratica, grazie all’allentamento del telaio istituzionale e rappresentativo, laddove prevalgono spinte e indirizzi spesso provenienti da gruppi di interesse opachi e non rappresentativi di corpi organizzati. occorre chiedersi quali siano le ragioni di questo processo. la causa principale, a mio avviso, è proprio il fatto che questo processo affonda le sue radici in una profonda crisi di riconoscimento della comunità e delle comunità in un quadro di valori etici condivisi. una

società che sembra aver perso la capacità di legittimare quanto di buono sussiste nelle tesi di chi la pensa diversamente, e di arricchirsi della diversità, si dirige ineluttabilmente verso la disgregazione interna, perde competitività a livello globale, diventa pressoché solo un mercato disponibile per società più coese e determinate. l’esperienza del processo costituente seguito alla seconda guerra mondiale ci ricorda una regola aurea: non è necessario pensarla allo stesso modo per avvertire il valore e la necessità di regole di convivenza condivise, riconosciute come fondamentali per il funzionamento della casa comune. anzi, proprio quando le parti sono molto distanti si avverte maggiormente la necessità di un percorso comune. la distinzione è il presupposto dell’intesa. ma la distinzione non può spingersi fino alla disgregazione. infatti, la regola aurea è sempre il frutto della definizione di priorità condivise, e il segno della percezione dell’esistenza di un limite ad ogni rivendicazione, che deriva dalla condivisione di un progetto per la società. se non ci si sente parte del progetto, le componenti sociali si allontanano progressivamente e si frantumano, e la società rischia di percorrere a ritroso quel cammino che portò all’edificazione dello stato moderno, per sopperire alla conflittualità sociale (homo homini lupus) e per ristabilire valori di riferimento, e limiti all’agire, dopo la tragica esperienza delle guerre civili di religione. Questo processo confluisce e si salda con un processo più generale che investe i rapporti tra sistema economicofinanziario e rappresentanza politica. infatti l'auto-rappresentazione degli interessi tende a by-passare i livelli della rappresentanza. Questo fenomeno non si è forse mai avvertito come ora, nel tempo della democrazia moderna. tre sono a mio avviso i fattori principali, che si correlano tra loro in un rapporto reciproco di causa-effetto, e in un complesso sistema di relazioni.

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Antonio Casu

il primo è la fine della contrapposizione politico-militare tra modelli politici alternativi, conseguita all’implosione dell’impero sovietico, che ha dirottato sul piano della concorrenza economica insita nel capitalismo le energie e le risorse prima destinate alla confrontation ovest-est, tanto che oggi le grandi superpotenze del Nuovo mondo - innanzitutto stati uniti, Cina e Russia - competono e anche cooperano tra loro sul piano economico-finanziario senza ripercussioni, se non limitate e sporadiche, sul piano politico, in ogni caso senza sconfinare sul piano di una minaccia militare reciproca. il secondo fattore è lo sviluppo esponenziale e sempre più rapido della ricerca scientifica e della tecnologia, orientate in misura perfino maggiore che nel tempo della Guerra fredda verso i nuovi settori strategici, in particolare energia e comunicazioni, con preminente finalizzazione sul versante della produzione e del commercio. oggi l’occupazione militare dei paesi satelliti ha ceduto il passo al controllo del debito sovrano. il terzo fattore è la globalizzazione, che ha vanificato le rendite di posizione politica sia a livello di stati sia a livello di individui, consegnati ormai alla loro reale capacità di sopravvivere nel mercato globale. Così, le medie potenze regionali come l’italia devono confrontarsi con potenze emergenti di quello che con sussiego è stato per lungo tempo definito il “terzo mondo”, sul piano della competitività del sistema economico e sul piano dell’adeguatezza del sistema politico a sostenerlo, senza accampare motivazioni di schieramento politico internazionale, che peraltro in quel precedente contesto di relazioni internazionali erano senza dubbio fondate, ma oggi non sono più riutilizzabili. il combinato disposto di questi tre fattori determina una pressante richiesta di flessibilità del mercato, del lavoro e del tessuto produttivo. Questa esigenza è nota, e largamente condivisa. ma in questa sede occorre considerare che la

richiesta di flessibilità del mercato e nel mercato, ormai globale, presuppone una richiesta di flessibilità dell'individuo. un requisito di competitività che diviene un obiettivo politico. osservando il processo da questo angolo di visuale, si comprende la ragione ultima del favore accordato dai paesi più sviluppati alle legislazioni che comportano di fatto l’allentamento o perfino la rimozione dei vincoli che l'individuo contrae nella sua dimensione sociale, dalla famiglia al sindacato, dal partito politico alla religione organizzata. e tuttavia, la rimozione dei vincoli non comporta a sua volta - come spesso si crede - l'affermazione dei diritti, ma la loro contrazione, e talvolta il loro svuotamento. Non a caso ad essere legittimati sono prevalentemente i diritti civili, che vengono imputati all'individuo uti singulus, ma non quelli sociali ed economici, frequentemente conculcati e perfino delegittimati. i diritti civili diventano così il terreno di raccordo tra le nuove fisionomie sociali, in cerca di legittimazione, e il potere politico, che non riesce a incidere sul terreno economico e sociale. la saldatura tra questi fattori produce il fenomeno sopra accennato, cioè la propensione degli interessi costituiti a by-passare il livello della rappresentanza. Ciò avviene in forme diverse. Da una parte si ridimensiona il ricorso a politici “tradizionali”, provenienti dai partiti, selezionati nell’agone politico e dipendenti in modo preminente dal consenso popolare. per altro verso si assiste all'elezione al parlamento di rappresentanti diretti di aziende, gruppi e corporazioni. tale scelta, se non equilibrata e controbilanciata, può determinare una sostanziale diseguaglianza di accesso alla fonte della decisione politica, e favorire la costituzione o il consolidamento di oligarchie economiche e finanziarie. Ribaltando l’interpretazione più diffusa, possono essere dunque lette in questa chiave le ricorrenti rimostranze nei confronti dell'invasiva prossimità dei

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I rischi della democrazia corporativa

lobbisti alle sedi degli organi legislativi, assemblee e Commissioni, e ai parlamentari stessi. il principale antidoto non può che essere l’instaurazione di un regime di trasparenza, come avviene attraverso l'istituzione del registro delle lobbies, ad esempio negli stati uniti. Questo stato di cose mette in gioco, dunque, il ruolo non della sola istituzione parlamentare, ma della rappresentanza politica in quanto tale, in ognuno dei livelli nei quali si articola. le conseguenze sono molteplici e tra loro strettamente collegate: la crisi del parlamento come sede privilegiata del contemperamento degli interessi della comunità; la ricorrente critica di quel fondamentale principio democratico che è il consenso popolare, inteso come ostacolo all’assunzione di decisioni ritenute tanto necessarie quanto radicali di ristrutturazione dello stato e dell’ economia; la crisi della legge come strumento generale di regolazione normativa degli interessi, in favore di provvedimenti di indole regolamentare, tanto specifici quanto eterogenei; l’accentramento di funzioni in capo all’esecutivo e, in questo ambito, il crescente ricorso a premier, governi e ministri “tecnici”. l’auto-rappresentazione degli interessi percorre ormai itinerari paralleli, utilizza intensivamente le competenze specialistiche, i mezzi di comunicazione di massa, la rete. Da questo angolo di visuale vi è chi ritiene, come Danilo Zolo (Russian Journal, 2010), che oggi “[l]a volontà del potere esecutivo si sostituisce di fatto alla volontà, puramente presunta, del "popolo sovrano" e alla dottrina della "sovranità popolare" non resta che il ruolo di una ‘maschera totemica’, come lo stesso Kelsen ha sostenuto”. a mio avviso, tuttavia, il governo può assumere una simile fisionomia solo a date condizioni e in alcuni contesti nazionali, dove il sistema economico è più forte e il rapporto economia-politica, e soprattutto finanza-politica, più sbilanciato. Non si tratta infatti di un modello uniforme, almeno in occidente,

quanto probabilmente di un processo disomogeneo, nel quale in alcuni paesi il governo non adempie effettivamente questa funzione, esprimendo piuttosto una difficoltà a mediare tra spinte incrociate e contraddittorie. la globalizzazione configura uno scenario contraddistinto dalla preminenza degli interessi economicofinanziari, ormai attestati su una dimensione trans-nazionale, e di una corrispondente leadership politicoeconomica. Valori etici e principi democratici, pubblicamente proclamati, sono sempre più spesso in realtà utilizzati (quando non solo tollerati) come simulacri dell’ordine sociale, benché (o purché) svuotati di effettività. analogo destino è assegnato alle comunità intermedie, vero pilastro della democrazia partecipativa. a un simile scenario finisce per corrispondere una difficoltà “esistenziale” della rappresentanza politica, percepita sempre più negativamente dalle popolazioni per la sua crescente difficoltà a trovare risposte adeguate e tempestive ai bisogni sociali. i rischi, stando così le cose, sono principalmente due. il primo è quello di rincorrere gli umori della base, limitando il processo di riforma alla sfera della politica e dunque riducendo ulteriormente gli spazi della mediazione politica. Non a caso si parla sempre più insistentemente di riduzione dei parlamentari, di monocameralismo, di soppressione di livelli intermedi di rappresentanza, e via dicendo. il secondo è quello di richiudersi - spesso inconsapevolmente, per una peculiare sindrome di accerchiamento - in una sorta di ghetto auto-referenziale, che di fatto acuisce la distanza tra istituzioni politiche e società civile, in una spirale progressiva che indebolisce il tessuto democratico. in questo contesto, la teoria democratica, anche quella qualificata come “realista”, attraversa una crisi epocale. Nessuno possiede la certezza delle risposte giuste. si può tuttavia ipotizzare almeno una direzione di marcia. infatti,

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Laura Bazzicalupo

l’analisi che precede delinea uno scenario nel quale le sole risposte istituzionali, sia pure necessarie, non sono sufficienti. la riforma dei meccanismi di funzionamento della decisione politica può certo, anzi dovrebbe, rendere una decisione più tempestiva, e più efficace. ma una simile riforma, per non rimanere isolata e dunque velleitaria, deve essere necessariamente accompagnata, anzi preceduta, da altri fattori. almeno tre. il recupero del senso del limite, come fondamento etico e presupposto democratico, come riscoperta del valore dell’altro-dasé e conseguentemente del rispetto, anzi dell’interazione necessaria con l’uomo e con la natura nel suo complesso. un quadro di riferimento di valori condivisi, una vera carta fondamentale dell’etica sociale non disgiunta da quella individuale, ma anzi ad essa omogenea. la concreta riaffermazione del principio di trasparenza nella sfera pubblica, manifestazione del principio inderogabile di responsabilità, individuale e comunitaria. Laura Bazzicalupo Democrazia e neoliberalismo

Un necessario punto di partenza: la razionalità neoliberale e’ diventato un luogo comune l’affermazione che la democrazia è in crisi. sono passati già diversi anni dal libro di Crouch che con il termine postdemocrazia definiva un tempo nel quale la forma di governo rappresentativo che l’occidente a lungo ha fatto coincidere con l’antico termine greco, è diventata post, è passata, senza peraltro esserlo davvero: il senso del post è infatti un tramonto che muove dalla persistenza delle forme dell’organizzazione politica democratica. Non so francamente se il termine sia appropriato. Certo assistiamo, oggi più che mai, ad una violenta crisi di fiducia nelle modalità di organizzazione politica democratica che a loro volta si inceppano continuamente, si smentiscono, si svuotano; una crisi

tanto violenta da farci sospettare che la categoria di democrazia sia ancora adeguata a pensare la convivenza umana oggi. Dobbiamo fare qualche premessa prima di analizzare questa realtà. innanzitutto l’approccio della teoria alla politica, la relazione ambigua tra filosofia e politica: da parte mia ritengo irrilevante e pericoloso assumere la prospettiva normativa o quella tecnica: né consiglieri del principe, né detentori di un sapere o di una verità che può illuminare o suggerire ricette. la filosofia, ovvero il pensiero (che non è un sapere) ha il compito di problematizzare la scena politica così come viene rappresentata e vissuta: deve accogliere l’urto della realtà e analizzarla perché le posizioni siano assunte in modo responsabile, e, se ne è in grado, deve forgiare concetti che permettano di afferrarne gli aspetti inediti e le possibilità latenti. Da questo punto di vista i tempi sono inquietanti. Nonostante la democrazia ‘trionfi’ in quasi tutti gli stati del globo, la tecnica o razionalità politica che organizza trasversalmente – al di là dei confini nazionali tradizionalmente cruciali per la democrazia, l’intero globo – a governare le nostre vite è, ormai da più di un trentennio, la razionalità neoliberale, che si presenta come una decisa spoliticizzazione. il primo punto che dobbiamo affrontare è esattamente questo: come può sopravvivere una democrazia pensata e costruita attorno allo stato nazione e organizzata sulla sintesi politica dei differenti poteri sociali (soprattutto economici), quando la razionalità di governo diventa, con il neoliberalismo, ostile alla sintesi ideologico- (o filosofico-) politica e ostile all’artificiale costruzione politica della forma che unifica le differenze? Questa tecnica/cultura neoliberale che foucault ha definito col termine governamentalità – sottolineando il legame semantico tra dispositivi di governo e mentalità, modi di pensare – si presenta infatti come una forma di vita, un modo di vivere la coesistenza

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Democrazia e neoliberismo

dei poteri sociali sul piano della loro totale immanenza: un modo nel quale i vettori di potere avvertono come un tradimento e un sopruso il trascendimento in nome dell’interesse comune, del noi democratico. il “non esiste la società, ma solo gli individui” di margaret thatcher smentisce la forma democratica pur coesistendo con essa. peraltro, anche se si presenta come una spoliticizzazione, una neutralizzazione dell’ingerenza politica, questa razionalità governamentale è in realtà una precisa e potente forma politica che organizza i plures, i poteri sociali attraverso la logica economica. e’ un modus di governare le differenze e le potenze immanenti al tessuto sociale che segna una profonda distanza dall’opera democratica della costruzione politica. la sua specificità che le giova l’appellativo ormai diffuso di bioeconomia sta nella pervasività della sua logica in tutti gli ambiti del vivente e nel fatto che governa attraverso i modi del pensare, incidendo direttamente sui processi di soggettivazione. e’ necessario, per intendere la crisi della democrazia oggi, soffermarsi attentamente su questo governo produttivo di soggetti perché l’istanza democratica deve fare i conti con questa realtà e questa logica diversa da quella democratica, ma che pure sviluppa in modo enfatizzato uno dei suoi input maggiori: la spinta all’autogoverno e alla auto-responsabilizzazione. Questa ambigua coesistenza incide sul procedimento democratico e soprattutto sulla rappresentazione del demos come trascendimento rispetto alle pluralità. Quando, più che allo stato e alla amministrazione pubblica, la cultura neoliberale riferisce la sua tecnica di governo all’autoresponsabilizzazione privata, al selfcontrol, all’organizzazione strategica della famiglia e del piano di vita personale, al management della anima, dei desideri (quindi all’arco di tecnologie che vanno dal governo di sé al governo esperto, tecnocratico degli altri), si rende evidente che la sua vocazione egemonica punta a inaridire la possibilità stessa

di una posizione critica situata al suo esterno. semplicemente una esteriorità – necessaria per la critica, ma anche indispensabile per sussumere le differenze in una rappresentazione democratica del comune - è giudicata ontologicamente inammissibile: ogni tipo di alterità o di opposizione a questa «pragmatica generale» sarebbe priva di aggancio alla realtà, sarebbe contraria alla logica economica che si presume interna al vivente: forma autoregolativa della vita e del suo flessibile adattamento alle circostanze ambientali (nella fattispecie, il mercato). proprio la immanenza di questa logica economica priva di alternative rende possibile un governo delle vite sistematico e capillare che passa attraverso discorsi sulla libertà individuale e sul suo potenziamento piuttosto che sul bene comune, attraverso forme giuridiche negoziali e contrattuali piuttosto che leggi democratiche e universali erga omnes, attraverso governances aperte a partecipazioni settoriali degli stakeholders piuttosto che mediate dalla rappresentanza democratica. il controllo – la cui necessità si accresce quando si sono stimolate le libertà individuali e i poteri sociali in una perpetua reciproca concorrenza – si compie attraverso mediazioni di tipo amministrativo o privatistico e interventi emergenziali che sospendono i diritti. ma soprattutto, le pratiche di governo dell’individuo si esercitano tramite la valutazione, l’autovalutazione e, oggi, il crescente indebitamento in relazione al sistema concorrenziale del mercato. si inducono così soggettività che si autovalutano e sono valutate in base all’adeguamento alle variabili e imprevedibili esigenze del sistema di scambi: dunque flessibili, capaci di destituzione dell’identità, di disponibilità dell’intera vita nel processo produttivo e consumistico. proprio al contrario delle ‘virtù’ di lealtà identitaria o ideologica che sostanziavano il demos democratico. Naturalmente – ed è questa una caratteristica primaria di questa razionalità politica governamentale – le forme

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Laura Bazzicalupo

della democrazia persistono, così come persistono le classiche forme giuridiche imperniate sulla sanzione o le moderne procedure istituzionali: la compatibilità dell’eterogeneo è – ripeto – uno dei tratti che rende più difficile la definizione del conflitto e del dissenso, che dovrebbero essere l’anima della democrazia stessa. persistono dunque le forme liberaldemocratiche ma con una torsione perversa che minaccia di svuotarle ab imis. innanzitutto la forma di democrazia che, al di là della retorica, si afferma globalmente è quella aggregativa, schumpeteriana, che omologa lo spazio democratico sul modello del mercato, dove le parti - i partiti o i gruppi o le lobbies - si contendono il voto, le scelte degli elettori, con tecniche di marketing, secondo la dinamica di domanda e offerta: promettendo beni e diritti in cambio di potere da gestire. tramontato come un ferro vecchio e un residuo del passato il concetto stesso di bene comune che si polverizza nella anarchia dei singoli piani di vita stimolati dal sistema e regolati, in modo immanente, soltanto dalla logica strategica e competitiva ‘naturale’ del vivente. D’altro canto una così cruda e cinica rinuncia al ‘mito’ democratico (quell’eccedenza di senso/valore che ha avuto un ruolo cruciale del processo democratico) determina la insorgenza del populismo, altra faccia del proceduralismo asfittico di una democrazia rappresentativa e mercantile, erosa da corruzione, arroganza ed inefficienza. il populismo gestisce il portato libidico (l’eccedenza di senso, il mito) indebitamente trascurato dalla gestione economica del potere e raccoglie lo scontento, il risentimento, il malessere senza elaborarlo in una proposta politica che dividerebbe gli interessi: lasciandolo alla sua violenza e raccogliendo le domande inevase del sociale lungo una linea di equivalenza, per poi annodarle attorno a quello che laclau chiama un significante vuoto, un nodo retorico – contro la casta e i governanti ladri, per esempio - in grado

di aggregare l’antagonismo. Con l’effetto paradossale di una realtà che da una parte è governata dalla ratio economica, che sposta tutti i vecchi conflitti partigiani sulla valutazione (e autovalutazione) economica gerarchizzante che impedisce ogni aggregazione in un fronte politico, e dall’altra è scossa dalla violenza verbale e emotiva in cui si riversa la scontentezza e il disagio senza che questa violenza mediatica sia capace di incidere nel profondo delle soggettività e trasformarsi in progetto: il populismo di oggi è una frenetica danza immobile che non affonda la sua lotta nei posizionamenti materiali e ‘reali’ del sociale e che si attesta sul risentimento senza aprirsi ad un vero programma politico.

Nuovi soggetti sono tempi inquietanti questi per la democrazia, ma anche ‘interessanti’. il disagio verso le forme democratiche tradizionali si è spinto a un tale livello che si cercano, sperimentalmente, pragmaticamente piuttosto che teoreticamente, nuovi modi di essere democratici (letteralmente, nuovi modi di autogovernarsi) muovendo proprio dalla sconfessione della rappresentazione unitaria del popolo che era propria della tradizione democratica. muovendo dunque dalla trasformazione antirappresentativa ormai consolidata delle soggettività, che la razionalità e la tecnica di governo neoliberale hanno indotto. movimenti, poteri sociali, pratiche di autogoverno rovesciano il tavolo della rappresentazione del demos: si spostano sul livello dell’ontologia sociale prodotta dalla governamentalità neoliberale, rifiutano ogni trascendimento, per riscrivere le relazioni tra uomini e le pratiche del comune su quello stesso piano di consistenza che dichiarano essere in potenza immediatamente democratico. lo sfaldamento neoliberale del costrutto rappresentativo e la valorizzazione della rete microfisica dei poteri sociali può diventare, nell’ottica di questi agenti sociali nuovi, la chance di una condizione democratica (piuttosto

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Democrazia e neoliberismo

che di un regime democratico) che non passa attraverso la rappresentanza ma si esercita nelle pratiche di partecipazione diretta. Nelle esperienze di autogoverno territoriale o nei movimenti, quelle che oggi si definiscono moltitudini sperimentano forme di democrazia diretta con identificazioni politiche mobili, di tipo strategico, istantanee come le performances o i flashmobbing che mettono in scena. anche le sperimentazioni di autogestione di beni comuni, dall’incerto statuto tra pubblico e privato, evidenziano forme di soggettivazione politica anomala, ‘dal basso’. la dimensione concreta, empirica e pragmatica di queste forme di agency è una ‘interessante’ re-interpretazione dell’autogoverno democratico, che valorizza la spinta della cultura neoliberale all’auto-governo e si attaglia dunque al tipo di soggetti che quella cultura ha prodotto e con i quali dobbiamo comunque fare i conti. Con molti dubbi e perplessità però. manca a queste pratiche una concreta sedimentazione di obiettivi, una stabilizzazione e una riconoscibilità che sola ne garantirebbe l’efficacia politica; manca una organizzazione (che sia trasversale, plurale, a rete, e non reductio ad unum verticale, ma comunque necessaria per la persistenza e l’identificazione degli obiettivi) e, ad essa connessa, manca la capacità di generalizzare gli obiettivi nel comune. manca infine, l’uguaglianza e la simmetria dei poteri in gioco, in quanto la partecipazione diretta non segue alcuna procedura legittimata democraticamente: la richiesta energica dal basso, che è sollecitata da un immaginario di autogoverno proprio della cultura neoliberale, porta con sé diseguaglianze anche molto marcate. soprattutto di fronte al prezzo doloroso della crisi economica, l’urgenza di strutturare le rivendicazioni e di essere politicamente identificabili, si fa evidente in tutte le pratiche ‘dal basso’ e nei movimenti stessi. il momento organizzativo della democrazia eccede

infatti la dimensione tecnica e si rivela una dimensione strutturale della democrazia che viene implicata nell’impegno contingente e incessante di interpretare e storicizzare quel nucleo di senso e di passione per uguaglianza e libertà, che è il suo portato storico. la democrazia vive della incessante tensione tra questi due poli: organizzazione e senso/valore che ne traina il cambiamento. i movimenti e le sperimentazioni di autogoverno hanno rivendicato la vitalità delle forme pre- o non politiche della moltitudine rispetto al popolo democratico e alle sue aporie; questi agenti, agevolati dalla orizzontalità e dalla disinibizione della rete, si sono così sottratti all’eterno impotente gioco democratico-rappresentativo; lo hanno provocato per destrutturarlo tramite lo spostamento nelle piazze, la sottrazione, il micro-scontro: ebbene, oggi, sono proprio queste esperienze di democrazia diretta a interrogarsi sulla funzione politico-democratica della organizzazione, per sondare modalità di espressione politica che non tradiscano quell’incessante oscillare tra forma e movimento che è la democrazia. Va sottolineato, peraltro, che queste forme di risposta alla crisi della rappresentazione democratica in nome di una affermazione diretta delle singolarità e dei poteri sociali libertariamente svincolati dal costrutto artificiale della politica, rinvia pericolosamente proprio alle tecniche governamentali neoliberali cui abbiamo prima accennato, che peraltro dichiarano di voler combattere.

Delineare i termini di una proposta la questione oggi è cogliere i segnali che vengono dalle rapide trasformazioni dello scenario politico. sul fronte della democrazia rappresentativa, come abbiamo detto, emergono forme di populismo solo verbalmente antagonistiche, che mescolano pulsioni regressive e un conformismo passivo: il popolo che viene evocato ha una pretesa

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Giorgio Pacifici

di totalizzazione che esclude e azzera il dissenso, il conflitto delle parti del quale la democrazia si nutre. il fronte antirappresentativo dei movimenti e delle esperienze di democrazia partecipativa, a sua volta, spinto dalla durezza della crisi economica, cerca oggi con un lessico e un immaginario ‘universali’, e dunque ancora una volta popolari e democratici. Che fare? Certamente occorre prendere sul serio la logica governamentale che ha prodotto soggettività nuove al di là delle identificazioni giuridiche e politiche moderne nel cittadino. sono proprio queste soggettività d’altra parte che subiscono lo slittamento attuale dell’immaginario che oggi evoca piuttosto che il capitale umano, l’imprenditore di se stesso - la mortificante responsabilità del debito che colpevolizza e de-classa (l’arma è sempre quella della valutazione che include tutti differenziandone la posizione e l’accesso alle risorse) singoli, gruppi e popolazioni ‘irresponsabili’. a questa destrutturazione crudele e disegualitaria, non possono rispondere solo pratiche informali e protestatarie. troppo poco, a fronte di una diseguaglianza promossa e incentivata. innanzitutto bisogna che - per un necessario ripensamento della democrazia - il nucleo ‘appassionante’ della democrazia, quella che Balibar chiama egaliberté in quanto portato storico della inscindibilità dei due termini chiave della democrazia, non si configuri come un’utopia, un’impossibile idea regolativa della democrazia, ma paradossalmente come il dato da cui muove ogni rivendicazione. solo essendo liberi e uguali è possibile la rivendicazione contro una messa-in-scena democratica - una organizzazione - che nasconde, spettralizza, non fa apparire quel dato stesso. e’ necessario poi ripensare la forma organizzativa democratica nella sua dimensione unitaria in modo tale che essa articoli il pluralismo sociale senza che venga sacrificata la voce dei singoli,

e la loro istanza di autogoverno il più ampio possibile. organizzazione e senso/valore: una organizzazione che mantenga sempre aperta la contesa tra i plures sulla definizione (o interpretazione) del senso, cioè dei significanti vuoti di libertà e uguaglianza, di giustizia sociale e di partecipazione: parole la cui concretizzazione storica resta sospesa ad un lavoro politico di incessante attualizzazione. la democrazia è dunque in atto, disvela, appare ed è già, ma è anche sempre a venire, luogo del prender forma e rinnovarsi di quel nodo di senso.

Giorgio Pacifici Democrazia! Democrazia!

Negli ultimi anni, non solo nel nostro paese, si sono moltiplicati gli avvenimenti negativi relativi ad esponenti della classe politica; molti di loro, spesso personaggi minimi, hanno abusato della propria posizione per realizzare un illecito arricchimento personale e hanno favorito uno spreco ingente di risorse pubbliche. Questi fatti, i cosiddetti “scandali della politica”, sono stati ampiamente riportati dai mezzi di informazione e hanno contribuito a peggiorare il clima di sospetto e di sfiducia pressoché generalizzata nell’opinione pubblica. il risultato è stato un insieme di sillogismi, evidentemente arbitrari, ma capaci di esercitare una notevole presa: “alcuni politici sono corrotti dunque la classe politica è corrotta”; “la classe politica è stata eletta nel quadro della democrazia rappresentativa dunque la democrazia rappresentativa favorisce la corruzione, è di per sé corrotta”. “Dunque è preferibile un totale cambiamento della classe politica”, al quale solitamente viene dato il nome augurale di “rinnovamento”; oppure più radicalmente si auspica l’uscita dalla democrazia e l’affidamento del potere politico ad un gruppo ristretto, oppure ad un solo individuo.

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Democrazia! Democrazia!

Questi due ultimi sistemi, di uscita dalla democrazia e di sostituzione con regimi totalitari (la junta e la dittatura personale), prima nei totalitarismi europei del ‘900 e poi asia e nell’america latina (basti pensare a cosa ha significato per l’argentina il “proceso de Reorganizacion Nacional” o il “socialismo agrario” per la Cambogia). “sperimentazioni” di forme diverse che hanno portato immensi danni al corpo sociale, provocando guerre, massacri, rilevanti sacrifici economici.

Democrazia rappresentativa e forma partito poiché la democrazia rappresentativa occidentale è basata sulla competizione elettorale di un insieme di partiti, e nel nostro paese la Costituzione la sancisce in termini formali e progressivi, ma ad essa hanno fatto seguito derive di occupazione della cosa pubblica, la crisi del sistema democratico è stata attribuita in massima parte all’insieme dei partiti. in modo che la “forma partito” e il sistema dei partiti sono diventati i bersagli favoriti dei mezzi di informazione, e di un certo numero di politologi. in realtà il sistema democratico rappresentativo, come è stato spesso rilevato, pur non costituendo in astratto “la” soluzione ottimale, appare difficilmente sostituibile con altre forme politiche. e la stessa “forma partito” pur con tutte le sue imperfezioni non sembra trovare validi sostituti nei movimenti e raggruppamenti politici finalizzati ad uno specifico obiettivo. sembra quindi di poter suggerire soprattutto la messa in atto a tutti i livelli di adeguati ed efficaci sistemi di controllo sui partiti e sui loro statuti. esistono è vero le magistrature contabili e il controllo che esse esercitano è diventato nel corso degli anni meno formale e più stringente, ma gran parte del denaro che è devoluto al funzionamento di organi elettivi si sottrae ancora a questi controlli. sono ancora ben impressi nell’opinione

pubblica i titoli dei giornali riguardanti acquisti personali compiuti da rappresentanti eletti di diverse forze politiche, con fondi che avrebbero dovuto essere utilizzati per il funzionamento dei gruppi consiliari. Non si può non sottolineare che il vulnus arrecato alla immagine della democrazia rappresentativa è stato in questi casi di gran lunga superiore al danno economico subito dalla cosa pubblica.

Provare con i costi standard per esempio un sistema efficace di controllo preventivo potrebbe essere quello di ricorrere anche per gli organi elettivi ad un sistema di “costi standard”. occorrerebbe per esempio compiere una analisi accurata dei costi delle assemblee elettive nei diversi paesi europei, applicare alcuni fattori di ponderazione, e poi stabilire che i costi delle assemblee del nostro paese (anche di quelli delle regioni a statuto speciale), dei singoli rappresentanti e dei gruppi consiliari, non possono essere superiori a quelli medi delle altre assemblee dell’unione europea. Criteri di questo genere potrebbero essere applicati anche alle burocrazie, i cui emolumenti dovrebbero essere ricondotti alle medie europee. Contemporaneamente le categorie di spese addebitabili all’ente pubblico nel suo complesso, ai dirigenti, ai funzionari dovrebbero essere espresse dettagliatamente. l’insieme di misure di questo genere non avrebbe quasi sicuramente effetti troppo rilevanti sul bilancio statale, ma permetterebbe di ridare al cittadino medio una certa fiducia nella democrazia, che è appunto l’oggetto principale di questo breve intervento. lo stesso discorso vale necessariamente per i partiti. se nella democrazia rappresentativa i partiti sono indispensabili, il dibattito tra i partiti deve sfociare necessariamente in competizioni elettorali con modalità il più possibile certe e stabili.

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Giorgio Pacifici

e questo processo elettorale, che è già di per sé costoso non può che terminare nella elezione di parlamenti, il cui funzionamento è anche necessariamente costoso. assumendo in questa generale categoria dei “costi” della democrazia non solo i costi economici, sui quali è certo possibile fare dei conti, ma anche quelli politici, morali e intellettuali per i quali i sistemi di contabilità non offrono parametri certi e uscite di sicurezza. per questo non sembra razionale andare a ingrossare le fila di coloro che plaudono alla cancellazione del finanziamento pubblico dei partiti. senza finanziamento pubblico e molto probabilmente con una nuova legge elettorale che riapra al sistema delle preferenze individuali, il modello italiano ha molte probabilità di avviarsi ad un ritorno alla situazione che contrassegnava la vita della prima repubblica: totale mancanza di trasparenza nelle modalità di finanziamento delle forze politiche; lotta senza esclusione di colpi tra i candidati per assicurarsi la preferenza, con l’esborso di incredibili somme di denaro: ricerca spasmodica di questo denaro praticamente ovunque e comunque. si deve ritenere che neppure nei loro sogni più rosei i “tesorieri” dei partiti (ma come suona ironica e vecchia oggi questa espressione!) pensino a dei singoli individui molto benestanti che per puro convincimento ideale si apprestino a fare delle oblazioni ai partiti, e che queste donazioni siano in grado di sostituire per ampiezza il contributo pubblico. ma anche le entrate derivanti dal tesseramento degli iscritti sono costantemente decrescenti presso la maggior parte delle forze politiche. senza dimenticare che nel nostro paese già nel 1978 i cittadini si sono espressi attraverso un referendum abrogativo per l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti. e occorrerebbe pertanto stabilire norme efficaci, trasparenti, e modalità innovative.

Lobby forti e partiti senza manca d’altra parte ancora nel nostro paese una efficace legislazione sui gruppi di pressione, che sono l’unica possibile fonte di finanziamento dei partiti in un epoca di crisi economica come quella che stiamo attraversando. Con un notevole peggioramento peraltro rispetto alla situazione anteriore al 1992: le lobbies infatti sono diventate molto più potenti, aggressive, globalizzate, tecnologiche, in grado di “ricattare” la democrazia in modi che a quell’epoca non erano neppure immaginabili. i “grandi elemosinieri globali” hanno oggi obiettivi estremamente precisi, non negoziabili, e precostituiscono dossier elettronici in grado di essere diffusi in frazioni di secondo in tutto il mondo. Di fronte a questi gruppi di pressione estremamente forti, dei partiti a struttura leggera, quasi volatile (dei “partiti senza”: senza elaborazione di pensiero, senza sezioni sul territorio, senza funzionari, senza risorse economiche, senza mezzi propri di comunicazione), offrono poche capacità di resistenza e dunque scarse garanzie per il futuro della democrazia. i controlli sui flussi economici che intercorrono tra i diversi soggetti del sistema socio-economico-politico, i controlli sulle entrate e sulle spese di questi soggetti, imponendo il minimo di regole e il massimo di trasparenza sarebbero certamente stati più utili per la democrazia, di tutte le norme abolizioniste, anche se meno rispondenti alle pulsioni della opinione pubblica. C’è una piccola eredità di sangue delle tricoteuses in ciascuno di noi, ma per evitare che essa abbia il sopravvento e crei un danno irreparabile alla democrazia i controlli non avrebbero dovuto essere soltanto formali e leggeri. e’ inutile oggi accusare i media per gli articoli e i servizi tv diffusi nel corso di decenni. Basta rileggere i pezzi pubblicati sin dagli anni ’80 per rendersi conto che la derisione e lo scherno sui sistemi di controllo erano pienamente meritati.

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Trasmissione di valori, ma quali? ma democrazia non è soltanto trasparenza e controlli. la democrazia, e in particolare la democrazia rappresentativa, è un modo intellettuale, culturale e spirituale di pensare i rapporti tra i cittadini e le istituzioni, un modo decisamente più impegnativo di tutti gli altri sotto il profilo assiologico. Democrazia è anche formazione di una classe politica degna di questo nome, ricambio di questa classe politica quando essa non appare più adeguata, formulazione di criteri di validazione di questa classe dirigente sufficientemente chiari. ma la formazione di una classe politica dovrebbe essere legata alla trasmissione di valori, e oggi pochissimi appartenenti alla classe politica sembrano avere dei valori di qualsiasi tipo da trasmettere. mancano quasi completamente le organizzazioni politiche giovanili, qualsiasi scuola di partito, qualsiasi corso di formazione alla politica è scomparso dai programmi del “partito leggero” (il “partito senza”) così aderente alla prassi (ma quale?), ai talk show, ai reality. D’altra parte è necessario constatare che, anche nell’universo dei valori, i valori democratici sembrano oggi avere assai meno appeal dei valori del “radicamento alla tradizione”, quelli che heidegger nei suoi taccuini neri chiamava “boden”, e che poi erano gli stessi valori dei famigerati gruppi volkisch alla fine dell’ottocento e nei primi decenni del Novecento, e che oggi sono quelli dei fondamentalisti islamici. senza una adeguata formazione della classe politica, che non sia soltanto tecnica ma anche culturale e valoriale, il corpo sociale continuerà a sentire il distacco tra se stesso e la classe politica. e’ difficile dal punto di vista della democrazia, cioè di una cultura che esige legittimazioni, comprendere quali siano i criteri di validazione della nuova classe dirigente; a 70 anni di distanza non sembra neppure il caso di rilevare che è storicamente esaurita quella legittimazione che i partiti e la maggior parte dei politici del dopoguerra aveva ricevuto

dalla partecipazione alla Resistenza (e la minoranza dalla fedeltà al fascismo morente). Dunque oggi è per lo meno improbabile giustificare razionalmente l’appartenenza alla classe politica: non sono stati adottati trasparenti criteri meritocratici per la cooptazione, la “militanza” appare come qualcosa di sempre più fumoso e indefinibile, e alla fine, in assenza di una qualsiasi vocazione ideale, soltanto la fedeltà ad un leader rappresenta l’ancoraggio certo alla politica. in questa situazione di totale assenza di trasparenza è difficile per l’opinione pubblica rendersi conto di come siano scelti i componenti degli organi dirigenti di partito, i candidati alle elezioni, gli esperti che verranno designati a ricoprire cariche pubbliche o a diventare membri di consigli d’amministrazione. il ricambio della classe politica assume quindi paradossali contorni anagrafici: la sostituzione di una vecchia dirigenza con una connotata quasi esclusivamente come più giovane, legittimata solo dall’età. anche dove il dibattito c’è stato è stato frustrante, modellato su format televisivi di basso livello. il problema del ricambio generazionale è diventato quindi quello dell’estromissione dal potere di una dirigenza invecchiata sui seggi parlamentari, e solo per questo rappresenta l’asse centrale del dibattito politico. ma il problema di una reale leadership non può essere disgiunto da quello della formazione della classe dirigente.

Ingegneria elettorale e/o ingegneria costituz ionale un’altra parte del dibattito sulla crisi della democrazia è stata dedicata ai temi della legge elettorale e dell’ingegneria costituzionale. la legislazione elettorale, come insegnano per esempio le tecniche di gerrymandering (rimaneggiamento dei collegi elettorali) può forse risolvere - e non necessariamente secondo il metodo democratico - problemi di stabilità parlamentare e governativa di inizio legislatura. ma è sufficiente una scissione in una forza politica che pure aveva otte-

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Giorgio Pacifici

nuto la maggioranza assoluta per sconvolgere gli equilibri parlamentari e rendere necessaria la formazione di nuove maggioranze, o il ricorso a nuove elezioni. Con le soluzioni di ingegneria costituzionale occorrerebbe tener conto dei nuovi poteri dello stato che si sono formati al di là della classica (e ormai solo scolastica) tripartizione e dei nuovi rapporti che si sono instaurati tra i diversi poteri. Non c’è dubbio per esempio che, sull’ onda di circostanze anomale, la presidenza della Repubblica ha acquistato lo spazio di un autonomo potere; che la magistratura è ormai un potere sovraordinato al legislativo e all’esecutivo e insieme l’unico potere dello stato provvisto di una reale autodichia; che il cluster informatico-finanziario globalizzato non è soggetto alle leggi dello stato e neppure può essere soggetto a un qualsiasi controllo pubblico, neppure a livello europeo. può essere forse erroneo sotto un profilo giuridico formale definirlo un potere, ma certo sotto un profilo socio-economico esso si configura come un superpotere. Continuare a ripetere che la nostra Costituzione è la più bella del mondo sembra quindi più un apprezzamento di natura storico estetica che una valutazione di natura politica capace di aiutare la difesa della democrazia. Non sembri illecito il paragone con il campionato italiano di calcio, che si continua a definire come il più bel campionato del mondo, mentre si guardano in televisione le partite della liga e della premier league.

Democrazia e tecnologia attraverso la tecnologia digitale si rilancia come una forma di “democrazia diretta” in qualche modo alternativa alla democrazia rappresentativa, la democrazia online o “democrazia liquida”. e’ inutile riassumere qui tutte le critiche alla democrazia diretta. fino al 1968 si poteva affermare che la democrazia diretta, non applicabile alle grandi comunità politiche, poteva essere co-

munque valida all’interno di microgruppi sociali nei quali ciascuno avrebbe potuto far valere la propria opinione. Dopo la cosiddetta “contestazione”, la democrazia diretta ha dimostrato di essere uno strumento inutilizzabile anche all’interno di piccole assemblee studentesche e operaie. piccoli gruppi di individui, forniti di buona capacità vocale e capaci di utilizzare al meglio gli strumenti della retorica, sono riusciti a egemonizzare intere assemblee e a far prevalere decisioni che non erano quelle della maggioranza. ma già molti anni prima lazarsfield aveva sottolineato l’importanza del fattore influenza personale nelle comunicazioni di massa. la “democrazia online” che alcuni gruppi politici sostengono di praticare, ha tutti gli aspetti negativi della democrazia diretta, ma in più tende ad escludere dalla partecipazione al processo decisionale, tutti coloro che non sono in grado di muoversi agilmente sulla rete. si tratti di persone anziane, di persone non particolarmente acculturate sotto il profilo tecnologico, oppure semplicemente di individui con un livello intellettuale non elevato, o di persone che per motivi economici non possono permettersi l’accesso ai mezzi informatici; insomma per tutti coloro che per i motivi più diversi subiscono il digital divide, la discussione - che avviene sulle “piattaforme” e riguarda i diversi argomenti suddivisi per aree tematiche selezionati in base a precisi ordini del giorno - è come se non avvenisse in quanto non hanno la possibilità di esprimersi online. la democrazia online è quindi oggi per sua natura elitaria, un po’ come la democrazia di alcune città-stato dell’ antica Grecia in cui tutti erano uguali eccetto le donne, i meteci, gli schiavi… anche per la questa cosiddetta democrazia online poi, valgono alcune considerazioni critiche che sono state espresse con tanto vigore per la democrazia rappresentativa, l’amministrazione della piattaforma sulla quale avvengono

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Democrazia senza etica?

le scelte può essere equiparata al famigerato controllo dei media (canali tv, quotidiani), in grado com’è di influenzare la formazione delle opinioni e la formazione dei valori, le decisioni finali. Non possono essere degli organi tecnici con i loro suggerimenti e il loro apparente essere super partes a risolvere la crisi della politica: gli interessi contrastanti di gruppi economici e sociali possono trovare una soluzione soltanto attraverso la politica, oggi la democrazia rappresentativa, domani chissà. Coloro che si ostinano a considerare la politica esclusivamente sotto il profilo dei costi economici, senza ricordare che la politica deve produrre benessere e felicità, come scriveva molti anni fa il commissario europeo sicco mansholt, sono stranamente simili a quanti valutano le entità sanitarie in quanto strutture economiche che devono avere bilanci in pareggio e non in quanto enti destinati a produrre quel bene fondamentale che è la salute dei cittadini. la democrazia è nemica del male? tendenzialmente si potrebbe dire di sì, ma il male può inserirsi anche nei sistemi democratici sotto la spinta di una propaganda forte e ben organizzata. Francesco Pezzuto Democrazia senza etica?

La Storia per capire: la Prima Repubblica il maestro di giornalismo indro montanelli a proposito del passato affermava: "un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente" e ancora: "un popolo senza il proprio ieri non ha un proprio domani". Non è improprio ricercare i segni della crisi di democrazia in corso in italia nella scarsa conoscenza che gli italiani hanno del proprio passato e nel modo di porsi di fronte ad esso: scarseggia, specialmente nei giovani, la conoscenza delle culture politiche e delle vicende che hanno accompagnato il Risorgimento italiano, di coloro che hanno fatto

l'italia, dei personaggi che sono stati protagonisti delle vicende politiche dell’italia, dalla monarchia alla repubblica, compresa la fase del ventennio fascista. Da siffatta condizione deriva spesso la cultura dell'esclusione, che induce a considerare l'avversario politico piuttosto come nemico che come portatore di una diversa visione delle dinamiche della società, con il quale confrontarsi nella ricerca di soluzioni inclusive che rispondano alle necessità del bene comune. in particolare i sondaggi rivelano nei giovani e nei meno giovani l'ignoranza delle vicende politiche e sociali che, pur nelle fisiologiche divisioni, hanno portato l'italia e gli italiani a risollevarsi dalle difficoltà economiche e sociali degli anni successivi alla seconda guerra mondiale; poco sanno i giovani e i meno giovani dei sacrifici degli italiani negli anni Cinquanta e sessanta e del miracolo economico, quando, superando la logica della guerra civile che aveva caratterizzato l'italia dalla fine del 1943 al 1945, si agiva, mettendo a frutto tutto il sapere e il vissuto dei decenni precedenti, in una visione collettiva che rispecchiava un elementare sentimento di appartenenza. si potrebbe paradossalmente affermare che in quegli anni, che pur precedevano la riforma che rese obbligatoria la frequenza della scuola media unica fino a 14 anni per elevare il sapere e, quindi, la consapevolezza della cittadinanza, vi fosse una maggiore sensibilità verso i diritti e i doveri e un elementare sentimento dell'entità nazionale vista come fondamento dell'individuo, nonostante scarseggiasse la conoscenza dei principi fondamentali iscritti nella Costituzione entrata in vigore dieci anni prima o poco più. in tale fase della storia d'italia, i partiti politici, dal pci al msi, attraverso la Dc e gli altri partiti minori, pur nelle loro spesso aspre divisioni, erano in sostanziale sintonia con il sentire del popolo italiano, ne interpretavano le esigenze, costruendo una

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Francesco Pezzuto

democrazia alimentata dal senso di appartenenza. Negli anni successivi è invece prevalsa, nella cultura dominante e negli apparati dei partiti, l'ideologia dei diritti in dispregio dei doveri, prevalendo l'individualismo sul senso delle radici comuni: negli anni settanta e ottanta, a causa dello sradicamento dell'individuo in nome di un malinteso processo di 'liberazione', nei partiti si sono affermate le correnti e i personalismi. Contemporaneamente è avanzata la tendenza ad occupare i gangli vitali dello stato, delle grandi strutture produttive a partecipazione statale, della burocrazia; persino nella magistratura si formavano le correnti. in poche parole, i partiti, da associazioni atte ad interpretare visioni politiche da veicolare, attraverso la dialettica parlamentare, in processi legislativi, diventavano essi stessi potere, al quale i cittadini hanno finito per rivolgersi per ottenere vantaggi e promozioni di carriera. la partitocrazia finiva per opprimere il merito e per spingere sempre più la società italiana verso la decadenza morale e politica.

Dalla Prima alla Seconda Repubblica il passaggio da quella che ormai la storiografia ha definito la prima Repubblica (1946-1993) alla cosiddetta seconda ha fatto registrare il dissolversi delle forze politiche che avevano caratterizzato quella prima fase della vita repubblicana: la Dc e il psi, che avevano governato più a lungo e con maggiori responsabilità l'italia, sono definitivamente scomparsi, il pci si è trasformato prima nel pds e successivamente nel pd, il msi si è evoluto in an e i partiti satelliti come il psdi, il pli e il pri non esistono più. in effetti gli anni tra il 1989 (caduta del muro di Berlino) e il 1993 marcarono l'incolmabile disaffezione del corpo elettorale nei confronti dei partiti tradizionali, che avevano occupato la scena politica italiana e avevano governato l'italia o ne avevano condizionato il governo, come il pci: si salvava il msi che,

escluso dal cosiddetto 'arco costituzionale', non aveva mai esercitato potere di governo e non era stato toccato dal fenomeno della corruzione, come dimostrano i suoi successi elettorali fra il 1993 e il 1994. paradossalmente, la crisi politicoistituzionale dell'italia si era acuita in una fase, quella della fine degli anni ottanta, di forte trasformazione economica, che doveva portare l'italia a diventare la quinta potenza industriale e a veleggiare fra le prime potenze industriali d'europa. a fronte dello spettacolare avanzamento della piccola e media industria, in particolare di quella manifatturiera, che chiedeva la cessazione degli aiuti di stato alla grande industria e le riforme strutturali per il contenimento della spesa pubblica, ormai già fuori controllo, si registrava, alla fine degli anni ottanta, un'invasione oppressiva dei partiti nel settore dell'industria di stato che, in ultima istanza, finì per incrementare fino all'inverosimile il cancro del finanziamento illecito ai partiti politici; prassi questa del resto risalente alla prima fase dell'epoca repubblicana, che aveva visto i partiti a vocazione occidentale ricevere i finanziamenti dagli usa e dall'industria di stato e il pci finanziato prevalentemente dall'urss, oltre che dalle Coop. la nuova borghesia chiedeva a gran voce la fine dell'oppressione burocratica, il rafforzamento delle infrastrutture per agevolare la produzione e la distribuzione, il contenimento dell'economia partecipata dallo stato e il superamento dell'assistenzialismo pervaso dal clientelismo partitocratico. in buona sostanza si registrava in italia nuovamente il fenomeno delle classi emergenti che chiedevano un cambiamento: ciò che Renzo De felice aveva osservato nella genesi e nell' affermazione del fascismo, quando gli strati emergenti della piccola e media borghesia, affermatisi negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, avevano appoggiato mussolini

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Democrazia senza etica?

nella sua scalata al potere, in quanto novità assoluta nel panorama politico del dopoguerra. Con la crisi della prima Repubblica si verifica sostanzialmente lo stesso fenomeno: i nuovi ceti sociali, emersi fuori dagli schemi della grande industria e della classe operaia, ormai démodée dopo il disastro dell'estremismo politico extraparlamentare, culminato nel martirio di aldo moro, si rivolgevano all'uomo nuovo del momento, silvio Berlusconi, che agli occhi del grande elettorato impersonava i sogni degli italiani che inseguivano il cambiamento. in entrambi i casi si esce fuori dagli argini della democrazia dei partiti; nel secondo caso si tratta della possibilità del superamento del sistema partitocratico. in entrambi i casi, sempre mutatis mutandis, perché la storia non si ripete mai, il filtro dei partiti è ingolfato e si verifica lo scambio diretto fra il leader e il popolo: con la discesa in campo di Berlusconi nelle elezioni politiche del 1994 e con l'esito inaspettato, si passa alla democrazia populistica, che vede il popolo affidarsi nelle mani dell'uomo che è fuori dagli schemi della partitocrazia.

La crisi della Seconda Repubblica: soltanto un problema di modifica della Costituzione? in questi ultimi anni ricorre sempre più insistentemente il tema del passaggio alla terza Repubblica, dopo che la seconda, caratterizzata dall'impronta populistica di silvio Berlusconi, non ha realizzato la promessa rivoluzione liberale. Da più parti si sostiene che anche la seconda repubblica che avrebbe dovuto semplificare il rapporto fra lo stato e i cittadini è in crisi perché non è stata in grado di garantire la regola dell’alternanza e che c’è bisogno di riforme costituzionali e di una riforma elettorale per normalizzare la vita politica e risolvere i grandi problemi che affliggono il panorama politico italiano. Non ci si rende conto del fatto che non c’è riforma che possa concorrere alla soluzione dei grossi problemi sul tappeto se non si ricrea quello stretto

rapporto fra etica e politica, che fa sì che una popolazione divenga popolo e comunità, specialmente in tempi in cui la politica riguarda le scelte economiche e sociali e deve trovare i rimedi di fronte all’offensiva dell’alta finanza. Quel legame va ricercato nella sostanza delle comuni vicende storiche, quelle che parlano di nazione, di appartenenza, in definitiva di patria, quelle che portano alla riscoperta di un Pantheon comune. Nessuna scissione o distinzione fra politica e economia da una parte ed etica dall’altra. peraltro, quando qualcuno richiama la necessità di riformare la Costituzione, si alza sempre in piedi qualcun altro che brandisce il mito della “Costituzione più bella del mondo”, che sarà pure una verità se riferito ai dodici principi fondamentali e se si fa salva la difficoltà nel renderli operativi: basti pensare quanto sia difficile in tempi di crisi economica attuare l’art. 4 relativo al “diritto al lavoro”. inoltre, quando si affronta il problema della riforma costituzionale, basterebbe conoscerne un po’ la storia per rendersi conto di quanto esso sia complicato. sembrerebbe infatti che la Costituzione italiana non sia stata mai modificata e, invece, se si escludono i principi fondamentali di cui si è detto, dal 1948 ad oggi sono state varate ben trentaquattro leggi costituzionali, approvate quasi tutte con la maggioranza parlamentare richiesta dei due terzi delle due Camere: fa eccezione la legge costituzionale n. 3 del 2001 riguardante la modifica del titolo V della seconda parte della Costituzione, approvata a maggioranza semplice dal governo di centrosinistra e sottoposta a referendum confermativo. e’ il caso di ricordare a questo proposito che la legge costituzionale del 2005 concernente l’intera parte seconda della Costituzione, anch’ essa varata a maggioranza dal governo di centrodestra, non superò lo scoglio del referendum confermativo, in quanto il corpo elettorale, scarsamente motivato alla partecipazione (votò il 52,30% degli elettori), la respinse con il 61,32% di risposte negative.

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Francesco Pezzuto

se è consentito un giudizio sereno, non è possibile non constatare che con le modifiche del titolo V si è proceduto ad un decentramento che non è stato certamente d’aiuto all’emergenza di contenere la spesa pubblica, né a rendere più responsabile il processo di partecipazione alla gestione democratica; al contrario, negli ultimi dieci anni abbiamo assistito alla moltiplicazione dei centri di spesa e all’acuirsi della corruzione, di quella corruzione spicciola e volgare che ha visto numerosi consiglieri e assessori degli enti locali finire sotto processo per appropriazione indebita. le stesse forze politiche che avevano approvato e fatto approvare quelle norme oggi chiedono a gran voce, per esempio, l’abolizione delle province, che negli ultimi dieci anni si sono andate moltiplicando proprio sotto la spinta della pseudocultura del decentramento. molti costituzionalisti e politologi, come Valerio onida, Gianni ferrara, leopoldo elia, si sono, invece, scagliati contro la legge costituzionale varata dal centrodestra nel 2005 e bocciata dal referendum nel 2006, in particolare contro quelle parti che istituiscono il senato federale con competenze specifiche e il premierato, per lo squilibrio dei poteri che la figura del premier avrebbe determinato. in questi ultimi anni e specialmente in questi ultimi mesi ci si è accorti che la progressività della spesa pubblica è imputabile in buona parte alla moltiplicazione dei centri di spesa in conseguenza delle modifiche del tit. V varate dal centrosinistra e che l’impaludamento dell’iter legislativo è dovuto in buona misura alla farraginosità del bicameralismo perfetto e all’impotenza del Governo nel gestire il processo, che le summenzionate varianti del testo di centrodestra avrebbero corretto; e, quindi, si è ripreso a parlare di abolizione delle province e abolizione del senato. Bisogna tuttavia rilevare che se non interviene un nuovo impegno culturale che pervada sia le classi dirigenti (quella politica, quella economica e finanziaria e quella culturale e della comunicazione)

sia quello che si preferisce chiamare il paese o peggio ancora la gente, ma che è preferibile chiamare con il sostantivo che merita, il popolo, visto nel processo storico in cui si è venuto formando (un impegno che permetta al popolo di riconoscere il proprio processo storico, attraverso la sintesi delle divisioni, anche quelle più radicali); se non interviene, dicevamo, tale mutamento, difficilmente si potranno affrontare, pur nella sovranità dimezzata della moneta unica e dell’unione europea, i grandi problemi connessi con la crisi attuale. l’italia non ha un problema di architettura costituzionale, di ingegneria di sistema elettorale, ma l’urgenza culturale di recuperare il senso dell’unità nel quale si riconoscano sia coloro che di volta in volta costituiscono la maggioranza, sia coloro che di volta in volta costituiscono la minoranza; tale dimensione culturale restituirebbe alla politica la dignità perduta e consentirebbe il formarsi di una maggioranza governante e di una minoranza di opposizione costruttiva. in un sistema politico alimentato dal sentimento della comune appartenenza non potrebbero esistere le storture sociali come per esempio le cosiddette pensioni d’oro o gli stipendi d’oro, perché esse sarebbero contro l’etica comune, cioè contro quell’ethos di cui si sostanzia lo stato, che a sua volta pervade della stessa sostanza le forze politiche che lo esprimono. Quanto si sia stati lontani da questa dimensione culturale è dimostrato dai comportamenti messi in atto in occasione dell’esito delle elezioni politiche del 2006 (49,8% per l’unione di centrosinistra, 49,7% per la Casa delle libertà), quando il buon senso e il sentimento del bene comune avrebbe dovuto suggerire un accordo come quello intercorso in Germania un anno prima fra angela merkel e Gerhard schröder. Nemmeno il fatto che il Centrosinistra e il Centrodestra avevano governato cinque anni ciascuno dal 1996 al 2006 senza riuscire a risolvere i problemi più scottanti degli italiani

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Democrazia senza etica?

induceva a superare i contrasti e le divisioni “in nome degli interessi generali del paese che aveva invece urgente bisogno di scelte condivise in grado di assicurargli una rotta tra le acque agitate del nuovo mondo globale”, come osservano simona Colarizzi e marco Gervasoni in La tela di Penelope, Storia della seconda Repubblica, laterza 2012. e, invece, fu data vita a un governo

pletorico con il conseguente dilatarsi dell’esercito della classe politica a cominciare dal centro (102 fra ministri, sottosegretari e viceministri) fino alla periferia, dove si arrivò progressivamente a duecentomila cariche elettive, alle quali si aggiungeva la schiera dei dirigenti nominati dai partiti a tutti i livelli istituzionali con le rispettive clientele, come evidenzia l. Ricolfi in Le tre società.

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OSSERVATORIO

Angelo G. Sabatini, Cesare Salvi, Giampaolo Malgeri, Matteo L. Napolitano

il pensiero politico del XX secolo Angelo G. Sabatini

di Rocco pezzimenti

Il 26 settembre scorso presso la sala del Cenacolo della Camera dei Deputati è stato presentato il volume di Rocco pezzimenti, il pensiero politico del XX secolo. la fine dell’eurocomunismo, relatori Cesare salvi, francesco malgeri, matteo luigi Napolitano. angelo G. sabatini, introducendo la discussione, ha messo in risalto l’importanza del lavoro di pezzimenti nell’analisi della situazione politica e ideologica del nostro tempo. una situazione dominata da una forte crisi della rappresentanza politica e da una superficiale cultura inadatta a dipanare il groviglio di atteggiamenti privi di senso storico e di riflessioni ideologiche che governa il mondo politico d’oggi. un mondo che sembra essersi spogliato della carica utopica verso la realizzazione di una società governata da quei principi che hanno sorretto il secolo XX con una forte incidenza nell’azione politica e nella costruzione di progetti di società vivificati da un forte sentimento morale oggi assente. il lavoro di pezzimenti aiuta certamente a mettere in luce la mancanza di quella cultura politica che, pur nelle contraddizioni e negli esiti a volte nefasti per il sistema democratico, ha illuminato l’azione politica fornendole criteri e forme di intervento utili per sciogliere i paradossi di quel pensiero politico, quello del XX secolo, che pur nel dinamismo della società dell’ epoca, è servito a far progredire la riflessione sui fondamenti della politica e sulle molte contraddizioni che ne ha segnato il cammino.

leggendo questo lavoro di Rocco pezzimenti si ha l’occasione di entrare in un campo che è di sicuro aiuto nella comprensione di che cosa caratterizza il pensiero politico, in un periodo in cui non c’è soltanto un atteggiamento critico verso la politica - o meglio ancora verso i politici - ma è il momento in cui si rischia, per una trasposizione di sentimento negativo, di finire con il vedere la discrasia che c’è - ancora di più tra il pensiero politico che ha caratterizzato il XX secolo e la gestione che di quei principi esso ha fatto nel contesto di una realtà sociale dominata da una grande e consistente trasformazione. aiuta ad avere chiara la difficoltà oggi di poter avere un pensiero politico dinamico come quello del XX secolo, ma nello stesso tempo ci dà modo di sentire il disagio per i principi di cui si nutrono coloro che alla politica non guardano soltanto in nome di interessi specifici, ma cercano di andare alla radice dei fenomeni per i quali gli eventi non sono soltanto un coacervo di situazioni slegate tra di loro, bensì hanno un filo rosso che consente di poter capire perché lo sforzo utopico di fornire alla società - e ai problemi che rendono difficile la vita di quella società - una soluzione. la possibilità di compiere questo avvicinamento alla politica, anche andando all’origine dei principi, rappresenta un fatto estremamente positivo. per farlo, però, è necessario superare la tendenza a vedere i fatti della politica in funzione di quei grandi motivi di civiltà quali sono i mezzi di comunicazione di massa. un tema, questo, che nel gioco così forte di incidenza sulla politica ne

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Il pensiero politico del XX secolo

condiziona non sempre positivamente la prassi. una risposta al quesito ormai diffuso se la politica trae veramente benefici dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ci viene dall’ approfondimento del ruolo che i principi fondanti del pensiero politico del Novecento possano ancora esercitare in un momento così critico della vita politica attuale. una questione che trova certamente nell’analisi di pezzimenti terreno utile ed efficace. il Novecento ha messo alla prova quei valori della politica che i filosofi hanno nei secoli passati definito con saggezza e con speranza di vederli incarnati nella prassi della vita civile e che oggi per la confluenze di motivi storici precisi nella gestione del potere si dissolvono nel flusso relativistico dominante a tutti i livelli. Quali le ragioni dell’esito negativo della teoria politica idealmente valida e, invece, critica nella prassi della vita quotidiana? una storia della vita ideale e critica dei principi teorici del vivere politico nella sua evoluzione storica aiuta certamente a capire dove sta il debole nella realizzazione dei principi e dei valori fondanti il pensiero politico nella prassi storica ed è per questo che se vogliamo entrare nel groviglio delle circostante fattuali dell’emergere della caduta di valore della politica dobbiamo vedere in stretta connessione l’evoluzione del pensiero politico con gli eventi storici. una operazione che riesce molto bene a pezzimenti il quale con la sua

pubblicazione riesce a fornirci un utile strumento per valutare gli eventi politici del secolo che hobsbawn ha denominato “breve” e che con questo libro ci viene presentato come un secolo denso di eventi e di riferimento con il pensiero politico dominante. Gli oratori che interverranno si muoveranno in un mondo particolarmente complesso. Già l’enunciazione dei capitoli attraverso cui l’autore si muove dimostra entro quale abisso di problemi, di eventi, e di motivi di riflessione noi siamo spinti ad agire, ponendo attenzione ad alcuni temi di particolare interesse perché ci aiutano a capire, per esempio, la trasformazione morfologica della politica di destra e di sinistra. una discussione intensa e continua, dimenticando che dietro quello che sembra frutto di una crisi di una divisione ideologica del terreno della scelta politica si annida una complessa crisi dei valori che sostengono la funzione storica delle ideologie. Nei fatti, negli eventi, si configura una distinzione (destra-sinistra) che nel tempo ha dato la sua prova particolarmente positiva e che continua ad esercitare una funzione nella vita politica d’oggi rendendo possibile la dialettica bipolare di un pensiero politico che per interpretare la dinamica vitale dell’agire deve ancora utilizzare uno schema ideologico carico di quei principi valoriali che hanno reso possibile nel bene e nel male la vita politica del XX secolo.

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Cesare Salvi

la chiave di lettura di quello che è accaduto nel secolo scorso, in un momento in cui le idee politiche subiscono una profonda crisi, è ritornare a comprendere come nasce, ad esempio, il conflitto ideologico tra liberalismo e socialdemocrazia e come nell’evolversi delle istanze e nella ricerca di schemi interpretativi della nuova realtà sociale si continua ad utilizzare a livello euristico un lessico politico che è stato efficace nel passato e che, non tradendo la radice storica della distinzione, rende possibile entrare nel cuore dei problemi e delle contraddizioni che segnano il mondo d’oggi; contraddizioni che vanno evidenziate attraverso una ricostruzione delle ideologie dominanti in sintonia con il dinamismo accelerato degli eventi e con le nuove configurazioni del fine stesso della politica. un lavoro complesso su cui gli analisti delle mutazioni del pensiero politico e delle correlate modificazioni della situazione storico su cui esse agiscono cercano di portare un contributo interpretativo non solo per capire ma anche per indirizzare il corso storico verso la realizzazione di una società perfetta. il lavoro ampio e ben articolato di pezzimenti non rappresenta soltanto l’impegno profuso nella ricerca e nella ricostruzione del pensiero politico ma offre un prezioso strumento di comprensione della complessità ideologica che alimenta, nonostante tutto, la realtà contemporanea. Cesare Salvi

Questo libro è un viaggio dal secolo scorso fino ai giorni nostri, viaggio affascinante, e non solo per gli studenti. il libro ha alcune caratteristiche che lo differenziano da altri che si occupano della storia del pensiero politico del Novecento. la prima caratteristica è la periodizzazione. l’autore fin dall’inizio contesta le periodizzazioni storiche prevalenti, anzitutto la formula del

“secolo breve”, che comincia con la prima Guerra mondiale e la Rivoluzione Russa e che finisce con la caduta del socialismo “reale”. Questa periodizzazione non convince l’autore, come non lo convincono le due sottodivisioni, quella di hobsbawm, che parla di età della tragedia per il periodo che comprende le due Guerre mondiali, e di età dell’oro per la fase che segue il secondo dopoguerra, una fase in cui l’occidente sembra seguire un positivo modello di civiltà; nemmeno lo convince la parallela periodizzazione di Nolte, che parla di due grandi guerre civili, la prima dentro l’europa tra il ‘17 e il ‘45 e la seconda tra occidente e comunismo dopo la seconda guerra mondiale. si ricorderà che uno studioso noto, fukuyama, formulò la teoria della fine della storia, intesa come conflitto di ideologie politiche contrapposte, con il trionfo del libero mercato e della democrazia estesa all’intero globo. pezzimenti dice che non è cosi. il problema della democrazia è aperto, le grandi ideologie sono tutt’altro che finite, a cominciare da quella islamica. la periodizzazione inizia per pezzimenti nel 1917. ma egli segnala che il punto non è soltanto la rivoluzione bolscevica, ma anche altri due aspetti. il primo è che accanto al filone leninista e stalinista si colloca un autonomo pensiero socialdemocratico. la divisione ha un peso perché, come egli stesso ricorda nel suo capitolo introduttivo, fino ad allora convivevano anime diverse del mondo socialista, ma non c’era una divaricazione così netta. inoltre, il 1917 è l’anno in cui gli stati uniti entrano nella prima Guerra mondiale, determinando la fine della centralità dell’europa. infatti il suo libro ha un sottotitolo “la fine dell’eurocentrismo” che si riflette su come il libro è strutturato, perché affronta, se così si può dire, la tematica del pensiero politico del Novecento attraverso una sorta di blocchi geopolitici. Cioè l’ordine espositivo non concerne scuole di pensiero,

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Il pensiero politico del XX secolo

dottrine e autori, ma è organizzato, per così dire, intorno a spicchi di mondo molto grandi, molto rilevanti. per esempio il capitolo sui “popoli in fermento” riguarda l’america latina e l’africa, il capitolo sul “terremoto comunista” riguarda la Russia e i paesi dell’est, il capitolo su “mao” riguarda la Cina, e gli esempi potrebbero continuare a cominciare dall’ultimo capitolo, quello sul pensiero islamico che è molto interessante perché ricostruisce, l’evoluzione del pensiero politico islamico di fronte al problema di come misurarsi con i cambiamenti, che ha risvolti e aspetti diversi e articolati. parallelamente, come dicevo, il 1989 non è la fine della storia, semmai è l’inizio di nuove difficoltà, di nuovi contrasti, di nuove guerre ideologiche. pezzimenti esamina tutti questi problemi “sine ira et studio”, non giudica e condanna, cerca di spiegare, di capire che cosa è successo. se si prendono le pagine sulla rivoluzione culturale cinese, per esempio, c’è proprio la volontà di capire e spiegare che cosa è accaduto e perché, più che di giudicare. un secondo elemento che differenzia questo libro da opere analoghe è il rifiuto di separare il pensiero e le dottrine degli autori dai processi storici che li accompagnano. Di solito i libri di storia del pensiero politico andrebbero letti con un altrettanto approfondito libro di storia politica, perché raccontano il pensiero di una persona che si è chiusa dentro una stanza e si è messa a scrivere, separandolo dal contesto storico. invece nel suo libro si intrecciano i due aspetti, quello del pensiero, della riflessione e quello delle vicende politiche alle quali il pensiero si accompagna. Così, per esempio, è molto interessante, il capitolo nono, intitolato “liberalismo e socialdemocrazia”, nel quale si riflette insieme sul percorso storico del pensiero liberale e di quello socialdemocratico. e perché questo è

molto interessante? perché in realtà, operando in questo modo, quindi non mettendo il pensiero socialdemocratico come un sottocapitolo del pensiero marxista o del movimento operaio, si vede benissimo l’intreccio tra questi due pensieri. e come ambedue si evolvano nel corso di un processo storico. e il capitolo “liberalismo e socialdemocrazia e relative evoluzioni”, anch’esso si inserisce nella configurazione geopolitica del libro, perché questo è il pensiero che ha inciso sull’europa, molto meno sul resto del mondo, forse quasi niente. e così vediamo anche l’evoluzione di questa storia, di questo intreccio. Benedetto Croce che dice a einaudi che il liberalismo e il liberismo sono due concetti diversi. Ci può essere liberalismo senza che ci sia al centro la libertà economica. Von hayek dice all’opposto che senza libertà economica la democrazia politica non è concepibile. È liberale hans Kelsen, il quale nel suo saggio sulla teoria della democrazia critica “da sinistra” locke per la sua teoria della proprietà, la proprietà come diritto naturale. e liberale è (anche se è passato qualche decennio), un pensatore come Nozick, il quale negli anni ‘70 critica invece locke “da destra”, domandandosi perché la proprietà debba essere fondata sul lavoro, mentre la sua giustificazione va costruita in modo autonomo. Quindi vediamo nel pensiero liberale intrecciarsi questi punti di vista diversi, che corrispondono a fasi storiche diverse: quella del modello sociale europeo, e la fase più recente che invece è ispirata al pensiero liberista. parallelamente da questo capitolo emerge una sorta di progressiva perdita di autonomia del pensiero socialista e socialdemocratico. forse in questo progressivo depauperamento del pensiero socialdemocratico ci sono anche le spiegazioni della ragione dell’attuale crisi del consenso in europa delle formazioni politiche che hanno questa ispirazione.

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Cesare Salvi

infine due considerazioni su due temi che il libro affronta. la prima riguarda il populismo. il quarto capitolo è dedicato a questo tema, parte da sorel e finisce con Dahl. perché finisce con Robert Dahl che è tutt’altro che populista? Credo che la ragione sia che Dahl ha analizzato le condizioni alle quali la democrazia deve rispondere perché non sia deformata, e quindi il populismo non prenda piede, come nell’italia di oggi, questo strano paese che ha anticipato i fenomeni non sempre migliori del Novecento. ora come si sa è difficile una definizione del populismo e del resto nessuno si è mai auto dichiarato populista perché il termine ha assunto sempre un significato negativo. per l’autore il populismo si differenzia dall’autoritarismo, perché è una componente della democrazia, anche per alcuni aspetti fisiologica. si accentua quando un capo, un leader, in nome del popolo che viene presentato come il detentore di quello che è vero, giusto, attacca i partiti e i suoi rappresentanti accusandoli di governare contro il popolo. anche il leader populista è dentro il sistema, ma ciò non gli impedisce di avere la forza di presentarsi come il rappresentante del popolo contro il sistema. le istituzioni si mostrano e sono staccate dai cittadini, sembrano incapaci di presentare vere alternative. infatti c’è un calo di partecipazione al voto impressionante nel nostro paese, molto maggiore che in altri, fino alle recenti elezioni amministrative dove non è stato raggiunto nemmeno il 50% dei votanti. la politica non si mostra in grado di dare risposte al drammatico riemergere di una questione sociale. ecco il fascino del populismo e del suo “capo”. infine, ho accennato alla questione sociale. anche su questo tema c’è un capitolo robusto, molto interessante. torna a colpirmi la Quadragesimo anno, l’enciclica del 1931 di papa pio Xi. Nel 1931 Keynes non aveva ancora scritto la sua teoria generale, mussolini e stalin erano al potere, ma, cosa che

spesso si trascura, in tutti i paesi europei le democrazie cadevano una dopo l’altra. spagna, portogallo, i paesi Baltici, la polonia. l’enciclica è interessante anzitutto perché dice all’inizio che “profonde sono le mutazioni dai tempi della Rerum novarum che hanno subito tanto il regime economico che il socialismo.” tra le modificazioni del sistema economico che colpiscono quel pontefice c’è il ruolo assunto dal “capitale finanziario”. C’era appena stato il crollo di Wall street. “C’è una dispotica padronanza dell’economia in mano a pochi, e questi sovente neppure proprietari ma solo detentori e amministratori del capitale di cui dispongono a piacimento, la fanno da padroni, dominano il credito e padroneggiano i prestiti, sicché nessuno contro la loro volontà potrebbe nemmeno respirare. una tale concentrazione di forze e di potere è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti”. Verrebbe voglia di mandare questa pagina ad alcuni editorialisti di grandi quotidiani. il secondo punto è la presa d’atto del nuovo sentiero preso dalla socialdemocrazia. Dicevo prima che pezzimenti sottolinea che il ‘17 non è solo l’anno di nascita del comunismo, ma anche l’anno di nascita della socialdemocrazia. pio Xi segnala questa novità, e afferma che con la socialdemocrazia è possibile una collaborazione delle forze politiche cattoliche, pur sottolineando la necessità di una rigurosa reciproca autonomia. È la premessa di quello che accadrà nell’ europa occidentale nel dopoguerra. in italia nel fare la nostra Costituzione. Negli altri paesi dell’europa occidentale il modello sociale è frutto proprio della collaborazione tra queste forze ispirate a principi che (ormai bisogna prenderne atto), sono i principi della dottrina sociale cristiana. un bel libro che ci aiuta a capire che la storia non è finita e che il Novecento

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Il pensiero politico del XX secolo

consegna al nuovo millennio grandi problemi, grandi difficoltà e che bisogna riflettere, ragionare su quello che è stato. C’è un bel libro scritto da tony Judt, che dice che bisogna ricordare ai giovani, quando affermano che un altro mondo è possibile, che un altro mondo è stato possibile, espresso in un modello sociale diverso che viviamo oggi. ma al di là di questo aspetto che mi sta particolarmente a cuore, tutto il libro si raccomanda alla lettura, all’attenzione e a me ha fatto piacere essere stato invitato a presentarlo. Giampaolo Malgeri

Rocco pezzimenti ci offre, con questo libro, una attenta riflessione sul Novecento attraverso la rilettura del pensiero politico, delle idee, delle ideologie che lo hanno attraversato. un secolo fra i più complessi, controversi e drammatici della storia dell’umanità; “un secolo (…) lungo che s’incardina nei temi cruciali e non ancora del tutto esauriti dell’ottocento, e che si protende nel nostro con la sua ricerca di stabilizzazione e di pace in vista di un nuovo ordine mondiale”. Con questo libro si attraversa un’epoca che ha segnato e modificato profondamente la storia dell’uomo, incidendo radicalmente sul costume, la vita quotidiana, la mentalità, i comportamenti individuali e collettivi, il progresso tecnico e scientifico, tanto che mai in passato cento anni di storia hanno prodotto cambiamenti così radicali e profondi e non soltanto sul piano politico, economico e sociale. Come sottolinea ancora pezzimenti il Novecento è anche il secolo che vede il tramonto dell’egemonia politica ed economica europea. l’intervento degli stati uniti nella prima guerra mondiale segna l’avvio di un processo che vede la supremazia europea travolta dall’ emergere impetuoso della potenza statunitense, che uscì dalle due guerre mondiali notevolmente rafforzata non solo sul piano militare ma anche

economico e industriale. ma è stato anche il secolo in cui le ideologie, il pensiero, i movimenti, i partiti politici, ne hanno fortemente segnato la storia. si tratta di un complesso di idee, dottrine, progetti che affondano le radici nell’ottocento, raggiungendo la loro definitiva realizzazione nel sec. XX. il libro di pezzimenti è denso e ricco di temi e argomenti, che ci aiutano a capire quanto il pensiero politico nelle sue diverse espressioni ha inciso sulla storia di un secolo. a cominciare dal pensiero marxista che prende corpo nell’ottocento, portando poi alla rivoluzione bolscevica e al partito stato. una storia che pezzimenti ripercorre, mettendo a fuoco l’origine e gli sviluppi dell’ideologia comunista, il suo sbocco nella rivoluzione d’ottobre e dell’unione sovietica con le figure dominanti di lenin e stalin. la sua attenzione si sposta poi sui fenomeni del populismo e dell’ antiparlamentarismo, degli autoritarismi e dei totalitarismi, dell’ascesa e affermazione degli usa al rango di grande potenza, della Cina comunista e della rivoluzione culturale di mao tze-tung, della scuola di francoforte e della sua influenza sulla contestazione giovanile degli anni sessanta, del confronto tra liberalismo e socialdemocrazia, dei movimento rivoluzionari in america latina, con particolare attenzione alle teologie della liberazione, del ruolo della dottrina sociale della Chiesa nel pensiero politico-sociale cattolico del Novecento, della crisi del sistema sovietico con il crollo del comunismo internazionale. il volume si chiude con un argomento che ci proietta ormai in modo inquietante sul secolo in cui viviamo, vale a dire il pen-siero politico islamico, che pezzimenti ricostruisce attraverso l’attenta analisi di pensatori e di eventi che hanno con-trassegnato le vicende politiche dei paesi arabi. Di particolare interesse ed originalità sono le pagine che l’autore dedica alla dottrina sociale della Chiesa e ai suoi sviluppi.

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Giampaolo Malgeri

sotto questo aspetto pezzimenti colma una lacuna ancora presente in gran parte della storiografia sul pensiero politico del Novecento, che tende a non considerare il pensiero sociale cristiano tra le grandi ideologie o filosofie politiche del XX secolo, limitate al liberalismo, al socialismo, al comunismo, al fascismo e al nazismo. anche in questo caso, l’autore non può non prendere le mosse dagli ultimi decenni dell’ottocento quando la Chiesa cattolica è costretta a confrontarsi con la cosiddetta “questione sociale”, che portava alla proletarizzazione delle masse, alimentava le prime lotte operaie e l’espansione del socialismo, fenomeni che si accompagnavano ad un progressivo processo di scristianizzazione in seno al mondo del lavoro, soprattutto nel proletariato industriale. la Chiesa venne investita dalla “questione operaia”, di fronte alla quale leone Xiii decise di intervenire con l’ enciclica Rerum novarum del 15 maggio 1891, che possiamo considerare la base fondamentale su cui venne via via costruendosi la dottrina sociale della Chiesa. pezzimenti sottolinea un aspetto della Rerum novarum generalmente trascurato dagli studiosi dell’enciclica leoniana, vale a dire la critica al perfettismo e l’affermazione che la società perfetta non potrà mai realizzarsi su questa terra, perché “la perfezione di ogni società è riposta nel tendere ed arrivare al suo scopo”. la Rerum novarum rappresenta, quinti, un punto fermo della dottrina sociale della Chiesa. i successori di leone Xiii, nei loro messaggi e documenti sociali si sono costantemente richiamati alle indicazioni di papa pecci, riconoscendo in quel documento il punto di riferimento imprescindibile del magistero sociale della Chiesa. Quei richiami li troviamo nella Quadragesimo anno di pio Xi (1931), nei Radiomessaggi natalizi durante la seconda guerra mondiale di pio Xii, nella Mater et Magistra (1961) e nella Pacem in terris (1963) di Giovanni XXiii, nella Populorum progressio (1967) e

nella Octagesima adveniens (1971) di paolo Vi, nella Costituzione pastorale Gaudium et spes del concilio Vaticano ii, nella Laborem excercens (1981), Sollicitudo rei socialis (1987) e Centesimus annus (1991) di Giovanni paolo ii. pezzimenti si sofferma su questi documenti. Nella Pacem in terris individua “una ventata di speranza” per l’umanità. si tratta della più significativa espressione della visione pastorale di Giovanni XXiii. in essa il pontefice si confronta con i tempi nuovi, con l’esigenza del rispetto, della tutela e della promozione della persona umana, del principio dell’uguaglianza tra gli uomini, della tutela delle minoranze etniche. Quanto a paolo Vi, l’autore scrive che papa montini diede voce agli “inascoltati”. un pontificato complesso, che dovette confrontarsi con le profonde modificazioni della società e del costume, con un processo di modernizzazioni che favoriva un diffuso distacco dalla religione e una estesa secolarizzazione della società. Non manca una riflessione su Giovanni paolo ii, sui temi centrali del suo insegnamento: la difesa della dignità della persona umana, la giustizia sociale, la denuncia della violazione dei diritti dell’uomo e della libertà in varie parti del mondo, il rifiuto dei regimi totalitari di destra e di sinistra, ma anche delle esasperazioni individualistiche e consumistiche dei sistemi capitalistici occidentali. il saggio di pezzimenti non si limita a ripercorrere i fondamentali documenti sociali della storia della Chiesa nel Novecento. Non trascura il pensiero del laicato cattolico. si sofferma su toniolo, mons. Ketteler, sturzo, maritain, mounier, edith stein, igino Giordani, augusto Del Noce, e così via, offrendoci una galleria di pensatori che sia pure con diverse posizioni e orientamenti hanno segnato profondamente la cultura politica del Novecento e hanno non poco influenzato la presenza politica e sociale dei cattolici.

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Matteo L. Napolitano

Il pensiero politico del XX secolo

un libro importante come Il Pensiero politico del XX secolo di Rocco pezzimenti richiederebbe molte pagine per essere descritto e presentato. ma se da un lato molte pagine sarebbero sempre poche, dall’altro è anche legittimo lasciare nel lettore un po’ di suspense. il ponderoso studio di Rocco pezzimenti può essere considerato una delle sintesi più efficaci (se “sintesi” può dirsi un volume di quasi ottocento pagine) della storia della teoria politica del Novecento. la lotta di classe è uno dei primi temi affrontati, ed è originale la prospettiva di non presentare il movimento socialista che si affaccia al ventesimo secolo giocoforza come sinonimo di rivoluzione. «Gli operai tedeschi, fortemente uniti e disciplinati nel loro partito socialista avevano mostrato a tutti come si potesse condurre una lotta efficace anche servendosi degli strumenti parlamentari»: un tema decisivo, questo del rapporto tra socialismo e legalità, che informerà di sé tutto il Novecento. Qui non si tratta delle barricate che perdono il loro fascino, ma di prender coscienza del fatto che il socialismo europeo si sviluppa e si afferma in un momento di profonda trasformazione non solo dell’economia, ma anche delle istituzioni politiche. per cui una dottrina ristagnante in se stessa, che non avesse seguito il mutare delle istituzioni, non solo sarebbe rimasta sterile ma neppure avrebbe inciso sul tessuto sociale arricchendolo e contribuendo con il suo contributo teorico al mutare di quelle stesse istituzioni. il che spiega, in altri termini, alcuni snodi fondamentali della fine del comunismo in molti paesi del mondo. si tratta di un dilemma ben chiaro al socialismo tedesco, che non a caso fa da sfondo al dibattito sulla nuova introduzione firmata da engels a le lotte di classe in francia dal 1848 al 1850 di Karl marx. e proprio da un tale dibattito, scrive

l’autore, «si vengono a determinare due anime del marxismo: una, quella che potremmo definire ortodossa, e l’altra che, pur non ponendo problemi sui “principi” fondamentali che, nell’ottica marxista, avrebbero potuto causare la rivoluzione, ne voleva ridisegnare la tattica cercando di rendere più stringente il rapporto tra teoria e prassi» (p. 19). Detto in altri termini, «da lì a pochi mesi dalle famose pagine di engels, veniva definitivamente criticata la visione marxista e la sua capacità di cambiare il mondo industriale» (p. 20). Ci si potrebbe certamente domandare come mai la prima vera realizzazione terrena dell’ideale marxista sia una contraddizione in termini: lo stato sovietico, ossia uno stato tutt’altro che nel pieno di una fase di maturità avanzata del capitalismo. Qui le risposte e le ipotesi potrebbero essere le più varie, ma due su tutte ci appaiono suggestive: il carattere messianico della rivoluzione bolscevica, così permeata d’integrismo religioso ortodosso e “borghese”; e la contrapposizione tra sistemi di valori causati dalla guerra civile in Russia. sotto quest’ultimo aspetto, è sorprendente constatare come la guerra di hitler rassomigli molto, nei presupposti e nella spinta ideologica, alla lotta bolscevica: nella visione religiosa che ha il partito della sua “missione”; per la sua collocazione nella vita dei cittadini; nell’appropriazione di ogni aspetto della vita statale; nella funzione della propaganda; nella visione dell’individuo rispetto allo stato. lo studio e l’analisi della rivoluzione bolscevica ha generato altresì dei fenomeni che pezzimenti non esita a definire “miti”. uno di questi è lev trotzkij. Questi, scrive pezzimenti, «restò prigioniero di una rivoluzione immaginaria», che avrebbe dovuto essere «liberatoria», come notò Vittorio strada su “mondoperaio” nel 1980. pezzimenti condivide quest’analisi, e senza circonlocuzioni: «servendosi del marxismo-leninismo trotzkij lo elevò

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Matteo L. Napolitano

quasi a dogma, della cui superiorità tecnica e morale in economia, in politica e in arte militare era fermamente convinto. Da ciò risulta con chiarezza solare – come sostiene pellicani – che l’immagine di trotzkij campione di democrazia è una pura leggenda» (p. 83) molto interessante è anche l’analisi del rapporto fra populismo e antiparlamentarismo, le cui suggestioni possono essere una chiave di lettura anche per l’oggi. le caratteristiche di questo fenomeno populista vanno spiegate nei seguenti passaggi : a) il populismo parte dall’esaltazione acritica del popolo; b) per quanto paradossale sembri, tale esaltazione è opera di una ristretta élite che foraggia la spinta antielitaria del populismo; c) la principale caratteristica di tale componente antielitaria è di voler superare il concetto di rappresentanza parlamentare allo scopo di abolire ogni mediazione tra leader e popolo; d) le istituzioni parlamentari cessano pertanto di essere un fattore di mediazione fra corpo elettorale ed élite, con gli immaginabili pericoli per la democrazia; e) la sintesi di questo processo è un’apparente democrazia, dove le masse hanno sì un ruolo, ma solo in funzione dell’esaltazione del leader. pezzimenti passa poi ad esaminare il fascismo, come via italiana all’autoritarismo, ricordando che basta riferirsi agli studi di Renzo De felice per rendersi subito conto di quanto diverso il movimento di mussolini fosse dal nazionalsocialismo (l’autore parla di differenze «enormi»; cfr. p. 171). ma quando parliamo di totalitarismo nel ventesimo secolo, che cosa intendiamo dire esattamente? se per esempio ci spostiamo nel contesto asiatico, ci accorgiamo facilmente di come la componente economica qui sia praticamente assente, a differenza di quanto avviene nel caso sovietico; come assente è la componente ideologica dell’homo novus che contraddistingue fascismo e nazismo. Come ha efficacemente scritto Raymond aron nel suo importante sag-

gio Democrazia e totalitarismo, quello orientale è un totalitarismo che prevede solo il perpetuarsi del potere nelle mani di pochi; dunque molto diverso dal totalitarismo europeo del ventesimo secolo. altri spunti interessanti ci provengono dalle vicende politico-economiche vissute dall’europa fra le due guerre, ed è qui che l’attenzione di pezzimenti si appunta su John maynard Keynes. senza ripetere cose ampiamente note sul ruolo del reddito e dello stato come fattori di crescita, ci soffermeremo solo su poche suggestioni di lettura. innanzitutto pezzimenti ci ricorda che Keynes rimprovera ai pensatori del passato una scarsa aderenza alla realtà; e (come dovrebbero imparare anche i politici di oggi) nulla mina alla base le istituzioni politiche più della scarsa aderenza alla realtà da parte di una classe dirigente ancorata ad astruse teorie e a comportamenti disonesti. in secondo luogo, l’attacco di Keynes al liberalismo e al “lasciar fare” è basato su una semplice considerazione: in economia esistono libertà naturali, ed essere lasciati liberi di fare, di per sé, non costituisce un diritto naturale, tantomeno in economia. in terzo luogo la teoria keynesiana, che mette al centro il ruolo dello stato nella disciplina dei flussi economici, non ha alcun legame con la nozione di uno stato provveditore di tutto, perfino di dolciumi, né con l’immagine di uno stato invasivo ed eccessivamente forte. «se si riconoscono allo stato i giusti limiti – scrive pezzimenti – si arriva a intendere nella vera luce il rapporto keynesiano tra iniziativa pubblica e iniziativa privata e la sua reale novità […]. il capitalismo, che ha determinato la grande crisi economica, non si supera con la lotta di classe, al contrario si supera proprio cancellando quei germi che possono determinarla […]. tutta la speculazione keynesiana mira al superamento dei conflitti, anche a livello internazionale […]. per lui la ricerca di un equilibrio economico, che peraltro

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Il pensiero politico del XX secolo

non definì mai, non è un’astrazione, bensì una concretezza che non può comunque andare a discapito del progresso, della produzione, del lavoro e del benessere. i critici, nel giudicare il suo pensiero, sono liberi di valutarlo ma nessuno può ignorare che tutti gli stati che hanno adottato un tipo di “economia mista” gli sono comunque debitori» (pp. 290-291). un’altra figura politica importante nell’analisi di pezzimenti è quella di mao tsè-tung. egli è considerato dall’autore il «mosè della Repubblica cinese», per il quale la rivoluzione, la lotta contro lo sfruttamento, la lotta di liberazione dal nemico esterno non possono che essere intimamente connaturati all’anima del popolo cinese. sotto quest’ultimo aspetto, scrive l’autore, «si può dire che uno dei meriti più grandi di mao è stato quello di aver inventato, per il suo popolo, una vera e propria pedagogia capace non solo di fargli cambiare vita, ma anche di convincerlo della giustezza di un simile cambiamento». per mao, tuttavia, convincere un popolo non significava obbligarlo. «per lui la libera accettazione era l’ideale verso il quale si doveva sempre tendere e costituiva una sua autentica convinzione filosofica come quelle che aveva riguardo ai problemi di logica e di scienza» (p. 317). sarebbe un errore, pertanto, ritenere mao un ideologo in senso stretto. egli, invece, è un esempio di uomo di stato in cui teoria e pratica erano inscindibili. Non solo: ma teoria e pratica o si nutrivano insieme o insieme morivano; o restavano in piedi insieme, o insieme cadevano. tornando al quadro più generale della rivoluzione cinese, pezzimenti (p. 317) ci riporta a un saggio di elena Collotti pischel, Le origini ideologiche della rivoluzione cinese, in cui scrive che «l’esperienza delle masse da lui stesso [mao] acquisita attraverso quella autonoma utilizzazione pratica del marxismo in una elaborazione dell’ideologia che, spogliato il marxismo di tutti i contenuti particolari e contingenti sviluppatisi per rispondere

a un diverso ambiente storico, e ridottolo al puro elemento funzionale, metodico e strutturale, lo rese adatto ad arricchirsi di un contenuto particolare e concreto nuovo, a divenire un’arma strumentale dell’azione». insomma, per pezzimenti mao è un «machiavelli d’oriente», le cui teorie «non furono utili soltanto alla Cina, ma a moltissimi paesi del terzo mondo e contribuirono a far uscire le teorie marxiste da quello sterile dogmatismo nel quale erano cadute per colpa della burocrazia sovietica» (p. 330). anche la Chiesa cattolica ha ovviamente un suo ruolo nel ventesimo secolo. e a questo proposito, come dimenticare la novità della Rerum Novarum? Da essa scaturisce, ci spiega pezzimenti, l’obbligatorietà e l’ineludibilità per i cattolici della questione sociale, rimarcando il fatto che anche la proprietà privata può e deve avere una funzione sociale. Dal punto di vista della difesa dai nemici esterni, è assai singolare come lenin e mao restino gli unici statisti e teorici della rivoluzione comunista in grado di prevedere il carattere aggressivo dell’imperialismo giapponese per il continente asiatico. un altro punto interessante è che l’edificazione del socialismo in Cina passava anche per il contributo dei non iscritti al partito comunista cinese, e perfino ai membri di altri partiti. pezzimenti, a questo punto (p. 344), dà la parola direttamente a mao: «Converrà di più, in fin dei conti, avere un solo partito o più partiti? e’ preferibile averne diversi, quanto sembra oggi. e’ stato così in passato e potrà essere lo stesso in futuro […]. abbiamo mantenuto deliberatamente i partiti democratici, dando loro la possibilità di esprimersi e applicando nei loro confronti una politica di unione e di lotta. Dobbiamo unire a noi tutte le personalità democratiche che formulano con buone intenzioni assicurazioni nei nostri confronti». altri temi arricchiscono e suggestionano il lettore di questo libro. si dovrebbe citare, ad esempio l’analisi della teologia della liberazione, il suo

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Matteo L. Napolitano

bisogno di utopia e la sua pretesa di essere la «forza motrice della storia». «e’ certamente singolare – scrive pezzimenti – che [leonardo] Boff nel parlare del rapporto tra Concilio [Vaticano ii] e prospettiva della teologia della liberazione in nota citi un significativo passo di Ratzinger: “la recezione del Concilio non è ancora nemmeno cominciata. Ciò che ha decimato la Chiesa negli ultimi decenni non è stato il Concilio, ma il rifiuto della sua accettazione» (cfr. p. 497). inoltre, la dottrina sociale della Chiesa non può non attingere dalla Rerum Novarum: che intende la Chiesa come popolo in cammino; per la quale la questione sociale nella Chiesa italiana è un tema obbligatorio e ineludibile; che vota la proprietà privata a una funzione sociale; che propone una nuova formulazione del rapporto tra carità e giustizia; e che sottende alla nascita di un partito cattolico, dopo la prima guerra mondiale. avicinandosi ai giorni nostri, pezzimenti si chiede che cos’è stato il terremoto nel mondo comunista in quel fatidico 1989. Quell’anno, dice l’autore, ha segnato il debutto di una rivoluzione pacifica, rappresentata da solidarnosć, e affermatasi anche grazie a una Chiesa cattolica che non si è fatta strumentalizzare da interessi politici di parte, tanto meno dopo quella che potrebbe essere considerata la sua grande vittoria morale contro il comunismo europeo. anche perché non bisogna dimenticare che questo terremoto ha comportato costi umani per la Chiesa stessa (cfr. pp. 625-626). molto stimolante è anche la riflessione

su islam e modernità, con particolare riguardo alla turchia. scrive pezzimenti: «Non si deve comunque dimenticare che la laicità turca deriva da una parte dall’eredità culturale di stampo positivista, introdotta da atatürk in turchia, dall’altra dalla “statalizzazione” dell’ islam operata dall’impero ottomano. in turchia, la separazione della religione dallo stato aveva comportato il controllo totale della politica nei confronti delle questioni religiose. in tal modo, dai programmi scolastici fino ai salari di coloro che esercitavano funzioni di culto, tutto era controllato dallo stato» (p. 687). anche la perestroika di Gorbaciov viene analizza in rapporto al mondo arabo. essa fu vista come una possibilità di decolonizzazione da parte delle Repubbliche sovietiche di fede islamica, come ad esempio il Kazakhistan e il Kirghizistan. e proprio queste due ultime repubbliche hanno sempre rappresentato, in un modo o nell’altro, il vero limite dell’espansionismo sovietico e poi russo. il modello sovietico venne infatti da esse messo in discussione anche perché lo si considerava, specialmente nel campo agrario, come un modello non più realizzabile. e diciamo “in campo agrario” perché era anzitutto questo il terreno di prova dell’emancipazione dei paesi emergenti. tanti temi dunque, tanti aspetti e tanti spunti anche per lo storico, oltre che per il filosofo e il politologo, offre Rocco pezzimenti, con riflessioni profonde consegnate alla cultura politica italiana, in un libro che dovrebbe stare sempre sulla scrivania di coloro che decidono dei pubblici destini.

l ’ e C o D e l l a s t a m pa

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UOMINI E IDEE

Alberto Aghemo

il pacifismo intransigente di Giacomo matteotti

Prosegue, con l’Epistolario e con gli interventi su Socialismo e guerra, la pubblicazione integrale delle “Opere” di Giacomo Matteotti curata da Stefano Caretti.

“il pensiero di coloro che stanno uccidendosi - scrive nel settembre del 1914 Giacomo matteotti a Velia, che presto sarà sua moglie - è terribile; e mi pare giusta l’insurrezione se si volesse (…) lanciarci in una guerra”: appassionato, politicamente lucido ed eticamente fondato, il pacifismo matteottiano è fermo e intransigente. Non sfuggono a matteotti le difficoltà dell’ora, le crescenti fortune di quanti caldeggiano l’intervento in nome della “guerra di popolo”, gli interessi che muovono il patriottismo della classe dominante, l’incertezza degli scenari politici (“…tira vento di piccole viltà, anche nel mio partito”, confida a Velia nella stessa lettera), ma il suo atteggiamento contro la guerra affonda le radici nello spirito più autenticamente socialista non meno che nel tradizionale pacifismo contadino della Valle padana. allo scoppio della Grande Guerra matteotti si mostra drammaticamente turbato dal conflitto in corso e

fermamente contrario ad ogni possibile coinvolgimento dell’italia nella grande carneficina, pronto anche a contestare con violenza un destino di morte e di prostrazione della classe lavoratrice che altri vogliono, in nome di ideali superiori e incontrastabili interessi, inevitabile. in realtà, per matteotti la guerra “rappresenta una cinica competizione di interessi borghesi, apportatrice di lutti e di rovine e destinata, al di là di facili miraggi, ad arrestare lo sviluppo e la crescita del proletariato oltre che a lacerare i rapporti internazionali tra i diversi popoli”: è quanto ci ricorda, con grande efficacia, stefano Caretti nell’introduzione a Socialismo e guerra, undicesimo e penultimo volume delle opere di Giacomo matteotti la cui edizione integrale è curata dallo stesso Caretti per i tipi della pisa university press. il bel volume, pubblicato di recente, segue l’Epistolario 1904-1924 edito lo scorso anno e corredato da un’ampia introduzione di maurizio Degl’innocenti, e precede il testo dedicato a La questione elettorale e altri scritti, che sarà ultimato nel 2014 in occasione del 90° anniversario della morte di matteotti, a coronamento di un’ampia e lucida opera di ricerca storica, archivistica ed editoriale condot-

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Alberto Aghemo

ta da Caretti nell’arco di oltre trent’anni. la lettura di “socialismo e guerra” ci consegna il quadro, estremamente drammatico, di una stagione convulsa, attraversata dai mutamenti tragici e irreversibili che avrebbe segnato definitivamente il “secolo breve”. Negli scritti di matteotti degli anni compresi tra il 1012 e il 1924, anno del suo assassinio, c’è lucida e appassionata testimonianza di tutto: dal teso dibattito sul colonialismo e sull’impresa libica alla crisi della seconda internazionale, dalle appassionate argomentazioni “Contro al guerra e per la neutralità assoluta”, del 1914, alle amare riflessioni sul “fallimento della pace vittoriosa” (del 1920, con ampi riferimenti alle tesi di J. m. Keynes sui disastrosi esiti della pace di Versailles), sino ai duri interventi sulle riparazioni belliche e sul governo mussolini che precedono di poco il tragico epilogo dell’in-transigente e lucida testimonianza matteottiana. la radicale avversione alla guerra era emersa già nel 1912, in occasione della guerra di libia, per poi rafforzarsi negli anni successivi, immediatamente a ridosso del conflitto mondiale. Di questo, come accennato, vi è ampia documentazione nel volume, così come del fatto che matteotti rimase, nel suo essere rigorosamente e fermamente contro la guerra, un militante coerente quanto sostanzialmente inascoltato: uno “splendido isolato”, nota Caretti, che ricorda la progressiva mutazione bellicista verificatasi in ambito socialista, con il passaggio sull’opposto versante dei sindacalisti rivoluzionari e dei mussoliniani. alla repentina conversione di mussolini matteotti risponde con un vero e proprio atto d’accusa, dal titolo

Mussoliniana, che, con altri successivi interventi, spingerà il politico di fratta polesine su posizioni sempre più divergenti rispetto alla linea ufficiale del partito socialista. ma l’intransigenza non costa a matteotti soltanto un relativo isolamento tra le file socialiste, quanto una serie di minacce ed aggressioni delle quali si trova traccia solo vagamente riflessa nei suoi scritti e nelle testimonianze politiche, sulle quali la censura bellica, la magistratura e poi lo stesso esercito metteranno la sordina, sottoponendo matteotti, negli anni cruciali della guerra, a rigorosa sorveglianza e a un silenzio coatto. Di queste vicende si trova ampia ed accurata ricostruzione nelle pagine introduttive di stefano Caretti che ribadiscono con grande efficacia l’incrollabile fedeltà di matteotti all’ideale pacifista pur nel vortice delle persecuzioni e sopraffazioni cui egli fu sottoposto negli anni del conflitto. atti e documenti presenti nel volume testimoniano invece con chiarezza la crescente divergenza politica sul tema della guerra tra il Nostro, rimasto fedele all’oltranzismo pacifista, e turati e treves che, in particolare dopo Caporetto, presero posizione a favore della patria invasa e, più tardi, aderirono all’invito del governo alla “concordia nazionale”. lasciate alle spalle le lacerazioni degli anni di guerra matteotti - eletto deputato nel 1919 e poi riconfermato nel 1921 e nel ’24 - avrà modo di coniugare con efficacia le proprie argomentazioni contro la guerra - alimentate ex post dal trattato di Versailles e dalle vessatorie riparazioni imposte alla Germania, che tanto pesarono nel determinare la crisi

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Il socialismo intransigente di Giacomo Matteotti

tedesca e il progressivo affermarsi del nazionalsocialismo. all’inizio degli anni Venti gli scritti di matteotti hanno prevalente valenza economica e giuridica e sono in buona misura dedicati alla denuncia della devastazione umana e sociale operata dalla guerra con particolare riguardo alle conseguenze economiche e politiche del trattato di pace. agli interventi del giovane parlamentare sul tema della “ricchezza distrutta” dal conflitto, sulla questione dei debiti di guerra e sulla necessità di revisione del rovinoso trattato di pace è dedicata un’approfondita analisi di ennio Di Nolfo nella densa premessa che apre il volume. Di Nolfo analizza, in particolare, gli scritti che dal ’22 in poi evidenziano la preoccupazione di matteotti per la asprezza delle riparazioni imposte agli sconfitti: sono interventi di grande rigore, che mettono in luce la singolare – quasi profetica – preveggenza di matteotti nel denunciare i pericoli della rinascita del nazionalismo tedesco e l’ottusità della politica francese delle riparazioni di guerra che andava alimentando, con un’intransigenza che giunse fino all’occupazione militare della Rhur, le schiere dei seguaci di hitler. ormai matteotti - segretario del partito socialista unitario, sorto nell’ottobre del 1922 a seguito dell’espulsione dell’ala riformista da parte dei massimalisti – è proiettato in una dimensione internazionale: anche in questo ambito sarà, fino all’ultimo, particolarmente attivo sui temi della pace e prenderà parte a numerosi incontri in europa per promuovere una linea socialista comune a favore della revisione del trattato di Versailles. anche in vista del Congresso di amburgo, convocato nel maggio del 1923 per la ricostruzione dell’internazionale socialista, matteotti collabora alla redazione di un piano organico sulle riparazioni di guerra, ma ad amburgo non andrà mai, perché privato del passaporto a causa della sua intransigente opposizione al fascismo. una limitazione che, tuttavia, non gli impe-

dirà un ultimo viaggio clandestino, nell’aprile del 1924, con destinazione Belgio, francia e inghilterra. Ben consapevole di essere nel mirino del regime, anche negli ultimi scritti sulla guerra matteotti non rinuncia alla sua linea di fermezza: si vedano I precedenti della Ruhr e il governo Mussolini, della fine del ’23, o le parole di radicale denuncia contenute in Un anno di dominazione fascista, del 1924. l’ultimo documento presente nel volume è un estratto dagli atti parlamentari che riporta un serrato contraddittorio tra Giacomo matteotti che chiede la parola “per fatto personale” - e Benito mussolini: porta la data del 4 giugno del 1924. ancora pochi giorni e matteotti sarà costretto al definitivo silenzio.

Giacomo matteotti, Socialismo e guerra, a cura di stefano Caretti. premessa di ennio Di Nolfo, pisa, plus - pisa university press, 2013, pp. 300

Giacomo matteotti, Epistolario 1904-1924, a cura di stefano Caretti. intro-duzione di maurizio Degl’innnocenti, pisa, plus - pisa university press, 2012, p. 282

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Ester Capuzzo

Breve dizionario biografico degli ebrei dell’italia unita

Breve dizionario biografico degli ebrei dell’italia unita viene definito nella quarta di copertina l’agile volume di alberto Cavaglion. a una lettura superficiale ci si potrebbe fermare a questa definizione che pure ha una sua ragione perché a ben vedere nel testo si susseguono i nomi degli esponenti di spicco dell’ebraismo italiano dal Risorgimento all’età repubblicana in un intreccio di vicende di taglio politico, storicoletterario e culturale. tuttavia al cuore del volume si giunge concentrandosi sulla prima parte del titolo Nati con la libertà e seguendo le riflessioni dello studioso piemontese sulle interconnessioni tra ebrei e libertà. una libertà che non è soltanto personale uti singuli come richiamava alessandro levi, seppure in un contesto storico preciso, ma allarga le sue maglie alle vicende del paese in quel prius e in quel posterius che sono stati il 1848 e il 1945, sino ad arrivare ai giorni nostri. il passaggio dall’esclusione alla libertà, dalla reclusione ai diritti di cittadinanza, è scansionato sulla biografia di alberto Cantoni e su quella «fisiologia del ridere» cioè la scienza dell’umorismo di cui lo scrittore di pomponesco e tullio massarani erano stati, come ci ricorda Cavaglion, i fondatori in italia ancora prima della diffusione della teoria freudiana sul witz che nella sua costellazione semantica comprende comico, umorismo, ironia e arguzia. Dell’autore del Re umorista sarà debitore un altro grande umorista meno sorridente, forse, di Cantoni, luigi pirandello, anche lui votato a sviscerare l’identità umana e a coglierne la frammentazione e la complessità attraverso il flusso de “il sentimento del contrario”. “Nato con libertà” (è l'anagramma del nome dello scrittore padano e da cui prende il titolo il volume), Cantoni era vissuto a lungo appartato nel mondo contadino del mantovano (che si rifletteva non soltanto ne L’illustrissimo con prefazione di pirandello ma anche in Foglie al vento), tra paesaggi nebbiosi e freddi, assolati e umidi a seconda delle stagioni. Nel suo Israele italiano, un breve racconto non molto

conosciuto e ripubblicato una diecina di anni fa in appendice a un saggio di alberto Jori sull’identità ebraica e sul sionismo in Cantoni, lo scrittore di pomponesco contro i pericoli del rinascente antisemitismo prospettava una soluzione tutta giocata su fattori etici ed educativi e fondata sul dialogo, sulla tolleranza, sul primato dei valori spirituali. insomma, come lo definisce bene Cavaglion, Cantoni era un «grande vecchio», testimone come Graziadio i. ascoli, salvatore De Benedetti, alessandro D’ancona, tullio massarani di «una senilità lungimirante», e direi anche di quella complessità non soltanto geografica dell’ebraismo italiano, volta a considerare con timore ogni sussulto di differenziazione di taglio anche nazionalistico che avrebbe potuto far retrocedere gli ebrei verso la subalternità e il vecchio sistema discriminatorio, destinato per quello che sarebbe avvenuto nel 1938 a non essere sopito. a ragione lo studioso piemontese si pone l’interrogativo non peregrino se la generazione venuta dopo avesse ascoltato la voce di questi «grandi vecchi» forse «il numero di ebrei fascisti sarebbe stato altrettanto cospicuo»? e molti degli ebrei italiani avrebbero capito allora, potremmo aggiungere, che separatezza e emarginazione nella loro contiguità sarebbero state una gabbia atta produrre subalternità e discriminazione? Del resto di una «siepe» e di romperla per «emanciparsi dai ceppi dei riti simbolici» aveva già parlato un altro grande vecchio, Giuseppe mazzini, in una lettera a elia Benamozegh che, come avrebbe fatto un secolo dopo Benedetto Croce, invitava a superare le barriere. Non è un caso, forse, che proprio alessandro levi, che non tollerava l’idea che le comunità ebraiche costituissero un corpus separatum, come sancito all’inizio degli anni trenta dal nuovo ordinamento comunitario e dalla immediatamente precedente normativa sui culti ammessi, pubblicava su «la Rassegna mensile di israel» il noto articolo sugli amici israeliti di mazzini

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Breve dizionario biografico degli ebrei dell’Italia unita

facendo conoscere la definizione mazziniana di «stolidi buoni» affibbiata dall’ esule genovese alla fa-miglia Rosselli. una definizione non ritagliata sul buonismo ma piut-tosto sulla mitezza e che non sta ad attestare che essere miti signifi-chi necessariamente dover essere delle vit-time, regola che, peraltro, dovrebbe vale-re per tutti. una defini-zione che segna insieme il limite tra due mondi, quello ebraico e quello non ebraico, le difficoltà nella reciproca comprensione (si pensi alle paure di maria mazzini che suo figlio fosse avvelenato durante i pranzi domenicali dai Rosselli e che riecheggiano venefici e pregiudizi di sangue, richiamati nel volume dal controverso caso delle pasque di sangue di ariel toaff), con cui si sarebbe dovuto fare i conti quasi un secolo più tardi. saltare la siepe, anche al di là della paura del buio, era, come giustamente osserva Cava-glion, una «lezione di antifascismo» in un momento in cui la situazione per gli ebrei italiani si stava sempre più aggravando. la rottura della siepe era un passaggio cruciale, colto appieno, non lo dimentichiamo, anche da isacco artom al momento dell’unificazione nazionale che scriveva ad alessandro D’ancona come di fronte alla progettualità politica che il nascente stato italiano prefigurava gli ebrei dovessero abbandonare le «nostalgie del tempo perduto», porre le loro capacità e competenze «a disposizione di tutti» e, soprattutto, «tenere le finestre aperte» perché soltanto in questo modo potevano giocarsi nella partita con la storia la loro complessa identità. e’ vero che per essere liberi e non liberti, definizione data da alessandro levi, biso-gna tenere le finestre aperte (del resto lo dice anche isaac B. singer della felicità nel roman-zo in cui

racconta la sua infanzia a Varsavia) e impegnarsi nella società non soltanto uti singuli come individui ma uti universi come gruppo. Durante il fascismo queste due posizioni avrebbero seguito per-corsi diversi portando gli ebrei italiani come gruppo a ritenere combacianti «le loro idee con lo stato etico fascista» mentre una minoranza di essi avrebbe combattuto per sconfiggere lo stato che negava loro uno dei diritti imprescrittibili della libertà, quello della libertà individuale sullo sfondo dell’incomprensione e dello scontro con la dirigenza comunitaria impreparata e non del tutto consapevole di ciò che stava accadendo. C’è un filo conduttore in tutto questo che veniva individuato sempre da levi e che viene fatto proprio da Cavaglion cogliendo l’idea del filosofo piemontese che se si fosse operato per la costruzione nei giovani ebrei italiani di «una coscienza politica democratica più salda», forse, più decise e più ferme sarebbe state le reazioni contro il delitto matteotti e i germi antilibertari inoculati dal fascismo nella società italiana. Da questa premessa il volume ripercorre la dimensione dell’antifascismo ebraico ridisegnandone, per così dire, la mappatura non soltanto in senso geografico che è stata a lungo contrassegnata dalla tesi che torino fosse l’esclusiva capitale dell’antifascismo ebraico. e a ragione Cavaglion richiama di nuovo la figura di alessandro levi e del suo itinerante percorso che dal piemonte lo aveva portato in Veneto e poi in toscana, a firenze e che avrebbe fruttato l’incontro con i fratelli Rosselli e la loro maturazione ‘esterna’ al mondo ebraico come sostiene lo studioso piemontese, rileggendo il noto discorso di livorno di Nello. una

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Ester Capuzzo

posizione esterna che spingeva l’antifascismo ebraico, fenomeno di natura minoritaria, a dialogare con «inter-locutori estranei» e di cui questo lavoro ci dà conto riprendendo una fonte scarsamente nota o meglio «una lettera smarrita» di cui si ha conoscenza in via indiretta dalla missiva di risposta scritta da manchester nell’ottobre 1934 da mario praz a leone Ginzburg, il più crociano degli antifascisti ebrei. una risposta che testimonia come larga parte dei protagonisti dell’antifascismo ebraico sentissero necessaria la ricerca di un riferimento al di fuori dell’ebraismo ufficiale rappresentato da Benedetto Croce, mario praz e ernesto Bonaiuti attorno al quale si era creato un noto cenobio romano cui, per citarli in modo non esaustivo, avrebbero parteci-pato i fratelli sereni, max ascoli, tullio levi-Civita, alberto pincherle, arturo Carlo Jemolo, eugenio artom, Giorgio levi Della Vida, ebrei di diversa provenienza e con differenti destini. Non soltanto Ginzburg avrebbe cercato un «maestro» al di fuori del «mondo ufficiale ebraico» ma anche eugenio Colorni con umberto saba (e prima ancora con Giacomo Debenedetti, di qui l’incontro con il poeta triestino pronubo lo scrittore biellese) che avrebbe segnato il passaggio all’azione sulla spinta della vis politica della poesia. anche Vittorio foa si avvicinava durante la deten-zione a un altro intellettuale triestino svevo-schmitt attraverso la rilettura dei suoi romanzi Senilità e la Coscienza di Zeno. una rilettura che, come si osserva nel volume, si contrappone a quella data da Debenedetti in un noto saggio del 1928 che coincideva con la manifestazione di una malattia immunologica che colpiva il giovane antifascista torinese, come ada nella Coscienza di Zeno, e ne alterava i tratti somatici con l’assunzione, utilizzando la definizione sveviana, di una «facies basedowiana». Non solo e non e tanto, però, questo era il riflesso dell’avvicinamento a svevo quanto piuttosto sia nel suo caso che in quello di eugenio Colorni l’incontro con la cultura triestina e con quelli intellettuali come saba, svevo, Joyce che li avevano avvicinati alla scoperta dell’inconscio freudiano e, quindi, in un certo senso avevano prospettato all’uno e all’altro nuovi percorsi per uscire dall’idealismo storicistico-crociano e per insufflare un soffio nuovo nelle loro idee

politiche. Nel caso di foa il richiamo a svevo non fruttava soltanto l’identificazione con un caso personale ma anche la rappresentazione di una tragedia collettiva segnata dalle leggi razziali di cui allora lo studente torinese, rinchiuso a Regina Coeli, aveva sentore dalla corrispondenza con il padre. Nel cosmo dei personaggi richiamati nel volume anche l’antichista piero treves che, sulla scia della lezione paterna, formulava quella «teoria delle due libertà», interna ed esterna, che doveva spingere ad essere, come annota Cavaglion, «“uomini liberi”» e non «“liberti”», orecchiando anche la posizione di Giorgio levi Della Vita e avanzava - nel volume viene colto appieno - l’idea in contrasto con la nota tesi di arnaldo momigliano, suo antagonista, di una «nazionalizzazione» degli ebrei non «parallela» quanto piuttosto sfasata, squilibrata a seconda della dislocazione geografica ma non soltanto territoriale dell’ebraismo italiano sia uti singuli che uti universi per richiamare ancora una volta alessandro levi. un’idea a cui gli studi non hanno dato ancora una piena risposta. Non fondato sulla lettura dicotomica della libertà interna ed esterna per gli ebrei italiani, il lavoro di alberto Cavaglion prosegue con una serie di saggi che si rifanno alla nostra contemporaneità e che richiamo a titolo esemplificativo: dai «personaggi ancipiti» di Cesare Cases alla vicenda del Blocco 21 (il memoriale italiano ad auschwitz) nel confronto Vasari/De luna, dalle vicende dello scrittore triestino Boris pahor rivissute nel suo Necropolis alla «sfortuna di Carlo Cataneo» e all’oblio a lecco di uno dei fautori della rinascita cattaneiana, aroldo Benini sino all’affondo su umberto eco e Il cimitero di Praga non tanto per il suo inconscio antisemitismo piuttosto per le sue oscillazioni tra la letteratura d’appendice e i format televisivi, come viene spiegato, «tra L’orfana del ghetto e la Prova del cuoco». tutti casi, potremmo dire, che colgono aspetti diversi della libertà ebraica. il vero leitmotiv di questo avvincenti riflessioni di Cavaglion.

alberto Cavaglion, Nati con la libertà. Dizionario portatile dell’ebraismo contemporaneo, Napoli, l’ancora del mediterraneo, 2013, pp. 156.massimo

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Massimo Broglia

Goodbye Keynes? di franco Reviglio

franco Reviglio in questo libro, Goodbye Keynes?, con un punto interrogativo volutamente posto nel titolo, ricerca soluzioni economiche, escludendo l’intervento pubblico a sostegno della domanda globale, per aumentare i consumi, gli investimenti e l’occupazione in italia. illustra come oggi l’interventismo Keynesiano sia notevolmente ridimensionato, mettendo in evidenza le inefficienze e gli sprechi statali che nel medio e lungo termine, contrariamente al passato, tendono ad accrescere il debito pubblico e determinano un’ulteriore riduzione del tasso di crescita economica e perdita di posti di lavoro. Già dai primi anni ‘80 l’applicazione delle politiche Keynesiane, non essendo state più di natura ciclica come negli anni ‘60, ma nettamente di esigenza strutturale, anche a causa degli effetti della globalizzazione, si sono dimostrate inefficaci e dannose per l’economia. Reviglio spiega come, in questo ultimo decennio, una serie di scelte economiche politiche inadeguate e la crisi economica di natura finanziaria, che ha avuto avvio nel 2008 in tutto il mondo, hanno contribuito alla contrazione della produttività e ridotto la competitività del sistema italia, tenendo imbrigliato il nostro paese lontano dal tasso di crescita delle altre economie avanzate dell’unione europea. per tali ragioni nel libro si evidenzia l’urgenza di trovare soluzioni e correzioni delle inefficienze nel sistema economico, si ribadisce il concetto che per la forte crisi finanziaria i paesi industriali hanno aumentato troppo i disavanzi e i debiti pubblici ma che fortunatamente per l’italia il rischio di default, come è accaduto in Grecia, è stato temporaneamente tamponato dalle famiglie e dalle imprese grazie al loro limitato debito privato. la priorità - afferma con fermezza Reviglio - è quella che le riforme strutturali debbono essere fatte al più presto. la responsabilità politica, che ha il dovere di

amministrare il bene comune di tutti noi cittadini non solo elettori di questo stato democratico, ma autentico bene da salvaguardare, è fortemente chiamata in causa. le riforme implicano scelte politiche importanti e responsabili, che non devono dipendere dalla paura del rischio di perdere voti. il debito pubblico deve essere nettamente ridotto in quanto implica un’elevata pressione fiscale sia per i cittadini che per le imprese. per fare questo è necessario l’accordo tra le forze politiche così da poter eliminare le inefficienze e gli sprechi della spesa pubblica. e’ necessario che in italia non prevalga la frammentazione tra le forze politiche di governo ma si possa attuare un federalismo pienamente responsabile. spiega Reviglio - le riforme si possono fare ed attuare con una giusta determinazione di politica economica, che metta a punto con volontà e condivisione un progetto che tracci una via di uscita dallo stallo. le riforme più urgenti sono: la riforma della spesa pubblica, il federalismo fiscale, la ripresa delle privatizzazioni, le riforme senza oneri per lo stato per aumentare produttività e competitività. una delle riforme più importanti e strategiche per il nostro sistema economico è rappresentata dalla ristrutturazione del sistema educativo incentivando la meritocrazia e la ricerca ed anche con un forte cambiamento da parte della cultura delle famiglie. la realtà è che per le forze di governo e per i media tali emergenze sembrano in questi ultimi anni essere utilizzate solo come slogan: fare le riforme per tornare a crescere. la volontà della classe dirigente politica deve essere più seria e responsabile, deve prendere esempio dai paesi che in passato erano in crisi e che l’hanno superata uno su tutti la Germania. la considerazione ispirata da questo saggio è - oggi sono necessarie poche riforme subito ma serie -, che diano la

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Goodbye Keynes?

possibilità di trasformazioni strutturali del nostro sistema economico che convincano i mercati, le imprese e le famiglie che qualcosa stia effettivamente cambiando e che possano così sedimentare. solo se si realizzeranno tali riforme che accrescono la produttività e la competitività del nostro paese, aumentando il tasso di crescita del pil, si potrà ottenere una ripresa con un consequenziale aumento del reddito e dell’occupazione. Questo saggio in conclusione propone di valutare i pregi, ma anche i limiti strutturali e di visione sul futuro della manovra di bilancio per il biennio 2011-12, indicando quali politiche sono necessarie per ridurre il debito pubblico e tornare a crescere. se da una parte un minore debito pubblico può consentire un maggiore tasso di crescita economica e di occupazione, d'altra parte solo una maggiore crescita economica può ridurre il debito pubblico. sono quindi essenziali le riforme che rimuovono le barriere all'aumento della produttività e della competitività. oggi nel mese di maggio 2013 finalmente le forze politiche stanno discutendo sulla formazione di una commissione costituzionale per attuare le riforme, sono arrivate alla conclusione che solo un programma condiviso potrà essere la soluzione a medio lungo termine per poter porre in sicurezza il nostro rischio paese. Da un decennio in italia il basso tasso di crescita con un debito pubblico sempre in aumento ormai di circa 130% del pil, rappresentano una palla al piede per la nostra economia che deve mantenere gli impegni presi in sede europea. la sostenibilità del debito pubblico è importante, il futuro del nostro paese è legato quindi ad una giusta

politica economica tendente ad assicurare anche gli investitori esteri. il patto di stabilità e Crescita (psC) è uno strumento quadro tra gli stati membri dell’ue che fissa un limite del 60% del pil per il debito pubblico, cioè il debito accumulato da un paese nei confronti di determinati creditori nazionali ed esteri. anche per il disavanzo pubblico, cioè quando le spese sono maggiori delle entrate di un paese, il psC fissa un limite al fine di garantire la salute e la sostenibilità delle finanze pubbliche del 3% rispetto al pil, oggi la riduzione del rapporto deficit/pil sotto il 3% dovrebbe facilitare l'uscita del nostro paese dalla procedura di deficit eccessivo aperta dall’ue alla fine del 2009. Reviglio saluta Keynes con un punto interrogativo, ma in conclusione sembra porsi un punto interrogativo sulla concreta capacità di attuare urgenti riforme. in questa prima parte del 2013 l’incertezza politica e la carenza di liquidità, che dal sistema bancario si è trasmessa al settore privato, non esprime una vera volontà di trovare risposte serie e di ripresa economica in termini di aumento della domanda aggregata. la riflessione da un punto di vista economico è concentrata sulla ripresa che passa attraverso il profitto con un nuovo approccio alla macroeconomia, con un compromesso tra la teoria Keynesiana e la teoria neoclassica. ottenere buoni profitti oggi che portino a maggiori investimenti domani significa non lasciare o aspettare che l’economia si regoli completamente da sola. io credo che, come ognuno di noi ha il dovere di dare il meglio di sé, i governi hanno il dovere di creare l’ambiente in cui ognuno di noi lo possa dare.

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LETTURE

a cura di Carlo Vallauri

Giovanni Ansaldo, Stenografie di nella serie di viaggi dall’egitto (sono i viaggio, Nino Aragno editore, Torino tempi della diga di assuan) alla 2008 Germania – dove già era stato ai tempi di Weimar, per conto allora di una testata antifascista come “il lavoro” di Genova – e poi a New York. Qui incontra Giuseppe prezzolini, due volte “esule” morale in terra di america (e al quale l’univa in quel momento la comune avventura del settimanale “il Borghese”), resterà colpito dall’intreccio tra dollari e fedi religiose (un argomento d’attualità) e poi va a Washington, divenuto il centro dell’alleanza atlantica. singolare la sua definizione del “regime totalitario tutto speciale” nel quale vivono gli americani, basato su un Stenografie di viaggio di Giovanni ansaldo “collettivismo volontario” e perciò (Nino aragno editore, torino, 2008) è la inesorabile, degli usi e dei costumi, in raccolta dei diari e taccuini del famoso base al quale ciascuno deve vivere, giornalista di famiglia genovese e poi alloggiare, divertirsi e ragionare con gli direttore di importanti giornali a altri. Dagli incontri con i diplomatici livorno e poi a Napoli, riferiti agli anni (sono al potere eisenhower, foster ’50 sino a giugno ’60. Dulles) non esce molto soddisfatto, la sua esperienza umana e politica lo convinto com’è che Roosevelt abbia avevano posto al centro di eventi che poi favorito stalin (era la parola d’ordine in travolgeranno la sua stessa vita e l’italia. quell’epoca di maccartismo), ed in antifascista attivo dapprima (tanto da questa posizione non mostra certo essere inviato al confino), troverà con il originalità di pensiero. suo approdo al fascismo le vie per una a New York esplora – come egli stesso stagione di successo radiofonico: con scrive – la little italia. al rientro a l’esito della guerra, pagherà con la Napoli diviene editorialista del prigionia e il carcere il suo voltafaccia. “mattino”. le nozze di maria pia di Nelle pagine di questo libro è, ormai savoia lo condurranno a Cascais e nel libero, al partenopeo “mattino” inviato profitta per visitare locali alla moda, speciale e direttore. il lettore quindi oltre, naturalmente, l’esteril. le sue potrà seguirlo nei suoi spostamenti che descrizioni sono semplici e sanno offrire lo conducono al centro della vita un’immagine visiva dei luoghi visti. culturale. il prefattore del volume, arriviamo al ’59 e lo troviamo in india Giuseppe mercenaro, nell’indicare le per il volo inaugurale di una linea rotte contrastanti di ansaldo, ne rileva lo alitalia: dalle torri del silenzio alle sguardo indagatore, la capacità di vicende della fiat locale le sue attenzioni penetrare psicologicamente in tanti sono variegate, ma talvolta si ha diversi ambienti. l’impressione che le sue idee su ciò che Nel riferire con continuità, senza vede siano già prefigurate. D’altro canto tuttavia essere legato alla quotidianità, lo è già in una età nella quale ciascuno è scrittore fa emergere la molteplicità dei convinto di saper quasi tutto, suoi interessi, in una italia ormai interessanti tuttavia le osservazioni sulla democristianizzata sul piano politico e industrializzazione dell’india, appena 43


Carlo Vallauri

all’inizio. È sarcastico con un italiano consigliere per la pianificazione che incontra a Delhi, e che svela rapidamente il suo senso affaristico, tipico di certi connazionali superficiali. ma è ancora più duro nei confronti di quelle che chiama “trovatine tardomazziniane” di Gandhi (di cui mostra di misconoscere il valore), riferite ad una iniziativa per la diffusione della cultura, dichiarazioni che confermano come egli avverta sempre un suo senso di “superiorità” verso gli altri, dovuto in effetti al disincanto della sua esistenza e preferisce infatti sorvolare su altri drammi, pure tanto presenti, accanto e di fronte a lui. una posizione che lo stranierà sempre più dalle nuove generazioni. l’amarezza che traspare in varie osservazioni è figlia di uno scetticismo, proprio delle persone anche di elevato livello che caratterizzano il passaggio dell’italia alla metà del XX secolo. il “suo” fascismo di convenienza si è trasfigurato in una accettazione acritica della nuova condizione democratica. infine, in occasione del viaggio di Gronchi a mosca, dove egli giudica l’edilizia del regime quale simbolo di un “imborghesimento collettivo”, ma se avesse visitato quegli appartamenti si sarebbe accorto dell’imprecisione del giudizio espresso. Gustoso invece il resoconto della visita alla casa di tolstoj, come poi il tono dissacratorio riferito all’incontro del presidente della repubblica italiana con Kruscev, il quale domina la scena, facendo fare – secondo ansaldo – una brutta figura a Gronchi e a pella, quando parlano della questione di Berlino, allora fulcro dello scontro internazionale. accenna anche a insolenze inutili e offensive da parte dello zar del Cremino, a proposito dei soldati italiani in Russia. le ultime pagine sono dedicate a londra e all’inghilterra, dove resta ammirato dal sentimento mostrato da lettere ai giornali di cittadini che tengono a ricordare i loro cari caduti in guerra,

eppure dovrebbe sapere che è una consuetudine tipica dell’inglese d’ogni ceto. Come si vede, opinioni che si rincorrono in un giornalista abile ed intelligente, ma condotto dalle sue amare esperienze di vita, ad una sprezzante considerazione degli “altri”.

George Bensoussan, Genocidio. Una passione europea, Marsilio, 2009

Nella seconda guerra mondiale il genocidio sistematico ha caratterizzato, con impressionante crescendo, il comportamento delle potenze vittoriose nella prima fase del conflitto. Dal cuore dell’europa al lontano oriente niente è stato risparmiato al genere umano. George Bensoussan in Genocidio. Una passione europea è andato a rievocare i precedenti della tragedia europea, ripercorrendo le matrici culturali all’origine del diabolico disegno di annientamento. Così il lettore scorre i precedenti, dai fantasmi medievali all’anti-illuminismo per poi soffermarsi su concetti affermatisi tra ottocento e primo Novecento circa il ruolo fondamentale attribuito alla guerra quale fondamento dell’ordine sociale e della vita dei singoli, sino all’esaltazione dello spirito bellico inteso quale “igiene del mondo” nell’esaltazione della virilità. Già la prima guerra mondiale aveva assunto caratteri di distruttività totale sia con la distruzione di massa attraverso le

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Letture

mitragliatrici, gli assalti frontali al nemico, le prime prove della guerra chimica. inoltre nel fronte dell’est l’esercito tedesco imperversava contro le moltitudini dei contadini russi affrettatamente reclutati dall’ultimo zar. si confermava la previsione di Gustavo le Bon sull’ “età del ferro”, dove tutto ciò che è debole deve fatalmente perire. un darwinismo non naturale ma realizzato secondo un piano dettagliatamente studiato. proprio le conclusioni del 1918 alimentarono negli sconfitti tedeschi l’idea di una rivincita totale. l’imbarbarimento dell’europa trova le forme e gli strumenti per preparare i mezzi di sterminio che il totalitarismo saprà allestire al più alto grado di perfidia. ma quali le ragioni dello scatenamento di tanto odio? lo storico, che tanto in profondità ha studiato l’intero fenomeno della Shoah risale in questo libro ai motivi ossessionanti della “purezza di sangue”: la “razza” diversa. Così un fattore discriminante come spiegazione del mondo, nella negazione del mondo sociale e della stessa umanità. l’antigiudaismo pervade nell’intimo tante coscienze sino a pervenire all’idea non più di isolati o singoli programmi ma di una organizzata persecuzione che giungerà all’orrore della “soluzione finale” sulla base di una propaganda fondata su invenzioni (“protocollo di sion”) ma anche su richiami ancestrali a quanto di più profondo male possa sortire da ciascuna persona. una ossessione biologica nella condanna del meticciato mentre – osserviamo – la scienza più moderna non esclude di metterne in rilievo gli elementi positivi. Quindi dal pangermanesimo dei tempi del Kaiser si passa alla terribile pratica attivata dai nazisti sul fronte russo poi nei campi di sterminio. l’occidente cristiano assiste attonito all’olocausto, ma l’autore va più lontano nel cercare i precedenti in una serie di consuetudini di odio e di violenza dai secoli bui del passato, risalendo ai demoni del millenarismo, quello violento che portò

alle stradi del Cinquecento (come a münster) contrapposto a quello pacifico di Gioacchino de fiore. Da quel male apocalittico si sperò nascesse un mondo riappacificato. l’universo dominato dal male, come in antiche memorie, riemergeva invece nel ritorno dell’ anticristo: “purificare il mondo”; una concezione destinata ad esplodere, nel Novecento quanto più – “contraddittoriamente, si può notare – scienza e tecnica sembrano offrire i mezzi per realizzare una vita meno straziante. la ricostruzione di Bensoussan reca i segni della critica storica e la precisione filosofica dei grandi autori.

Paolo Carusi, I partiti politici italiani dall’unità ad oggi, Studium, Roma 2008

l’edizione, aggiornata ed arricchita, del libro di paolo Carusi I partiti politici italiani dall’unità ad oggi conferma la qualità dello storico e nello stesso tempo affronta i nodi problematici della storiografia dei partiti – compresi i più recenti – sul versante metodologico. il quadro di ricerca più ampio consente di misurare nuove acquisizioni, valutate nel più recente percorso della crisi del sistema politico nazionale, in una visione multidisciplinare che nell’ambito delle prospettive già indicate nella precedente opera, fornisce ulteriori elementi di conoscenza e giudizio. se quella che era “una transizione in corso” è divenuta una realtà trasformata nella concretezza degli eventi, altrettanto notevole il delinearsi di una più convinta ricerca libera da condizionamenti ideologici.

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Carlo Vallauri

Così l’influenza di una personalità come De Gasperi ha avuto modo di meglio caratterizzarsi – insieme alle ricerche riguardanti fanfani (grazie alla omonima fondazione potranno adesso intensificarsi), moro e scelba, nei saggi di p. l. Ballini, francesco malgeri, antonio parisella, Gabriele marcucci fanello, augusto D’angelo. Così come all’ interno della scuola dei derivazione comunista si sono rivelate più definite configurazioni pur nelle divergenti letture di silvio pons e di francesco Barbagallo. la scomparsa dei partiti storici della cosiddetta “prima repubblica” non sembra però – a nostro avviso – aver indotto gli studiosi a considerare i limiti entro i quali erano stati precedentemente analizzate le storie dei singoli partiti. interessanti in proposito le osservazioni di maurizio Degli innocenti sulla vexata questio di rapporti tra socialisti e comunisti. per quanto concorre il fascismo vanno ricordati gli approfondimenti tematici di emilio Gentile. siano consentite altre due osservazioni. la prima riguarda la singolarità di partiti descritti, sino all’inizio degli anni ’90, quali forze reali e determinanti e che invece si dimostreranno in sostanza fragili nella loro concreta realtà. pochi studiosi si erano accorti come ormai i partiti tradizionali fossero già, negli anni ’80, dei puri “residui storici”. pertanto chi s’arresta alle opere allora pubblicate non potrà che meravigliarsi di fronte all’evidenza dei successivi turbamenti e cambiamenti non previsti sulla base di quanto scritto in quei testi di fine anni ‘80. D’altronde il fenomeno non sorprende. Citiamo ad esempio il caso dei pur apprezzabili testi di paul Ginsborg. se infatti li rileggiamo attentamente oggi possiamo notare come in essi non siano mai citate fonti di provenienza degli ambienti della destra moderata, laddove invece emergevano le premesse per il suo vittorioso ritorno nel ’94, dopo intere stagioni di isolamento: teniamo presente che l’alternarsi tra centro-destra e centro-sinistra nella pendola delle

maggioranze non è stata valutata nella sua portata “sistemica”, rispetto al “caso italiano”. eppure, come Carusi dimostra, le fonti si stavano già moltiplicando nel rilevare le carenze del sistema politico ed istituzionale: le stesse documentazioni archivistiche comprovano, in una vitalità scientifica ammirevole, la possibilità di tener conto del declino dei partiti e della formazione delle oligarchie. Da questo punto di vista ha ragione l’autore quando sottolinea le potenzialità di nuovi apporti multi-disciplinari: gli occhi puntati sulle lotte interne dei partiti hanno in effetti a lungo ristretto lo sguardo, non aprendosi alle più profonde mutazioni nella società e nei costumi.

Massimo Teodori, Vaticano rapace, Marsilio 2013

massimo teodori aggiunge, con Vaticano rapace, un libro di documentazione e valutazione ai suoi studi precisi e accurati sui nodi fondamentali della storia dell’italia in rapporto ai suoi rapporti con il potere ecclesiastico. lo storico radicale spiega infatti molto bene quello che è stato ed è “lo scandaloso finanziamento dell’italia alla Chiesa”. le sue pagine scorrono leggere nella lettura chiara e sempre fondata su elementi certi, pensati nella gravità degli argomenti che presenta, e testimonia di un tema centrale nella vita del nostro paese, per la realtà di fatti accaduti e per

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Letture

il significato che l’organizzazione cattolica ha nella vita nazionale e nella coscienza di una parte rilevante degli italiani, anche se risulta – secondo aggiornate ricerche – sempre più in riduzione il numero dei cattolici effettivamente osservanti e frequentatori abituali delle cerimonie religiose. l’otto per mille costituisce un “imbroglio” finanziario e politico sul quale non sempre il ceto dirigente sa chiamare l’attenzione dei cittadini sulla base di accertamenti, dati reali e conoscenze concrete circa l’andamento dei fatti. Va richiamato l’interesse dei lettori, in particolare sui capitoli relativi alla storia dei “concordati” e soprattutto sul contenuto illiberale dell’accordo imposto, da Craxi nel 1984, un punto fondamentale della nostra vita civile, trascurato nella generale considerazione circa il “nuovo ordine” dei rapporti tra le due entità. È nato allora – come scrive giustamente teodori – un documento “oltre modo ambiguo”, in quanto fondato su un equivoco, a causa della mancanza di una valida discussione tra le forze politiche al momento delle scelte. si trattò, sul piano finanziario, di un “trucco”, un “autentico imbroglio” per la maggior parte dei contribuenti, ai quali viene infatti imposto un sistema di versamenti a favore della Chiesa, sui quali non è più possibile intervenire, donde deriva una statuizione errata e da sostituire al più presto . altro capitolo interessante riguarda la proiezione “europea” circa gli “aiuti di stato”. si sono inseriti negli ingranaggi delle nostre istituzioni “tesori e tesoretti idiapolitci”. una “singolarità” che

s’inquadra in quel regime di “malaffare” che ha determinato in uno stato “laico” una serie incredibile di “riciclaggi” e di pedaggi finanziari che mettono a rischio la stessa autonomia della Repubblica. Dalle pagine dedicate alla descrizione del ruolo ambiguo dell’istituto per le opere di religione emergono fantasmi di “gentiluomini” e di “politici genuflessi” in forme che hanno aperto il varco a “mali incurabili” dai quali dobbiamo guardarci se intendiamo conservare e garantire il rispetto dei diritti fondamentali. elementi inquietanti risultano quindi da questo ampio saggio. utilissimi altresì, per la conoscenza completa dell’argomento, i riferimenti bibliografici richiamati dall’autore con il rigore che è sempre una delle componenti essenziali dei suoi libri, con l’aggiunta in questo caso dei documenti lateranensi del 1929 (sia il “trattato” che la “convenzione finanziaria” e il “concordato”) e peraltro il testo dell’ “accordo” modificato e firmato dalla Repubblica in una fase – osserviamo – di amnesia del nostro ceto politico su temi basilari dell’assetto istituzionale e finanziario. ecco perché segnaliamo questa pubblicazione come un vero e proprio accertamento sullo stato delle relazioni tra le due entità, testo che va fatto conoscere nella sua consistenza effettiva, e “con gli oneri a carico dei suoi cittadini”. solo così sarà possibile riprendere il tema quanto prima nel dibattito pubblico, per superare quelle condizioni di ignoranza e di ambiguità che si celano nei pretesi “accordi” stabiliti alle spalle degli italiani.

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Il volume comprende gli Atti del Convegno su “La formazione dello Stato unitario” tenutosi a Palazzo Montecitorio il 6 giugno 2011 nell’ambito delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Gli interventi sono stati integrati da altri svolti in occasione di incontri realizzati a Tagliacozzo il 18 marzo 2012 e presso la Biblioteca della Camera dei Deputati il 12 e 19 marzo 2012 sul tema “In difesa del Risorgimento” nell’ambito del Progetto della Fondazione Giacomo Matteotti - Onlus su “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento”. In appendice sono riportati gli interventi che le più alte Autorità dello Stato hanno pronunciato in occasione della cerimonia celebrativa dell’Unità d’Italia che ha avuto luogo nell’Aula di Palazzo Montecitorio il 17 marzo 2011. Il volume comprende gli interventi di Ester Capuzzo, Antonio Casu, Carlo Ghisalberti, Guido Melis, Giulio Napolitano, Guido Pescosolido, Angelo G. Sabatini, Franco Salvatori, Rosario Villari.


Il volume comprende gli Atti del Convegno tenutosi in due parti, il 29 novembre 2011 presso l’Aula Moscati della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” sulla letteratura, ed il 16 dicembre 2012 presso la Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio sul pensiero politico, nell’ambito del Progetto “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento” della Fondazione Giacomo Matteotti - Onlus in occasione delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Nelle rispettive Appendici si è ritenuto utile inserire due interventi in arricchimento e in sintonia con i temi del Convegno. Il volume coprende gli interventi di Emilio Baccarini, Giuseppe Cantarano, Rino L. Caputo, Fabiana Candiloro, Fulvio Conti, Girolamo Cotroneo, Giovanni Dessì, Angelo Fàvaro, Marina Formica, Andrea Gareffi, Carlo Ghisalberti, Nicola Longo, Elisabetta Marino, Giuseppe Monsagrati, Pamela Parenti, Guido Pescosolido, Fabio Pierangeli, Giorgio Rebuffa, Angelo G. Sabatini, Marcello Teodonio, Fulvio Tessitore, Lucio Villari.



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