TEMPO PRESENTE 397-399 gen-mar 2014

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TEMPO PRESENTE

N. 397-399 gennaio-marzo 2014

euro 7,50

SEGNI E SIGNIFICATI DI UNA CRISI (4) * NORBERTO BOBBIO * FABBRICA DI UNA DITTATURA * LUIGI LUZZATTI * ANTONIO SEGNI * CLAUDIO MARTELLI * LUCE D’ERAMO E IGNAZIO SILONE * IL GIOCO DELL’ARTE * LETTURE

a. angeloni g. bianco g. cantarano e. capuzzo a. casu g. cotroneo g. di lorenzo s. garofalo r. gattegna g. jannuzzi s. nasti a. patuelli a.g. sabatini g. sabbatucci c. vallauri Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


DIRETTORE RESPONSABILE

Angelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALE

Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Corrado OCONE - Gaetano PECORA Luciano PELLICANI - Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI CONSIGLIO DEI GARANTI

hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE

Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI GRAFICA

Adriano MERLO PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel. 06/8078113 - fax 06/94379578 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)

Prezzo dei fascicoli: Italia € 5,00; doppio € 7,50 - Estero € 6,50; doppio € 10,00 Arretrati dell’anno precedente: il doppio Abbonamento annuo: Italia € 25,00 - Estero € 44,00 Abbonamento sostenitore € 100,00 L’abbonamento non disdetto entro il 30 novembre dell’anno a cui si riferisce si intende tacitamente rinnovato. Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2, legge 23 dcembre 1996, n.662, Filiale di Roma Chiuso in redazione il 15 aprile 2014


TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura N. 397-399 gennaio-marzo 2014 PRIMA PAGINA

A NGELO

Segni e significati di una crisi (4) G. S ABATINI , Il rischio della democrazia nell’utopia nella Rete?, p. 3 G IUSEPPE C ANTARANO, Norberto Bobbio, p. 5

G IOVANNI

COMMENTO JANNUZZI , Lettera aperta a Giorgio Napolitano, p. 8

OSSERVATORIO SALVATORE NASTI, Fabbrica di una dittatura: Brasile 1964-1985, p. 10 UOMINI E IDEE PRESENTAZIONE DEL VOLUME Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio, p. 14 GIOVANNI SABBATUCCI GERARDO BIANCO RENZO GATTEGNA ANTONIO PATUELLI ESTER CAPUZZO ANTONIO CASU, Il Diario di Antonio Segni, p. 32

GIROLAMO COTRONEO, Le verità di Claudio Martelli, p. 35

ANGELO ANGELONI, Luce D’Eramo - Ignazio Silone, p. 38 LE MASCHERE DELL’ARTE

GAIA DI LORENZO, Il gioco dell’arte, p. 41

LETTURE SARA GAROFALO, Le origini della guerra civile, di Fabio Fabbri, p. 46 CARLO VALLAURI, Non per il potere, di Alexander Langer, p. 47 CARLO VALLAURI, Se non siamo innocenti, di Marco Alloni, p. 48


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Segni e significati di una crisi (4) Angelo G. Sabatini - Giuseppe Cantarano

ngelo G. Sabatini Di più: se è vero che le grandi Il rischio della democrazia nell’utopia concentrazioni spingono per loro natura nella Rete? all'omogenizzazione dei processi e al conformismo dei comportamenti, le Il XXI secolo, grazie alla pervasiva mani sulla rete tenderanno naturalmente irruzione della multimedialità e della rete a comprimere gli spazi di diversità, anche nei rapporti sociali, sembra indipendenza e creatività, accelerando piuttosto destinato, a dispetto della sua l'evoluzione (involuzione) verso una promessa futura, a ruotare intorno ad un società tecnologicamente avanzata, conflitto antico. Un conflitto come sommersa da flussi informativi, ma sempre politico, come sempre sostanzialmente illiberali. economico e come mai prima nella Ma Chomsky non è solo nell'illustrare i storia “culturale” (almeno in senso rischi del nuovo oligopolio. Robert antropologico): il conflitto tra “chi sa”, Samuelson, accreditato columnist oggi minoranza, e “chi non sa”, finanziario americano, non esita a maggioranza. Con in più un forte definire l'accordo Aol-Time Warner elemento di novità: se fino a ieri il potere «inquietante per l'informazione»: un politico si basava sul possesso di beni business che ha una sua logica ferrea, nella materiali, ivi comprese le “macchine quale la posta in gioco è l'accesso ai dell’informazione”, già oggi il potere si consumatori di informazione e di fonda sul possesso e sul controllo di intrattenimento, «la chiave per entrare beni prevalentemente “immateriali”: nelle case degli utenti» attraverso il come conoscenza, come la rete stessa. matrimonio tra carta stampata, L’operazione di fusione e acquisizione nei cinema, cable tv e Internet. settori dell’informazione e di internet rappresentano un ulteriore forma di *** convergenza tecnologica non meno che Una società complessa come quella che finanziaria che rischia di infrangere il ci troviamo a vivere tra le sue plurime mito della rete democratica e diffusa, po- colonne di sostegno ad occupare ormai licentrica e multiaccesso che ha segnato il posto di un architrave, ci sono la l’origine alternativa e liberal del web. comunicazione e il suo moderno Non è un caso che il punto di svolta si supporto tecnologico. Quale che sia la sia verificato proprio all'inizio del sua configurazione nei capitoli che millennio, conferendo un sapore illustrano il grande libro della società è «epocale» a un evento già di per sé difficile disconoscerne il ruolo, con i rilevante. Allorché si è verificata la suoi benefici e i suoi pericoli. Consinascita di Aol-Time Warner, (ha derata all’inizio come una forma di affermato Noam Chomsky coerente- trasmissione di segni e segnali atti a mente alla sua prospettiva radical) si acce- stabilire un rapporto tra soggetti in lerò bruscamente la colonizzazione di relazione, ha finito col trasferirsi nella Internet da parte delle corporation ameri- dimensione della composizione tecnicocane e rende più incisivo il processo di formale in senso strumentale, utilizzata egemonizzazione culturale già da non solo come una ragnatela di decenni in atto da parte degli Stati Uniti. connessioni del linguaggio ma nel tempo 3


Angelo G. Sabatini

come strumento di costituzione di un (fondativi) è la radice della morte della agorà, un luogo tecnico cui tutti politica e, quindi, del sistema organizpossono partecipare in connessione zativo di una società chiamata inter-attiva, al di là dello spazio fisico per “democratica”. essere agente di messaggi in competi- Il nemico peggiore, in assoluto, della zione. Il possesso dello status di politica è il paradosso in cui vive la partecipazione riem-pie la scorza comunicazione allorché favorisce la formale del comunicare per diventare partecipazione di tutti ai benefici del sostanza di un messaggio portatore di messaggio politico e nello stesso tempo istanze e valori messi in gioco nell’ li gestisce in forma eterodiretta. Del economia di un dialogo proiettato verso resto l’espansione del terreno della la soddisfazione di bisogni articolati di comunicazione tecnologica dando vita a volta in volta come nuove vie della Definizioni di l’ottenimento di concomunicazione, attraquiste di cui beneverso l’attivazione di Internet ficiare. In questo caso siti web e blog fino allo il comunicare è una sviluppo dei social forza mirante al media per eccellenza - rete delle reti successo come supe(Facebook, Twitter, ramento di forze - federazione o insieme delle reti YouTube) favorisce differenti e spesso una gestione del contrastanti: diventa mezzo affidandolo a cioè il teatro della - in molti ne possiedono una parte soggetti non sempre competizione, che per senza che nessuno possa possederla capaci di tenerlo nel non tradursi in un binario di una corretta tutta canto di vittoria destina-zione muscolare, perniciosa formativa. Certo, per la convivenza - prolungamento all’esterno del negarne l’uso nella nostro cervello umana, assume la libertà delle scelte tecnica comunicativa individuali si rischia di - cervello collettivo dialogica garantita da stabilire una “dittatu-ra un intesa di reciproca della comunicazio-ne”, garanzia. La comunima nello stesso tempo cazione come luogo la libertà assoluta ne del patto di coesistenza diventa negherebbe la funzio-ne formativa di “politica” e assume un ruolo fondante in una coscienza sociale. Il gioco per un quella forma di organizzazione della uso corretto della comunicazione in una comunità che chiamiamo “democrazia“. società democratica è in una fede Nella diade “comunicazione e politica” ponderata verso una società utopica la forma di collaborazione più stretta, dove cultura, sapere e saggezza quasi identitaria, viene offerta dalla riempiono di speranza gli uomini del traduzione dell’istanza politica in nuovo Millennio. democrazia. Una comunicazione disar- Sino a qualche anno or sono, ticolata da un progetto di società ragionando di politica ovvero di armonica è puro strumento di dominio, comunicazione, alla rete del futuro si diventa artificio spesso occulto, mezzo attribuivano, rispetto ai media tradidi manipolazione, negazione della fede zionali, possibilità utopistiche. La liberatrice e di progresso intellettuale, potenza emancipatrice della Grande anticamera di una anarchia velleitaria e Rete sembrava fuori discussione, perdente. La perdita di equilibrio tra depositaria di una nuova verità tecnica (della comunicazione) e valori finalmente disponibile a tutti, senza 4


Il rischio della democrazia nell’utopia nella Rete?

filtri, senza censure, senza ritardi. I contorni mobili di Internet coincidevano con gli spazi di un auspicio di progresso e democrazia su cui oggi sarebbero disposti a giurare - come ha notato Hans Magnus Enzensberger «solo gli evan-gelisti del capitalismo digitale». Questi pronostici, tuttavia, almeno su un punto si sono rivelati esatti: la distinzione tra i media «pilotati da un centro» e quelli concepiti per una gestione decentrata. L'importanza politica di questa differenza è sottolineata dallo stesso Erzensberger: agli estremi della scala delle possibili modalità di comunicazione abbiamo, da un lato, l'editto, il messaggio dell'autorità che presuppone un rapporto diseguale tra il potere e i suoi sudditi, tra la fonte e i destinatari; dall'altro, la rete con i suoi rapporti di parità, almeno potenziale, tra i partecipanti, liberi dai condizionamenti propri del discorso autoritario. In questo senso la rete è effettivamente un'invenzione utopistica, dato che ha abolito la differenza tra emittente e ricevente, non esistendo più, nonostante i fenomeni di concentrazione dei grandi operatori del settore, alcuna istanza centrale in grado di controllarla. Pur parzialmente colonizzato dalle corporation dell'infotainment, Internet vanta in effetti risorse pressoché infinite: non c'è nicchia, microambiente o minoranza che non trovi accoglienza e amplificazione sul web. La rete diviene così a un tempo il luogo della celebrazione del conformismo e del consumo, non meno che della trasgressione: terra (smisurata) di conquista sia dell' establishment che di hackers, truffatori, terroristi, sessuomani, squilibrati. La terra di nessuno della grande paranoia della comunicazione, che alimenta rigetti sistemici e fideistiche adesioni, senza tuttavia perdere la sua polimorfa neutralità: giacché Internet resta un medium interattivo di comunicazione in sé né maledetto né salvifico - destinato semplicemente a riflettere lo status

(economico, politico, mentale) dei suoi partecipanti. È un magma dalle straordinarie potenzialità, che tuttavia genera l'overdose informativa che già ci tormenta e, con essa, la pericolosa confusione tra l’enormità dei dati e degli input disponibili e la qualità dell’ informazione realmente dotata di significato. Ma la sua immaterialità non sempre leggera, impalpabile come il bene immateriale per eccellenza, il software. Il capitalismo digitale di cui la rete è espressione e veicolo, infatti, reca in sé la promessa della democrazia digitale, ma non le sue premesse: gli esclusi sono ancora oggi maggioranza e la rete resta per loro il miraggio dell' integrazione nel ciclo economico, politico e culturale globale, oppure il segno di una distanza che rischia di divenire incolmabile. È solo parzialmente vero, infatti, che la rete avvolge l'intero pianeta e tutti gli esseri umani che lo abitano, dettando i paradigmi della nuova polis globale. E una verità solo potenziale può divenire una menzogna reale. In una realtà globale nella quale, secondo un Rapporto dell'Unesco, la cultura è cultura della comunicazione ma circa due miliardi di esseri umani non hanno mai fatto una telefonata nell'arco di una vita, Internet rischia di rappresentare una minaccia più che un'opportunità. Il corollario politico che discende da tale osservazione è inquietante se si fa attenzione a ciò che si verifica nel mercato delle reti. Se si considera il bene immateriale rappresentato dal controllo della rete come contendibile o comunque acquisibile sul mercato non possono non preoccupare le megaconcentrazioni che sul mercato portano alla costituzione di nuovi conglomerati destinati ad esercitare un quasi-monopolio su Internet. Se, di contro, si enfatizza il senso «immateriale ma non mercantile» della conoscenza che nasce e si diffonde dalla rete, allora si dovrà riconoscere che la nuova conoscenza non è scambiabile sul mercato, così

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Giuseppe Cantarano

come il potere che ne deriva. Il potere, in sostanza, risulterà determinato da molteplici risorse, non soltanto finanziarie, ma anche culturali e sociali, oggi assai diversamente distribuite. «Chi non sa» è destinato a rimanere escluso dal processo di apprendimento non meno che dalle scelte politiche, relegato ai margini della rete dalla indisponibilità dei mezzi per accedervi e, ancor più, per gestirla, col rischio di vedersi relegato nella zona d’ombra della eterogestione della propria libertà. Il che può rappresentare, come alcuni hanno paventato (Ostellino), la fine stessa della democrazia liberale così come sinora l'abbiamo conosciuta o, forse, la fine della stessa politica come contrapposizione e competizione tra differenti sistemi di valori e diversi modelli di organizzazione sociale. Internet si rivelerà un'opportunità solo a condizione che si facciano ancora molti investimenti nello sviluppo dei processi di apprendimento, nella traducibilità dei linguaggi della comunicazione, nella reciproca riconoscibilità della pluralità di identità che popolano la rete: a condizione che si sia immessi in un processo di formazione e preparazione “culturale” adeguata al “mezzo” che si deve utilizzare. Internet è lo strumento e l'occasione perché ciò avvenga, ma presenta due limiti di cui dobbiamo essere consapevoli: il primo è che, in quanto medium, non ha in sé la soluzione del problema, anche politico, del suo utilizzo; il secondo è che, in quanto realtà policentrica e diffusa, non esiste un solo centro decisore, una sola autorità in grado di orientare il «corretto» uso del web. Perché questo possa infine divenire compiutamente il millennio della comunicazione - e di una comunicazione politicamente corretta – la disponibilità delle tecnologie non basta. Devono svilupparsi di conserva le capacità d'uso, le conoscenze e le disposizioni soggettive. Devono crearsi le condizioni per pensare la comunicazione come un agire umano finalizzato all'inclusione,

all'accoglienza, al discorso comune, al confronto per la gestione consapevole di sistemi sociali condivisi, e pure aperti alla pluralità e alla diversità. Solo così internet, con la complessa configurazione che lo sorregge, riesce in politica a non restare lo strumento di una vaga utopia scarsamente utile per l’instaurazione di una società concretamente “democratica”, ma diventa la via obbligata per ogni progetto politico che voglia oggi rendere la democrazia più partecipativa al processo di modernizzazione della società in accelerata trasformazione. In questo modo si crea un terreno di equilibrio fertile tra tecnica comunicativa avanzata e sistemi di valori, utili quest’ultimi per evitare la deriva già in atto della politica verso le due forme più perniciose del suo attuale cammino: populismo e antipolitica.

Giuseppe Cantarano Norberto Bobbio

Sono trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Norberto Bobbio. E in questi dieci anni ne abbiamo sentito davvero la mancanza. E’ mancato alla cultura – non solo - italiana. E alla politica. Ci è mancato – e ci manca – il suo razionalismo tagliente. Acuminato, come quel celebre rasoio di Ockam. Un razionalismo che, tuttavia, ha sempre saputo stare alla larga dal “fanatismo del disincanto”. Proprio di certe versioni ideologiche dell’Illuminismo. A lui molto caro. Ci è mancata – e ci manca – la sua passione civile. Ci è mancato – e ci manca – il “tormento” del suo dubbio. Sebbene egli abbia serenamente confessato – nell’Autobiografia del 1997 curata da Alberto Papuzzi – che le opinioni dell’intellettuale non esercitano nessuna influenza sull’agire politico. La politica – egli ammetteva, forse un po’ rassegnato e amareggiato – la fanno i politici di professione. Non gli intellettuali. Poiché i politici hanno il dovere della “scelta”. Della “decisione”.

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Norberto Bobbio

Mentre il mestiere degli intellettuali è quello di alimentare, fomentare il “dubbio”. Come suona il titolo di un suo libro del 1993 Il dubbio e la scelta dedicato agli intellettuali. E al loro rapporto con la politica. Un libro che non ha avuto quella risonanza che avreb-be, invece, meritato. Perché era un libro dove, il filosofo tori-nese, traeva un po’ il bilancio della sua vita. Intellettuale e politica. Ma ascoltiamolo, il passaggio cruciale del suo ragionamento: «La discussione sui rapporti fra politica e cultura – egli osser-vava – negli anni Cinquanta, con Galvano Della Volpe e con lo stesso Togliatti, produsse forse qualche effetto nella battaglia delle idee. Ma si tratta di dimensioni del tutto diverse: una cosa è la storia delle idee, una cosa è la politica reale. Sono due mondi diversi – precisava – che non si sovrappongono né si incrociano, ma procedono l’uno accanto all’altro, senza quasi mai incontrarsi. Di una cosa sono assolutamente certo - conclu-deva - : il potere ideo-logico, l’unico potere che hanno gli intellettuali, conta molto meno del potere che possono esercitare ed esercitano di fatto coloro che partecipano in maniera diretta alla vita politica». Credo che debba essere collocata in questa “impietosa” riflessione autobiografica la celebre - e “scomoda” intervista che Bobbio rilasciò, nel novembre del 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del “Foglio”. Davvero illuminante. E a suo modo esemplificativa. Per farci capire il “rapporto-non rapporto” - diciamo pure così - tra cultura, tra intellettuali e politica. Intervista che allora suscitò un vespaio di reazioni. E di polemiche roventi.

Perché in quella sorprendente, imbarazzante - e del tutto inattesa intervista l’azionista Bobbio ammise le proprie responsabilità, circa il “suo” giovanile fascismo. Ammise la propria “debolezza” intellettuale. E la propria “doppiezza” politica. In quanto dichiarò di essere stato «fascista con i fascisti e antifascista con gli antifascisti». E il fatto che in quella fase tutti, o quasi tutti, gli intellettuali italiani avessero condiviso quella “sua” doppiezza, non poteva costituire certo nessuna attenuante giustificativa, egli severamente osservava. Perché vi fu - come il suo maestro Gioele Solari – chi ebbe coraggio. E non si arrese, non si piegò vilmente al fascismo. Una verità scomoda, quella che allora Bobbio avvertì il bisogno di “denunciare”. E solo un grande intellettuale con il “gusto della verità” - come lui avrebbe potuto fare quella pubblica confessione. Che certamente è rivelatrice della “grigia” biografia di una nazione, come è stato pur detto. Ma è altrettanto rivelatrice della distanza incolma-bile che separa la cultura dalla politica. E’ altrettanto rivelatrice – come ammet-teva Bobbio – dell’intraducibilità dei due diversi linguaggi. Che non sono sovrapponibili. E quando nella storia – piò o meno recente – tali linguaggi hanno tentato sciaguratamente di intrecciarsi, non è emerso nulla di buono. Anzi. Penso al rapporto controverso dell’attualismo gentiliano con il fascismo, ad esempio. O al rapporto ancora più controverso, se vogliamo - tra Heidegger e il nazismo. Ciò vuol dire che tra cultura e politica non debbano gettarsi ponti? Niente affatto. Al contrario. E Bobbio non

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Giuseppe Cantarano

intendeva affermare questo. Ciò che Perché la nostra vera casa è quella del invece intendeva asserire – con Padre. La nostra vera casa è quella – nel disincantato realismo, avrebbe detto sobrio, prosaico lessico del laico Bobbio Max Weber - è che la prassi politica non – di un mondo migliore. Di una società, in è mai l’esito, quasi fisiologico, della altri termini, meno diseguale. Come riflessione teorica. Lo ribadisce in De ricordò alla “sua” sinistra. In quel Senectude. Mai l’idea può pretendere di prezioso libro Destra e sinistra. Ragioni e tradursi meccanicamente – e intera- significati di una distinzione politica – che mente – in prassi politica. E questo è stato recentemente riedito con una “assioma” – diciamo così – è tanto più “aggiornata” prefazione di Matteo Renzi. evidente e cogente nel pluralismo dei Al di là delle affrettate quanto ingenue regimi democratici. Studiati e analizzati a liquidazioni postmoderne e postfondo – e per tutta la vita – dal filosofo politiche, in quel libro Bobbio ribadiva – torinese. Il ricorrente – e un po’ stucche- con la lucidità analitica che lo ha sempre vole – “disagio degli contraddistinto – le intellettuali” non è ragioni, direi quasi forse dovuto alla prima E’ chiaro che l’ideale esistenziali, registrazione ancora che politicosistematica di questa della totale libertà non culturali – di una dicoimpossibile intradu- esiste in nessuna società. tomia. Di una distincibilità? Di questa zione capitale. Che la Insomma, ci sono irrealizzabile convernostra sinistra – postsione? Non fosse altro ideologica, come si dice maggiori e minori perché il momento ne– non dovrebbe mai cessario della prassi è approssimazioni a questa dimenticare. E cioè, contenuto già in ogni che «l’uomo di sinistra riflessione teorica. Così idea della società libera. è colui che considera come il respiro teorico ciò che gli uomini è già sempre presente Norberto Bobbio hanno in comune fra in ogni agire pratico. Ce loro piuttosto che lo ha insegnato una volta per tutte quello che li divide, e, per l’uomo di Aristo-tele. Ce lo ha ripetuto destra, al contrario, ciò che differenzia Machiavelli. E ce lo ha ricordato Bobbio. un uomo dall’altro è anche politiEcco perché Bobbio ci manca davvero camente più rilevante di quello che li tanto. Ci manca soprattutto nella unisce, la differenza fra destra e sinistra convulsa fase politica e culturale che si rivela in ciò che per la prima stiamo vivendo. Oggi il suo pensiero - il l’eguaglianza è la regola e la tormento del suo appassionato e, nello diseguaglianza l’eccezione. Ne consegue stesso tempo, disincantato dubbio - che qualsiasi forma di diseguaglianza sarebbe davvero “inattuale”. Perché in deve essere in qualche modo giustificata, una società dove sembra essersi persa mentre per l’uomo di destra vale definitivamente la ragionevole capacità esattamente il contrario, ossia che la di distinguere, il suo pensiero critico diseguaglianza è la regola e, se un sarebbe stato in esilio. Quel sentirsi in rapporto di eguaglianza fra diversi deve esilio in patria, di cui parlava san Paolo, essere accolto, deve essere giustificato». riferendosi ai cristiani, per capirci. Caro Professore, non smettere di Essere, stare nel mondo. In questo ricordarci – di ricordare soprattutto alla secolo. Vivere nell’età del Figlio. Ma “tua” sinistra – la passione ideale per perfettamente consapevoli che noi non poter continuare a lottare politicamente apparteniamo a questo mondo. Non ci – e culturalmente – per una società sentiamo a nostro agio in questa casa. migliore. 8


COMMENTO

Giovanni Jannuzzi

Lettera aperta a Giorgio Napolitano

Caro Presidente, sono quasi trent’anni che ho il privilegio di conoscerLa, trent’anni di crescente rispetto e, se me lo consente, affetto, da Lei ripagati con una costante benevolenza. Permetta ora che Le scriva queste parole. Uno degli aspetti più disgustosi di questi ultimi mesi nel nostro infelice Paese sta negli attacchi contro la Sua persona da parte di quello che c’è di peggio nella politica italiana. Brutti gli insulti, imperdonabile il silenzio di chi pur dovrebbe levarsi a difenderLa alto e forte, a cominciare dal partito da cui Lei proviene e che ha tanto onorato. Perché tanto livore? Perché Lei è l’argine che tiene unito il Paese e gli permette di “tenere” contro le previsioni e le speranze dei clown di vario pelo che hanno tutto da guadagnare dal “tanto peggio tanto meglio”. Venendo da Grillo, la cosa non stupisce: sin dall’inizio sappiamo che vive di odio e di turpiloquio, nient’altro. Per la Lega razzista e antitaliana, Lei è il simbolo di quell’unione nazionale che sta di traverso alle follie separatiste. E Berlusconi? Qui il discorso si fa più complesso e più triste: non è lo stesso uomo che corse al Quirinale chiedendoLe di accettare la rielezione (il pericolo, allora, era Rodotà), lo stesso che ha applaudito a piene mani quando Lei ha bloccato il dissennato tentativo bersaniano di una maggioranza PD-5 Stelle e fatto da padre al Governo delle larghe intese? Le condizioni di base da allora non sono mutate: la situazione economica continua a richiedere stabilità ed incisività dell’azione di governo; il pericolo per la democrazia rappresentato dalle orde grilline è tuttora vivo e continua a imporre la collaborazione tra

forze responsabili ed “europee”. Ma nel frattempo sono avvenute a Berlusconi cose che erano in realtà prevedibili: due condanne penali, di cui una definitiva, e la sua inevitabile conseguenza, la decadenza da Senatore. C’è da chiedersi: quando nella primavera del 2013 il Cavaliere si comportava da statista responsabile, sapeva che queste cose sarebbero potute avvenire? O pensava che l’appoggio a Lei e a Letta, dato per chiara convenienza propria, potesse essere barattato contro la benevolenza dei giudici o una specie di indulgenza plenaria da parte Sua? O con la connivenza del PD nell’evitargli la perdita del seggio a Palazzo Madama? Se così è, vuol dire che il Cavaliere vive in un mondo completamente staccato dalla realtà, completamente alieno al principio di legalità e, beninteso, dalla considerazione di ogni interesse che non sia il proprio. Perché, se c’è nelle azioni umane una qualche logica, la sola spiegazione all’accanimento nei Suoi confronti sta, dapprima, nel livore per non aver Lei offerto spontaneamente una grazia che avrebbe sollevato l’indignazione del 70% degli italiani, e ora nella Sua giusta resistenza a nuove elezioni, dalle quali il Cavaliere sogna una rivalsa contro il destino cinico e baro: un’amnistia che lo lavi dei suoi peccati, l’elezione di un Presidente “amico” che azzeri le sue condanne, passate, presenti e future. Non sapendo cos’altro inventarsi – essendo le ciance di impeachment manifestamente sballate – i clown hanno partorito, in commovente sintonia, l’idea geniale di boicottare il Suo discorso di fine anno. A queste insanie, non si sa se più grottesche o infantili, ha risposto a

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Giovanni Jannuzzi

dovere la gente: quasi 10 milioni di persone l’hanno ascoltata, in aumento rispetto allo scorso anno. Per i clown, una figuraccia! Per Lei, la conferma che la gente continua a seguirLa e appoggiarLa. Nel Suo discorso, Lei ha dato ancora una volta una lezione di correttezza, dignità e senso dello Stato, non rispondendo a insulti e calunnie, ma avvertendo che non se ne lascerà

presente, nel dirlo, l’esempio di Papa Ratzinger). È giusto così, e nessun Suo amico vorrebbe veder prolungata oltre il necessario una fatica così ingrata. Mi permetta solo di augurare, non a Lei ma all’Italia, che le condizioni per il Suo addio non maturino troppo presto. Abbiamo ancora bisogno di Lei, della Sua saggezza, del suo amore per il Paese. Non abbia fretta di andarsene. E se, nel Suo tono, è parso di riscontrare

Cambio della Guardia al Quirinale

condizionare. E una specifica lezione l’ha impartita a chi ciancia di una Sua perversa brama di potere (loro, che lontano dalle poltrone fremono e appassiscono) ricordando che non intende restare al Quirinale più del tempo necessario. Tre condizioni, Lei ha detto, per la Sua permanenza in un tempo comunque non lungo: che serva alle istituzioni e al Paese, che sia possibile e che le forze non le vengano a mancare (doveva aver

qualche venatura di amarezza, pur comprensibile, mi permetta di dirLe che non debbono essere le miserabili vociferazioni di nani, clown e ballerine ad alterare la serenità che Le deve venire dal sentimento del dovere compiuto e dall’affetto della maggioranza degli Italiani. Guardi bene chi sono i Suoi critici, che collezione di farneticanti. E stia sicuro: loro passeranno, Lei resterà nella Storia e nella gratitudine del Paese.

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OSSERVATORIO

Salvatore Nasti

Fabbrica di una dittatura: Brasile 1964-1985

Recentemente è stato ritrovato, restaurato e reso pubblico uno dei primi lavori del Maestro Luchino Visconti, un documentario sulla strage nazifascista delle Fosse Ardeatine a Roma nel 1944 e del processo che venne fatto ai responsabili italiani dell’eccidio. Quello fu uno di tanti episodi caratteristici di una dittatura che, come sempre, non sa trovare argomenti validi per giustificare sé stessa. La somiglianza con quanto vissuto in Italia con il fascismo ci fa ritenere doveroso ricordare per grandi linee quanto vissuto, ad esempio, dal popolo brasiliano qualche anno fa, dal 1964 al 1985. A spingerci a tornare a quegli anni sta la ricorrenza dei cinquant’anni dall’inizio della dittatura militare in Brasile, un Paese interessante per molti versi e che da noi tutti ritengono di conoscere ma che in realtà conoscono poco e male. La sua lontananza e le nuove tecnologie fanno sì che ci giungano immagini attuali, senza però dirci nulla del suo passato anche recente.

Premessa generale E’ tipico di re e imperatori dichiarare il possesso di terre conquistate militarmente e di distribuirle a persone fidate per mantenere il potere sui nuovi sudditi. Ma molte terre restano così inutilizzate ed incolte, un po’ per incapacità nell’organizzare il lavoro e molto di più per puro disinteresse, senza concederle alla popolazione per poterle lavorare, generando così, mancando altre risorse, una diffusissima povertà. Con la scoperta dell’America iniziarono le esplorazioni finanziate da Spagna e Portogallo, Paesi che

immediatamente individuarono le potenzialità dei nuovi territori e già nel 1494 firmarono il primo Trattato per la loro spartizione. Il territorio che in seguito venne chiamato Brasile fu attribuito al Portogallo. Anche se successivamente vide l’apertura di colonie francesi, olandesi e inglesi, sempre alta è rimasta l’influenza dei portoghesi e per questa ragione la lingua assunta in Brasile è il portoghese, sia pure con alcune significative differenze; un fenomeno vissuto per altre lingue dei dominatori: l’inglese negli USA e lo spagnolo in America Latina. In Brasile, paese praticamente vergine, si riversarono milioni di europei in cerca di lavoro; e con tanta terra a disposizione ci si rese conto che essa era l’ideale per la coltivazione di canna da zucchero e cotone. Il clima, però, non era molto adatto agli europei; così iniziò l’importazione di schiavi dall’Africa per utilizzarli come manodopera a bassissimo costo. L’abolizione, nel 1888, della schiavitù in Brasile e la contemporanea situazione di guerre e povertà in Europa, generò varie ondate migratorie soprattutto dall’Italia e dalla Germania, ma anche dall’Oriente, di uomini e donne abituati a lavorare la terra. Non a caso degli attuali 21 milioni di abitanti di São Paulo, la più grande città del Brasile e capitale finanziaria del Paese, un terzo sono di origine italiana. Passato, nel tempo, da colonia a Stato indipendente - prima monarchico e poi repubblicano - con enormi estensioni di terra nelle mani di pochissime persone, il problema del latifondo e la progressiva crisi economica dell’inizio del XX secolo causò un fortissimo calo del prezzo del

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Salvatore Nasti

caffè, provocando una massiccia mancanza di lavoro. In Brasile tale fenomeno assunse proporzioni molto gravi portando alle legittime rivendicazioni dei cosiddetti sem terra, senza terra.

Un precedente pericoloso Nel 1959, in altra parte del continente americano, a Cuba Fidel Castro e Che Guevara avevano spodestato il regime filo americano di Batista ed avevano chiesto l’aiuto politico ed economico ai Paesi comunisti. Crearono in questo modo, in piena Guerra fredda, una piccolissima enclave comunista in America centrale, a poca distanza dalle coste degli Stati Uniti. Fu tentato uno sbarco di esuli cubani (appoggiati dagli USA) nella Baia dei Porci che, però, non ebbe successo: gli americani ritenevano che il popolo cubano avrebbe aiutato l’insurrezione contro Fidel Castro, ma ottennero invece l’effetto contrario.

latifondisti ed era vista dagli USA come un pericolo di espansione di una economia di tipo comunista in America latina dove in molti Paesi già esercitavano indirettamente il potere attraverso l’imposizione di governi fantoccio per ottenere concessioni a prezzi estremamente ed esageratamente “convenienti”: è utile ricordare, al proposito, le reazioni nel Cile di Allende, nell’Argentina di Peron, nel Nicaragua dei sandinisti.

Fabbrica della dittatura L’Ambasciatore americano in Brasile iniziò l’invio segreto di rapporti scritti che sottolineavano un pericolo per i propri interessi (risorse minerarie: soprattutto oro e diamanti; foresta dell’Amazzonia: legname e materie prime per l’industria farmaceutica; petrolio e molto altro) sollecitando un intervento per destituire Goulart. Il Presidente John João Goulart Fitzg erald Riforma agraria Kennedy gli fornì Quando in Brasile scoprirono che la tutto l’appoggio possibile, appoggio che proprietà di molte terre era stata continuò con Lindon Johnsson dopo il ottenuta sì legalmente ma attraverso la suo assassinio nel 1963. presentazione di documenti falsi (il Documenti filmati ufficiali, pubblicati cosiddetto grilagem), lo Stato ne assunse recentemente anche in reti televisive la proprietà, anche espropriando quelle brasiliane, testimoniano la fattiva terre che risultavano coltivabili ma partecipazione degli USA al colpo di improduttive. stato del 1964: vi si vedono e ascoltano i João Goulart, divenuto Presidente del colloqui di Kennedy e Johnsson con il Brasile nel 1961 dopo le dimissioni di proprio ambasciatore, ammettendo la Jànio Quadros, volle dare ascolto alle falsità di fatti totalmente inventati [da richieste di coloro che volevano poter qui il titolo di questo scritto] pur di lavorare la terra e annunciò una grande danneggiare Goulart - che, detto per riforma agraria. E’ da sottolineare che chiarezza, non era affatto comunista nell'intero Brasile su 850 milioni di ettari tanto la verità sarebbe eventualmente di terra, ben 173 sono di proprietà apparsa ben dopo essere riusciti a pubblica e, di questi, circa 96 milioni si liberarsi di lui. E’ singolare che, tanto per trovano nei 5 stati dell’Amazzonia. citarne uno, O día que durou 21 anos (Il L’espropriazione toglieva potere ai giorno che durò 21 anni), un documentario 12


Fabbrica di una dittatura: Brasile 1964-1985

che testimonia con chiarezza quel perpetrata contro il popolo brasiliano, periodo, ancora oggi viene tolto dal web cominciò ad aiutare l’opposizione con pretestuose ragioni di copyright. Chi costretta alla clandestinità. Moltissimi desiderasse assistervi deve solo essere sacerdoti furono arrestati e torturati paziente cercandolo periodicamente, ché fisicamente e psicologicamente; e chi c’è sempre qualcuno che testardamente riuscì a sopravvivere rimase talmente lo ripubblica. sconvolto da volersi suicidare per finirla Il 31 marzo 1964, approfittando di un con gli incancellabili ricordi di quei viaggio personale di Goulart al sud del momenti devastanti. Brasile, iniziò la presa del potere da parte «Gli occhi di don Renzo Rossi hanno dei militari brasiliani, organizzati da visto ciò che a nessuno era concesso emissari USA. Il copione prevede, come vedere. Nel 1970, per una strana sempre, la creazione di false coincidenza del destino, la sua vita si Organizzazioni sociali che in realtà sono incrociò con quella dei prigionieri di supporto all’opposizione locale, invio a politici che affollavano le carceri puro scopo brasiliane della intimidatorio di navi dittatura militare. e aerei per presunte Don Rossi prese esercitazioni militari parte a una delle nei pressi del Paese pagine più preso di mira, inquietanti e imposizione di drammatiche propri uomini alla della storia del direzione di enti Paese carioca. che in realtà Egli c’era, quando fungono da basi frei Tito Alencar di appoggio in da Lima veniva loco. E così t o r t u r a t o accadde anche in selvag giamente: Pau-de-arara Brasile. Da quel “Per tre giorni momento il popolo brasiliano visse uno appeso al ‘pau-de-arara’ [il trespolo per dei periodi più neri della propria storia: pappagalli, NdR] – scriverà più tardi furono aboliti i diritti costituzionali, l’amico e compagno di prigionia frei arrestati gli oppositori del nuovo Betto (...) – o seduto sulla ‘sedia del regime, alcuni furono esiliati, altri drago’, fatta di placche metalliche e fili, torturati in modo indicibile; ed i primi ricevette scosse elettriche alla testa, ai presi di mira furono soprattutto tendini dei piedi e alle orecchie. Gli intellettuali e artisti. E’ un susseguirsi di dettero legnate sulla schiena, sul petto e episodi accaduti, prima e dopo, in tutto il sulle gambe, gonfiarono le sue mani con mondo. Il Brasile divenne così teatro di staffilate, lo vestirono di paramenti e gli una rappresentazione a cui l’umanità ha fecero aprire la bocca ‘per ricevere l’ostia già assistito in ogni tempo ed in ogni consacrata’: scariche elettriche sulla luogo, quello di una dittatura feroce, con bocca”. assurde violenze di ogni tipo: stupri di Fu il dramma dei nove domenicani massa, torture, sequestri, assassinii, accusati di flirtare con la sinistra del devastazioni. leader Carlos Marighella, raccontato da frei Betto nel libro Dai sotterranei della L’atteggiamento della Chiesa storia (Mondadori, 1971) e in Battesimo di La Chiesa inizialmente diede appoggio sangue. I domenicani e la morte di Carlos al golpe. Ma presto la parte migliore di Marighella (Emi, 1983 ora rieditato da essa, comprendendo l’ingiustizia Sperling & Kupfer). Don Renzo Rossi è 13


Salvatore Nasti

un sacerdote fiorentino (fu amico di don Milani con il quale bisticciò in varie circostanze) e missionario in Brasile dal 1965. Su di lui, un ex prigioniero politico, Emiliano Josè, ha da poco scritto un libro, tradotto in italiano per la San Paolo con il titolo Don Renzo Rossi. Un prete fiorentino nelle carceri del Brasile (prefazione di frei Betto e Biagi).»1. E’ cronaca recente la testimonianza di uno dei militari che parteciparono ai ventuno anni di dittatura, Paulo Malhães, che ha tranquillamente dichiarata, fra l’altro, la propria preferenza nel torturare in particolare donne e omosessuali. «Un mese fa, davanti alla "Commissione nazionale per la verità", aveva confessato dopo quasi 50 anni. Aveva raccontato, anche con un certo distacco, di aver torturato e ucciso decine di prigionieri politici durante il periodo della dittatura militare (1964-1985). Aveva spiegato che a quei cittadini brasiliani anche solo sospettati di idee pericolose, una volta uccisi, venivano estratti i denti e tagliate le dita, perché non fossero identificati, e che i loro corpi venivano poi gettati nei fiumi.»2.

Provoca molta tristezza il dover forzatamente prendere atto che la natura umana è fatta anche di storie come queste, che si ripetono, come precedentemente detto, in ogni luogo ed in ogni tempo. Ed è doveroso ricordarli affinché, possibilmente, non abbiano a ripetersi.

1 (dal sito web “Mosaico di Pace”, aprile 2004, Brasile, intervista di Francesco Comina a don Renzo Rossi). [http://www.peacelink.it/mosaico /a/4292.html] 2 http://www.repubblica.it/esteri/2014/04 /26/news/brasile_ucciso_ex_ufficiale_carnefice _in_dittatura_militare-84557045/ (Consulenza sulle fonti brasiliane di Ligia Medeiros)

Protesta contro la dittatura in Brasile

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UOMINI E IDEE

Gerardo Bianco, Giovanni Sabbatucci, Enzo Gattegna, Antonio Patuelli, Ester Capuzzo

Luigi Luzzatti Presidente del Consiglio

Il 6 febbraio 2014 presso la Sala delle Colonne di Palazzo Marini della Camera dei Deputati ha avuto luogo la presentazione del libro Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio.

Gerardo Bianco

Svolgerò qualche considerazione su questa personalità che è diventata per me, a mano a mano che leggevo il libro, molto intrigante. Esprimo innanzitutto la nostra gratitudine all’Istituto di Scienze e Lettere del Veneto per aver portato avanti ricerche di questo genere. Sotto molti aspetti è importante ritornare su figure centrali del Risorgimento nel momento in cui sta emergendo una certa storiografia antirisorgimentale, perfino filo borbonica. Approfondire, quindi, personalità come Luigi Luzzatti, che sono state nell’epoca risorgimentale decisive, ma che non sempre sono state considerate dalla storiografia per il ruolo rilevante che hanno avuto, è indubbiamente un contributo importante al chiarimento della Storia dell’Italia. In un momento come l’attuale, nel quale lo stesso Risorgimento è messo in discussione, indagare sulla passione per l’Italia unita

rappresenta un contributo prezioso. In questo mio breve intervento sfiorerò soltanto la figura poliedrica di Luigi Luzzatti, figura fondamentale nella politica economica e sociale fra l’800 e il ‘900. Per avere un quadro complessivo della personalità di Luzzatti consiglio di leggere il bel profilo che Ballini e Pecorari hanno tracciato nel Dizionario biografico degli italiani. Mi limito quindi a qualche considerazione su questi cinque saggi che ho trovato davvero coinvolgenti e ricostruttivi di una fase storica spesso ignorata. Sono stato particolarmente colpito da alcuni dati. È chiaro che bisogna evitare le cosiddette attualizzazioni improprie, per cercare di ben individuare quello che è stato il momento storico di Luzzatti, ma non è, a mio parere improprio, compararlo con il tempo attuale. Può apparire un azzardo, ma è una tentazione alla quale non riesco a sottrarmi. Luigi Luzzatti, divenuto Presidente del Consiglio si trova ad affrontare tre argomenti che sono ritornati pari pari nella situazione attuale. Primo argomento: la riforma della legge elettorale; secondo argomento, la riforma del Senato di cui oggi tanto si discute; terzo argomento, l'eterno problema che Luzzatti affronta con grande competenza che è quello del debito pubblico. Su questa tematica Luzzatti era particolarmente attrezzato e da Ministro del Tesoro in numerosi Governi seppe

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Gerardo Bianco

affrontare con grande competenza la questione. È interessante a questo punto, sia pure di sfuggita, sottolineare come nella sua visione siano contemperati i principi di corretta economia con quelli della solidarietà sociale. Fanno capo a lui iniziative che vanno dal credito bancario alle case popolari aprendo così una fase nuova nella politica sociale dei governi italiani. Ritornando, per il momento, sulla cosiddetta attualità delle tematiche affrontate da Luzzatti, come Presidente del Consiglio, credo che sia opportuno sottolineare come questi problemi venissero affrontati all’ epoca con un ottica completamente diversa da quella attuale. Il problema delle riforma elettorale era sul tappeto da molto tempo. La propensione di molti politici per il cambiamento dall’uninominale al proporzionale nasceva dalla consapevolezza di dover inserire nel sistema politico italiano ceti sostanzialmente esclusi che potevano diventare massa di manovra contro il sistema politico. Era una classe dirigente che considerava l’azione politica come strumento di inclusione nel sistema istituzionale del Paese. È quanto è avvenuto, appunto, con il propor-zionale nell’immediato secondo dopo guerra. Questa iniziale propensione di Luzzatti verso il proporzionale fu poi in parte modificata.

L’altro problema di grande importanza affrontato da Luigi Luzzatti era la spinosa questione della valorizzazione del Senato. Si può anche su questo punto misurare la distanza concettuale tra politici dell’età risorgimentale, che intendevano rafforzare la Camera alta, rispetto all’attuale tendenza che mira a renderne pressoché insignificante il ruolo di garanzia. La terza questione molto complessa, quella del debito pubblico, fu affrontata da Luzzatti con autorevolezza anche quando era senza incarichi di governo. A lui fu affidato il compito di negoziare con la Francia, un paese che egli amava. Fu Luigi Luzzatti a rinegoziare i tassi di interesse sul debito pubblico riducendo così il deficit del Paese. Sembra un anticipo dei nostri tempi affrontati da Luzzatti con rigore e lungimiranza. Ecco perché a me sembra particolarmente opportuno che vengano realizzate queste ricognizioni storiche, perché aiutano a capire anche il nostro tempo e perfino a suggerire le soluzioni più opportune per i problemi aperti. Luigi Luzzatti aveva una visione europea delle problematiche e anche quando l’Italia aderì alla “Triplice” continuò a considerare fondamentale il rapporto con la Francia. Ciò gli guadagnò perfino la nomina come membro dell’Institut de France al posto rimasto

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Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio

vacante di un grande personaggio del firmamento europeo Willson Gladstone. Luigi Luzzatti è indubbiamente una figura di grande spessore non solo politico e culturale ma direi anche sotto il profilo della spiritualità. Non mi sentirei di escludere che questa sua personalità provenisse dalla sua formazione famigliare, che come è noto era di origine ebrea. V’era in lui una ricchezza, una visione per dire cosi universale dei problemi, una competenza specifica, un profondo senso delle questioni aperte che rendono la sua personalità tra le più intriganti dell’età risorgimentale. In quella prima metà del secolo scorso affioravano anche nodi di spiritualità anche religiosa alla quale Luzzatti non rimase estraneo. Basti pensare alla sua attenzione per il rapporto tra etica ed economia, anche questo un tema che è ritornato, in modo perfino fragoroso, nel nostro tempo. Il primo ‘900 fu attraversato da quella corrente spirituale che prese il nome di modernismo e che coinvolse grandi personalità del mondo cattolico. Di questo mondo Luigi Luzzatti fu interlocutore. Di grande interesse è per esempio il suo rapporto con il vescovo di Bergamo Bonomelli. Immagino che anche con Antonio Fogazzaro egli abbia avuto scambi intellettuali di quel filone che raccoglieva anche influssi spirituali e di provenienza polacca su cui bisognerebbe più profondamente indagare. Una spia interessante del suo interessamento per i movimenti religiosi è testimoniata dallo stretto rapporto con lo storico protestante P. Sabatiér, il grande biografo di San Francesco d'Assisi. Mi ha molto colpito nel saggio finale del libro la rievocazione della sua apertura alla cultura d'Oriente quasi che andasse cercando un modo per fondare teoricamente il problema della tolleranza religiosa, di creare cioè una dottrina e non soltanto un comportamento concreto e pratico che consentisse il rispetto di tutte le religioni. A questo obiettivo rispondeva anche la formula in qualche modo diversa da quella di Cavour, sul rapporto tra Stato e Chiesa che, se non vado errato

respingeva, il cosiddetto giurisdizionalismo allora dominante. L’attenzione di Luzzatti per la religione e la cultura dell'Oriente conferma la sua lungimiranza. Quella problematica è infatti quanto mai attuale. Proprio oggi, sfogliando i giornali leggo che mentre stiamo qui riuniti, a Roma nel centro dell’ “Unione induista italiana” nel Lungotevere della vittoria, si svolge un grande confronto fra il cristianesimo e l'induismo. Come vedete Vito Mancuso è stato preceduto da Luigi Luzzatti. Non voglio ancora abusare del vostro tempo, voglio solo ribadire che Luigi Luzzatti ha in molti modi segnato un epoca, anche raccontandola. I suoi scritti, le sue memorie che voi andate raccogliendo, studiando e approfondendo sono una miniera di notizie che danno anche il senso della acutezza del suo intuito politico. Per esempio mi ha colpito molto una sottolineatura di Chabod, il quale recupera moltissimo dalle memorie di Luzzatti, sul famoso incontro tra i rappresentanti della Prussia e della Francia. I consiglieri del re sabaudo avevano previsto la prevalenza militare della Francia sulla Prussia, mentre Luzzatti e Sella avevano intuito che la forza militare e l'organizzazione della Prussia avrebbe avuto il sopravvento sulla Francia che, ripeto, Luzzatti amava. Rievoco questa conversazione viene raccontato anche un aneddoto sulla reazione del Re che in dialetto piemontese si lamentò con Luzzatti e Sella perché non l’avevano convinto del successo prussiano poichè così “avrebbe potuto guadagnarci qualcosa”. Chabod utilizza ampiamente le memorie di Luzzatti che il grande storico ritiene evidentemente oggettivo e valido come testimonianza. Vi sono nel libro di Chabod oltre quaranta citazioni di Luzzatti. Voglio ancora una volta ribadire il grande interesse, che questo personaggio suscita per la sua intellettuale e, direi, cultura “ecumenica”. A ripercorrere la sua biografia si riscontra sempre una

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Gerardo Bianco

grande passione, anche sulle tematiche economiche. Lo ricorda Croce facendo una citazione di Luzzatti nella sua Storia d’Italia dal 1870 al 1915. Chiudo con la ripresa di un discorso molto significativo che Luzzatti fece il 23 novembre 1900 e che racchiude in qualche maniera la sintesi del suo modo di concepire le cose. All'epoca i resocontisti dei parlamenti sottolineavano i passaggi scrivendo vivissimi applausi, molte congratulazioni. Il discorso di Luzzatti mirava a superare sia l’individualismo sia il collettivismo mirando all’equità e per quanto possibile alla conciliazione degli interessi dei lavoratori con quelli degli imprenditori. Il discorso fu appunto ampiamente apprezzato. Luigi Luzzatti tentò di portare avanti questo disegno e forse cercò di realizzarlo in una corrente politica che non trovò però forza di rinnovarsi e di cambiare perché rimase sempre all’interno di una destra impotente a realizzare una conti-nua, sistematica e coerente azione riformatrice. L’orientamento di Luzzatti da Minghetti a Giolitti, ebbe questa ispirazione. Anche se la storiografia non lo ha collocato in primissimo piano egli resta una figura centrale della storia risorgimentale nella quale operavano uomini di grande autorità come appunto Minghetti, Giolitti, Sonnino, Nitti, ed altri. Egli operò con grande serenità e dignità. Forse ebbe perfino qualche fiducia nel fascismo, ritenendo potesse consentire una stabilizzazione politica dinanzi all’ondata rivoluzionaria. Sperò quindi in un rafforzamento dello Stato liberale. Sarebbe sicuramente rimasto deluso se avesse potuto sperimentare il fascismo in tutta la sua natura di partito violento che sfruttava il nazionalismo per rafforzare il suo potere antidemocratico, ma morì nel 1927 proprio negli anni in cui quel disegno totalitario si andava realizzando. Nella sua vita Luigi Luzzatti aveva cercato l’equità, la giustizia, la tolleranza, il dialogo con tutte le religioni e perfino con mondi lontani che il fascismo radicalmente contraddiceva. Egli aveva

un animo nobile e di ciò ha lasciato traccia, ripeto, a mio avviso, in modo rilevante nella storia d’Italia e questo libro che questa sera abbiamo presentato, ne recupera la grande statura.

Giovanni Sabbatucci

Fra i molti meriti di Pierluigi Ballini (coautore e co-curatore, con Paolo Pecorari, di questo volume) c’è quello di essersi occupato con una certa assiduità di un personaggio che ha avuto un ruolo importante in tutto l’arco della storia dell’Italia liberale (più o meno un sessantennio) e che è stato alquanto trascurato dagli storici. Per la verità, anche i contemporanei – non tutti, ma molti di quelli che contavano fra gli intellettuali, a cominciare da Croce e Volpe – lo trattavano con una certa sufficienza e lo prendevano un po’ in giro. Il nomignolo con cui spesso veniva chiamato (Gigione) non era solo un diminutivo di Luigi e non alludeva solo alla sua corporatura massiccia, ma richiamava anche un personaggio del teatro comico milanese: un cantante vanaglorioso ed esibizionista (da cui l’uso attuale dell’appellativo), ma alquanto sfiatato. Eppure Luzzatti aveva un curriculum più che prestigioso: segretario generale al ministero dell’Agricoltura con Minghetti (negli stessi anni in cui il suo quasi coetaneo Giolitti aveva cominciato a lavorare con Sella), deputato dal 1871 al 1921 (quando fu nominato senatore), ministro nei governi Rudinì, Sonnino e Giolitti (per pochi mesi anche con Nitti), promuove l’inchiesta industriale del 187074, è ispiratore delle tariffe doganali del ’78 e, una ventina di anni dopo, dei trattati di commercio con la Francia, infine artefice, durante il secondo governo Giolitti, della conversione della rendita: operazione quanto mai delicata e impegnativa, portata a termine con indubbio successo. E’ professore di diritto pubblico, studioso di storia delle religioni e dei rapporti Stato-Chiesa, e molto altro.

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Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio

Forse troppo. Perché alla fine nuoce alla sua immagine il suo essere eclettico, politicamente e culturalmente (persino religiosamente) trasversale. E’ ebreo, non convertito anche se lontano dalle pratiche religiose (e rivendica orgogliosamente la sua ebraicità proprio nel momento in cui avverte attorno a lui i segni di atteggiamenti antisemiti, il che gli fa onore), ma rispetta, anzi ama, il cattolicesimo e anche il buddismo e coltiva una spiritualità francescana. E’ laico e separatista in materia di rapporti Stato-Chiesa, ma ha buoni rapporti con le gerarchie ecclesiastiche (persino la “Civiltà Cattolica” non lo tratta troppo male) e viene regolarmente eletto nel suo Veneto con voti cattolici, anche ai tempi del non expedit, e molto prima del patto Gentiloni. Si colloca politicamente a destra, sempre nel solco della Destra storica (in particolare di quella di orientamento “statalista”), è il leader, assieme a Rudinì, di quella che Ballini, in un libro del 1984, ha chiamato “la destra mancata”, ossia del gruppo, piccolo ma autorevole, che si propone come erede e continuatore della prima classe dirigente dell’Italia unita; ma è molto interessato alla dimensione sociale, teorico, pioniere e sostenitore della cooperazione e del piccolo credito; e piace anche alla sinistra, che nel 1910 gli vota la fiducia (anche se poi gliela ritirerà). L’esperienza di Luzzatti a capo del governo è l’oggetto specifico, ma non esclusivo, di questo libro. Non esclusivo perché i problemi che attengono alle questioni religiose e ai rapporti Stato-Chiesa sono trattati, nei saggi di Pertici e Zambarbieri, su un arco di tempo più lungo; mentre il saggio “portante”, quello di Ballini, e quelli specifici di Riccardi sulla politica estera e di Cafarelli e Pecorari sulla marina commerciale si concentrano, come suggerisce il titolo del volume, sul 1910-1911. Ovviamente non provo nemmeno a dar conto dei moltissimi temi e dei nodi problematici che la vicenda di Luzzatti evoca e che vengono puntualmente affrontati nel libro. Noto solo che,

leggendo questi saggi, si resta impressionati dalla mole e dall’importanza dei problemi con cui il suo governo dovette misurarsi, pur in un periodo breve, e di relativa tranquillità. Problemi che Luzzatti affrontò con determinazione, e per lo più con successo, pur non potendo contare su una sua maggioranza (il gruppo che a lui faceva capo era ridotto a una piccola pattuglia di deputati) e dovendosi reggere su maggioranze composite e friabili com’erano quelle giolittiane e in genere quelle dell’Italia liberale. Le Convenzioni marittime, ad esempio, erano un problema che l’Italia si trascinava da anni. Così come la riforma della scuola elementare, che doveva fra l’altro riaffermare il carattere laico e statale dell’istruzione di base e renderne concreta l’obbligatorietà, sottraendola alla competenze, e alle carenze finanziarie, dei comuni: l’aver condotto in porto la legge Daneo-Credaro, anche rischiando di incrinare i suoi buoni rapporti con la Chiesa, è un merito certo non minore di Luzzatti e del suo governo. Inoltre, la politica estera (soprattutto dopo la crisi bosniaca del 1908 che aveva sollevato in Italia una ondata di nazionalismo e riportato in auge le rivendicazioni irredentiste) non cessava di rappresentare un terreno insidioso per qualsiasi governante: tanto più per Luzzatti che aveva fama di francofilo (aveva condiviso il “colpo di timone” impresso alla diplomazia italiana da Visconti Venosta dopo il ’96) e anche per questo, con scelta destinata a rivelarsi lungimirante, chiamò agli Esteri un triplicista convinto come San Giuliano. Altre questioni, fra quelle affrontate dal governo, ci riportano un po’ ai nostri tempi: è il caso delle celebrazioni del cinquantenario dell’Unità, che Luzzatti può solo impostare (si dimetterà nel marzo 1911), ma della cui buona riuscita dovrebbe condividere il merito. Si discute, anche allora, di lotta contro l’alcolismo o la vivisezione. Si affrontano catastrofi naturali (una terribile alluvione

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Renzo Gattegna

a Casamicciola, colpita ventisette anni prima dal famoso terremoto). Sul tappeto ci sono poi le grandi riforme istituzionali: la riforma del Senato tante volte ventilata (allora si trattava di riallineare funzioni e poteri delle due Camere, più che di differenziarli), che finisce però in un nulla di fatto. Infine, allora come oggi, il problema dei problemi, la riforma elettorale, su cui il ministero cade in seguito a un celebre intervento di Giolitti, che scavalca il progetto governativo proponendo di fatto il suffragio universale maschile. Cade, secondo me, per sua colpa, perché presenta un progetto che non innova in maniera visibile (se non per il voto obbligatorio, antico cavallo di battaglia di tutte le destre), allarga il suffragio in misura molto ridotta e risulta arretrato rispetto al dibattito in corso, in Italia e fuori d’Italia. Resta il fatto che, riforme istituzionali a parte, il governo Luzzatti può vantare un bilancio di tutto rispetto, in termini di cose fatte nei suoi dodici mesi di vita. E questo dovrebbe farci riflettere sul personaggio che, se non altro per competenza tecnica, era di tutto rilievo, e scontò, in vita e dopo, un pregiudizio sfavorevole. Un pregiudizio dovuto forse – come nota Roberto Pertici parlando del giudizio di Croce – all’eccessiva aderenza a una serie di schemi che oggi chiameremmo “politicamente corretti” (con l’avvertenza che il “politicamente corretto” di allora non era necessariamente di sinistra, ma certo includeva categorie come l’irenismo, l’ecumenismo, il generico progressismo, poco in linea con la dominante reazione antipositivista). Riflettere sul personaggio, ma anche sulla classe dirigente liberale, che era (non tutta naturalmente, ma almeno nei suoi personaggi di spicco) di qualità mediamente alta per cultura, apertura mentale, contatti internazionali, attenzione a quanto avveniva in Europa e nel mondo. Una classe dirigente che, non sapendo o non volendo dividersi secondo logiche anglosassoni, sapeva in compenso confrontarsi con i problemi concreti, forse meglio di quanto non si faccia oggi.

Renzo Gattegna

E’ un piacere intervenire alla presentazione di questo bel volume, Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio. Ringrazio vivamente i curatori del libro, per aver voluto raccogliere i contributi di un convegno tenutosi nell’ottobre 2011 nella Biblioteca del Senato sull’illustre uomo politico e studioso italiano. L’identità ebraica di Luzzatti non appare un dato di poco conto, nel quadro d’insieme dell’attività e degli interessi culturali dell’autorevole esponente della politica, della cultura e del dibattito pubblico del suo tempo. Da sottolineare in particolare come nell’azione e nel pensiero di Luzzatti siano centrali alcune battaglie politiche e civili costitutive degli ideali risorgimentali, e che furono al contempo particolarmente care alla minoranza ebraica. E’ noto che gli ebrei italiani aderirono e parteciparono, con entusiasmo e in numero percentualmente rilevante, al Risorgimento. “E’ esistita un'intima assonanza culturale ed ideale fra ebrei ed unità d'Italia”, ha detto la storica Anna Foa in un intervento pronunciato al congresso dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane nel dicembre 2010, al quale assistette anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Proprio in quei mesi il Paese si apprestava a entrare nel periodo di celebrazioni e festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’ Italia, evento storico che per gli ebrei ha avuto una importanza cruciale, significando l’emancipazione da discriminazioni secolari e dalla segregazione nei ghetti, con il raggiungimento dell’ agognata equiparazione con tutti gli altri cittadini di fronte alla Legge dello Stato. I lumi di civiltà, di progresso, di democrazia, di cui gli eroi risorgimentali erano portatori e depositari, furono dunque carissimi alla minoranza ebraica, che finalmente aveva l’occasione di ottenere libertà e rispetto, in uno Stato moderno che prevedesse diritti e doveri

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Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio

uguali per tutti a prescindere dall’ appartenenza religiosa, e che furono nuovamente calpestati solo pochi decenni dopo dal fascismo, con le leggi antiebraiche del 1938. Per questo, gli ebrei parteciparono - e non pochi diedero la vita - a tutte le fasi del Risorgimento italiano, dai moti del 1820-21 alla Repubblica romana alla presa di Roma del 1870, in cui com’è noto fu un ufficiale ebreo piemontese a dare l’ordine di aprire il fuoco. Mi hanno colpito proprio le pagine in cui si affrontano alcune delle tematiche fondamentali nel Risorgimento, quali per esempio la questione della laicità dello Stato, di cui Luzzatti fu un importante paladino, pur non essendo per nulla un anticlericale. Mi piace pensare che la totale assenza di dispregio per i sentimenti religiosi, pur nella rivendicazione ferma di diritti faticosamente acquisiti, derivasse anche dalla sua identità ebraica, di cui egli, pur tra non poche contraddizioni, si diceva fiero e orgoglioso. Scriveva, per esempio, che “anticlericalismo e cleri-calismo sono il prodotto psicologico della stessa deformità morale: l’intolleranza”, e che l’Italia aveva dato “l’esempio, al mondo civile, di essere egualmente lontana dai giacobini dell’intolleranza e dai reazionari del monopolio confessionale”. La cosa che colpisce, della biografia di Luzzatti, è proprio l’attenzione che egli riserva (e che, da statista, tentò di tradurre in pratica) alla vita spirituale delle persone. Una attenzione riservata non solo al cristianesimo, ma anche alle filosofie orientali, al buddismo.

All’interno della formula “religioni libere entro lo Stato sovrano”, egli agì sempre, come sottolineano gli autori, nella direzione di garantire la libertà dei cittadini, divenendo anche “appassionato cultore di storia religiosa e per abito mentale portato ad apprezzare l’alto valore della libertà di coscienza.” Come scrisse Sabatino Lopez sull’Israel, la rivista ebraica dalla quale poi derivò l’attuale Rassegna Mensile edita dall’UCEI, a un anno dalla scomparsa di Luzzatti: “quel difendere le altrui religioni, quell’esaltare la libertà dei culti, ha molto di ebraico: Israele ha sempre affermato e sostenuto il diritto e la uguaglianza di tutte le fedi.” Ma nella sua visione politica l’assonanza con la cultura e i valori ebraici non si limitano alla sola battaglia per la laicità. Sembra di scorgere, nella sua visione democratica, egalitaria e universalistica della cittadinanza, nelle sue battaglie progressiste anche se portate avanti da una posizione e con una visione politica conservatrice, alcuni elementi che nell'ebraismo sono fondanti: l'attenzione per la cultura, e l'impegno per l’elevazione culturale delle classi popolari; la battaglia per estendere il diritto di voto; il ruolo essenziale svolto nella nascita dell’Istituto Autonomo Case Popolari, e quindi l'attenzione ai più deboli, alle classi svantaggiate. Una forte attenzione per il “sociale”, connessa a un forte senso di giustizia: questi sono gli elementi guida del suo operato. Luzzatti non rinnegò mai la propria appartenenza e provenienza. Scriveva per esempio a un vescovo, agli inizi del ‘900: “io sono nato israelita e ci ritorno fie-

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Antonio Patuelli

ramente ogni volta che mi si rimprovera di esserlo”. Un concetto che ebbe modo di esprimere in molte occasioni. Anche se, come è noto, non fu mai particolarmente vicino alla vita ebraica, essendosi distaccato dalle tradizioni e avendo perseguito una pressocchè completa assimilazione già in giovane età. Una scelta, e una visione della vita e del mondo, che parte dell'ebraismo italiano non smise di rimproverargli: particolarmente taglienti risultano le critiche a più riprese mossegli da Dante Lattes, uno dei protagonisti dell'ebraismo italiano dell'epoca. Anche se alla sua scomparsa, avvenuta nel 1927, fu lo stesso Lattes a scrivere: “Fu uno dei nostri, fu un ebreo, ebbe impresso il suggello della nostra gente su tutta la sua genialità. Quando lo seppe e quando lo ignorò, quando lo affermò e quando preferì ignorarlo, ebreo nei pregi e nei difetti della sua personalità. Poco importa che gli fosse sfuggita, per le fatali vicende della sua generazione, la definizione della sua e dell'universale ebraicità...”. Una personalità di grande spessore, figlia di un tempo che vide moltissimi ebrei, sull'onda dell'entusiasmo per l'emancipazione, lasciare le proprie radici e tradizioni per abbracciare una da secoli agognata e, ai loro occhi, “completa” cittadinanza. Ma l'ebraicità della vita e delle opere di Luigi Luzzatti non si spense per questo.

Antonio Patuelli

Rendo omaggio a Luigi Luzzatti fondatore, in Italia, delle banche popolari in una chiave che è quella di una economia di mercato di alte sensibilità sociali che va fortemente riscoperta, rivalutata, in questi anni nei quali l’Italia ha vissuto e vive una lunghissima e pesante crisi economica. Anche per queste radici ottocentesche il nostro Paese ha potuto essere più marginale rispetto alle mode dell’anarcocapitalismo che oltre Oceano e oltre Manica hanno cavalcato delle tesi

profondamente diverse da quelle che fondano e sorreggono un’economia di mercato e di alte sensibilità sociali. Era il 1863 quando Luigi Luzzatti, ventiduenne, scrisse il suo famoso saggio sulla diffusione del credito e delle banche popolari: l’anno successivo, nel 1864, nacque la Banca Popolare di Lodi. E in questa storia “gli anni” non sono casuali: il 1863 è l’anno del governo Farini, con Pasolini e Minghetti Ministri; un anno significativo, di passaggio in quell’epoca di costruzione postCavouriana dell’Italia unita. Erano quelli anche gli anni della legge di Gioacchino Napoleone Pepoli sull’unificazione monetaria italiana: un’operazione che presenta straordinari elementi di interesse e che va studiata con attenzione, soprattutto oggi, che “siamo nell’euro” ma trascuriamo o sottovalutiamo le criticità e gli effetti di quanto la storia della Lira italiana ha da insegnarci anche rispetto alla monetazione pre-unitaria. Il 1863 vide quel giovanissimo ventiduenne scoprire le opportunità assommate del mercato, del risparmio, del capitalismo privato e delle forme di cooperazione e di solidarietà. Un filo logico e culturale puntuale, che lo ha accompagnato fino alla sua ultima presenza come Ministro del Tesoro negli anni Venti del Novecento. Luzzatti Ministro del Tesoro ha cavalcato e scavalcato il Secolo e la prima guerra mondiale. Per trent’anni, più Presidenti del Consiglio, soprattutto quelli di non forte solidità politica, si aggrapparono alla cultura, all’esperienza e all’economia sociale di mercato di Luzzatti per cercare di avere almeno un ancoraggio solido per le loro politiche economiche. L’incontro di Luzzatti con Marco Minghetti fu decisivo. Era ventottenne Luigi Luzzatti quando venne chiamato da Minghetti al Ministero dell’agricoltura industria e commercio come segretario generale. Ruolo quest’ultimo che all’epoca era la somma di quello che è oggi il direttore generale di un Ministero, il vice Ministro e il Sottosegretario. Dopo

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il Ministro c’era solo il segretario generale. E questo è durato fino alla riforma Crispi di fine Ottocento. L’incontro con Minghetti fu particolarissimo: un incontro formidabile di culture, un incontro di sensibilità. Un incontro che molto dice anche sullo sviluppo di quel “separatismo” che aveva visto i prodromi nella famosa frase Cavouriana pronunciata nel discorso di pochi mesi prima della sua morte, sulla distinzione fra Stato e Chiesa, e che poi sarà sviluppato da Minghetti. Minghetti portava nel suo “dna” culturale questa esperienza incredibile di essere stato Ministro in uno dei pochissimi governi laici della “fase effimera” - come la chiamava Spadolini del costituzionalismo di Pio IX, nel 1848: il governo passato alla storia come il “Pasolini - Minghetti”. Assieme a Pasolini e a Farini (sottosegretario agli Interni, l’inventore della sanità civile), nella primavera del 1848, fecero un passo indietro quando Pio IX ritirò l’appoggio alla prima guerra di Indipendenza. E da lì nacque tutta la traversia del rapporto del cattolico liberale Minghetti con il Papa, quel Pio IX che per tutto l’800 e il ‘900, fino alla fine del conflitto fra Stato e Chiesa, è stato il Papa per antonomasia. Quel Papa che, nell’ultimo viaggio nei suoi Stati temporali, era il 1857, quando arrivò a Bologna, per prima cosa chiese di ricevere Minghetti. Gli andò incontro (esattamente otto anni e mezzo dopo il forte conflitto quarantottesco) dicendo “Ecco il Signor Costituzionale”. Questo appellativo dà il senso che i tempi non erano maturi per un recupero del rapporto fra il papato e lo Stato. Non era tempo, con Pio IX che rivendicava il potere temporale e Minghetti che anticipava di un secolo quello che Giovanni XXIII e Paolo VI diranno, rispettivamente in occasione del centenario dell’unità d’Italia e del centenario di Roma capitale. Ovverosia, che la fine del potere temporale aveva liberato la Chiesa cattolica da un limite e

da un fardello. Ecco l’incontro di sensibilità fra Minghetti e Luzzatti: andavano ambedue alla ricerca delle libertà sia economiche sia religiose, nel rispetto di tutte le confessioni, alla ricerca del superamento di quel primo articolo dello Statuto albertino che affermava che la religione cattolica apostolica romana era la sola religione dello Stato. Principio questo poi trasfuso, costituzionalizzato, nei Patti Lateranensi del 1929 il cui primo articolo ‘riaffermava’ il valore della norma statutaria sulla religione dello Stato. Principio, norma, che proprio trenta anni fa veniva superato nel nuovo Concordato e di cui costituisce, quindi, elemento assolutamente fondante, indiscutibile e indiscusso. L’altro aspetto chiave dell’incontro fra Minghetti e Luzzatti è quello legato alla storia bancaria del Paese. Minghetti ha fondato, a Bologna, due banche. Ha fondato prima la Cassa di risparmio di Bologna assieme ad altri novantanove cittadini che ci misero i danari. E ha fondato pochi anni dopo la “Banca delle Quattro Legazioni, che poi si sciolse dopo i plebisciti del marzo del 1860 di unificazione dell’Emilia, delle Romagne e della Toscana “ricasoliana”. Il Ministero dell’agricoltura industria e commercio in quella fase degli anni ’60 dell’800 era molto importante perché ad esso spettava anche quel poco di vigilanza bancaria che sussisteva negli anni ‘60 dell’800, anche attraverso l’istituto prefettizio. Ecco i due elementi di convergenza: il giovane per le libertà religiose con il maestro che poi, nel 1874, da Presidente del Consiglio inventò e redasse quella Legge sulle Guarentigie che aveva il suo limite principale nell’essere una legge “ordinaria” anziché un trattato di pace internazionale, capace di chiudere la questione romana. Ma il Trattato di pace, il Trattato del Laterano - non il Concordato - recepì le indicazioni della legge Minghetti del 1874. L’attenzione al mondo delle banche

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private di territorio era comune ai due, anche nella formula che Luzzatti usò per cercare di definire le banche popolari, ossia “casse di risparmio evolute”; evolute nella potenzialità di disporre di una serie di forme di esercizio delle attività creditizie che la Repubblica italiana avrebbe riconosciuto e concesso solamente tra il ‘92 e il ‘93 del ‘900 alle antiche Casse di Risparmio, fino ad allora limitate in tante attività economiche. Inoltre le banche popolari avevano anche una ricchezza di azionariato diffuso, non limitato, che è stata un'altra delle innovazioni che Luzzatti e Minghetti hanno dovuto attendere, per oltre mezzo secolo il primo e quasi un secolo il secondo, fino alla legge Amato del 1990 e al Testo Unico bancario del 1993. La conversione della rendita con una riduzione del tasso di interesse fu il capolavoro vero di Luzzatti, che va richiamato in questi anni di così alto spread; penalità quest’ultima che non può essere risolta certamente con il rinchiudersi dell’Italia in inimmaginabili autarchici confini di un neo nazionalismo, impossibile in epoche di globalizzazioni e di tecnologie. Questa conversione della rendita fu un atto enorme, come emerge dalle parole che Benedetto Croce scrisse in proposito nella sua storia d’Italia dal 1871 al 1915. Croce scrisse: “Sebbene nello sforzo del lavoro inesauribile e della lotta che mai giunge a fine, non solo manchi il tempo e l’agio, ma non ci sia e non ci debba essere la disposizione a sentirsi e dichiararsi soddisfatti, qualche volta, in quegli anni l’Italia ebbe coscienza e provò la gioia del grado a cui era scesa misurando con lo sguardo il passato, come nella memorabile tornata della Camera del 29 giugno 1906, quando fu votata la conversione della rendita e gli applausi dai banchi e dalle tribune coronarono la relazione del Luzzatti, che rifaceva la storia del faticoso e doloroso cammino percorso e si videro oppositori politici abbracciarsi e lacrime rigare i volti”.

Ecco, questo è il sogno che coltivo, di istituzioni repubblicane in un momento di crisi come questo. Tornando a Croce: “Gli stranieri, uomini di Stato e scrittori manifestavano ammirazione per l’andamento che l’Italia aveva dato alla sua amministrazione, alla sua legislazione, alla sua economia e a tutta la sua varia attività”. Il “Bulow” - che in questo caso è il cancelliere tedesco Bernhard H. K. von Bülow – “Bulow se ne congratulò vivamente con Giolitti”, aggiunge Croce, “quando questi si ritrova a visitarlo a Hamburg. Come già nei primi tempi dell’unità, gli italiani nel recarsi all’estero raccoglievano elogi per la saggezza e l’abilità di cui dava prova la loro Patria, così ora per i progressi di lei in ogni campo”. Questo è il sogno che accarezziamo per una ripresa dell’Italia; una ripresa fatta di coraggio, di orgoglio, che dia vigore per una economia produttiva sana e di alto valore anche sociale. Croce, in altre pagine del medesimo volume, definisce il Governo di Luzzatti “quello che durò un anno, istituì la cassa di maternità per i sussidi alle operaie, stanziò fondi per mutui ai comuni in opere igieniche sanitarie, ordinò la tutela degli emigranti mercé un commissariato e un corpo di ispettori e avocò allo stato l’istruzione elementare per darne maggior vigore. E queste misure si assommarono a quelle per l’istituzione delle case popolari, perché cooperazione e case popolari erano le vie per una emancipazione che si sviluppava, per una consapevolezza civile di grande rilevanza”. Concludo con una frase di Luigi Luzzatti sulla democrazia: “La democrazia vera è quella che cerca di innalzare i poveri e gli ignoranti non già di deprimere gli agiati o i sapienti. E’ un’ opera di concordia e non di guerra sociale. Toglie o tempera gli attriti, non li crea e non li accresce, edifica, non isterilisce né atterra, rinforza e consacra, non sconvolge gli ordini sociali”.

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Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio

La incredibile modernità e profondità di queste considerazioni rendono il pensiero di Luzzatti un caposaldo, un punto di riferimento fondamentale di educazione, di quella educazione civica, civile e costituzionale, che dovrebbe essere insegnamento obbligatorio per i nostri giovani, per gli italiani e per coloro che italiani vogliono diventare, perché essa è innanzitutto educazione alla democrazia.

Ester Capuzzo

Questo volume ripercorre la centralità della figura di Luzzatti nella vita politica dell’Italia liberale nel periodo seppure breve della sua esperienza di governo, vagliata nel contributo di Pier Luigi Ballini, ne descrive la grande notorietà in campo internazionale con il saggio di Luca Riccardi, dà conto della complessità dell’interesse religioso nei due saggi di Pertici e di Zambarbieri Luzzatti rappresenta una figura emblematica dell’emancipazione ebraica prodotto del Risorgimento e dell’integrazione degli ebrei nell’Italia liberale che determinava conseguenze complesse sull’ identità ebraica, sulla partecipazione a nuove attività sino ad allora precluse come anche quella politica, come attestato dalla Luzzatti, sull’osservanza religiosa e persino sulla loro distribuzione territoriale. Uno dei tratti distintivi di Luzzatti come altri alti esponenti della minoranza ebraica era lo sforzo di adeguare l’ebraismo alla modernità, individuandone nella tradizione religiosa i lati più caduchi e valorizzandone gli aspetti più consoni al liberalismo e alla democrazia allora in cammino. Luzzatti compiva una parabola che era comune a diversi esponenti del mondo ebraico italiano e in cui l’elemento comune era rappresentato dalla secolarizzazione dell’identità ebraica ma non la cancellazione della sua radice più intima. Pur sensibile alle sollecitazioni provenienti dalla cultura coeva e dal fascino esercitato su di lui dalla letteratura dei vangeli, come altri autorevoli esponenti dell’èlite ebraica emancipata

Luzzatti non avrebbe mai reciso il suo legame con la tradizione d’origine, per diventare «un deista senza chiesa particolare». Luzzatti era l’ebreo che ritorna, come affermava di sé, quando veniva toccato il nervo più profondo dell’appartenenza al suo popolo o in una visione pluralista quando «i credenti venivano offesi nel patrimonio sacro della loro coscienza». In una nota lettera a mons. Bonomelli vescovo di Cremona scriveva di essere israelita e di ritornare fieramente ad esserlo ogni volta che lo si rimproverava di essere ebreo e ogni volta che gli ebrei venivano perseguitati. Una posizione che Luzzatti ribadirà in diverse occasioni, come ad esempio di fronte al caso Pasqualigo in Italia o all’affaire Dreyfus in Francia o alle violente ondate antisemitiche che si abbattevano sull’Europa orientale a cavallo tra ‘800 e ‘900 e che nel 1913 si traduceva in una lunga perorazione internazionale presentata al tribunale di Kiev a favore dell’ebreo ucraino Mendel Beilis. Una posizione che appare in una certa misura diffusa nel milieu ebraico dell’età postemancipatoria anche in personaggi di spicco come Alessandro D’Ancona, celebre italianista, professore universitario a Pisa e senatore del Regno che in una lettera a Ruggero Bonghi del 1891 in occasione di un articolo scritto sulla “Nuova Antologia” dal politico pugliese manifestava il medesimo atteggiamento, e in personaggi come Felice Venezian, ebreo triestino, pronipote di quel Giacomo Venezian caduto in difesa della Repubblica romana, e uno dei maggiori esponenti del partito liberal-nazionale, animato da sentimenti irredentistici. L’opposizione all’antisemitismo, nei confronti del quale manifestò sempre una particolare sensibilità, diveniva, quindi, per Luzzatti il mezzo per riaffermare una matrice ebraica ormai poco nutrita dai valori intrinseci dell’ebraismo. Con riferimento a ciò vanno segnalati due temi che affiorano nelle opere di Luzzatti il fascino esercitato su di lui dai Vangeli e la coscienza delle conseguenze della

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Ester Capuzzo

teologia cristiana sul popolo ebraico da un lato; dall’altro la consapevolezza della trasformazione che, tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, stava subendo l’antisemitismo con la nascita e lo sviluppo di un nuovo filone politico e razziale che laicizzava i tradizionali stereotipi e oltrepassava la consueta intolleranza religiosa, per assurgere a elemento della nascente società di massa. All’origine dei suoi interventi delle minoranze oppresse vi era certamente la sua visione della libertà di coscienza e di fede ma anche il peso della sua mai rinnegata origine ebraica e forse, anche, il portato delle conversazioni avute in giovinezza con i Padri Mechiaristi dell’ isola di San Lazzari degli Armeni a Venezia. Nell’interazione prodottasi in lui tra ebraismo e liberalismo la sua origine ebraica si intrecciava con sensibilità del tutto peculiari derivanti dalla sua ricezione della cultura liberale, ma anche degli insegnamenti ricevuti in giovane età da Moisè Soave, una delle figure di spicco dell’erudizione ebraica ottocentesca, precettore dei figli di molte famiglie dell’ agiata borghesia ebraica veneziana, fautore di una riforma dell’ebraismo e ancora, come avrebbe scritto nelle sue Memorie, dallo studio della filosofia, della storia, delle altre religioni. Non soltanto del cristianesimo ma anche di altre come il buddhismo definito il «Cattolicesimo d’Asia» - richiamato nel volume che presentiamo dal saggio di Annibale Zambarbieri - che Luzzatti ammirava molto come fede religiosa, a suo avviso, refrattaria a suscitare conflitti bellici. La fase postemancipatoria che Luzzatti viveva comportava un processo di adattamento ricco di intralci esterni ed interni alle varie comunità, parallelo al tentativo di operare una autorigenerazione che dall’interno del mondo ebraico riaffermasse in contesti diversi ma in termini efficaci l’identità ebraica. Questa dimensione si rifletteva in un opuscolo pubblicato anonimo da Moisè Soave e intitolato L’israelitismo moderno che dava conto della visione della presenza ebraica nella società italiana con una

metafora molto significativa: quella del capitano esperto che getta in mare parte del prezioso carico per salvare la nave. Era quello l’atto che Soave invitava a fare ai suoi correligionari: sfuggire al naufragio per evitare di rimanere un corpo estraneo alla società italiana. Una metafora che nel suo significato non si allontanava troppo da quella elaborata da Isacco Artom in una lettera ad Alessandro D’Ancona e fondata sull’immagine delle «finestre aperte», cioè sull’apertura ebraica verso la società circostante perché soltanto in questo modo gli ebrei avrebbero potuto giocarsi nella partita con la storia la loro complessa identità. E’ probabile far risalire al magistero di Moisè Soave, il continuo scindere e riannodare di Luzzatti dei nessi con l’ebraismo che dall’adolescenza in poi avrebbe caratterizzato la sua esistenza, ma anche il suo interesse verso le tendenze moderniste allora sboccianti nel cattolicesimo e le religioni orientali e non soltanto verso il cristianesimo che Luzzatti studiava con un approccio critico e attraverso la lettura diretta delle fonti. Una lettura che non rimaneva circoscritta ai soli testi evangelici ma che era estesa anche al libro sacro dell’altra grande fede monoteistica, il Corano. Luzzatti studiava tutte le religioni attirandosi gli strali dei suoi correligionari che lo tacciavano di ateismo e i cattolici che a loro volta lo accusavano di vilipendio per odio giudaico. Il suo interesse per tutte le religioni lo portava a scrivere a Fedele Lampertico «di aver creduto a tutte le religione prima di fare con esse il florilegio della mia fede presente». Un interesse che si sostanzia in un saggio pubblicato nel 1892 dal titolo Il primo decreto sulla libertà di coscienza di cui era venuto a conoscenza Luzzatti, attingendo alla mastodontica opera in trenta volumi de le Sacre Bibbie dell’Oriente dove aveva individuato alcuni editti del re indiano Asóka, il sovrano creatore del primo grande impero indiano, del III secolo a.C. Editti che per Luzzatti si differenziavano dal medesimo atto

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Luigi Luzzatti, Presidente del Consiglio

normativo che la cultura occidentale considera l’atto fondativo del principio della libertà di coscienza ossia l’editto di Milano del 313. Questo interesse per le religioni orientali e certe sue affermazioni gli avrebbe attirato le critiche della Civiltà Cattolica che, pur non ignorando gli atteggiamenti di apertura di Luzzatti verso il mondo cattolico, rifiutava alcune sue idee come quella di parificare la religione di Maometto e di Buddha con il cristianesimo e quella di mettere sullo stesso piano l’intolleranza cattolica con quella di altre religioni. Tuttavia in questa polemica la rivista dei gesuiti riconosceva l’onestà dell’animo di Luzzatti e la sua attenzione per il cattolicesimo. Questo interesse per le religioni orientali e soprattutto per la correlazione-differenziazione tra cristianesimo e buddhismo lo porterà agli inizi del Novecento a contatto con molti studiosi europei e intrattenere rapporti anche in Giappone, come messo in rilievo da Zambarbieri, grazie all’opera di Anesaki Masahari, professore all’Università Imperiale di Tokio che a Roma nel 1908 incontrava il politico veneto. L’idea di Luzzatti, che si era avvicinato alla cultura giapponese grazie anche all’amicizia con Alessandro Guiccioli ambasciatore a Tokio, del realizzarsi della libertà religiosa nel paese del Sol Levante connessa con le dottrina buddhista, riscuoteva favorevole accoglienza con la pubblicazione nel 1909 nella lingua nipponica dell’opera La libertà di coscienza e di scienza. Ciò che contrassegnava la posizione di Luzzatti di fronte al fenomeno religioso era il passaggio dal razionalismo rigido dell’età giovanile ad un progressivo deismo filtrato attraverso l’uso della ragione. Luzzatti era profondamente convinto della centralità e della necessità dell’elemento spirituale all’interno dell’ umano e riteneva che il sentimento religioo fosse una componente essenziale del buon vivere sociale, esprimendo una piena fiducia nei valori religiosi purché fossero corroborati da valori etici e morali perché soltanto così la società si sarebbe potuta avvivare verso un assetto

migliore e più giusto. Luzzatti era, pertanto contrario a ogni forma di ateismo di stato, parlava di stato laico ma non ateo, schierandosi contro le «inquisizioni giacobine», contro ogni forma di prevaricazione di un culto, protetto dallo stato, contro altri culti, scagliandosi contro, come affermava, sia l’odio teologico che l’odio ateo. Il suo atteggiamento nei confronti della materia religiosa si modificava nel tempo passando da una posizione radicale qual è quella espressa negli anni ’60 dell’ Ottocento all’affermazione del separatismo. Per la costruzione della società italiana e la sua trasformazione in una società democratica Luzzatti abbandonava il giurisdizionalismo liberale e lo trasformava in un separatismo non dottrinario ma venato di un consistente pragmatismo, un «separatismo amico della religione», come lo definisce Roberto Pertici nel volume, o come scriveva Giovanni Spadolini in un «separatismo ragionevole». La libertà religiosa e il separatismo per Luzzatti riguardavano tutte le confessioni religiose presenti nella società italiana e venivano considerati non strumenti per ridimensionarne la presenza ma per assicurarne la vita e le attività culturali. Che il separatismo di Luzzatti fosse fondato su un approccio pragmatico, Pertici lo individua nella posizione assunta nei confronti della legge delle guarentigie che Luzzatti considerava come un dato immutabile degli equilibri emersi dal Risorgimento, come uno strumento di equilibrio di cui la società italiana non poteva fare a meno, che aveva risparmiato all’Italia una conflittualità religiosa e che riteneva superabile soltanto nel senso dell’attuazione piena del suo spirito separatista e nell’ abbandono dei residui giurisdizionalisti che essa comprendeva. Sarebbe poi la prima guerra mondiale a dare conferma a Luzzatti del successo della legge delle guarentigie quando qualche giorno dopo lo scoppio del conflitto la morte di Pio X si poneva la necessità del Conclave per l’elezione del nuovo successore al soglio di

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Pietro che non facilmente si sarebbe potuto svolgere con la loro internazionalizzazione. Di fronte alla situazione italiana sulla libertà religiosa, come ci ricorda Roberto Pertici, dopo lo Statuto albertino, i decreti subalpini del 1848, la legge delle guarentigie Luzzatti individuava nel codice penale del 1889 l’ultimo e più compiuto passo verso il rispetto della libertà religiosa per la tutela penale di tutti i culti ammessi cioè professati nello stato. Luzzatti si riallacciava all’interpretazione avanzata dell’art. 1 dello Statuto albertino consona al principio di uguaglianza civile e politica caratterizzante l’ordinamento dello Stato liberale che considerava il cattolicesimo come la religione ufficiale della maggioranza degli italiani. Luzzatti, in sostanza, svuotava di contenuto sostanziale il principio statutario della religione dello stato e della mera tolleranza degli altri culti, secondo un’interpretazione che era frutto della cultura politica di appartenenza, coniugata, potremmo dire, con l’espe-rienza personale dell’ appartenenza a un gruppo minoritario. Il pensiero di Luzzatti sui rapporti Statoreligioni veniva elabo-rato gradualmente in diversi momenti e si rifletteva sul discorso programmatico del suo ministero nelle tornate del 28 e del 30 aprile 1910 nel quale gettava i capisaldi della politica ecclesiastica del suo esecutivo. Nonostante egli fosse molto vicino a Giolitti, Luzzatti tendeva a diversificarsi da quella che era la teoria giolittiana delle «rette parallele che non si

debbano incontrare mai» e che definiva un’ espressione, per così dire comoda, di un separatismo estraneo alla realtà italiana in cui Stato e Chiesa si incontravano e scontravano allo stesso tempo che sarebbe potuto sussistere soltanto «se Stato e Chiesa abitassero in due pianeti diversi» . Una separazione rigida, assoluta non avrebbe potuto sussistere, sosteneva Luzzatti, perché se le «Chiese dal Governo» si possono separare, non si possono separare interamente dallo Stato e dalle sue leggi dal momento che questo ha l’obbligo di garantire a tutte le fedi la libertà. La formula luzzattiana della separazione tra Stato e Chiesa, come ben sappiamo, non è quella cavouriana ma «Religioni libere nello Stato sovrano» che nel d i s c o r s o programmatico alla Camera, richiamato da Pier Luigi Ballini nel suo saggio, diveniva «la libertà delle religioni che si svolgono entro la cerchia dello Stao sovrano». Rispetto a quella di Cavour la formula luzzattiana dava, quindi, al prin-cipio separatistico una correzione in senso pluralista, pur mante-nendo, però, l’impian-to di fondo che vedeva come unico ente sovrano lo Stato. Per Luzzatti la separazione dello Sta-to dalle Chiese era la sola linea guida della politica ecclesiastica che potesse assicurare appieno la libertà religiosa, di conse-guenza era portato a considerare clerica-lismo e anticlerica-lismo, come bene sottolinea Pier Luigi Ballini, «il prodotto psicologico della stessa

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deformità morale» cioè l’intolleranza, considerata come la radice di tutti e due questi atteggiamenti. L’incompetenza dello Stato nelle materie religiose lo portava in occasione del discorso di presentazione del programma del suo governo a non voler trascinare in parlamento la questione del divorzio tanto dibattuta in quegli anni non soltanto nelle aule parlamentari, nella civilistica italiana ma anche nel mondo ebraico all’interno del quale si era manifestato un caleidoscopio di posizioni che riflettevano anche in ordine al divorzio i diversi aspetti del rapporto identità/alterità. Fortemente sostenuto da Ernesto Nathan e da Camillo De Benedetti e dai deputati Cesare Parenzo e Salvatore Barzilai che nel 1892 avevano presentato un progetto per l’introduzione dello scioglimento del matrimonio in Italia, veniva osteggiato da Vittorio Polacco, molto vicino a Luzzatti, Pur avendo abbandonato ben presto le pratiche esteriori del culto, Luzzatti diveniva ben presto fautore della libertà religiosa riflettendo in ciò la straordinaria modernità delle sue concezioni che lo rendevano sostenitore di una società aperta, libera e pluralista in cui il suo sguardo era rivolto a tutte le grandi religioni (ebraismo e cristianesimo, islam e buddhismo, induismo e shintoismo), alla cui conoscenza dedicò molti anni della sua vita. Del resto riteneva, con un’immagine simbolicamente molto forte rappresentata nell’età più avanzata in una lettera del 1923 conservata presso l’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, che le religioni costituissero «le note di un’armonia divina, tanto più chiara e bella quanto più libera». Luzzatti nel discorso di replica al momento della presentazione del suo governo accenna alla questione del divorzio cercando di depotenziarne il significato anticattolico. Nell’anno del suo governo cerca di caratterizzare il suo governo in senso laico, cercando interlocutori e appoggi soprattutto a sinistra. Tuttavia la

posizione di Luzzatti fu quella di sempre cioè «benevolo verso i cattolici». L’unico elemento di discordia fu la proposta di legge Daneo-Credaro sul passaggio allo Stato dell’istruzione elementare e interpretata come un passaggio verso la laicizzazione dell’istruzione primaria, ma l’atteggiamento di benevolenza verso i cattolici si manifestò più volte nel suo anno di governo più volte: in occasione delle proteste avanzate dai dirigenti delle 5 Unioni Generali dell’Azione cattoliche, tra cui Gentiloni, per l’assalto da parte di un gruppo di anticlericali di una processione a Testaccio, che richiedevano la difesa dello Stato. Richiesta a cui Luzzatti non si sottraeva affermando che la difesa della libertà di coscienza e della libertà di culto fossero un dovere per lo Stato e che il governo da lui diretto avrebbe ispirato sempre i suoi atti alla «libertà per tutti nella cerchia delle leggi e delle nostre istituzioni». Un altro tema che lo avvicinava ai cattolici era quello delle «pubblicazioni oscene» e della tutela dell’infanzia rispetto a esse. Si trattava di un tema molto diffuso e dibattuto tra i cattolici allora e che sarebbe divenuto un punto di incontro frequente con la politica luzzattiana. Il discorso fatto da Luzzatti alla Camera ai primi di giugno del 1910 segnava un punto a suo favore agli occhi dei cattolici non apprezzato dalla Sinistra anticlericale e dava vita al tentativo di una vera e propria crociata antipornografica, segnava dal passaggio da un’impostazione meramente repressiva a una preventiva. Il disegno di legge presentato al Senato non giunse mai in aula ma attesta il feeling tra Luzzatti e il mondo cattolico (il disegno di legge veniva poi ripresentato nel 1916 da Vittorio Polacco). Questo feeling spiega anche come quello che sarebbe potuto essere il più serio incidente di percorso nella politica ecclesiastica del governo Luzzatti, lo scontro tra il sindaco di Roma, già gran maestro della massoneria italiana, Ernesto Nathan e Pio X il 20 settembre 1910, non ebbe effetti dirompenti anche

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Ester Capuzzo

perché il papa continuava a mantenere Nel discorso di presentazione del contatti con il governo italiano attraverso programma di governo alla Camera, oltre mons. Beccaria cappellano della Real a delineare quella che a suo avviso doveva Casa cui si era rivolto Luzzatti al essere la condizione giuridica delle momento dell’assunzione della presiden- minoranze religiose: «Nella libertà delle za del consiglio e accettò i rischi che religioni che si svolgono entro la cerchia comportava la libertà della Chiesa. Fu dello Stato sovrano, mallevadore delle più pronto ad adattarsi a intese elettorali con delicate fra le garanzie costituzionali si i clerico-moderati dell’età giolittiana. Egli determina il nostro programma di considerò la legge delle guarentigie come politica ecclesiastica», rammentava i un dato immutabile degli equilibri emersi protagonisti del Risorgimento e dell’età dal Risorgimento o superabile nel senso successiva che avevano secolarizzato lo dell’attuazione del suo spirito separatista Stato, gli avevano conferito un carattere e nell’abbandono dei residui giurisdi- di sovranità laica, avevano instaurato e zionalistici che comprendeva. Legge delle sancito libertà religiose che avevano guarentigie che dopo avuto il loro corol’esperienza di gonamento nel codice verno torna al centro Zanardelli che aveva delle riflessioni di Cronologia di Luigi Luzzatti superato in maniera Luzzatti come nel (Venezia 1941 - Roma 1927) definitiva l’interprecarteggio con Emilio tazione data all’art. 1 Visconti Venosta il dello Statuto. E’ in ministro degli Esteri questi richiami di del governo Lanza 1966-1895 Professore di Diritto Luzzatti che si che aveva gestito la costituzionale, Università di Padova sostanziava il patridifficile congiuntura monio della Destra del 1870-1871. Luzstorica su cui si 1871-1921 Deputato zatti si considerava poggiava di fatto il contrario sia all’inpatrimonio dei libe1922-1927 Senatore ternazionalizzaziorali italiani e rapprene della legge delle sentava «la grandez1891, 1896-98, 1903-05, 1906 za dello Stato italiaguarentigie sia ad Ministro del Tesoro affermare il carattere no» consistente «nelconfessionale dello la sua indipendenza Stato italiano che era 1909 Ministro dell’Agricoltura da ogni setta, da ogni laico e non ateo, chiesa, con qualunincompetente in 1910-11 Presidente del Consiglio que nome e con materia religiosa ma qualunque qualificacon un contenuto zione si ammanetico propizio a dare alle diverse Chiese il tasse». loro stato giuridico. Se è vero che Luzzatti cerca di Probabilmente Luzzatti fu il politico caratterizzare il suo governo in senso italiano più aperto della classe politica laico, il suo discorso programmatico non italiana post-unitaria alle ragioni del modifica sostanzialmente posizioni movimento cattolico. attestate che lo rendono un liberale In tal modo l’Italia, Stato laico e non «benevolo verso i cattolici», come ha ateo, incompetente in materia religiosa, notato Giovanni Spadolini, fautore di un ma con un contenuto etico propizio a separatismo «ragionevole». Lo stesso dare alle diverse chiese il loro stato Luzzatti dava del separatismo un’idea giuridico come negli Stati Uniti, si offriva, che lo rendeva l’Italia «lontana dai a parere di Luzzatti, al mondo civile giacobini dell’intolleranza». 30


Antonio Casu

Il Diario di Antonio Segni Cinquanta anni fa, precisamente il 6 dicembre 1964, Antonio Segni si dimetteva dalla Presidenza della repubblica italiana. Mezzo secolo di storia è certo un lasso di tempo considerevole, e inoltre si tratta di un periodo nel quale il panorama politico è profondamente mutato, in ambito nazionale come internazionale. Proprio il decorso del tempo consente ai biografi e agli studiosi di tracciare un profilo politico del politico sardo con rigore storiografico, evitando le insidie della polemica politica contingente e la palude dell’ottica di schieramento. Si assiste così ad una ripresa di studi sulla sua figura, con l’obiettivo di restituirla alla sua effettiva fisionomia e complessità storica, sottraendola finalmente al collegamento esclusivo o privilegiato con il cono d’ombra dei fatti del 1964. Nell’ambito di tali studi è da tempo presente anche la memorialistica, che già dieci anni fa aveva visto in particolare il contributo di Manlio Brigaglia sulla riforma agraria basarsi proprio sull’archivio Segni. In questo solco si inserisce il recente volume curato da Salvatore Mura, che ha raccolto e commentato un lotto di documenti (appunti, note, lettere) con il titolo di Antonio Segni. Diario (1956-1964)1. Il volume presenta un accurato e documentato apparato critico (di circa 90 pagine) articolato in una nota biografica, una prefazione al diario e un saggio sulle esperienze istituzionali di Segni, scandito nelle sue fasi salienti: il primo e il secondo governo da lui presieduti, il suo ruolo di Vicepresidente del Consiglio e ministro della difesa,

quello di ministro degli esteri, la sua elezione al Quirinale; ma si sofferma anche su alcune delle principali problematiche con le quali Segni dovette confrontarsi, dalla crisi di Suez ai Trattati di Roma, dai contratti agrari alla questione dell’Alto Adige, e via dicendo. Il Diario raccoglie gli appunti di Segni redatti nell’arco temporale 1956-1964, con l’unica eccezione del 1963, e termina con una lettera a Moro del 27 luglio 1964, sei mesi prima delle dimissioni. Il carattere frammentario delle note, delle osservazioni, dei commenti, il loro carattere discontinuo e disomogeneo, la differente attenzione prestata a fatti prescindendo talvolta dal livello della loro rilevanza oggettiva, lo stile essenziale e diretto, inducono a pensare non tanto e non solo che si trattasse di uno strumento di lavoro, quanto una riserva di memoria per una futura autobiografia, come lo stesso Mura a un certo punto desume (p. 16), e conferma asserendo che “il Diario (…) è la storia di Segni scritta da Segni” (p.18). In generale, le pagine del Diario, che attiene agli otto anni precedenti alla vicenda storica che portò alle sue dimissioni, e conseguentemente il commento di Mura, forniscono elementi utili a precisare la fitta trama di rapporti, conversazioni, incontri di un politico cattolico e popolare di alto livello, di indiscusso prestigio internazionale, che fu sicuro antifascista, insigne giurista, uomo di Stato e di governo. Certo Segni fu, ed erano quelli i tempi, un uomo di centro, ma tale qualificazione politica va contestualizzata, e ha il senso dei suoi tempi, non

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Antonio Casu

dei nostri. E tuttavia io trovo più rispondente il profilo che ne traccia Mura di quello riconducibile ad altri storici, che lo dipingono come “un conservatore negli anni del centrosinistra”. Segni fu certo un anticomunista, e fu attento, e spesso critico, rispetto ai processi di allargamento a sinistra della compagine di governo. Ma questo non fa di lui, sic et simpliciter, un conservatore. D’altronde, non era quello neppure il giudizio degli storici e dei bibliografi a lui coevi. Erano, al contrario, la sua salda collocazione europea e internazionale, i suoi rapporti con Vaticano e la sua sensibilità sociale a renderlo per la DC un referente sicuro, e quindi privilegiato, in una fase nella quale si tessevano le alleanze con la sinistra. Era il “proposito di tenere almeno una mano sul timone”, per usare l’espressione di Vittorio Gorresio (L’Italia a sinistra, 1963), riferita alla sua adesione al primo abbozzo di centro-sinistra, tra il giugno e il luglio del 1958, limitato alla collaborazione tra democristiani e socialdemocratici, che lo vide Vicepresidente del Consiglio dei ministri. Per non parlare infine delle etichette che gli furono cucite addosso in quegli anni, nei quali veniva additato come il “bolscevico bianco” o il “pesce rosso in acqua santa”. Dalle pagine del Diario emerge un Segni diverso dalla vulgata di certa stampa, che lo ha a lungo dipinto come un uomo di centro che guardava a destra. Cattolico

liberale di stampo degasperiano, fedele ai principi del solidarismo cattolico, e dunque concorrenziale rispetto alle sinistre sui temi della giustizia sociale, Segni mostra invece una sensibilità sociale marcata. La sua riforma agraria, in sostanza un piano generale di espropriazione per pubblica utilità, destinato a tutto il territorio nazionale, delle terre incolte dei numerosi latifondi presenti nel paese, è talmente radicale da riscuotere attenzione e consensi anche a sinistra, e perfino nel PCI, si pensi alle posizioni di Amendola. Un espropriazione che riguardò, è bene ricordare, anche i terreni di Segni. E l’opposizione che la riforma determinò non riguardò solo la rappresentanza politica dei proprietari terrieri, in particolare, in quei frangenti, il partito liberale, che si opponeva al principio della “giusta causa permanente” come unica motivazione della disdetta dei contratti degli agricoltori da parte dei datori; ma anche, forse soprattutto, il suo stesso partito, la DC, preoccupato di mantenere la coesione della coalizione quadripartita (vedi ad es. p. 23) e favorevole ad un’attuazione territorialmente circoscritta. Mura coglie bene la tensione che circondò il progetto, quando sostiene che “il progetto riformatore di Segni non venne mai pienamente realizzato, perché esso aveva come idea base la riforma agraria generale” (p. 11). Accanto alla sensibilità sociale, un’attenzione specifica è riservata al rapporto

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Il Diario di Antonio Segni

tra europeismo e atlantismo. Mura correttamente delinea il Segni ministro degli Esteri come il garante della continuità della politica estera italiana, e dei suoi due pilastri: il processo di integrazione europea e l’alleanza con gli Stati Uniti e le potenze occidentali. Ed emerge anche la sua diffidenza nei confronti della politica di distensione, preoccupato che potesse comportare un indebolimento, sul piano internazionale, della lotta contro il comunismo e, su quello interno, del potere contrattuale della Democrazia cristiana nei confronti di socialisti e comunisti” (pp.77-78). In ciò risiede appunto la differenza di posizioni tra Segni e Fanfani, più prudente il primo, più incline ad una maggiore autonomia in politica estera, il secondo. Segni denota una profonda attenzione sia alla prima fase del processo di unificazione europea, caratterizzato nel decennio Cinquanta-Sessanta dal piano Marshall, sia alla seconda fase, che vide nel decennio successivo il consolidamento del Mercato Comune Europeo. Aderisce al progetto europeo e al Trattato di Roma con la piena consapevolezza di dover pervenire, sia pure gradualmente, ad una struttura politica unitaria. Un’attenzione, dunque, a mantenere nitido l’obiettivo finale al quale riteneva chiaramente preordinato il versante economico della costruzione europea, e cioè l’unificazione politica. L’integrazione economica era cioè intesa quale come strumento per l’unificazione politica, da realizzare non solo sul piano economico, attraverso la liberalizzazione degli scambi e l’unificazione tariffaria, ma anche su quello sociale, anche mediante un’armonizzazione giuridica idonea ad assicurare la piena valorizzazione del lavoro e degli altri fattori produttivi. Una posizione apertamente espressa in più di una occasione, e ben sintetizzata nella prefazione a sua firma ad una raccolta di saggi di autori vari del 1962, proprio su L’integrazione economica europea all’inizio della seconda tappa, quando era ministro degli esteri. L’asse europeismo-atlantismo, e gli incarichi che ricoprì, portarono Segni nel vivo delle grandi questioni internazionali, e ad incontrare i protagonisti di quella fase del Novecento. Leggere le pagine del Diario è come rivivere le

immagini in bianco e nero dei primi notiziari televisivi e dei servizi degli inviati speciali di quegli anni. Scorrono davanti ai nostri occhi le immagini dei protagonisti della storia mondiale, europea e italiana, nel tempo in cui segni era un attore di primo piano: Eisenhower e De Gaulle; Kennedy e Kruscëv; De Gasperi e Adenauer; Castro e Nasser; Lumumba e Mobutu; Giovanni XXIII e Paolo VI. La crisi di Suez e quella di Cuba. Il Mercato comune europeo e la NATO. La guerra in Algeria e quella in Congo. E, sempre, ricorrente ma discreta, la Sardegna. E infine, alcuni documenti vanno anche a meglio precisare il suo ruolo al Quirinale, prima del “tintinnio di sciabole” percepito da Nenni. Un mandato breve, dall'elezione del 6 maggio 1962 sino alle dimissioni volontarie del 6 dicembre 1964, il più breve dopo De Nicola, poco più di due anni, nel quale tuttavia Segni fu particolarmente attivo. A lui vanno accreditati 225 tra discorsi e messaggi, dall’insediamento (10 maggio 1962) alla dichiarazione dell’impedimento temporaneo del Capo dello Stato (10 agosto 1964), e quindi con esclusione del periodo di supplenza di Merzagora. E’ sufficiente scorrerli rapidamente per verificare l’ampiezza, e contestualmente l’intensità, dei suoi interessi: 10 al Parlamento (incluso il giuramento), 45 al Governo, 88 in occasione di visite di Stato e in materia di affari esteri, 26 in materia di difesa, ordine pubblico e forze armate, 24 in occasione di avvenimenti, ricorrenze, solennità e a singole personalità (anche in memoriam, come per Enrico Mattei, Luigi Einaudi ed altri), 15 agli italiani in Italia e all’estero, 9 in materia di economia e lavoro, 6 in materia di cultura, istruzione, sport e informazione, 4 in materia di sanità e sicurezza sociale, 1 al CSM. Un contributo utile, quindi, quello di Mura, correttamente impostato, e condivisibile quando conclude che sia arrivato “forse il momento di guardare al politico sardo con un approccio più organico” (p.97). 1 Presentazione del volume Antonio Segni. Diario (1956-1964), a cura di S. Mura, Roma, sede de Il Gremio, 1° marzo 2014.

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Girolamo Cotroneo

Le verità di Claudio Martelli Un grande storico tedesco dell’Ottocento, Johann Gustav Droysen, indicando i possibili modi, le vari forme in cui può essere scritta la storia, ha indicato anche le biografie, ritenendo che attraverso questo tipo di racconto può essere meglio sottolineata la passione che il protagonista ha messo nelle sue azioni. Non faceva nessun riferimento all’autobiografia: ma non perché credeva che la storia doveva essere un racconto “oggettivo”, cosa quindi impossibile nel caso dell’autobiografia, ma per la semplice ragione che a suo parere l’autobiografia era, di fatto, né più né meno che una biografia, un racconto “di parte”, come un “normale” racconto storico. E con ragione, perché “di parte” non significa falso: la verità non va confusa con una impossibile oggettività; lo storico – sia chi scrive una biografia o chi scrive la propria autobiografia – ha infatti il dovere di non dire il falso, ma non di essere, come usa dire, “obiettivo”, dal momento che il suo racconto muove da un determinato punto di vista: quelle della sua cultura, della sua visione politica, dal privilegio spesso accordato al proprio paese, e da altro ancora. Questa immagine della storiografia consentiva allo storico tedesco di liquidare la tanto celebrata “oggettività storica”, giungendo fino al punto di scrivere che non aveva a che farsene di questa “oggettività da eunuchi”. Ma Droysen diceva un’altra cosa non meno importante: che sarebbe un errore credere che di ogni personaggio storico si possa scrivere la biografia: questa, infatti, può scriversi soltanto di una figura la cui opera, in tutte le sue manifestazioni – in tutte, non soltanto occasionalmente – è stata guidata da una forte passione. E qui, senza incertezze, credo di poter dire che uno dei protagonisti della storia italiana del Secondo Novecento, Claudio Martelli, rientra, vista la passione – e l’intelligenza – che ha messo nel suo operare

politico, in quella categoria di personaggi dei quali è possibile scrivere la biografia; il fatto che l’abbia scritta lui stesso non cambia nulla: consente anzi di cogliere meglio che se descritta da uno storico di professione, la passione che ha caratterizzato tutto il corso della sua vita politica; e non soltanto di quest’ultima. Tutto questo, ovviamente, altro non voleva essere che la premessa a una discussione intorno all’autobiografia che Claudio Martelli ha pubblicato in un volume, apparso da poco presso Bompiani dal titolo – mutuato dall’antico primum vivere, deinde philosophari, ripensato da Martelli attraverso il Memento vivere di Goethe – dal titolo, dicevo, Ricordati di vivere, e dove nel cui Prologo – alla maniera di Droysen, starei per dire – dichiara di non avere «obblighi di obiettività e di completezza, ma il dovere della sincerità, di dire la verità che conosco»; e questo dovere, conclude, «ce l’ho e intendo onorarlo». Veniamo allora a questo libro che, idealmente, visto che tra di loro si intersecano, può essere diviso in due parti: la prima riguarda, per così dire, la persona di Claudio Martelli, la sua biografia esistenziale, le sue vicende sentimentali, e soprattutto la sua formazione: sottolineo quest’ultima perché le pagine di questa parte del suo libro costituiscono, a mio parere, l’autobiografia di una generazione: quella che ha vissuto e si è formata negli anni della contestazione giovanile, come venne chiamata; quella che gridava, guidata dalla “miglior parte” dei nostri intellettuali, dei quali per carità di patria è meglio non fare il nome, “la Cina è vicina”, o inneggiava a Fidel Castro, campione dell’antiamericanismo. Un sentire dal quale il giovane Martelli si riteneva lontano e sul quale esprime questo giudizio: «Io ero contrario e reagivo, ma quella era la mia generazione». La seconda parte, ovviamente molto più

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Le verità di Claudio Martelli

ampia, riguarda la sua avventura politica, dove ha ricoperto ruoli di primo piano; riguarda le sue scelte, i suoi sforzi per realizzare alcuni ambiziosi programmi, tenendo sempre fede alla sua idea della politica che così descrive: «La politica non è un mestiere come gli altri e il buon politico non è né un tecnico né un demagogo. Chi è dunque? / E’ uno “specialista in questioni generali”, qualcuno che sa ascoltare e farsi ascoltare dicendo qual è il suo pensiero, il suo scopo, qual è il bene comune e la scelta migliore in quel frangente; qualcuno che dando ragione di se stesso e della propria maniera di esistere, sottoponendosi a prove ed esami, si mette continuamente in discussione e sprona gli altri a fare lo stesso, per migliorarsi, sempre, continuando a imparare, sempre, per tutta la vita, perché nemmeno la vecchiaia è sinonimo o garanzia di saggezza». A questa immagine – che non mi sembra trovi grandi riscontri nei personaggi che dominano oggi la scena politica – Claudio Martelli è stato fedele per tutta la sua vita. Una vita che a partire da un certo momento, quello per cui soprattutto lo si ricorda, ha coinciso con le vicende del Partito Socialista Italiano, soprattutto nella stagione di Craxi, del quale, come egli stesso scrive, veniva considerato «il primo cavaliere». Ma, attenzione: il “primo cavaliere” non è “l’attendente del generale”, come qualcuno allora credeva; tanto è vero che si crearono tra di loro forti dissidi; e Martelli lo ricorda in questa pagina: «Avevo progettato e tentato un’autoriforma del partito, e Craxi l’aveva bloccata. Avevo voluto i referendum, quello sulla giustizia e quello sul nucleare, e Craxi si era mostrato indifferente o contrario, alterando poi gli esiti di entrambi. Avevo spinto molto per l’alleanza con i radicali e con i socialdemocratici per creare una federazione laico-socialista, e Craxi l’aveva smontata. Pensavo che la stagione della nostra alleanza con la Democrazia cristiana fosse ormai al tramonto, mentre Craxi pensava che sarebbe durata ancora, forse a lungo. Io non sottovalutavo il suo realismo, non ignoravo affatto le sue ragioni, ma non ero più convinto». Non intendo entrare nel merito dell’attività, dell’azione politica di Claudio Martelli: vorrei soltanto ricordare che nel 1989, propose una

legge, che portava il suo nome, sull’immigrazione, avendo percepito in anticipo che l’Italia, anzi l’Europa, si trovava di fronte a un fenomeno che non andava sottovalutato, né affrontato alla maniera in cui lo affrontò una legge che, accanto a quello di Giancarlo Fini, porta il nome del fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, le cui idee nei confronti degli immigrati sono fin troppo note. E ricordo ancora, che aveva visto profilarsi, e cercato di porvi rimedio, quel conflitto tra la politica e la magistratura che sarebbe esploso con la celebre inchiesta “Mani pulite”, che segnò la fine del “progetto socialista”, e che doveva condizionare la vita della Seconda Repubblica. Su questa Martelli esprime un duro, ma non certo infondato, giudizio, che qui vorrei riportare quasi per intero. Dopo avere detto, con parole che rivelano i fondamenti della sua cultura, i suoi studi filosofici, che «pensare [...] significa ricordare», perché «il pensiero è pensiero nel tempo e del tempo, è memoria che si fa invenzione o scoperta, progetto della ragione»; dopo avere premesso questo, ha così proseguito: «La Seconda repubblica ha voluto obliterare la Prima, e proprio per questo, anziché superarla l’ha replicata in peggio, in tragica farsa, bruciando vent’anni di vita politica e un’intera generazione. / Senza memoria non ci rendiamo nemmeno conto che in questi vent’anni intorno a noi è cambiato tutto – tutto, ma non l’Italia politica e di potere. La storia del mondo corre rapida e tumultuosa, creativa e distruttiva, e questo genera l’illusione di esserne anche noi coinvolti, e lo siamo effettivamente, ma per lo più come spettatori, come terminali passivi, come un’eco». Ma non si è fermato qui: ha infatti aggiunto che «il male strutturale della prima Repubblica – la partitocrazia – attraverso strabilianti metamorfosi è giunta a esisti grotteschi. / I partiti, svuotati di ideali e di partecipazione si sono trasformati – tranne eccezioni – in comitati elettorali al servizio di un capo o di un’oligarchia i quali fanno e disfano, interpretano a piacere regole e statuti, alleanze e programmi. Per non dire del rapporto tra partiti e istituzioni. / Il fondamento di ogni democrazia – la base elegge il vertice – è stato

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Girolamo Cotroneo

manomesso, stravolto, rovesciato. In Italia, da tempo, non è più il popolo a eleggere, ma sono i capi partito a nominare i parlamentari e spesoli scelgono tra fan e clan con preferenza per i parenti, gli amici, i clienti, i dipendenti. Agli elettori non resta non resta che ratificare o disertare le urne domandandosi: cos’è meno peggio?». Accanto a questo, con grande onestà intellettuale, Martelli ha voluto indicare anche le colpe della Sinistra, la quale ha concorso attivamente alla triste, malinconica fine della sua stessa cultura e tradizione: «A lungo», ha scritto, «nel passato, la sinistra, il socialismo, il progresso politico furono le novità. Trascorso il secolo socialdemocratico, spenta l’illusione comunista, rarefatte e, comunque, invecchiate le generazioni che ci avevano creduto, la sinistra si metterà sulla difensiva, ripiegherà nella conservazione dello status quo dentro il quale c’erano le conquiste del passato, mentre la destra guiderà il nuovo ciclo alla ricerca di un nuovo inizio». Un nuovo ciclo che però non ha visto risolto nessuno dei problemi – il lavoro, la scuola, l’ambiente, la giustizia – che Martelli indicava come prioritari nel programma del Partito Socialista nel momento in cui ne era il vicesegretario. Per tornare adesso “al primo detto”, al suo giudizio sulla Seconda Repubblica e sulla malinconica fine della Sinistra, mi sembra difficile, sia nel primo che nel secondo caso, dargli torto. Ma di là del discorso politico, del resoconto che ha voluto offrirci del suo operato, per farcelo conoscere, non per giustificarlo, si incontrano in questo libro della pagine molto belle, anche da un punto di vista, diciamo, letterario: ad esempio, il diciannovesimo capitolo, quello su Roma, verso la quale il suo atteggiamento originario «sfiorava l’intolleranza», ma che, vivendoci, fini con il restare affascinato dalla sua incomparabile bellezza e dalla sua storia, anche se, quando i tempi si faranno davvero difficili, ci sarà il suo “ritorno al Nord”, la volontà, ha scritto, «di tenermi stretto alle mie radici»; un capitolo dove si incontrano riflessioni su Stendhal, su Goethe, su Gadda, sui fratelli Verri, proposte non per fare un superfluo e inopportuno sfoggio di cultura, ma perché furono i loro libri su Roma ad aiutare Claudio Martelli a trovare «affinità elettive» con questa

straordinaria città. E non posso non ricordare uno dei più “umani” capitoli di questo libro, il trentatreesimo, dove Martelli rivive la sua angoscia, i pensieri che lo assillarono, le paure che lo avvolsero, le domande che si pose, quando una gli venne annunciata la fuga da casa del figlio Giacomo; una fuga per fortuna breve, che si concluse con uno schiaffo e un lungo, infinito, abbraccio. E ancora, tornando adesso alla politica, il capitolo ventunesimo, dedicato al famoso Convegno di Rimini, dove Martelli lanciò il suo programma politico, la sua visione del socialismo e del mondo; un programma in cui oltre che un progetto politico si incontrano riflessioni morali – penso alle considerazioni sul dolore – che ne rappresentano uno degli aspetti più forti. Non senza ragione, Ciriaco De Mita, non certo “amico” di Claudio Martelli, lo definì «il momento più alto del nuovo corso socialista». Tutti sappiamo quando e come quel momento, qual nuovo corso, ebbe fine; e quando Martelli ne parla, si percepisce ancora tutta l’amarezza e il travaglio interiore che l’hanno accompagnato. Soprattutto perché “ancor l’offende” – e non offende soltanto lui – il modo in cui quella fine fu provocata; una fine che venne da una “forza legale”, da quella forza che «gli stati di diritto affidano in esclusivo monopolio alla magistratura e alla polizia giudiziaria»; e fu proprio quella “forza legale” a produrre, scrive Martelli, «la più dura, la più concentrata repressione della storia repubblicana, persino o superiore per intensità alle diverse repressioni della mafia e del terrorismo». Una brutta (a dir poco) vicenda che, più o meno consapevolmente, ha dettato a Martelli queste parole: «Una sola cosa in politica è certa: prima o poi si perde»; anche se perdere in quel modo, vorrei aggiungere, è difficile da accettare. Comunque sia, si tratta di una considerazione sulla quale non si può sorvolare, ma si deve riflettere: e proprio per questo mi piace concludere con essa. Non prima però di avere ricordato che Giambattista Vico, parlando di un suo lavoro, lo definì «un picciuol libro, pieno di cose buone». Questo di Claudio Martelli, con le sue seicento pagine, non è proprio «un picciuol libro», ma è certamente «pieno di cose buone».

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Angelo Angeloni

Luce d’Eramo e Ignazio Silone

1 – Quando conobbe Silone, all’inizio del 1966, Luce d’Eramo aveva quarant’ anni. Di lui aveva letto solamente - per curiosità e in un momento di sconforto - Uscita di sicurezza, appena escluso dal premio Viareggio del 1965. Fu un incontro di quelli che segnano la vita e l’arricchiscono - umanamente e culturalmente. Luce d’Eramo gli aveva mandato un suo manoscritto rifiutato dagli editori1. Passò qualche giorno, e Silone le telefonò: il manoscritto gli era piaciuto. Poi, la ricevette in casa sua. Da quel momento nacque tra loro un’amicizia che sarebbe durata fino alla morte dello scrittore: le visite reciproche si fecero più frequenti, i colloqui più numerosi; Silone le si aprì gradualmente; dal lei rispettoso iniziale, passarono al tu confidenziale. D’Eramo cominciò a raccogliere su di lui quante più informazioni poteva - con pazienza e fatica. La conoscenza personale si completò, così, con quella dell’ opera, dove si nasconde l’anima di uno scrittore, che nessun’ altra conoscenza, per quanto intima e duratura, potrebbe mai svelare completamente. Cinque anni dopo (nel 1971), ecco finalmente un libro di circa seicento pagine, frutto di quel lavoro: L’opera di Ignazio Silone – saggio critico e guida bibliografica2 : un libro ricco di testimonianze; «un lavoro di ricerca completo, minuzioso, preciso (con dati altrimenti irreperibili) che non mi sarebbe stato possibile fare» – dice in una lettera – «senza l’assistenza dello stesso Silone. […] una messa a punto di alcuni aspetti essenziali della sua arte e del suo pensiero che sono totalmente ancora ignorati»3. Un libro che smontò, allora, i pregiudizi del cosiddetto “caso Silone”, cambiò il modo di accostarsi all’opera dello scrittore abruzzese, al suo linguaggio, alla traducibilità di questo, alla struttura stessa dei suoi romanzi; uno strumento prezioso per addentrarci nella sua vita e nella sua mente, e fondamentale per ogni successivo studio critico della sua opera. Ma soprattutto fu un omaggio, un atto di riconoscenza verso un grande amico e maestro. Ciò che Luce

d’Eramo ha scritto di Silone, porta il segno di questo sentimento di riconoscenza umana e di amore letterario. Dopo più di quarant’anni, il volume viene riproposto, arricchito, dalla casa editrice Castelvecchi, curato da Yukari Saito4. 2 – Luce d’Eramo è scrittrice lei stessa - una scrittrice che parla di uno scrittore, con il gusto che solo i grandi scrittori hanno. La critica, quando è solo esercizio letterario, è fredda e inutile; quando è solo sfoggio culturale è arroganza. Nella d’Eramo, la cultura si fonde mirabilmente con il gusto e il sentimento. Nei saggi aggiunti all’Opera, scopriamo la stessa partecipazione morale, la stessa attenzione di Silone ai problemi dell’uomo e della società. A distanza di circa quarant’anni5, non hanno perso nulla della loro freschezza e incisività. Nati come scritti d’occasione, letti di seguito non s’avverte più l’occasionalità: sono legati tra loro nella graduale evoluzione artistica, politica, morale, spirituale di Silone; raccontano la sua vita travagliata, ci restituiscono il suo ritratto fisico e mentale. Luce d’Eramo spiega, commenta, discute, analizza; e, nel mezzo, trova lo spazio per dirci di un gesto, del timbro di voce, del movimento degli occhi, di uno sguardo: brevi tratti, rapide pennellate, che il ricordo (a volte commosso) trascrive nello spazio di un articolo; e ci danno, di Silone, un’immagine viva, plastica, familiare. D’Eramo li annota, come a voler commentare, con essi, il pensiero stesso dello scrittore, i suoi sentimenti, o rendere visibile il suo mondo interiore. Come un vero ritrattista, coglie, con mano delicata ma decisa, ogni particolare di lui, senza metterlo in posa, ma lasciandolo muovere nel salotto di casa sua, o durante una conversazione, o sorprendendolo in un momento di abbandono, sdraiato su una poltrona, lo sguardo indulgente o sempre un po’ evasivo, che respira lentamente, alza le spalle, beve un po’ di whisky, parla a bassa voce, «con quel tono peculiare insieme confidenziale e distaccato, col quale era solito ragionare in

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Angelo Angeloni

pubblico come a quattr’occhi»6. Quando sorride (a volte è un sorriso infantile), o il volto gli si allarga per una buona notizia, la sua emozione è sempre contenuta. Il ritratto è vivo; lo osservi: ti sembra di vederlo lì, davanti a te, quest’uomo provato dalla vita. E subito il ritratto esteriore ti rivela quello interiore. 3 – Cominciò a soffrire quando, nel terremoto del 1915, perse i genitori e la casa. Più tardi perse il fratello. Poi, subì la persecuzione politica. A mano a mano, il dolore si depositò nel suo cuore, e divenne una parte di sé. Ma non ebbe mai un momento di cedimento: come i protagonisti dei suoi romanzi, che mai cedono alle circostanze, sempre pronti a ricominciare da capo; gente forte - dice Silone - che ha «un’estrema resistenza al dolore, alla delusione, alla disgrazia, una grande e timorosa fedeltà, un’umile accettazione della croce»7. E Luce d’Eramo ricorda: «Non ho mai conosciuto un essere umano capace di tener testa alle bastonate come lui. Una capacità di incassare i colpi, a tratti mi pareva di gomma. E nello stesso tempo aveva una fermezza interiore, scatti di severità con se stesso - e di riflesso con gli altri - che intimidivano. Era un moralista»8. Silone aveva la forza della rettitudine e dell’integrità morale; la forza di un testimone del tempo: incisiva presenza nella vita di un paese, la quale scuote, pungola, ridesta la coscienza morale e civile. Questo - credo - sia stato l’intento che spinse d’Eramo a riunire questi scritti: evitare che Silone diventasse come una bella pianta dietro una vetrata, che tutti ammirano e passano oltre. In lui, invece, bisogna riscoprire, soprattutto oggi, il coraggio: il coraggio che viene solo da una grande forza morale. La sua è stata la testimonianza di un intellettuale animato da una forte tensione etica, con la quale ha potuto condurre la sua lotta; e quando questa non è stata più possibile concretamente, l’ha continuata sulla pagina: ha scritto. «Il mio modo di scrivere» - disse alla d’Eramo in una

intervista - «diventò il mio modo di vivere e di lottare»9. La scrittura è un’arma che penetra più lentamente nelle coscienze, ma è la più efficace: con il tempo giunge in profondità. «Scrivi» - le diceva - «alla fine un libro arriva dove un intervento diretto da solo non può arrivare, troppi condizionamenti, una tattica tira l’altra, ci si accanisce»10. Ma, attraversare il territorio della scrittura, osservare la mente quando pensa, descriverne i percorsi, gli ostacoli, le zone oscure e quelle luminose, è sempre più difficile che tracciare un tratto del volto o il movimento degli occhi. Il pensiero di Silone - dice d’Eramo - non era semplice come poteva sembrare. Eppure, mentre spiega e commenta, con la stessa mano ferma ci introduce in quel pensiero, nel mondo tutto interiore e spirituale, dove lo scrittore colloca la sua lotta e la sua libertà. Leggendo soprattutto gli scritti della sezione “Altri saggi”, avvertiamo l’ansia di uno che non sa rassegnarsi di fronte ai soprusi, alle prevaricazioni, alle ingiustizie commesse ai danni della povera gente. Come questa, Silone fu educato fin da ragazzo alla scuola della vita; con essa ebbe in comune la fame, la sofferenza, l’angustia di ogni giorno; ma anche la naturale bontà e l’amore per gli altri, che portava questa gente, benché povera, ad aiutare quelli ancor più poveri e affamati. È l’essenza del cristianesimo. C’era, in lui, un tormento, una «irresistibile insofferenza alla rassegnazione» - dice lui stesso - «un’insofferenza dell’ ingiustizia, anche se colpisce gli altri»11. Quella di Silone non è stata una semplice lotta politica; e quando «riscontrò l’impossibilità di una vera rivoluzione immediata, l’ha confinata nell’ utopia, facendo di essa un atteggiamento spirituale, un valore interiore»12. Mi sembra che anche Togliatti una volta disse che Silone non era tanto un politico, quanto un grande, grandissimo scrittore. Silone si sentiva e voleva essere cristiano: questa - dice d’Eramo - era la specificità della sua utopia

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Luce d’Eramo e Ignazio Silone

religiosa, secondo la quale «l’antica e vilipesa figura del “povero cristiano”» avrebbe dovuto rappresentare “l’uomo nuovo”, di cui parlava Marx, secondo le parole evangeliche «gli ultimi saranno i primi»13. Questi ultimi - la gente sofferente, gli innocenti perseguitati - erano il tormento morale e politico di Silone; difenderli era sacrosanto. Possedeva delle certezze (non delle verità) che erano certezze cristiane, fondate su un autentico sentimento di giustizia e di fratellanza, diffuso tra la sua gente; perché la povertà, il dolore, accomunando tutti (forse più dell’amore), rende (dovrebbe rendere) le persone comprensive e partecipi del dolore altrui. E ciò che nasce dal dolore, e non dall’interesse, diviene valore permanente. I cafoni sanno bene cosa è il dolore: giorno dopo giorno ne prendono coscienza, come una realtà indissociabile della condizione umana. Potrebbero ribellarsi a Dio come Giobbe: Dio non ha dato loro una vita felice, ma solo miseria e tribolazione; ogni giorno li mette alla prova. Ma non si ribellano; accettano con umiltà il dolore, «per trasformarlo in verità e coraggio morale»14. Vi è, in questa gente, un’accettazione virile del dolore, una resistenza al destino che non è semplice tolleranza o sopportazione: è, piuttosto, una disposizione interiore, la consapevolezza che il dolore è «la prima delle fatalità naturali». E vi è, anche, la consapevolezza di una redenzione, dell’attesa del Regno di Dio15. Per questo Silone aveva un grande rispetto degli altri: sempre pronto a capire, non ha mai odiato nessuno, nemmeno chi, in qualche modo, gli aveva fatto del male. Sapeva distinguere i giudizi su avvenimenti storici, da quelli verso le persone. Usava ripetere - ricorda ancora d’Eramo - che «la verità non sta in chi la dice, ma in quello che si dice»; i giudizi di valore non si possono capovolgere «secondo che un medesimo atto sia compiuto da uno dei nostri o da un avversario»16. Questo rispetto glielo aveva insegnato il padre, Paolo, un contadino che possedeva qualche coppa di terra a Fucino. Gli insegnò a rispettare con scrupolo religioso la gente e le cose; gli insegnò che il bene è meglio farlo che riceverlo. Con queste virtù - diceva - la vita, pur indurita dalla fatica quotidiana e dalla miseria, sarebbe stata ugualmente sopportabile. La fiducia degli uomini si basa «sulla certezza che essi hanno un assoluto

bisogno di apertura alla realtà degli altri». Questa era, in fondo, la religione, al di là dei riti e delle istituzioni, delle superstizioni e delle ipocrisie. Silone l’incise nel cuore, e in seguito gli fu compagna nella lotta politica e morale.

NOTE 1 – Il romanzo si intitolava I cavalli a San Pietro, ovvero Gli Atei. 2 – Luce d’Eramo, L’opera di Ignazio Silone – Saggio critico e guida bibliografica, A. Mondadori, Milano 1971. 3 – Lettera di Luce d’Eramo ad Arnoldo e Alberto Mondadori, dell’ 8 marzo 1969. 4 – Luce d’Eramo, Ignazio Silone, Castelvecchi, Roma 2014. Alla curatrice Yukari Saito si deve l’introduzione, comprendente una intervista a Daniella Ambrosino, ricordata già nella “Nota” dell’edizione mondadoriana tra i nomi dei collaboratori della messa in atto de L’opera. – All’introduzione segue, nell’edizione attuale, una “Presentazione del libro: L’opera di Ignazio Silone – saggio critico e guida bibliografica” della stessa Luce d’Eramo. – Il volume comprende, poi, la parte “Altri saggi su Silone”, già pubblicati in volume nel 1994, presso gli Editori Riminesi Associati, col titolo Ignazio Silone. – Infine, il “Carteggio Silone-d’Eramo”, dal 1965 al 1978. 5 – I saggi di questa sezione sono stati scritti tutti negli anni Settanta; precisamente dal 1974 al 1979. 6 – Luce d’Eramo, Ignazio Silone; ERA, 1994, pag. 9. 7 – Ignazio Silone, Uscita di Sicurezza; Longanesi, Milano 1971, pag. 81. 8 – Luce d’Eramo, Ignazio Silone; ERA, 1994, pag. 7. 9 – Luce d’Eramo, Ignazio Silone, Castelvecchi, 2014, pag 515. 10 – Id., pag. 523. 11 – Ignazio Silone, Uscita di Sicurezza; cit., pag. 80. 12 – Luce d’Eramo, Ignazio Silone, Castelvecchi, 2014, pag. 510. 13 – Luce d’Eramo, Ignazio Silone, ERA, 1994, “Ignazio Silone fra testimonianza e Utopia”, pagg. 99-107. 14 – 40 domande a Ignazio Silone, in “La Fiera letteraria”, 11 aprile 1954. Ora in Ignazio Silone, Romanzi e saggi, a cura di B. Falcetto; vol. II, pag. 1213. 15 – Ignazio Silone, Uscita di Sicurezza, cit., pag. 80. 16 – Luce d’Eramo, Ignazio Silone, ERA, 1994, pagg.7273.

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LE MASCHERE DELL’ARTE

Gaia Di Lorenzo

Il gioco dell’arte

Si dice dei bambini che agiscono sul mondo tramite «quell'antica connessione di anima, occhio e mano». Anche se alcuni sostengono che si potrebbe dire lo stesso degli artisti, altri vedono un scarto sostanziale tra i due. Secondo Benjamin l'infanzia lascia impronte su di noi mediante le figure. Quella di un bambino, come quella dell’artista d’altra parte, è una visione del mondo per mezzo di figure e illustrazioni. Nella sua metafisica dell’infanzia, Benjamin, riconosce al bambino una condizione particolare di cui partecipa anche l’artista: quello di abitare in una dimensione ulteriore, di far parlare le cose, di dare vita agli oggetti e ai luoghi. La preferenza per un semplice ramo di legno, perché più spoglio è l'oggetto, più fervida è l'opera della fantasia, si avvicina così tanto alla predilezione degli artisti contemporanei per i materiali e le immagini semplici o trovate eppure il primo lo userà per giocare e il secondo per produrre un’opera d’arte. Allo stesso modo la ripetizione incessante che reclamano i bambini con i loro “ancora” e “di nuovo” si avvicina alla tendenza propria degli artisti di ripetere figure, concetti, temi, eccetto l’uno lo fa inavvertitamente e l’altro consciamente. Prendiamo ad esempio la mostra in corso alla galleria Massimo De Carlo a Milano di Josh Smith: ogni tela appesa su ogni parete non è altro che la ripetizione della stessa immagine dipinta con colori lievemente diversi, l’immagine di palme al tramonto. Da un lato potrebbe sembrare una banale

ripetizione, dall’altro canto, siccome è un artista a farlo e siccome lo fa in uno spazio espositivo, si potrebbe pensare a un intento e un significato specifico di tale ripetizione. In un modo simile la mostra di Paola Pivi per la Fondazione Nicola Trussardi nel 2006 ricorda l’infantile collezionare serie infinite di oggetti

apparentemente identici e privi di valore come se fossero tesori. Eppure sarebbe alquanto improbabile che un bambino li collezioni a coppie come aveva fatto l’artista. Così non possono non riportare la mente alle immagini dei libri per bambini i profili di Kara Walker che però, se guardati con più attenzione, rivelano polemiche razziali che un bambino non potrebbe concepire.

C’è un ponte di fitte corrispondenze tra l’immaginario del cosiddetto “paracosmo” infantile e quello artistico, sopratutto contemporaneo. Alle volte i due mondi sembrano essere lo stesso e alle volte si distinguono innegabilmente. Per Pablo Picasso: “tutti i bambini sono artisti. La questione è rimanere artisti mentre si cresce”. Tutti i bambini sono artisti in virtù della loro libertà estrema, che gli artisti devono combattere per mantenere, rispetto alla visione

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Il gioco dell’arte

della realtà univoca propria degli adulti. Questo elaborato vuole esplorare il legame tra l’infanzia e l’arte contemporanea perché, nonostante tutte le suddette corrispondenze, sembra esserci comunque un lieve scarto tra il mondo del bambino e quello dell’artista. E’ forse dovuto al mero elemento temporale; o forse, volenti o nolenti, un certo grado di coscienza inevitabilmente accompagna gli anni che separano i due? Nell’arte contemporanea, come mai prima d’ora, ci si è avvicinati ad una risposta. La produzione artistica degli ultimi decenni ha infatti dedicato un’attenzione notevole a questi temi. Il lavoro di artisti come Fischli & Weiss, Cy Twombly, Martin Creed o Urs Fischer sembra spezzare una lancia a favore della prima tesi, quella secondo la quale l’artista vede con gli stessi occhi di un bambino. Secondo Heidegger l’arte è un’artificiale sospensione dello stato normale delle cose ed è grazie ad essa che riesco a cogliere lo stato proprio delle cose. Nel momento in cui assisto ad un’opera d’arte, le cose cessano di funzionare e appaiono, dice Heidegger, nella loro "cosalità", ovvero nel loro essere cose. La cosa, quindi, è cosa solamente nell’opera d’arte perché mostra la cosa nel suo essere cosa e non nel proprio fine o nel proprio essere mezzo per… In quest’ottica, Heidegger conduce un’approfondita analisi del dipinto di Van Gogh in cui vengono raffigurate due scarpe: queste non vengono ritratte nel loro funzionamento ma sono sospese da ogni funzione e, proprio per questo, ci si accorge che sono cose. E’ importantissimo capire che sono cose e non, propriamente, scarpe: non è un caso che Van Gogh abbia rappresentato due scarpe sinistre! Si potrebbero analizzare allo stesso modo le opere di Haim Steinbach. Il suo modo di esporre oggetti comuni su una mensola affianco ad altri oggetti comuni, sembra scardinare in primo luogo, proprio il modo di guardare dello spettatore. Le cose ci appaiono come cose finalmente; private della loro funzionalità in quanto opera d’arte e decostestualizzate in quanto in una galleria o museo, risultano più loquaci che mai. Ci dicono finalmente che loro sono cose e nient’altro! Sembra proprio questo ciò che vedono i bambini quando il loro interesse si

attorciglia intorno a qualcosa alla quale noi non avevamo mai dato tanta attenzione. Sembra riuscire a decontestualizzarlo, a defunzionalizzarlo e, in virtù della sua neutralità a trasformarlo in qualcosa di nuovo. Così forchette diventano bambole, leggenti e fogli diventano barche e asciugamani vestiti da favola. Dice in proposito l’artista: “La mia prassi artistica cerca di indicare le cose che ignoriamo per abitudine. Una delle realtà della quotidianità è che ignoriamo tutto quello che ne fa parte. Finché una cosa è al posto giusto, siamo tranquilli, e possiamo ignorarla. Ora, la domanda è perché una cosa è al posto giusto, perché siamo tranquilli al riguardo e perché la ignoriamo?”. La sua arte ruota attorno al mettere in evidenza ciò che ignoreremmo altrimenti, nella vita di tutti i giorni,

in casa o a lavoro. Mettendola in un luogo o ordine diverso, Steinbach porta lo spettatore a chiedersi che cosa cambia e, di conseguenza, qual’è l’elemento che ne determina la trascuratezza. Non è un caso che Steinbach usi delle mensole a portata di mano; vuole porci le cose che vi ripone sopra, vuole pro-porcele. A quel punto, forse in virtù del contesto generale della galleria d’arte o forse degli oggetti che lo affiancano, vediamo l’oggetto sotto occhi

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Gaia Di Lorenzo

diversi. Così si nota un orsacchiotto vestito da militare o una scarpa fatta di pasta. Diventa evidente la cromatura di un secchio della spazzatura o il giallo di un pick-up giocattolo. Così finalmente notiamo ciò che nel quotidiano avremmo ignorato, così finalmente guarderemo con gli occhi di un bambino, di un artista. Esistono, affianco al genere di artista di cui si è appena parlato, altri artisti contemporanei che suggeriscono immaginari che, seppur rimandando al mondo dell’infanzia, hanno un effetto molto diverso. In alcuni casi infatti, le opere d’arte appaiono come prodotti appartenenti al mondo dei bambini (oggetti, disegni, dipinti e rappresentazioni di vario genere), ma nascondono un retrogusto amaro e indefinibile, probabilmente quello di una critica; tra questi si enumerano sicuramente lavori come quelli di Jeff Koons, di Rob Pruitt e di Maurizio Cattelan. Questo giudizio di valore aggiunto, allontana l’opera dal solo riferimento all’innocenza infantile e ve ne

accosta un altro: la critica sociale. L’artista, in questo caso, riflettendo, sottoponendosi a auto-esami e riutilizzando temi e materiali ciclicamente nel corso della propria produzione, rinuncia alla presunta inconsapevolezza del bambino e denuncia il suo intento politico. Curzio Malaparte scriveva: “In ogni uomo c’è un bambino morto”. Ed è proprio questo che

ricordano, ad esempio, i lavori di Mike Kelley: la morte del bambino in lui, o del bambino nello spettatore. Un curioso misto tra memorie rosee ma artificiali e ricordi inquietanti stranamente comici. Attorno agli anni ’90, Kelley iniziò ad usare

per la prima volta peluche e bambole abbandonati, materiali che adoperava in molteplici modi come simboli di doni e senso di colpa. Alcune sculture sono cumuli di peluche cuciti insieme, altre sono più piccole, altre ancora sono unite in modo da comporre una figura antropomorfa, altre poi sono semplicemente disposte a terra. Le bambole e i peluche sono i riferimenti, per antonomasia, all’età spensierata; il fatto che siano usati e abbandonati li veste di un senso di pietà e di tristezza. L’utilizzo comico o provocatorio che ne fa Kelley crea un cortocircuito di significati e sensazioni. Nel 1995 fu esibito per la prima volta Educational Complex ovvero un’installazione tridimensionale di ogni scuola frequentata da Kelley e della casa nella quale abitava da bambino. Il lavoro per l’artista rimanda, attraverso l’infanzia, all’idea dell’abuso e della

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Il gioco dell’arte

violenza istituzionale, e non, come si potrebbe intendere dalla descrizione, al senso di appartenenza, al calore e alla sicurezza del passato. E ancora, l’ultimo lavori che ha installato prima della sua morte, Mechanical Toy Guts, è un pezzo sparso a terra, dall’aspetto patetico e lo-fi. Consiste in una scultura-performance composta da una serie di animaletti meccanici, connessi in un circuito, che si muovono, cantano e parlano. Spogliati dalla loro copertura esterna (ovvero il loro corpo) ripetono frasi sconnesse e banali. Il riferimento all’infanzia e all’innocenza ancora una volta è ovvio ma è legato a un’idea di fallimento meccanico e monotono. Come è già ovvio dall’insieme di queste poche opere selezionate, lo speciale legame con il bambino dentro di sé, proprio di ogni artista, non è sempre diretto. Può, come nel caso di Mike Kelley, risvegliare un sistema di ricordi, di colpe, di provocazioni che non può che risultare profondamente critico e complesso, qualità distanti dal bambino. Nel febbraio del 2001 il MOMA PS1 ha

inaugurato la collettiva Almost Warm and Fuzzy: Childhood and Contemporary Art. La mostra invitava più di trenta artisti americani e internazionali, tra i quali Takashi Murakami, Jeff Koons, Laurie Simmons e Mike Kelley, a riflettere sul legame tra l’infanzia e l’arte. Ne risultava un mix di nostalgia e tristezza, di fantasia e di giudizio. Emergevano chiari i due approcci di cui si è parlato sopra: da un lato si

schieravano gli artisti con una visione utopica dell’infanzia che si focalizzavano sull’innocenza del bambino, dall’altro coloro che esprimevano posizioni critiche attraverso

un linguaggio o un’immaginario di bambino. quello invece distaccato e critico. Andando a vedere la mostra uno si sarebbe potuto domandare: “Ma la distanza tra questi due approcci è poi così sostanziale?” e “Può un opera d’arte essere tanto al di sopra delle parti quanto l’occhio di un bambino?”. La risposta a questa domanda tutto a un tratto sembra ovvia. Il giudizio è, per definizione, “qualsiasi affermazione la quale non sia una semplice constatazione del fatto”. Quando un artista produce un’opera d’arte sta indubbiamente affermando la sua opinione riguardo qualcosa. Anche il solo scegliere l’ambito (l’infanzia nel caso della mostra al MOMA ad esempio), è esprimere una propria opinione e aggiungere qualcosa alla percezione pura del bambino. Ad esempio, nella mostra Almost Warm and Fuzzy , gli artisti scelgono cosa vogliono riproporre: nel caso di The Art Guys si tratta del fascino della scoperta delle funzioni corporee, in quello di Yoshimoto Nara l’attrazione per l’immaginario dei cartoni animati e in quello di Laura Whipple la percezione e la scala delle cose del mondo dal punto di vista di un bambino. Un’opera d’arte è sempre tendenziosa, esprime sempre, implicitamente o esplicitamente, un idea, se non altro, puramente estetica. Rimane un mito quello dell’artista-bambino vergine di esperienze culturali ed economiche. Indubbiamente l’artista vi si avvicina di più di qualsiasi altro adulto ma per quanto vicino non potrà mai tornare all’innocenza primitiva. D’altra parte non è questo il punto del frutto proibito?

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LETTURE

Sara Garofalo

Le origini della guerra civile

Il saggio Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, edito nel 2009 dalla casa editrice UTET, rappresenta un contributo esegetico nuovo nel tradizionale quadro storiografico relativo al periodo compreso tra la fine del primo conflitto mondiale e la marcia su Roma. Il lavoro di Fabio Fabbri, infatti, è costruito su una lettura del tutto innovativa del consueto paradigma interpretativo di quegli anni e si propone in qualità di approfondimento di un ripensamento storiografico che dalla fine degli anni Ottanta aveva coinvolto in primo luogo la delicata fase storica della Resistenza, la cui conflittualità è stata sì definita nei termini di una vera e propria guerra civile, ma in una prospettiva di lungo periodo, quale momento finale di un’atmosfera di ostilità persistente, iniziata proprio nel sostanziale quadriennio 1918-1922. L’autore, che vanta numerosi saggi sulla storia del socialismo, sul movimento cooperativo e sulle origini del fascismo, trae le proprie conclusioni originali a partire da un capillare lavoro di ricerca archivistica e documentale, condotta attraverso lo spoglio di un considerevole numero di atti parlamentari, unito alla consultazione del posseduto delle biblioteche e degli istituti di cultura di tutta Italia. Il risultato è quello di una definizione del quadriennio in questione come di un periodo compatto, privo di una vera e propria scissione tra due fasi distinte. L’approccio storiografico tradizionale, invece, incardina quegli anni in una precisa lettura dicotomica: da un lato un biennio rosso (19181920), caratterizzato da una significativa ondata di agitazioni sindacali (con una conseguente diffusione capillare del ricorso allo sciopero, anche nel settore dei servizi pubblici), nonché dall’occupazione delle terre incolte e dei latifondi in risposta all’insostenibile caro viveri e all’aumento del costo della vita - e terminato formalmente con l’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno del 1921 -

dall’altro, secondo una rigida successione cronologica, un biennio nero (1920-1922), in cui si colloca l’assalto fascista a palazzo d’Accursio del 21 novembre 1920, tradizionalmente interpretato – insieme ai conseguenti attacchi in Val Padana - come il momento decisivo dello scatenarsi della violenza armata e della più generale reazione antisocialista, che proprio nel fascio bolognese identifica il suo punto di riferimento. La materia, dunque, è usualmente organizzata in due capitoli diversi e ben definiti. Il primo di essi parte generalmente dalla fine del 1918, quando i lavoratori, coordinati dai sindacati, danno vita ad una densa fase di agitazioni, mossi dalla necessità di migliorare le proprie condizioni contrattuali nei termini di una riduzione dell’orario di servizio e di una significativa correzione delle proprie retribuzioni, pesantemente depauperate nel valore reale dall’esplosione dell’inflazione. Il significato di questi anni non si esaurisce però nella mera rivendicazione sindacale, ma rimette in discussione l’intero diritto di proprietà e l’organizzazione stessa della forza lavoro: della gravità del momento è testimonianza la partecipazione agli scioperi non soltanto di operai e contadini, ma - differentemente dall’esperienza rivendicativa del 1901-1902 anche di alcune categorie del pubblico impiego, come quella dei ferrovieri. Alimentate dalle vicende della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, le attività di sciopero si accompagnano ad aspirazioni radicali di cambiamento, come dimostrato dalla formazione spontanea di consigli operai che, sul paradigma dei soviet russi, si propongono quali rappresentanze dirette del proletariato, scavalcando addirittura le tradizionali organizzazioni dei lavoratori in fabbrica. L’ondata di agitazioni operaie si manifesta nei singoli paesi europei con forme e intensità diverse, seppur sulla base di un medesimo malcontento, alimentato non soltanto dall’esperienza sovietica, ma anche dai moti

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Le origini della guerra civile

dell’Europa centrale, come la rivoluzione d’Ungheria o l’insurrezione spartachista tedesca. La Francia, grazie ad uno sciopero generale che coinvolge l’intero settore industrializzato, è protagonista di storiche conquiste sociali, come l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore. Riguardo all’Italia (dove, anche se risulterà più difficile che altrove comprimere il fenomeno operaio, non sarà comunque mai possibile replicare l’esperienza russa), la storiografia tradizionale concorda nel qualificare l’occupazione delle fabbriche dell’estate– autunno 1920 come il culmine e al contempo la fine dello sforzo di trasformazione dell’assetto produttivo nazionale e del sistema di organizzazione del lavoro da parte del proletariato. Il fallimento del sogno rivoluzionario è stato variamente commentato: se per De Felice il movimento di occupazione delle fabbriche non è stato in grado di coinvolgere con sufficiente entusiasmo l’intero Paese, per Sabbatucci quell’insuccesso si deve soprattutto alle inadempienze e all’atteggiamento troppo cautamente riformista dei vertici sindacali. In ogni caso, l’esperienza socialista delle agitazioni è condannata storiograficamente a trovare le cause della sua disfatta in ragioni tutte interne alla sua storia. La scissione del movimento operaio decretata dal Congresso del 1921, consumatasi nel fallito tentativo di superare la dicotomia tra riformismo e massimalismo e nella vana prospettiva di una imminente rivoluzione europea, contribuisce alla nascita e alla diffusione della controffensiva della borghesia, che, intimorita dalle occupazioni, comincia a guardare con favore al fascismo. L’assenza di una vera forza aggregatrice del proletariato da

parte del partito socialista si accompagna al consenso crescente delle classi medie nei confronti della violenza fascista. Ne La disgregazione dello Stato liberale, Alessandro Roveri parla di una vera e propria controrivoluzione, la quale troverebbe le sue ragioni, oltre che nella paura del bolscevismo, negli effetti laceranti di una crisi economica che, iniziata in Giappone nella primavera del 1920, tende a propagarsi nel mondo occidentale colpendo duramente gli Stati Uniti, per raggiungere l’Italia già l’anno seguente. Pur non assumendo unanimemente la definizione di fascismo come di una vera e propria forza controrivoluzionaria, gli orientamenti storiografici tradizionali ne riconoscono la funzione di strumento di tutela delle classi dirigenti, in particolare dopo la sua trasformazione da «movimento rivoluzionario» a «movimento d’ordine», caratterizzando questa fase come l’inizio di un biennio di scontri e di violenze destinate a culminare con la marcia su Roma del 1922. La borghesia urbana e rurale, fino a questo momento poco aggressiva nei confronti del pericolo massimalista, vede nell’episodio di Palazzo d’Accursio - vero e proprio atto di nascita del fascismo agrario - il momento fondante della legittimazione della propria controffensiva. Nei due anni successivi all’assalto del consiglio comunale di Bologna, la piattaforma di consenso del fascismo si arricchisce progressivamente; da un lato, il movimento beneficia dell’adesione degli industriali (per cui il fascismo è meritevole del ripristino dell’organizzazione gerarchica nelle fabbriche), i quali, dopo un primo momento di sostanziale osservazione, costituiranno

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Sara Garofalo

addirittura il nucleo di finanziamento della presa del potere del 1922; dall’altro, vi sono gli ex combattenti e tutta la piccola borghesia del Centro Nord nazionalista e antisocialista, che della reazione è la base militante. Secondo l’assunto de Le origini della guerra civile, è necessario rivedere tutta la lettura tradizionale del potenziale pericolo rivoluzionario e della conseguente controffensiva borghese, dal momento che la reazione fascista al cosiddetto «biennio rosso» si manifesta, de facto, a pericolo ormai esaurito. Lo stesso Federico Chabod parla del timore borghese di questi anni come di una sorta di paura retroattiva, quale risultato del disagio provocato da una lunga e fiaccante stagione di scioperi più che come reazione ad un pericolo reale, che invece si andava ormai dissolvendo. Risulta invece più puntuale parlare di una precisa volontà di mantenimento dello status quo da parte della classe dirigente. Essa appare evidente, come dimostrato da Fabbri, già nel 1918, durante le manifestazioni di giubilo esplose in molte città italiane alla fine della guerra: la reazione del governo Orlando e più in generale dei prefetti è tutta orientata al controllo capillare dell’entusiasmo pubblico, nel timore che i festeggiamenti possano facilmente assumere un carattere politico, trasformandosi in agitazioni sovversive. I prefetti vengono sollecitati ad avviare contatti con i leader più «ragionevoli» delle orga-nizzazioni socialiste e operaie in particolare, mediante modalità di gestione dell’ordine pub-blico destinate a ripetersi spesso nei governi Giolitti.

La fragilità della classe dirigente, tendenzialmente incapace di gestire con lungimiranza i fenomeni di mobilitazione di massa conseguenti al conflitto mondiale, favorisce necessariamente quelle forze, socialiste e cattoliche, che possono a buon diritto considerarsi estranee alla tradizione dello Stato liberale e che, rappresentando le larghe masse, possono meglio interpretare le dimensioni nuove della lotta politica. I timori generali sono dunque indirizzati soprattutto a quel socialismo che voleva riprendere il progetto di rivoluzione democratica che l’esperienza risorgimentale aveva lasciato a metà e a cui la borghesia non poteva acconsentire. A partire da questa chiave esegetica, Fabbri sostiene che per gli anni 1918-1921 non possa parlarsi di una contrapposizione tra due bienni di violenza antagonista, quanto - soprattutto dopo il fallimento dei movimenti di occupazione delle fabbriche di un deliberato tentativo di indebolimento di tutte quelle istituzioni socialiste che avevano invece carattere legale, come le sezioni, le camere del lavoro e le case del popolo. Rifacendosi alla lucida analisi di Giacomo Matteotti, che nei suoi discorsi parlamentari del 1921 denunciava la barbarie dello squadrismo, il saggio di Fabbri definisce dunque questa fase come una guerra civile, intesa come reazione capillare al radicamento del socialismo riformista nella società e nelle amministrazioni locali.Libri

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Carlo Vallauri lanciato ai giovani attraverso una serie Alexander Langer, Non per il potere, straordinaria di iniziative, ponendo, a se stesso Chiare Lettere Editore. e agli altri, interrogativi inquietanti di fronte ai troppi silenzi dominanti nella società italiana. Alexander Langer, al quale ora l’editore La sua sensibilità non ammetteva Chiare Lettere dedica un bel volume, Non per compromessi perché egli guardava sempre il potere, ha rappresentato, negli anni duri alla pienezza delle convinzioni e alla dell’Italia trascinata verso la violenza eversiva, responsabilità negli atteggiamenti sul versante un punto fermo per chi non intendeva cedere economico al fine di meglio intendere le alle violenze, nelle varie incarnazioni. E come specifiche esigenze nascenti nel delicato è posto in rilievo nell’apertura nota editoriale, ambiente inter-etnico nel quale egli viveva. il giovane pacifista è stato un instancabile L’adesione a “Lotta continua” denotava una “creatore di ponti” tra associazioni civiche a volontà operativa ben oltre le singole livello transnazionale nonché animatore questioni nelle quali si dividevano le forze instancabile della tesi della necessaria politiche. Contro le “gabbie etniche” la sua conversione “ecologica” della società e parola sarà sempre chiara e netta. Interessante dell’economia, quando questa matura l’osservazione che se una volta si imparava dai concezione dei rapporti a livello globale era libri, gli eventi lo avevano condotto a giovarsi ancora “in fieri”. sempre più dell’esperienza di “incontri” diretti Il suo pensiero ha contribuito a dare nei quali si svolgevano scambi in grado di sostanza ad una costante opera di volontariato attraverso il “coraggio di compiere azioni radicali”. Il prof. Federico Faloppa sottolinea poi con precisione la capacità di Langer di mettere in atto la sua “indignazione” mediante il richiamo pertinente alla dignità dell’uomo quale premessa d’ogni azione politica. E questi elementi spiegano altresì il significato della Fondazione a lui intestata e ispirata a sostenere e diffondere le sue idee, in particolare quella costante denuncia contro il “demone dello sviluppo”, che negli anni ’80 poteva sembrare una affermazione generica mentre era in effetti una significativa anticipazione di motivi che troveremo in seguito in importanti contesti. superare schemi pregiudiziali. Tra le numerose Dalle carte rielaborate e presentate nel libro notazioni degli scritti di Langer vengono emerge la “rivoluzione non violenta” quale ricordate le ragioni che lo inducevano ad punto fondamentale per migliorare i rapporti assumere posizioni molto nette sulla necessità tra Est e Ovest: Alexander è stato esponente di “liberare” l’Est europeo dalla compressione di quella “sinistra cristiana” che ebbe nel ’68 imposta da una forma degenerata di un suo momento di critica espressione morale “socialismo”. Precipua importanza egli dava ai ancor prima che politica al fine di cambiare mutamenti demografici e al rischio della qualcosa nelle “regole della città” per perdita di autonomia della persona umana nel migliorare i modi di rapportarsi alle vicende corso del succedersi dei contrasti politici. I concrete, a costo di apparire impopolari. rischi dell’inquinamento inoltre erano “Non si può far finta di non sapere”. Una analizzati nel quadro di un turismo usato solo chiara denuncia dell’approssimatismo di tanta a scopo di sfruttamento, mentre rivendicava parte dei dirigenti della politica italiana e che l’esigenza, per il movimento operaio, di nella terra di Langer era particolarmente rompere la subalternità al fattore produttivo. avvertita. Zona di frontiera che spiega i Inoltre riteneva necessario valorizzare gli caratteri supernazionali dell’incitamento elementi pratici di un impegno civile ben oltre 47


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le concezioni statalistiche. La stessa intuizione del primato dell’”austerità” è chiaramente indicata quale passaggio per l’affermazione della solidarietà e della convivenza nel reciproco rispetto. Incessante infine il suo appello per l’attuazione di azioni concrete ai fini della salvaguardia della pace. E proprio per queste ragioni nel mio recente studio L’arco della pace, Ediesse editore, ho dedicato un accurato richiamo all’indimenticabile Alexander e a quelle che chiamava “interferenze plurime”, dirette a favorire cooperazione tra i popoli nel riconoscimento dei rispettivi diritti, senza invadenza e soprusi. Carlo Vallauri Marco Alloni, Se non siamo innocenti, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2011

“Comportati come se fossi felice: la felicità verrà dopo”: questa citazione di Singer sintetizza il “partecipe distacco” di Claudio Magris – secondo l’espressione di Marco Alloni che dialoga con lo scrittore in Se non siamo innocenti (Aliberti editore, Reggio Emilia, 2011) – una visione della vita che da’ “forza morale” all’esistenza.

Traendo dal comportamento dei genitori i valori di lealtà, fedeltà e coraggio lo studioso – certamente il più europeo ed internazionale dei nostri maestri – offre una lettura etica degli insegnamenti ricevuti e trasmessi attraverso la sua opera e la costante sollecitazione ad attraversare le tragedie e le incertezze della nostra epoca mantenendo sempre, pur nella

asprezza delle esperienze umane che hanno segnato in profondità il suo spirito, quel sufficiente livello di ironia, probabilmente raccolto dalla sua frequentazione culturale con l’ebraismo. Pur proveniente da una educazione cattolica di fondo (anche se appartenente ad una famiglia “non praticante”), la sua percezione intima di principi fondamentali non gli ha impedito di raccogliere una pratica quotidiana liberatrice dai rischi di ogni rigida impostazione. Le sue letture (da Cervantes a Weber, da Tolstoj a Svevo, come precisa) gli hanno dato una “formazione esistenziale” che lontano – egli scrive – dall’ambiguità del nichilismo, rendendolo consapevole della friabilità delle cose, donde la fascinazione del mito asburgico (caratteristico delle sue origini), come una razionale testimonianza di quella sofferenza vissuta, capace di far comprendere il “senso di colpa” nel coinvolgimento inquietante di una generazione non mera spettatrice. Così egli ha acquisito la consapevolezza di eventi subiti come possibilità di intendere le virtù e nello stesso tempo le debolezze dell’agire umano, nella compensazione dell’inevitabile logica del compromesso come del continuo mescolarsi della purezza e dell’ambiguità. In questi concetti, nel contesto specifico di una memoria, contrassegnata dalle giovanili esperienze e nella conquista graduale, personale e morale di sentimenti e ricomposizione di orizzonti chiaramente intravisti e perseguiti, Claudio Magris simboleggia – come emerge dai sui studi di germanistica come nei suoi libri (da Danubio a Microcosmi, che l’autore di questa recensione indicava sempre agli studenti dell’Università per Stranieri di Siena come indispensabili per la conoscenza della moderna cultura europea) – una convinzione di senso morale unita al “desiderio di fare”, aspetti centrali della presenza viva dello scrittore nella realtà di complessi sociali ed umani travalicanti le singole religioni, come le diverse tradizioni costituenti la sua essenziale personale identità. Il senso dell’assoluto e del divino, caratteristica nella cultura della sua gente, emerge con chiara serenità nei suoi ricordi, nel suo infaticabile “fare” e – ci permettiamo di sottolineare – di “dare” agli altri.

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Atti del Convegno su “La formazione dello Stato unitario” tenutosi a Palazzo Montecitorio il 6 giugno 2011 nell’ambito delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia. Gli interventi sono stati integrati da altri svolti in occasione di incontri realizzati a Tagliacozzo il 18 marzo 2012 e presso la Biblioteca della Camera dei Deputati il 12 e 19 marzo 2012 sul tema “In difesa del Risorgimento” nell’ambito del Progetto della Fondazione Giacomo Matteotti Onlus su “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento”. In appendice gli interventi che le più alte Autorità dello Stato hanno pronunciato in occasione della cerimonia celebrativa dell’unità d’Italia che ha avuto luogo nell’Aula di Palazzo Montecitorio il 17 marzo 2011.

Atti del Convegno tenutosi in due parti, il 29 novembre 2011 presso l’Aula Moscati della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’università degli Studi di Roma “Tor Vergata” sulla letteratura, ed il 16 dicembre 2012 presso la Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio sul pensiero politico, nell’ambito del Progetto “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento” della Fondazione Giacomo Matteotti - Onlus in occasione delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia. Nelle rispettive Appendici si è ritenuto utile inserire due interventi in arricchimento e in sintonia con i temi del Convegno.



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