TEMPO PRESENTE
N. 403-404 luglio-agosto 2014
euro 7,50
TREMELLONI * EUROPA * BICAMERALISMO * PRIMAVERA ARABA * ETICA E ECONOMIA * MARGINALIA * FRAMMENTI * ARTE CONTEMPORANEA * PREMIO STREGA 2014
a. aghemo g. amato a. angeloni g. cantarano a. casu g. cotroneo g. di lorenzo m. di michele p. fontanelli s. garofalo m. granata a. patuelli a.g. sabatini c. vallauri s. venditti Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA
DIRETTORE RESPONSABILE
Angelo G. SABATINI
COMITATO EDITORIALE
Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Corrado OCONE - Gaetano PECORA Luciano PELLICANI - Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI CONSIGLIO DEI GARANTI
hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE
Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI GRAFICA
Adriano MERLO PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel. 06/8078113 - fax 06/94379578 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)
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TEMPO PRESENTE
Rivista mensile di cultura N. 403-404 luglio-agosto 2014
COMMENTO GIROLAMO COTRONEO, Europa, Europa, p. 3 GIUSEPPE CANTARANO, Bicameralismo addio, p. 8
OSSERVATORIO SARA GAROFALO, Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa, p. 10 ALBERTO AGHEMO, Banche, cittadini e imprese: le riflessioni dello studioso (e banchiere) Antonio Patuelli, p. 14 ANTONIO PATUELLI, Etica, finanza, impresa ed economia, brano tratto dal libro Banche, cittadini e imprese, p. 16 MARGINALIA ANTONIO CASU, Chi è davvero il Gattopardo?, p. 17
FRAMMENTI ANGELO G. SABATINI, Guerra e resistenza in Abruzzo, p. 18
INTERVISTA EMMANUELE F. M. EMANUELE, Senza privati l’arte è a rischio, p. 19 Intervista di Sarina Biraghi
UOMINI E IDEE PAOLO FONTANELLI, GIULIANO AMATO, MATTIA GRANATA, ANGELO G. SABATINI Presentazione del volume Discorsi parlamentari di Roberto Tremelloni, p. 22 LE MASCHERE DELL’ARTE GAIA DI LORENZO, Cosa c’è di contemporaneo nell’arte oggi?, p. 36 ANGELO ANGELONI, Premio Strega 2014, p. 43 LETTURE ANTONIO CASU, Troppa legislazione di Herbert Spencer, p. 44 CARLO VALLAURI, La rivoluzione etica di Vittorio Cimiotta, p. 45 SERGIO VENDITTI, Diritto e sviluppo - missione e strumenti delle organizzazioni economiche internazionali di Luca Martino Levi, p. 46 MAURIZIO DI MICHELE, La "Democrazia Cristiana" in Giuseppe Toniolo di Mario Ciampi, p. 47
COMMENTO
Girolamo Cotroneo
Europa, Europa
Credo che in un momento difficile come quello che l’Europa comunitaria sta attraversando, immersa com’è in una crisi dalla quale sembra non riesca a uscire, la domanda: “Perché l’Europa?” non nasca soltanto presso i soliti “euroscettici”, ma anche nella mente di coloro che nell’Europa, nella sua unità materiale e spirituale, hanno creduto e credono ancora, nonostante la vedano scontrarsi con difficoltà che appaiono insuperabili, che mettono a rischio la sua non proprio solidissima integrità. E questo al punto che viene da chiedersi se erano validi, e soprattutto se sono stati raggiunti, i fini che, dopo la seconda guerra mondiale, hanno spinto alcuni Stati dell’Europa occidentale verso quelle forme di integrazione che tutti conosciamo, dalla modesta “Comunità del carbone e dell’acciaio” alle attuali istituzioni economiche e politiche. Che queste ultime attraversino oggi una crisi che induce parte notevole della nostra opinione pubblica, e alcuni movimenti politici, a vedere nell’Europa un ostacolo allo sviluppo del nostro paese, che considerano, come usa dire, “commissariato” dall’Europa, che vedono al suo interno la presenza di discutibili egemonie, è una convinzione largamente diffusa e non priva di qualche ragione. Ma questo non deve impedirci di comprendere che la dissoluzione della Comunità Europea sarebbe una catastrofe di cui è difficile valutare la portata, e che comunque può essere evitata avviando alcune importanti riforme: cosa che non deve certo preoccupare perché, come scriveva nel 1796, nelle sue celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese, uno dei più noti rappresentanti del pensiero conservatore, per non dire reazionario, Edmund Burke, «uno Stato privo di ogni possibilità di mutamento non ha neanche modo di conservarsi».
Ma perché l’Europa, nata soprattutto come comunanza economica, per garantire un dignitoso – e anche qualcosa di più – livello di vita ai propri concittadini, si è ritrovata, nonostante i successi, tra i quali la contestata moneta unica, in crisi proprio su questo terreno, ove invece ha raggiunto risultati eccellenti in altri ambiti non esplicitamente indicati tra i suoi fini, anche se impliciti nella sua stessa ragion d’essere, nel suo stesso costituirsi? Prima di tentare di rispondere a questa domanda, può essere opportuno ricordare che l’impulso alla nascita dell’Europa ha radici lontane; un impulso diverso da quello che negli anni Cinquanta del secolo scorso doveva portare alla sua costituzione, voluta e progettata come comunità economica. Il 7 e 10 maggio del 1935, in uno dei periodi più tristi della storia d’Europa, uno dei più grandi filosofi del Novecento, Edmund Husserl, teneva a Vienna due conversazioni dal titolo La crisi dell’umanità europea e la filosofia. Verso la fine della prima diceva: «L’Europa non è […] un aggregato di nazioni contigue che si influenzano a vicenda soltanto attraverso il commercio e le lotte egemoniche, bensì uno spirito nuovo che deriva dalla filosofia e dalle scienze particolari che rientrano in essa, lo spirito della libera critica e della libera normatività, uno spirito impegnato in un compito infinito, che permea tutta l’umanità e crea nuovi e infiniti ideali». E quasi presago della tragedia alla quale l’Europa andava incontro, aggiungeva: «La crisi dell’esistenza europea ha solo due sbocchi: il tramonto dell’Europa, nell’estraneazione rispetto al senso razionale della propria vita, la caduta nell’ostilità allo spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell’Europa nello spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace di superare definitivamente il naturalismo».
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Girolamo Cotroneo
Lascio da parte il nucleo teoretico di queste parole, l’idea che la cultura che aveva dato vita all’Europa era stata opera di «un paio di greci stravaganti», i quali, scriveva ancora Husserl, avevano dato «l’avvio a una trasformazione dell’esistenza umana e di tutta la sua vita culturale». Un fenomeno questo – la nascita della filosofia, la trasformazione del mito in scienza –, che, a dire di Claude Lévi-Strauss, si sarebbe verificato in un solo momento e in solo luogo nella storia, «alle frontiere del pensiero greco, là dove la mitologia fa posto a una filosofia che emerge come condizione preliminare della riflessione scientifica». Una “riflessione” che ha finito con l’essere la caratteristica della civiltà occidentale, quella che ha creato idealmente l’Europa condizionandone la comune civiltà, sopra e oltre la sua storia politica. Non ho certo indugiato a caso su queste ultime affermazioni: perché se l’Europa o, meglio, il continente europeo, ha visto per secoli gli Stati che lo abitavano in perenne conflitto tra di loro, è stato sempre unificato dalla sua cultura, dalla sua filosofia in particolare, che ne ha fatto una grande “comunanza ideale”, superando ogni barriera, ogni confine politico e linguistico tra i suoi popoli, diventando, per così dire, il loro superego, la loro coscienza comune, senza per questo riuscire, e forse neppure tentare veramente di superare le profonde divisioni politiche tra i diversi Stati, respingendo anzi ogni tentativo di unificazione. Ascoltiamo a questo proposito le parole di un noto, e autorevole, storico inglese, Herbert Albert Laurens Fischer, che si leggono nella sua Storia d’Europa, apparsa nello stesso anno, il 1935, della conferenza di Husserl: «I grandi tentativi di imporre un sistema comune agli energici e volontari popoli europei», scriveva dunque Fischer, «fallirono uno dopo l’altro. L’impero romano non riuscì a soggiogare i germani. La Chiesa cristiana, la più possente forza unificatrice dei tempi storici fu prima fratturata dal disaccordo tra greci e latini, poi dalla
rivolta del nord protestante. Né i sistemi filosofici seppero meglio conquistare l’universale consenso. L’Europa rifiutò di essere unificata dal piano egualitario della rivoluzione francese: allo stesso modo respinge ora il ferreo programma del comunismo russo. E tuttavia, fin dal primo secolo della nostra èra, il sogno dell’unità aleggiò sulla scena dominando l’immaginazione di statisti e di popoli. E nulla importa per il futuro benessere del mondo quanto definire il sistema in cui meglio possano combinarsi le nazioni d’Europa, le cui differenze son tante e così radicate, con un’organizzazione stabile, intesa a perseguire i loro interessi comuni e a evitare ogni lotta». Quanto abbiamo ascoltato, serve a ricordare che i tentativi di unificazione dell’Europa hanno sempre avuto, da Cesare a Napoleone, il carattere di una conquista militare; ed è per questo che sono falliti. Ma quando è nata l’idea di Europa come possibile, forse necessaria, struttura politica sovrastante le singole nazioni? E quando, si è chiesto Federico Chabod nel 1961, nella sua Storia dell’idea di Europa, «dalla fede in alcuni valori supremi, morale e spirituali, che sono creazione della nostra civiltà europea, è nato […] l’impulso a ripercorrere storicamente l’iter di questa civiltà, e, anzitutto, a rispondere al quesito, come e quando i nostri avi [hanno] acquistato coscienza di essere europei»? E quando, si è chiesto ancora, «gli uomini abitanti in terra europea cominciarono a pensare se stessi e con sé la propria terra, come un qualcosa di essenzialmente diverso, per costumi, sentimenti pensieri, dagli uomini abitanti in altre terre al di là del Mediterraneo, sulla costa africana […], o al di là dell’Egeo e del Mar Nero in terra asiatica?». E ha risposto che se «delle basi, diremo di fatto, della civiltà europea si può parlare sin dal mondo antico e ancor più dal trionfo del cristianesimo e della civiltà cristiana, e cioè dal Medioevo, di una precisa e chiara coscienza europea non si può discorrere se non nell’età moderna». Ma tornando adesso alla “filosofia” che
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Europa, Europa
Husserl per primo ha introdotto con forza nel discorso sull’Europa, quando, dopo poco meno di vent’anni dalle sue conferenze, dopo la più terribile e devastante guerra che i popoli europei avessero mai vissuto, vennero gettate per la prima volta le basi per una futura unità del Continente, o, almeno della sua parte occidentale, oggetto privilegiato delle discussioni che dovevano portare a quella unità furono soprattutto, se non soltanto, di natura economica. Nel 1951 venne creata, come prima ho ricordato, la “Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio”, mentre nel 1958 vide la luce la Comunità Economica Europea, contrassegnata, appunto, da accordi economici, con la convinzione che quelli politico-culturali non potevano non seguire. °°o°° Il processo che portò alla costruzione dell’Europa di oggi, è sotto il tiro non soltanto di economisti e politici, ma anche di grandi intellettuali, assai critici nei suoi confronti, non perché ne vorrebbero lo scioglimento, ma perché vorrebbero che perseguisse una strada diversa, altri traguardi che non quelli dell’unità economica e monetaria, peraltro piuttosto malriuscite. Tra questi vorrei qui ricordare un elegante e raffinato scrittore e poeta tedesco, Hans Magnus Enzensberger, il quale ha pubblicato un volumetto apparso l’anno scorso nel nostro paese presso Einaudi, con il titolo Il mostro buono di Bruxelles, dove per “mostro buono” viene intesa la burocrazia europea, che cerca – malamente come ogni burocrazia – di unificare l’Europa non ricreando – e come potrebbe una burocrazia? – un rinnovato spirito unitario, ma tentando di superare le diversità legislative tra i singoli Stati dell’Unione con leggi e regolamenti – Enzensberger ne ricorda alcuni a dir poco paradossali, come la promulgazione di «regole concernenti le protesi dentarie», o l’obbligo di riportare «sulla confezione se un formaggio è stagionato in salamoia»; regolamenti, dicevo, che certo non servono allo scopo.
Questo non significa tuttavia che lo scrittore tedesco liquidi come inutile, se non addirittura dannosa, l’attuale Unione Europea. In capite libri, ad esempio, segnala che «nella storia del nostro continente sono pochi i decenni nei quali abbia regnato la pace. Dal 1945, fra gli stati che fanno parte dell’Unione Europea non si è più avuto un solo conflitto armato. Quasi l’intera vita di un uomo senza guerra! Un’anomalia della quale il nostro continente ha di che essere orgoglioso». E non solo: oggi, per esempio «chi possiede un passaporto della maggioranza dei paesi membri, può risiedere dove vuole senza fare code negli Uffici Stranieri per ottenere un permesso di soggiorno o di lavoro»; e questo porta Enzensberger alla conclusione che «il processo di unificazione dell’Europa ha cambiato in meglio la nostra vita quotidiana. Per molto tempo esso è stato economicamente così positivo che ancora oggi aspiranti di ogni genere premono alle sue porte per entrare». Detto questo, però, dopo avere scritto che siamo certamente davanti a «buone opere delle quali c’è da esser fieri», si è chiesto: «Dovremmo dunque congratularci con i guardiani di Bruxelles per i bei risultati che, a dispetto dell’ ”interesse nazionale” gelosamente tutelato, hanno ottenuto in molti settori?»; e ha risposto che «non è assolutamente necessario; volentieri, infatti, le autorità europee ci risparmiano questa fatica». Ma dove la mano di Enzensberger diventa davvero pesante è quando affronta la politica culturale dell’Unione Europea. E anche qui gli lascio direttamente la parola: «Pur con tutto l’immancabile immischiarsi nella nostra vita quotidiana, un unico campo non è stato ancora dissodato. Ed è la cultura. L’Unione non ci ha mai tenuto molto. Dà fastidio se non altro per il fatto di essere difficilmente omologabile». Una indifferenza che tuttavia presenta un aspetto senz’altro positivo: «Meno le autorità di Bruxelles», scrive, «si interessano alla cultura, meglio è. A quanti, siano essi produttori o pubblico, sta a cuore questo
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Girolamo Cotroneo
aspetto dell’umana esistenza, tale menefreghismo risparmia le arroganti vessazioni con cui devono combattere altre attività. Ci mancherebbero davvero anche le direttive su come in Europa sia consentito, dipingere, danzare e scrivere». Che la cultura – e non soltanto la filosofia – sia, come del resto ho detto più volte, il più forte elemento unificante dei popoli europei, è un fatto certo: Flaubert e Tolstoi si leggono a Parigi e a San Pietroburgo come a Roma; Mozart si ascolta a Vienna come a Palermo; a vedere una mostra di Goya ci si precipita sia a Madrid che a Milano. Ma la cultura nasce, e circola, spontaneamente. Il “mostro” che cercasse di organizzarla diventerebbe – come in diverse occasioni è accaduto – subito “cattivo”. La cultura ci dice soltanto che tra i popoli europei vi sono valori e ideali comuni, che molto possono contribuire per giungere a una unità “politica”, o più ancora, eticopolitica. Di questa “unità” hanno discusso – con toni e procedimenti diversi – due grandi intellettuali italiani, Giuliano Amato e Ernesto Galli della Loggia in un volume apparso non molto tempo addietro per Il Mulino, con il titolo Europa perduta?, un volume che merita certamente qualche attenzione. Come Enzensberger, né Amato, né Galli della Loggia sono antieuropeisti. Ciò che hanno in comune – e non sono i soli – è la certezza che le istituzioni europee siano caratterizzate da una forte carenza di democrazia, che è invece ormai patrimonio comune di tutti i paesi che fanno parte dell’Unione, anzi condicio sine qua non per farne parte. Nella prefazione hanno scritto: «Entrambi gli autori […] pensano non solo che il progetto europeo vada proseguito (euro incluso per ciò che riguarda l’Italia), ma che ciò vada fatto mettendosi su una strada diversa da quella del passato. Con molta più attenzione al vario radicamento storico dei popoli, alle loro identità culturali e alle loro esperienze nazionali; ma soprattutto con più democrazia, più poteri a organi responsabili davanti agli elettori, e più politica. Cioè, alla fine, più
spazio all’iniziativa e al coraggio di chi è chiamato a dirigere, più spazio alle grandi speranze di cui abbiamo più che mai bisogno». Recensendo poco dopo la sua comparsa questo volume sul “Corriere della Sera”, Antonio Carioti ha scritto che «la convergenza tra i due autori […], è tutto sommato, solo apparente». Amato infatti, ha proseguito, «vuole più politica per rafforzare un processo già in corso, correggerne le storture, pilotarne dall’alto il cammino verso l’approdo federale», ove invece «la politica invocata da Galli della Loggia ha il volto del “potere costituente”, della decisione popolare sovrana che crea una cesura col passato e inaugura una fase del tutto nuova». Nonostante però le diversità dei progetti – federalista il primo, unitario il secondo – essi hanno in comune qualcosa di molto profondo, e a mio parere, decisivo. Giuliano Amato appare senz’altro fiducioso nella ripresa dell’Europa; una ripresa le cui condizioni non possono essere soltanto le soluzioni tecniche di cui tanto si parla, «si tratti di unione bancaria, di capacità fiscale europea, di elezione più o meno diretta di questo o quello»; soluzioni del tutto inutili, se non accompagnate da «sentimenti collettivi, speranze, timori e aspettative, su cui bisogna aver lavorato perché la razionalità riesca a essere condivisa, insieme ai risultati che ne dovrebbero venire». Pur convenendo su questo, mi sembra difficile dire che cosa – mentre la sfiducia nei suoi confronti cresce a vista d’occhio – potrebbe fare rinascere quei sentimenti e valori da cui è nata la Comunità Europea, e che discendevano da quegli eventi traumatici che sono stati il nazifascismo, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, oggi tutti così lontani da noi; e di questo sembra senz’altro consapevole Galli della Loggia, il quale – più o meno alla maniera di Enzensberger con il quale concorda su diversi punti – vede l’Europa inaridita dalle sue regole, dalla sua burocrazia, dall’assenza di una “politica” seria, «ispirata alla democrazia, animata dal suo genio, fiduciosa nelle sue virtù e nelle sue risorse»; e accanto alla
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Europa, Europa
democrazia «i diritti certamente, e il welfare, e la libertà, e l’accordo piuttosto che il contrasto, la moderazione invece della prepotenza». Ma di tutto questo, conclude non senza amarezza, nulla è venuto da Bruxelles: «Non ci sono mai arrivate né la sovranità popolare, né una visione. Né la democrazia né la politica. Questo dunque è lo scoglio da superare per disincagliarci dalle secche e riprendere la rotta per l’alto mare aperto. Che non sappiamo ancora a quale Europa ci porterà: sappiamo solo che questa, e nessun altra, sarà la nostra Europa». A questo il noto politologo aggiunge dell’altro: per esempio che senso, che valore possono avere delle elezioni «nelle quali candidati ed elettori – cioè governanti e governati – non siano in grado di comunicare tra loro, cioè non parlino la medesima lingua?». E giunge a negare validità pure alla tesi con la quale Enzensberger inaugurava i suoi scarsi encomia della Comunità Europea: la “leggenda”, così la chiama, che abbiamo sentito tante volte ripetere, «secondo la quale l’esistenza dell’Europa per deludente che sia, potrebbe vantare se non altro un grande obiettivo storico raggiunto: avere impedito con la sua sola presenza la guerra nel continente». Tesi che Galli della Loggia considera una semplice menzogna, ritenendo invece vero il contrario, dal momento che «è stata una tale pace ad avere reso possibile l’Europa», perché «dal 1945 in avanti il nostro continente non ha conosciuto conflitti […] per la semplice ragione che gli unici veri attori autorizzati a scatenarne uno, non erano gli Stati Europei ma i loro due padroni effettivi, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica […] sempre decisi, fortunatamente, a non arrivare a tanto». In tutto quanto si legge in questi due
libri, c’è certamente qualcosa, anzi molto, di vero. E proprio per questo non mi sembra il caso di avanzare qui ipotesi e previsioni: la storia riserva molte sorprese; e talora piuttosto dure. Ma una considerazione vorrei permettermela, muovendo da ciò che è più facile osservare e giudicare, sarebbe a dire la politica del nostro paese. Dalla quale mi sembra difficile possa venire una spinta al rinnovamento dell’Unione Europea: certamente non verrà fino a quando la nostra (mediocre) classe dirigente utilizzerà le decisioni del ”mostro (non tanto) buono” di Bruxelles, ai fini della politica interna, accogliendole o respingendole sulla base della convenienza immediata, se porta o fa perdere consensi al proprio partito. E del resto: tranne lo slogan, di cui nessuno ha portato ragioni convincenti, “euro sì euro no”, di che cosa si è parlato nella campagna elettorale per le ultime elezioni europee, se non dei fatti di casa nostra? Ma non vorrei chiudere con parole di sfiducia. Ho ricordato all’inizio Edmund Husserl; e con altre sue parole – con il messaggio, starei per dire, che questo grande filosofo “europeo” ha lasciato alla sua “patria” – vorrei concludere. Le parole sono queste: «Il maggior pericolo del’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, in quanto “buoni europei” in quella vigorosa disposizione d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall’incendio distruttore dell’incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell’Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, nascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale».
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Giuseppe Cantarano
Bicameralismo addio
Addio, dunque, al bicameralismo. Che non era per niente “perfetto”. Come in questi anni siamo stati abituati – erroneamente – a definirlo. Il testo di riforma del Senato – diciamolo francamente – non è granché. Ma si tratta pur sempre di una riforma costituzionale. Che il Pd e Matteo Renzi conducono in porto. Dopo estenuanti schermaglie politico-parlamentari. Potevamo permetterci di continuare ancora a parlare di riforme costituzionali nei convegni? Su questo – diciamolo francamente – la ministra Boschi ha perfettamente ragione. Se ne è discusso troppo, di riforme costituzionali. Nel giro di un ventennio – non so se ricordate – sono state istituite perfino ben tre commissioni bicamerali per le riforme. Andate tutte regolarmente in fumo. Ripeto, questa riforma non è granché. Poiché manca soprattutto il disegno complessivo, la cornice all’interno della quale questa riforma dovrebbe collocarsi. Ma con questa riforma – piaccia o no – si dà concretamente avvio, finalmente, ad un processo di cambiamento istituzionale. Forse un po’ pasticciato. Penso, ad esempio, alla questione dell’immunità. O all’elezione indiretta. Bisogna dire tuttavia una cosa: chi ha votato Renzi il 25 maggio ha chiesto al Pd di cambiare il nostro Paese. E di farlo
adesso. Subito. Senza più tentennamenti. Senza più rinvii. Coloro che nel Pd – e nei gruppi parlamentari – hanno espressamente manifestato il loro legittimo dissenso, devono ora prendere atto del voto conclusivo. Certo, le convinzioni personali sono importanti. E preziose. Ci mancherebbe altro. Ma in un partito politico le convinzioni personali si devono sempre misurare “realisticamente” con la responsabilità. La responsabilità di decidere. Chi ha sollevato rischi di derive neoautoritarie, di una democrazia dispotica e via dicendo, non può – non deve – dimenticare che la democrazia è discussione, certo. E’ confronto dialettico. Anche aspro. Come, del resto, è avvenuto in questi due mesi. Ma la dialettica – come ben sanno anche i “dissidenti” – deve avere una necessaria, ineludibile sintesi politica. E la sintesi politica non può che essere rappresentata dalle decisioni. Solo una democrazia che non decide – ricordate Weimar? – può partorire mostri neoautoritari. E poi c’è la vexata questio del presidenzialismo. Verso cui – secondo alcuni – tenderebbe il disegno complessivo della riforma costituzionale che avrebbe in mente Renzi. A me non sembra che il tema del presidenzialismo - che non è un tabù, è
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Addio
bene dirlo - sia all’ordine del giorno. Lo ha precisato sempre la ministra Boschi in una recente intervista all’Avvenire. Ma, se pure fosse all’ordine del giorno – sebbene in maniera velata – sarebbe davvero autoritaria, dispotica una repubblica presidenziale? De jure non è ancora presidenziale, la nostra repubblica, certo. Ma de facto – come si esprimono i costituzionalisti – la nostra non lo è forse da qualche tempo? Gli ultimi governi che si sono succeduti,
E’ vero, si ha l’impressione, il fondato sospetto, se vogliamo, che l’iniziativa politica di Renzi sia improntata da un “riformismo dall’alto”. Quasi cesaristico, direi. Il rafforzamento costituzionale delle istituzioni decisionali è senz’altro necessario, evidentemente. Ma richiede una compensazione istituzionale. Dei bilanciamenti. Dei contrappesi. Che consentano alle domande sociali che vengono dal basso – come si dice – di giungere alla sfera decisionale centrale.
non sono stati definiti forse – e non a caso – “governi del Presidente”? Il presidente della Repubblica non svolge ormai da tempo - una supplementare funzione “politica” non prevista dalla Costituzione? E allora, di cosa si parla? Guai se questa riforma – e le altre che mi auguro seguiranno – non tendesse a rafforzare gli istituti della rappresentanza e della partecipazione popolare. Ma è anche vero che rappresentanza e partecipazione devono coniugarsi con l’esigenza sacrosanta della governabilità.
Lo ripeto, si tratta di una riforma pasticciata. Ma è meglio di niente. Anche se – lo ha recentemente scritto Eugenio Scalfari – sarebbe stato molto meglio abolirlo, il Senato. E dar vita a un monocameralismo. Come quello britannico. Ma si sa, i bizantinismi politici sono lunghi a morire. Soprattutto nel nostro Paese. Patria delle mezze verità. Dalle quali anche Renzi – e il giovane gruppo dirigente del Pd – non riesce a immunizzarsi. 9
OSSERVATORIO
Sara Garofalo
Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa
Il 17 dicembre 2010, Mohammed Bouazizi, giovane disoccupato tunisino costretto a lavorare come venditore ambulante, si dà fuoco dopo il sequestro della merce da parte della polizia locale. E’ un gesto disperato che segna l’inizio di una ondata di manifestazioni spontanee in tutta la città di Sidi Bouzid, non a caso una delle più povere di tutto lo Stato. La protesta, che nasce primariamente da rivendicazioni di carattere economico e dalla delusione rispetto alle aspettative di crescita occupazionale del Paese, si estende geograficamente in tutta la Tunisia, coinvolgendo anche la capitale, e si trasforma ben presto in concreto dissenso politico nei confronti del regime corrotto di Ben Alì, cui seguono forti istanze di richiesta di maggiori diritti civili e di libertà personale. L’importanza dei social network nel rapido coinvolgimento di una fetta sempre più ampia di popolazione (in particolare quella anagraficamente più giovane), poi, ha portato i commentatori a parlare di una cyber-rivoluzione. Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa, realizzato dai coniugi Brondino per i tipi della Jaca Book nel 2011, parte dall’analisi della scintilla rivoluzionaria in Tunisia e si interroga sulle ragioni della repentina diffusione della protesta a tutte le regioni del Maghreb (che, nonostante l’uso comune del termine, comprende nello specifico soltanto il Marocco, la Tunisia e l’Algeria, escludendo la Libia e l’Egitto). I due autori propongono una interessante riflessione sugli esiti di questa tempesta nordafricana, consumatasi con esiti altalenanti sotto lo sguardo decisamente assente dell’Europa che, riguardo ad esempio alla Tunisia, aveva da sempre promosso il regime di Ben Alì come
paradigma di riuscita economica e di società libera, pur nella consapevolezza di una democrazia di sostanziale facciata, alimentata dalla connivenza dei media. È innegabile che in ciascuno dei Paesi della sponda sud del Mediterraneo si siano verificati significativi mutamenti nei rispettivi sistemi dei poteri pubblici, con conseguenze non risibili per la stessa Europa, soprattutto in termini di politiche migratorie e securitarie. Le cause di tali grandi agitazioni sono da rinvenirsi nella incapacità di questi Paesi di inserirsi nei nuovi equilibri strategici mondiali e di affrontare con la giusta solidità la crisi economico-finanziaria globale. Pur avendo la religione un ruolo determinante nelle rivolte arabe, infatti, il fattore scatenante delle proteste ha sempre natura squisitamente socioeconomica, mentre la fiducia nei confronti di una alternativa ispirata a dettami di tipo religioso viene rafforzata proprio dal fallimento delle politiche di occidentalizzazione in chiave neoliberista. Inoltre, già poco dopo il 2001 poteva dirsi definitivamente esaurita la linea di credito con l’Occidente in materia di contenimento della minaccia del fondamentalismo; l’elaborazione accurata del fenomeno terroristico da parte delle democrazie europee e statunitense - come dimostrato in seguito dal conseguimento di importanti vittorie quali la cattura di Osama Bin Laden – aveva infatti depauperato l’Africa settentrionale del proprio antico ruolo di mediazione su questo delicato profilo. La bibliografia successiva al 2011 dimostra che i commentatori, dismessi gli iniziali entusiasmi, acquistano la consapevolezza che la “primavera araba” non può essere affrontata esegeticamente come un fenomeno unitario. Si vedano, a questo proposito: a cura di A. 10
Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa
Cantaro, Dove vanno le primavere arabe?, Ediesse, Roma 2013; a cura di M. Campanini – R. Tottoli, L’autunno delle primavere arabe, La Scuola, Brescia 2013; a cura di M. Campanini, Le rivolte arabe e l’Islam. La transizione incompiuta, Il Mulino, Bologna 2013. A riprova di questa tesi, basti pensare che il Marocco, in cui la monarchia è stata in grado di intercettare le istanze di democratizzazione e di garantire uno sviluppo economico continuativo e l’ Algeria, dove ancora troppo forte era il ricordo della guerra civile degli anni Novanta, non possono dirsi coinvolti da questa dirompente dinamica di cambia-mento al pari degli altri Stati. È comunque possibile a c c o mu n a r e questi Paesi sulla base della loro forte personalità e di una tradizionale vocazione alla leadership, soprattutto in termini di formazione culturale islamica e di diffusione religiosa. Il diffuso ricorso alle piattaforme sociali della contemporaneità occidentale ha fatto pensare ad una conseguente assimilazione dei contenuti e della visione del mondo peculiari dell’ Occidente, secondo un improprio principio di coincidenza tra forma e sostanza: il paradigma secondo il quale la costruzione di un assetto costituzionale di garanzia dei diritti dell’individuo debba necessariamente passare attraverso un processo di secolarizzazione e di emancipazione dalla cultura religiosa islamica, infatti, non appartiene al mondo arabo. La maggior parte dei laici dei Paesi del Maghreb non perseguono l’obiettivo di una eliminazione dell’Islam dalla sfera pubblica, bensì quello di una sua statalizzazione, a dispetto della weltanschauung tipicamente europea e
statunitense, per cui una democrazia liberale può dirsi compiuta soltanto a seguito della completa laicizzazione dello Stato. Fatta eccezione per l’esperienza marocchina, in cui la transizione è stata guidata prevalentemente dall’alto (cioè dalla Casa Reale) attraverso l’avvio di un ampio processo di riforme, tra i soggetti protagonisti dei processi costituenti nei diversi Paesi considerati vi è sempre l’Islam popolare: in Algeria in affiancamento alla élite politico-militare, in Tunisia con i partiti politici e con i sindacati, in Libia con i clan tribali, l’integralismo islamico e le élite militari, in Egitto con le élite popolari e con la magistratura. Il legame con l’Islam, peraltro, si ripresenta con tutta la sua forza identitaria in occasione delle diverse consultazioni elettorali del 2011: il timore del caos e le difficoltà di inserimento nelle dinamiche economiche della globalizzazione sono infatti affrontate con un ancoraggio al retaggio tradizionale. Anche lì dove si è registrata una vittoria della piazza, dunque, l’islamismo e le divisioni interne - unite alla totale assenza di una classe dirigente alternativa a quella dominante che fosse in grado di gestire la transizione - hanno causato l’impossibilità di esprimere una proposta istituzionale solida, rilegittimando le autocrazie militari o condannando il territorio al caos delle faide tribali. La primavera araba doveva essere un progresso verso la democrazia, ma gli esiti di questo percorso non possono, ad oggi, dirsi soddisfacenti: la gran parte dei mutamenti istituzionali, infatti, è avvenuta con il sostegno più o meno diretto delle élite militari, se si escludono le figure apicali direttamente coinvolte
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Sara Garofalo
nelle politiche tiranniche degli anni precedenti. Inoltre, tutti gli spazi di confronto democratico sono stati occupati dall’Islam popolare con i suoi importanti successi elettorali e, in alcuni casi, dall’Islam integralista. La Tunisia, Paese da cui tutto ha avuto inizio, ha avviato un lavoro costituente a partire dall’autunno del 2011: la transizione costituzionale ha risentito della combinazione tra la forte eredità francese - con i suoi meccanismi decisionali centralizzati e la verticalizzazione dell’apparato amministrativo - e il peso fondamentale dei partiti politici, decisivi nella società tunisina sin dalla redazione della Costituzione del 1861. Dopo la fuga all’estero di Ben Alì, nel gennaio 2011, la Tunisia è stata guidata da un regime transitorio, fondato su un accordo tra il sistema dei partiti politici e l’Islam popolare, rappresentato dal “movimento della Rinascita” (e comunemente chiamato Ennahda). Il regime transitorio si è pronunciato a favore del mantenimento dell’art. 1 della Costituzione, che indica l’Islam come religione di Stato, ma definisce il Paese come uno Stato laico, escludendo la collocazione della Shari’ah al vertice delle fonti. Il Paese appare oggi pacificato ed è ragionevole credere che, dopo l'avvenuta approvazione della nuova costituzione, si svolgeranno regolari elezioni politiche e presidenziali entro la fine dell’anno. In Marocco il processo di riforma avviato nella primavera del 2011 è culminato nell’adozione di un nuovo testo costituzionale, approvato a seguito di iter referendario. I lavori preparatori sono stati affidati ad una Assemblea Costituente formatasi su iniziativa del Re, che avvalendosi della conflittualità tra l’Islam popolare e le forze nazionalistiche conservatrici, ha potuto rafforzare il proprio ruolo politico, varando importanti riforme, come quella relativa al riconoscimento della minoranza berbera. In Algeria, invece, si è proceduto ad una moderata politica di islamizzazione dello spazio pubblico, attraverso il
rafforzamento della legislazione penale in materia di rispetto dell’Islam in qualità di religione di Stato. Parallelamente, però, è iniziato un percorso costituzionale decisamente avanzato, soprattutto su temi quali le pari opportunità e la giusta rappresentanza delle donne nelle istituzioni rappresentative, la libertà dei media e l’esercizio dei diritti di associazione. L’Egitto, dopo la vittoriosa occupazione di piazza Tahrir e la conseguenti dimissioni di Moubarak, ha scelto con larga maggioranza, in occasione delle libere elezioni del 2012, un governo retto dalla confraternita dei Fratelli Musulmani (confraternita che proprio in Egitto, nel 1928, trova la sua fondazione, per volontà di Hassan El Banna e di Sayyd Qotb). La transizione egiziana è stata caratterizzata dalla ricerca di un equilibrio tra i vari attori della vita pubblica del Paese: i giudici, i militari e l’Islam popolare (che da sempre hanno avuto un rapporto di vicinanza, seppure alternando fasi di scontro a fasi di collaborazione). Ad oggi, il sistema costituzionale egiziano presenta alcuni elementi di continuità con la “Costituzione permanente” di Sadat del 1971, riformata nel 2005 e nel 2007. Durante la transizione non si è registrato un vero e proprio mutamento di regime politico, bensì una sorta di avvicendamento all’interno della stessa classe dirigente dominante, accompagnato da una sospensione della legalità costituzionale. In questa delicata fase, un fondamentale ruolo di garanzia della legalità formale è stato esercitato dalla Corte Costituzionale. A seguito delle consultazioni elettorali del 2012, quindi, i Fratelli Musulmani diventano forza maggioritaria in parlamento e per la prima volta viene eletto alla carica di capo dello Stato una figura non appartenente alla élite militare, Mohammed Morsi. La Costituzione firmata nel dicembre 2012 presenta comunque alcune essenziali debolezze, soprattutto in materia di libertà civili, la cui tutela viene rinviata alla legislazione
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ordinaria. L’inesperienza istituzionale e amministrativa della classe dirigente della Fratellanza compromette irrimediabilmente gli esiti della rivoluzione, affidando il Paese prima ad un Presidente ad interim (quale sarà il Presidente della Corte costituzionale, chiamato a sostituire Morsi nel luglio 2013) e poi ad un rappresentante dell’esercito, definito “Presidente di necessità”, con il fine di emancipare l’Egitto dalla crisi economica. Oggi, la nuova Costituzione egiziana del 2014 si presenta con un testo meno islamista e meno sessista rispetto a quella del 2013, ma alla maggiore laicità non fa seguito una maggiore democraticità. Anzi, ancora numerosi sono i difetti sul piano delle garanzie costituzionali. Ancora più instabile è la situazione libica, dove lo sconvolgimento geopolitico che ha coinvolto lo Stato nel biennio 2011-2013 ha riportato il Paese ad una situazione antecedente al 1934, anno in cui il Governo italiano realizzò l’unità politico-amministrativa di tre entità territoriali assai diverse: la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan. Nonostante l’assassinio di Gheddafi nella città di Sirte nel 2011 segni la fine di quel patto tribale che, grazie alla mediazione verticale del Rais, aveva garantito alla Libia l’azzeramento della violenta dialettica civile interna e la tenuta di un forte personalità internazionale, non si assiste ad una reviviscenza del vecchio ordinamento. Vi è oggi un governo legittimo, cui sfugge però il controllo del territorio, vedendosi costretto a trattare continuamente con i clan tribali e con le sempre nuove entità territoriali autonome. Inoltre, la produzione di petrolio è crollata e il traffico delle armi
destabilizza anche gli sterminati territori che si trovano a Sud del Sahara. I diversi esiti della cosiddetta “Primavera araba” non stupiscono se si pensa che ciascuno dei cinque Stati nordafricani ha gestito la fine della colonizzazione europea e la conseguente propria ricostruzione nazionale secondo modalità molto dissimili, nonostante un assetto costituzionale improntato alla comune appartenenza arabo-islamica, fattore identitario decisivo nelle rispettive lotte di liberazione dal colonialismo. Sotto il profilo delle similitudini, possiamo certamente dire che in ognuno degli Stati interessati vi è stato almeno un mutamento al vertice dell’Esecutivo e una revisione della Carta costituzionale, con l’eccezione apparente dell’Algeria, nonché una riqualificazione dell’Islam nelle dinamiche di ricostruzione del proprio apparato istituzionale. Se gli esiti delle primavere arabe hanno trovato sbocchi diversi da quelli prefigurati dall’ entusiasmo della prima ora, si deve anche al ruolo ambiguo e certamente poco partecipativo dell’Europa: quando non è stata del tutto assente, infatti, ha maldestramente concorso, attraverso iniziative nazionali e non coordinate a livello continentale, ad un tentativo di indirizzo del corso degli eventi, senza mai adeguatamente soppesare le conseguenze e le possibili evoluzioni degli scenari in una direzione o nell’altra. Oggi questa stessa Europa potrebbe offrire il proprio contributo significativo, soprattutto in termini di esperienza in materia di drafting normativo e in generale sul piano tecnico, giuridico e amministrativo.
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Alberto Aghemo
Banche, cittadini e imprese: le riflessioni dello studioso (e banchiere) Antonio Patuelli
Riuscirà un capitalismo più efficiente ed eticamente riformato a portarci fuori dalla crisi? E’ una domanda non da poco, soprattutto se a porla è Antonio Patuelli, storico di vaglia, giornalista, imprenditore e banchiere, da poco confermato al vertice dell’Abi, l’Associazione bancaria italiana. Un esperto, dunque, che ci invita ad una riflessione sulla crisi italiana non di maniera e non per iniziati e lo fa a partire da una constatazione ampiamente condivisibile: in economia tutto si tiene. L’economia, ci ricorda Patuelli già in premessa, non conosce variabili indipendenti: là dove stanno male le imprese, stanno male le banche; là dove le forze produttive, le banche e le imprese soffrono, stentano a sopravvivere anche i cittadini e le famiglie. È questo l’assunto di partenza di Banche, cittadini e imprese, da poco uscito per i tipi di Rubbettino Editore nella collana “Focus”, un saggio asciutto come la prosa essenziale ed efficace di Patuelli, ma estremamente denso e stimolante. La riflessione che Patuelli ci propone è filtrata dalla lente multifocale della storia: è così che i riferimenti al sistema bancario nazionale sono ricchi di spunti, citazioni e reminiscenze. La trattazione parte infatti - e non potrebbe essere altrimenti - dal sistema bancario italiano, dalle sue caratteristiche strutturali e dalle sue radici storiche, per accompagnare il lettore - per cenni rapidi ed essenziali, ma senza approssimazioni o facili scorciatoie - in un itinerario che tocca la più che secolare storia delle Casse di Risparmio e affronta la genesi del Testo unico bancario, per arrivare infine ai
nuovi traguardi dell’Unione europea e alle future prospettive dell’Unione bancaria. Tema centrale, quest’ultimo, del volume. Perché la “navigazione” della scrittura di Patuelli, come egli stesso riconosce, è ancorata a due boe: una l’Europa, l’altra Luigi Einaudi, “nelle cui ‘prediche’ si ritrova buona parte dello scibile di politica economica, finanziaria e bancaria tuttora di grande attualità”. Il tutto ha per collante il legame indissolubile tra banche, cittadini e imprese: un rapporto spesso evidente, ma ancor più spesso “sotterraneo”, seppur sempre vivo. Proprio questo legame costituisce l’humus dell’analisi della crisi che Patuelli ci propone, a partire dalle considerazioni lucide e analitiche sulle diversità della crisi in Italia rispetto al contesto europeo, sulla presenza e sul ruolo dei capitali esteri nell’economia italiana e, infine, sul ruolo stesso - unico ed essenziale - “delle banche per l’Italia”, ovvero per un Paese che non molto tempo fa Luigi Spaventa ebbe a definire “bancocentrico”. Per arrivare, poi, al nodo centrale per chi, come Patuelli, è al vertice dell’osservatorio più qualificato e sensibile: le iniziative delle banche a sostegno dell’economia reale, la convergenza di interessi tra banche e imprese, il ruolo cruciale degli incentivi al rafforzamento patrimoniale delle imprese. Sono questi i temi nodali del contrasto alla crisi e del ritorno alle politiche di sviluppo e sono, al contempo, i titoli dei capitoli centrali di Banche, cittadini e imprese, nei quali la trattazione si fa più fitta e la trama della
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Alberto Aghemo
riflessione più lucida e analitica, ma sempre con lo stile sobrio e misurato di chi conosce “la difficile arte del banchiere” (anche questo è il titolo di un capitolo tra i più incisivi del volume). Quella di Patuelli è la lucida analisi di chi sa che non bastano statistiche, consuntivi o previsioni per “capire” la crisi. Nel suo saggio non ci sono numeri, grafici, tabelle ma piuttosto la chiara e più volte espressa consapevolezza che quella che attraversa l’Italia non è crisi esclusivamente economica, “ma innanzitutto morale e culturale”. E dunque, per uscirne davvero, è necessario comprenderne le cause e calarle in una realtà complessa, molteplice ed interagente nella quale, come si è detto, tout se tient. Nata negli Usa, la crisi economica e finanziaria degli anni Duemila è anche la crisi di un Capitalismo che, uscito vincitore dalla Guerra fredda “ha perso il prevalente rigore e non poca parte della tensione ideale che lo avevano fatto prevalere” (si vedano, sul punto, le parole esemplari del capitolo “Etica, finanza, impresa ed economia”, riportato a p. 15) sino a trasformarsi, nota Patuelli, in un “anarcocapitalismo” egoista, miope, senza principi. Se ne può uscire solo con più etica e più efficienza, puntando ad un nuovo capitalismo e ad una rafforzata morale degli affari. La ricetta non è vaga, non si riduce ad un generico appello: l’Autore ha ben chiaro il modello di riferimento. Oggi più che mai, scrive a conclusione del saggio, sono preziosi i modelli capitalisti e bancari - e al tempo stesso culturali morali e civili - che hanno realizzato il “miracolo economico” italiano negli anni Cinquanta: “Dalla crisi, dalle crisi, si esce con orizzonti lungimiranti, con un’etica diffusa, con una continua, razionale e responsabile attenzione alla riduzione dei costi e con
austerità. Questo significa, innanzitutto, comportamenti più virtuosi, più sobri e più solidali”. E ci piace qui richiamare la particolare attenzione che il “banchiere” Patuelli pone ai temi del rigore amministrativo e della trasparenza finanziaria, ma anche e soprattutto della responsabilità civile e sociale quale (ri)fondamento di un’Italia “più europea, più aperta, più onesta, responsabile, corretta ed efficiente, più civile e solidale, meno burocratica, dove vi sia proporzionalità di diritti e doveri per le persone e per le piccole e medie imprese di ogni genere”. E’ un’etica diffusa e condivisa, quella cui ci richiama Patuelli, che guarda al futuro ma richiama le grandi lezioni del passato, quelle del Risorgimento, della Resistenza, della Costituente, della ricostruzione, quell’etica civile e del risparmio invocata da nomi non dimenticati: Luzzatti. De Gasperi, Einaudi. Era, la loro, un’Italia di alti valori morali: gli stessi valori cui deve guardare un Paese che vuole uscire dalla crisi, in primo luogo nel lavoro quotidiano di tutti, nelle istituzioni finanziarie e nel mondo dell’economia, “dove l’etica deve prevalere anche su ciò che il diritto permetterebbe”. La ricetta di Antonio Patuelli è, in conclusione, questa: una grande e condivisa responsabilità morale delle banche, dei cittadini e delle imprese per costruire insieme “un nuovo clima di fiducia, senza mai arrenderci di fronte alle difficoltà”. Non troverete in Banche, cittadini e imprese rivoluzionarie teorie finanziarie o innovativi modelli econometrici, ma una lezione etica e civile alta e impegnativa, che tuttavia non consente alternative.
Antonio Patuelli, Banche cittadini e imprese, pp. 122, collana Focus, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2014
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Antonio Patuelli
Etica, finanza, impresa ed economia
Brano tratto dal libro di Antonio Patuelli, Banche, cittadini e imprese (Rubbettino, diritti d’autore alla benemerita Opera di Santa Teresa del Bambino Gesù di Ravenna).
A distanza di tempo da scandali, quali Cirio e Parmalat, che hanno non solo fortemente scosso l’opinione pubblica, ma anche animato il dibattito tra coloro che hanno responsabilità nel mondo di impresa, credo utile una riflessione pacata e complessiva sull’etica nell’economia in un mercato sempre più globalizzato e aperto. In questa riflessione, ritengo che la questione della “rilevanza penale” dei comportamenti dei singoli, gli esiti delle indagini giudiziarie e anche delle inchieste parlamentari, possano, anzi debbano, rimanere sullo sfondo. Il tema è, infatti, ben più ampio. E’ un tema innanzitutto culturale. Dobbiamo muovere dal forte rilievo etico dei problemi che emergono da un capitalismo caratterizzato, purtroppo non infrequentemente, da imprese, perfino quotate, che contravvengono anche ai più elementari doveri di correttezza, con revisori compiacenti od omissivi e con società di rating troppo superficiali. Ottenere fiducia per le imprese italiane e per i mercati richiede innanzitutto un salto di qualità nelle consapevolezze e responsabilità morali sia degli imprenditori, sia di ogni anello della catena dei controlli societari. Infatti non basteranno mai i controlli pubblici sui mercati italiani ed internazionali se non crescerà nettamente, in particolare in Italia, la consapevolezza dell'imprescindibile e prioritario ruolo dell'etica nell'economia, in ogni suo aspetto e momento. Si tratta di una premessa
indispensabile anche per una migliore tutela del risparmio, a cominciare da quello di coloro che non scambiano il mercato borsistico per un casinò. Più concreta moralità in economia non vuol dire limitare o contenere il mercato, ma significa rispetto delle leggi, dello spirito delle leggi, di tutte le leggi e da parte di tutti, sempre, senza scorciatoie individuali o impossibili doppie morali; significa, per esempio, combattere e rifiutare ogni giorno l’economia sommersa, la rassegnazione ed il giustificazionismo di fronte al fiume carsico dell’evasione fiscale diffusa, della troppo ampia disponibilità ai piccoli e meno piccoli pagamenti ed incassi “in nero”, alle doppie contabilità, ecc. I diritti ed i doveri di tutti e di ciascuno sono inscindibili in una coerenza profonda di principi, regole e comportamenti: l’etica, così come la libertà, non può essere invocata e praticata a singhiozzo. I traumi conseguenti ai casi come Parmalat e Cirio ed i dibattito su migliori sistemi di controllo pubblici e privati sull’economia devono, quindi, essere accompagnati da una più generale e profonda consapevolezza, dalla interiorizzazione dell’importanza dei valori etici e sulle precise responsabilità che competono a ciascuno - imprenditore, revisore privato o controllore pubblico, intermediario finanziario o risparmiatore - su ogni scelta che deve essere compiuta sempre da ciascuno con la pienezza, appunto, della responsabilità.
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MARGINALIA
Antonio Casu
Chi è davvero il Gattopardo?
"Noi fummo i Gattopardi, i Leoni". Nell'accezione corrente, veicolata dai media, attestata in letteratura e consacrata nei principali dizionari della lingua italiana, è colui che, facendo parte della classe dominante o essendone comunque avvantaggiato, simula di essere favorevole o addirittura fautore nei confronti di radicali trasformazioni politiche e sociali, al fine di mantenere inalterate le proprie prerogative e i privilegi acquisiti. Nell'immaginario collettivo, dunque, è un simulatore. E non si tratta certo di quella "simulazione onesta" dei moralisti del Seicento, da Torquato Accetto in poi, che era una declinazione della prudenza in politica, piuttosto che una manifestazione di servilismo o conformismo. Dunque, una dissimulazione "disonesta", un modo di contrabbandare convincimenti che in realtà non si nutrono per mero tornaconto personale. Tuttavia, il conto non torna. Il protagonista del romanzo di Tomasi di Lampedusa, e quello del film di Luchino Visconti, il principe Fabrizio Salina, contempla con lucidità, e persino con decadente orgoglio, il declino del ceto al quale appartiene, in quel caso l'aristocrazia, e di un complessivo ordine sociale. Egli vede nitidamente l'avvento della borghesia e, lungi dal volersi riciclare, rimarca la differenza di status, di cultura, dei protagonisti del passato che si consuma sotto i suoi occhi. "Quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene". Sa bene che i mali della sua terra continueranno, si perpetueranno sotto altre forme, in una continuità che affonda le sue radici nella storia profonda della sua gente. "E tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra». Infatti non è lui - come comunemente si crede a pronunciare la celebre frase secondo cui «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Non è lui, ma il nipote, il principe Tancredi Falconeri, patriota garibaldino, che con quella frase tradisce un'ambiguità di fondo, diviso com'era tra la sua appartenenza di classe e l'ansia di partecipare al rinnovamento sociale. E infine, come accusare di "gattopardismo" chi, come il Principe, pur avendo manifestato il suo assenso all'annessione al nuovo Regno, di
fronte all'offerta di un seggio al Senato, garbatamente la rifiuta, per dignità e coerenza con la sua storia personale. Lui che, invece di riciclarsi, di accampare diritti e meriti, si ritira a vita privata, fino al giorno della sua morte. Siamo dunque giunti al punto. Una cosa è il Gattopardo, un'altra e ben diversa il gattopardismo. Alan Friedman, che nel suo ultimo libro incita ad ammazzare il Gattopardo, è avvertito. Non è lui "l'esempio massimo della cinica resistenza al mutamento reale". Il Gattopardo storico, il principe Salina, non è in realtà affetto da gattopardismo. Forse non è davvero lui il Gattopardo, come viene comunemente inteso. O forse la più raffinata opera di trasformismo politico è stata proprio convincere tutti che il Gattopardo fosse lui, ieri il Principe ed oggi quanti vivono la stessa condizione, occultando i veri trasformisti, che operano e prosperano senza apparire, all'ombra della transizione politica. Nel romanzo e nel film personaggi come don Calogero Sedara, il borghese che si era arricchito proprio con lo sfaldamento dei beni dei Salina e dei Falconeri, e che degli antichi gattopardi cercherà di utilizzare a proprio vantaggio il prestigio e la correttezza di fondo. E' dunque venuto il momento di riabilitare il Gattopardo, un protagonista lucidamente consapevole della fine di un ciclo. Un uomo che, per senso di responsabilità nei confronti della sua comunità, non contrasta la trasformazione in atto, pur sapendo di non potere o non volere prendervi parte. Se proprio qualcuno bisogna additare al pubblico ludibrio, se la cultura italiana deve compiere - come Friedman esorta a fare - il parricidio rituale della cultura conservatrice "e della cultura democristiana", ponendo fine al "Regno del Gattopardo", occorre rivolgersi ai veri "gattopardisti", non solo democristiani, acquartierati all'ombra del potere in attesa che giunga il loro momento, pronti ad agitare la bandiera del nuovo senza scoprire le carte. Dunque, occorre ridisegnare l'identikit. Chi è davvero il Gattopardo?
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FRAMMENTI di Storia
Angelo G. Sabatini
Guerra e resistenza in Abruzzo
Il maggior godimento culturale è incontrarsi con pubblicazioni, che, sia pure occupando poco spazio del dibattito generale, accrescono la conoscenza degli eventi storici. Essi servono a far emergere il ruolo che frammenti di verità occupano nella costruzione del quadro generale dell’accaduto storico. Il lavoro delle storico, nella carica soggettiva che lo porta a indagare, è un dono di verità che fa a se stesso e a quanti con lui amano conoscere un evento che oggi appartiene loro come una fonte di valori per il presente. Historia magistra vitae. Tornare a colloquiare con il passato in uno dei suoi eventi più rappresentativi specialmente quando si è mossi dalla scoperta di frammenti sin qui ignorati è di per sé un evento emotivo che lega il ricercatore a frammenti di storia passata. Un’emozione che si amplifica allorché la scoperta del novum rafforza nel ricercatore il rapporto personale con l’evento, grazie a circostanze occasionali. Nato in terra d’Abruzzo, in giovane età fui spettatore di un evento storico di valore nazionale: il passaggio del fronte di guerra nella valle del fiume Sinello. In quella circostanza, osservando soldati che morivano colpiti dal fuoco tedesco, una miscela di strana sensazione si impossessava di me: curiosità, eredità della fantasia di un’infanzia che giocava alla guerra, sentimento sbiadito di una meditazione sul morire per una causa che nella mente distratta di un giovane non ancora dominata dal pungolo del filosofare risultava assurda. Ma soprattutto ignaro della resistenza del popolo abruzzese al fascismo e all’armata tedesca espressa dal sabotaggio dei partigiani che agivano in punti strategici e in momenti opportuni. Una disattenzione che obliterava un frammento di storia locale. A svegliarlo ha pensato un soggiorno estivo in Abruzzo dove l’occasionale mia presenza alla discussione di una pubblicazione dedicata alla guerra e alla resistenza in Abruzzo, autore lo storico Costantino Felice (Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e resistenza in Abruzzo) è servito a sollecitare l’informazione sul ricco scenario della resistenza abruzzese, un frammento di storia nazionale.
Occasionale la partecipazione ma decisiva la spinta a rovistare tra il cumulo di pubblicazioni in proprio possesso per reperire quelle utili all’approfondimento di eventi che da frammento diventano alimento di conoscenza della storia nazionale. La ricerca ha consentito di scovare almeno due altre pubblicazioni degne di arricchire il personale patrimonio bibliografico utile all’approfondimento degli eventi locali che costituiscono la resistenza italiana al nazifascismo: La guerra in casa. La linea Gustav: Chieti e provincia, autore Max Franceschelli con annesso un DVD a cura dello stesso autore e di Anna Cavasinni, e l’altro volume di Gianni Orecchioni, I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nell’Italia fascista. Lanciano 1940-1943. Queste, come altre pubblicazioni similari, hanno realizzato un ponte di memoria tra il giovane di allora e il maturo lettore di storia dell’antifascismo e della resistenza italiana, nonché osservatore oggi del profondo disagio politico, culturale ed economico che scardina l’ordine morale della società e indebolisce il ricorso al valore della resistenza nella formazione di una autentica fede nella democrazia partecipativa. Tornare a riflettere sugli eventi narrati da quelle pubblicazioni aiuta anche a trapassare la polemica generata dall’attività editoriale di Gianpaolo Pansa mirata con le sue diverse pubblicazioni a mettere in luce gli eventi contraddittori della lotta partigiana entro le cui maglie hanno agito sentimenti ostili che, pur nella loro scarsa consistenza, hanno macchiato la storia “minima” della vita partigiana con comportamenti fratricidi, favorendo la pruderie del revisionismo storico dilagante e la sete di romanzo di un lettore comune che non sempre si colloca nel gradino superiore di un sapere storico fonte di creazione di valori di civiltà, quale è stata la lotta partigiana in Europa e in Italia. In un Paese sempre più svuotato di sentimenti politici retti da valori, quella lotta, ben conosciuta e meditata, può ancora rappresentare una via d’accesso ad una politica sana produttrice di civiltà. 18
INTERVISTA
Emmanuele F. M. Emanuele
Senza privati l’arte è a rischio Intervista di Sarina Biraghi pubblicata sul quotidiano Il Tempo del 27.7.2014
Il mecenatismo? È come le lobby: cioè le cose normali negli altri paesi da noi sembrano impossibili o da guardare con sospetto. Eppure in Italia c’è un problema grave: senza i privati il nostro patrimonio artistico è a rischio.
Parla così il prof. Emmanuele Francesco Maria Emanuele, padre della Fondazione Roma che alcuni definiscono un eretico illuminato, veloce e libero operativamente ma, purtroppo, frenato dalla burocrazia. Un limite per un riformista con la visione di cambiare la società, guidato da una spinta liberista strettamente coniugata con la solidarietà verso i meno fortunati. Partiti? mai iscritto, non ama sentirsi suddito ma ha la consapevolezza, oggi, di essere un cittadino senza libertà, una libertà che reclama se veramente viviamo in uno Stato di diritto. Uno Stato, però, che fa parte dell’Europa quindi costretto a confrontarsi e adeguarsi ad una «unione» ancora poco «unita».
Crede che il futuro dell’Italia sia l’Europa? «L’Europa è l’unica ancora di salvezza tra il colosso americano e il rampante Oriente, ma l’Europa dei padri costituenti, quella in cui credettero uomini come Alcide De Gasperi. Non dunque questa Ue germanocentrica con caratteristiche diverse per ogni Stato: la diversa identità (del resto basti pensare a paesi come Estonia, Lituania...) fa sì che non abbiamo una politica economica, militare, culturale comunitaria. Siamo uniti soltanto dal libero scambio e da una moneta che è anche un problema che non si risolve con le urla di Grillo ma con soluzioni alternative».
Una visione antieuropeista? «No, ma desiderio di un’altra Europa sì. In attesa che questo si realizzi, volgiamo però lo sguardo anche al Sud Europa e al Mediterraneo. Guardi, io sono un cantore del Mediterraneo: sono nato in Sicilia, terra di arabi, normanni, spagnoli, francesi, albanesi... mai avuto sentori razzisti verso il melting pot che siamo stati per secoli. Sono stato delegato per l’Italia del Consiglio Mediterraneo della Cultura dell’Unesco e sono stato anche ambasciatore dell’Ordine di Malta, sempre presso l’Unesco, proprio perché mi sono prodigato affinché le diverse etnìe possano convivere e svilupparsi armoniosamente. Con la Fondazione Roma-Mediterraneo, (mia creatura dal 2008) che opera nelle aree dello Sviluppo economico e sociale, della Formazione, dell’Arte e del Dialogo interculturale dei Paesi del Mediterraneo, incoraggiando e sostenendo la realizzazione di iniziative comuni che conducano alla riscoperta di valori ed interessi condivisi, siamo stati protagonisti di quattro intensi giorni all’insegna dell’integrazione culturale nelle province spagnole di Valencia e Cordoba. In questa occasione, a Valencia, mi è stato conferito dall’Unesco il premio «Multaqa de las tres culturas», per il mio impegno decennale a favore del Mediterraneo. E sempre nell’ottica di una visione unitaria che annulla ogni differenza, svolgiamo la nostra opera non soltanto a Roma. Abbiamo aperto una sede a Napoli cominciando con l’iniziativa «Partono i bastimenti», abbiamo una serie di iniziative nelle due sedi di Catania (a palazzo Valle abbiamo organizzato la
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Emmanuele F. M. Emanuele
mostra sui coralli, quella sull’artista americana Louise Nevelson e sul pittore cubano Julio Larraz); abbiamo una sede a Palermo, a palazzo Branciforte (dove a ottobre a Palazzo Zito faremo una mostra di pittura sociale dell’Ottocento) mentre a Favignana è in corso una grande mostra di pittura contemporanea siciliana, da noi sostenuta e realizzata».
provincia) intesa anche come ricerca scientifica, all’aiuto dei meno fortunati, istruzione cultura e Mediterraneo. A Roma stiamo realizzando un centro che sarà un piccolo ‘borgo’ per malati di Alzeimer per ricreare le condizioni di vita che avevano prima della patologia (ne ho visitato uno in Olanda e ritengo che possa essere una soluzione utile), poi pensiamo ai bambini e ai malati Insomma il Mediterraneo è il suo «chiodo» terminali...» fisso? «Per vivificare un mondo che ha una Cittadino del mondo con sete costante valenza notevole e che merita di apprendimento, il prof non ha attenzione, io promuovo una riflessione soltanto tanta cultura ma un'enorme politica mediterranea. Ho già dato un sensibilità che gli deriva da un padre e un progetto al Sottosegretario alla nonno medici entrambi, da cui la sua Presidenza del Consiglio, On. Luca attenzione alle tematiche della salute. Lotti: un progetto nato dal lavoro di due commissioni e dalla nostra conferenza Parliamo di Roma e cultura del 2010 «Mediterraneo: porta d’oriente» «Io penso alla cultura a Roma con proprio per dialogare con un mondo duplice visione da una parte la lontano ma a noi molto vicino. Del resto realizzazione di grandi mostre dall'altra noi siamo figli della tradizione culturale penso alla grandiosità della città, come mediterranea e proprio grazie a questo un atto dovuto per chi vive ed ha a cuore passato possiamo guardare al futuro, la capitale. La prossima mostra che promuovere iniziative comuni e scoprire faremo sarà dedicata al barocco, poi ne valori condivisi e, soprattutto, faremo una sulla civiltà della alimentando il senso di appartenenza ad Mesopotamia e Magna Grecia, sugli una cultura si sviluppa quello influssi ricevuti ma anche quelli dati dalla dell’accoglienza e dell’integrazione. Del nostra terra. Sto attento agli influssi resto non possiamo dimenticare che contemporanei, ed ecco mostre anche noi siamo stati migranti verso le americane a partire dall'attuale su Americhe... Questo è il mio modo di fare Warhol, a quella prossima su Rockwell». politica, con la cultura, mezzo fondante del dialogo». Uno sforzo notevole per un privato... Dalla partecipazione al restauro della «Vero, uno sforzo che parte dal Cattedrale di Sant’Agostino di Ippona, presupposto che solo l'energia del ad Annaba in Algeria, del monastero di privato riesce a dare risultati; è questa la Deir Mar Musa in Siria, al contributo strada vincente perché la sinergia stanziato per la ristrutturazione di alcuni pubblico-privato si scontra troppo spazi dell’Istituto dei Monumenti di spesso con una visione limitata e Cultura a Tirana, in Albania, alla sospettosa... come se il privato avesse promozione della musica italiana a chissà quale ritorno recondito... Pensi Tunisi fino a Cordova dove fare che io ho proposto di realizzare alcuni iniziative dove sono presenti vestigia restauri nel centro storico e romane...Mediterraneo e Roma? l'amministrazione non mi ha neanche «L’impegno a Roma nella cultura è risposto...» finalizzato alla rinascita del paese, ma la Fondazione Roma ha un impegno L'art bonus previsto dal ministro multiforme e lungimirante su cinque Franceschini è una strada? obiettivi: sanità (nella capitale e in «Sì ma non basta, perché il privato non 20
Senza privati l’arte è a rischio
deve solo dare denaro ma deve partecipare alle scelte e contribuire alla gestione. Per farlo serve eliminare quella burocrazia che disincentiva e blocca ogni iniziativa. E questo è ciò che chiediamo al Ministro Franceschini».
In concreto? «Io chiedo che su due cose, presenti nell’art.9 della Costituzione, cultura e ricerca, siano definiti ruoli e contorni e specificati ambiti e competenze. Inoltre che l'art. 118 della Costituzione venga integrato da norma che preveda una sanzione per chi non risponde: il silenzio non può essere rifiuto, un paese "padre" delle Misericordie non può vietare l'intervento del privato sulle cose pubbliche. Quando non mi consentono di restaurare un monumento in disfacimento, mi si limita come cittadino libero. Mi si deve spiegare perché».
Lei è stato il primo a chiedere al ministro dell'istruzione il ritorno della storia dell'arte a scuola «Certo e reclamo il mantenimento di questa promessa. La cultura con il suo peso immateriale, vera energia pulita del nostro paese, va portata avanti, vanno sbaraccati gli organismi inutili. Malgrado le poche risposte io vorrei uno Stato che capisca il valore della cultura e lo faccia motore dell'economia, perché non abbiamo niente ma solo l'incanto delle nostre città tutte capolavori di bellezze».
Professor Emanuele lei, «oltre» tutto, è sicuramente un mecenate: quanto la infastidisce la perenne riserva sulla sponsorizzazione che genera una percezione negativa, quasi che l’intervento sia finalizzato ad un ritorno personale... «Il mecenate non chiede ma agisce solo per spirito filantropico, per vicinanza al bene collettivo. Ecco, da noi si traduce in ‘non ti vogliamo’ proprio perché sei un privato. Quella che in altri paesi è una molla da noi è un male. L’ultima in ordine di tempo: io che sono nato, ho vissuto e scrivo di Mediterraneo, vorrei
collaborare con le autorità pubbliche per recuperare il Museo dell’Africa orientale di Villa Borghese messo in liquidazione dall’Isiao. Ma non ricevo risposte e mi pare incredibile che questa testimonianza vada persa...»
Anche una ricchezza che si disperde: insomma, non si riesce a credere che la cultura è economia (come lei ebbe a dire il "pic", prodotto interno culturale) che potrebbe contribuire al pil del nostro paese? «Le attività della Fondazione sono culturali ma anche sociali ed economiche. È per questo che ripeto da sempre che per la cultura servono manager capaci di far quadrare i bilanci e promuovere il «bene» che è un prodotto. E per rendere la cultura «economia» occorre sempre di più liberarla dalla burocrazia. Questa filosofia è importante diffonderla tra i giovani affinché apprezzino da piccoli le arti e da adulti ne traggano anche occupazione, perché soltanto la cultura, oggi, in questo paese senza più industrie, commercio e agricoltura, può essere uno strumento di rinascita. Però prima bisogna avvicinare i bambini all’arte e poi formare i giovani affinché diventino manager competenti consapevoli di "maneggiare" una ricchezza da valorizzare e non da accettare, talora, quasi come un impedimento».
Per concludere, che ne pensa del boom del commercio dell’arte moderna e soprattutto dei prezzi elevati di certi artisti? «L’arte è l’espressione del sentire interiore, quindi ogni artista e ogni epoca ne sono testimonianza. Bisogna accettare la commercializzazione della cultura anche se oggi forse l’idea della vendita supera l’intima ispirazione... in effetti spesso è sproporzionato il rapporto tra l’opera e il valore ma non si possono colpevolizzare né i mercanti d’arte, né gli artisti, né la gente che acquista... Possiamo certamente educare di più all’arte, questo sì...». 21
UOMINI E IDEE
Giuliano Amato - Paolo Fontanelli Mattia Granata - Angelo G. Sabatini
Discorsi parlamentari di Roberto Tremelloni
Il 10 aprile 2014, presso la Sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio, si è svolta la presentazione del volume dei Discorsi parlamentari di Roberto Tremelloni. pubblicati a cura della Biblioteca della Camera dei deputati nella collana omonima, con una presentazione di Giuliano Amato ed un'introduzione di Mattia Granata. L'evento è stato introdotto dal Questore della Camera Paolo Fontanelli. Sono intervenuti Giuliano Amato, Mattia Granata, Angelo G. Sabatini.
Paolo Fontanelli
Grazie per aver accettato l’invito di partecipare a questo incontro per la presentazione dei Discorsi Parlamentari di Roberto Tremelloni; ringrazio ovviamente in modo particolare i relatori presenti: il presidente Giuliano Amato, Mattia Granata, Angelo Sabatini. Sono particolarmente lieto di presentare la raccolta dei discorsi parlamentari di Roberto Tremelloni, grande tecnico dell’economia, politico di straordinaria coerenza e lucidità, che ha onorato le istituzioni di questo Paese con un’importante azione svolta sia come parlamentare che come ministro negli anni decisivi della ricostruzione e dello sviluppo dell’Italia. Costituisce dunque un omaggio doveroso alla sua figura e insieme un’occasione di approfondimento e di riflessione sulla storia repubblicana, la raccolta quindi della sua attività parlamentare in una delle più antiche collane editoriali della Camera dei Deputati, quella dei “Discorsi Parlamentari”. Una collana nata già all’indomani dell’unificazione italiana, con la pubblicazione, a partire dal 1863, dei Discorsi Parlamentari di Cavour e proseguita ininterrottamente sino ai giorni nostri. Complessivamente la Camera ha pubblicato cinquantasette
raccolte dei Discorsi Parlamentari; ad esse si aggiungono altre collane di varie attività parlamentari curate dalla nostra biblioteca. E sulla base di un principio di ripartizione di competenze con il Senato le raccolte dei Discorsi Parlamentari dei senatori vengono pubblicate nell’altro ramo del Parlamento, pertanto entrambe le camere hanno un’attività similare ma che trova nella biblioteca un punto importante di unificazione. Si tratta di un’attività editoriale rilevante e allo stesso tempo selettiva. La valorizzazione di singole figure e momenti della storia parlamentare avviene, infatti, a partire da una riflessione che è innanzitutto istituzionale ed ha il fine di offrire agli studiosi e ai cittadini testi preziosi per la comprensione delle vicende politiche e istituzionali dell’Italia. Sono pubblicazioni che si avvalgono di un rigoroso corredo introduttivo accompagnato da saggi che, come in questo caso, collocano l’attività parlamentare nel contesto più ampio della storia d’Italia. Nella mia qualità, con funzione di questore della Camera mi sembra particolarmente importante richiamare l’attenzione su queste attività culturali, che hanno tratto nuovo smalto dalle sinergie realizzate con il Senato già nel 2007.
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Discorsi parlamentari di Roberto Tremelloni
I discorsi parlamentari di cui oggi ci occupiamo daranno sicuramente molti elementi utili alla comprensione dell’azione che Tremelloni svolse in Parlamento, dagli esordi dell’esperienza repubblicana agli anni settanta. Tremelloni ebbe un ruolo molto importante anche a livello locale; fu tra l’altro presidente della più grande azienda elettrica municipalizzata del paese la E.M. di Milano. Ancora più significativa fu però la sua attività parlamentare e soprattutto di titolare di ministeri chiave come il Ministero delle finanze che ricoprì dal ’54 al ’55 e ancora dal ’63 al ’66, del Ministero del tesoro dal ’62 al ’63 e del Ministero della Difesa dal ’66 al ’68. Come si vede siamo di fronte ad un’attività estremamente densa e impegnativa, importante sul piano ministeriale che coinvolse in tutte le principali questioni della politica economica degli anni ’60. Gli interventi dei relatori potranno offrire spunti di sicuro interesse. Una riflessione cui potremmo aggiungere anche il quaderno dell’ Archivio storico, pubblicato proprio nel 2014, dedicato alla storia della “Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla disoc-cupazione” da lui proposta e presieduta proprio all’inizio degli anni ’50 (’52-’53-’54). Un tema che forse pensavamo di averci lasciati alle spalle e che oggi invece ci ritroviamo con una imponenza e una forza ancora molto accentuata. In queste considerazioni introduttive, mi preme però almeno sottolineare come la pubblicazione dei Discorsi Parlamentari di Tremelloni contribuisca a riaprire almeno un dibattito culturale e storico su un filone della storia italiana a lungo trascurato, quello di un riformismo di matrice socialista, saldamente
ancorato alla valorizzazione dell’economia di mercato contro ogni tentazione dirigistica ma allo stesso tempo deciso a perseguire la giustizia sociale, valorizzando il ruolo dello Stato in quanto regolatore anche ai fini sociali della libera iniziativa e promotore di un equilibrato sviluppo economico. Si tratta come sappiamo di un filone politico che giocò un ruolo importante in particolare negli anni ’60 quando l’avvio del centrosinistra sembrò schiudere una nuova fase della politica italiana ma che dovette scontrarsi con persistenti vischiosità ideologiche e con le disfunzioni che emergevano nello sviluppo italiano, dall’aumento della spesa pubblica alle distorsioni provocate da uno sviluppo non sufficientemente governato e da una presenza pubblica dell’ economia che in molti casi si rivelava anche fonte d’inefficienze. Il giudizio sulla complessa fase della storia italiana nella quale Tremelloni operò rimane per molti versi ancora aperto; è certo tuttavia che le riflessioni che sostanziavano gli interventi di Tremelloni conservano una sorprendente attualità perché pongono con rigore teorico e sensibilità politica un problema ancora oggi attuale, quello di orientare con la forza del consenso lo sviluppo economico motore di progresso civile entro i limiti imposti da un approccio rigoroso alla finanza pubblica. Come si vede sono temi di una discussione notevole di straordinaria attualità. Inizierei con il sollecitare gli interventi dando per primo la parola al presidente Giuliano Amato che ha scritto anche la prefazione del volume curato dal Professor Mattia Granata.
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Giuliano Amato
Giuliano Amato
Grazie Paolo; in verità il grazie per questa giusta e nuova attenzione per Roberto Tremelloni va a Mattia Granata. Può essere utile raccontare come un giovane ha incontrato Tremelloni e ha finito per farne un oggetto prevalente di studi per numerosi anni. Il primo tema che portò Mattia a lavorare su Tremelloni fu la Commissione sulla concorrenza e poi, via via, la vita e le altre attività del personaggio fino alla cura dei Discorsi Parlamentari e attraverso ognuno di questi passaggi del suo lavoro si è venuta ricostruendo una figura che è venuta acquistando una dimensione cosi rilevante da porre la domanda, che lui stesso si pose alla fine della sua vita, del perché è caduto, diciamo la verità, in una sorta di dimenticatoio ufficiale. Certo non l’ha dimenticato chi gli era vicino, chi ha vissuto con lui, ma il Paese cosi pronto a celebrare post mortem virtuosi e viziosi (sembra che la morte abbia un effetto assolutorio formidabile dei pecati degli esseri umani) a lui, soltanto virtuoso, non ha riservato uguale destino. La domanda ha parzialmente già trovato risposta in quello che hai detto che si potrebbe sintetizzare così: l’uomo giusto con le idee giuste nel momento sbagliato finisce per rimanere fuori posto. Del resto non è toccato solo a lui; scusate il parallelo assolutamente dissennato, ma quando penso al destino di Mazzini che peraltro almeno stava sui monumenti che noi tutti abbiamo ripulito almeno in occasione del centocinquantesimo, non è che ha avuto un destino dissimile nonostante una notorietà di sicuro gli è rimasta, e la ragione è in realtà la stessa. Mazzini non fu né terza internazionalista né cattolico, e quindi si trovò schiacciato tra i grandi flussi culturali che accompagnarono e seguirono il periodo storico della sua attività. Mutatis mutandis, c’è qualcosa che vale anche Tremelloni la cui vita è la classica vita del socialista come s’intendeva una volta. In realtà, figlio di
una famiglia modesta di genitori che appunto svolgevano delle attività modeste delle piccole famiglie italiane, abituato per questo alla sobrietà, che riesce a studiare, se volete, un po’ a pezzi e a bocconi, non ha quel corso di studi predestinato dei figli della media e alta borghesia del suo tempo eppure riesce in fondo ad arrivare ad essere il Professor Tremelloni, appassionato com’è di economia, mantenendo le sue proprie caratteristiche di vita finché campa, nonostante il livello elevato a cui lo porta l’ascensore sociale, in ragione dei suoi meriti e certo della grande stima che di lui ebbe un grande personaggio quale era Giuseppe Saragat, uomo d’impareggiabile intelligenza che, capendo con chi aveva a che fare lo volle al suo fianco nei governi nei quali il suo partito ebbe una rappresentanza. Se scorrete questi Discorsi Parlamentari trovate tante cose, ma ci trovate un passaggio che Mattia riporta, mi pare nell’introduzione non di questo volume ma della biografia della vita, in cui la cattiveria tradizionale di Pajetta nelle sue interruzioni ha finito col giovare a sottolineare le virtù di Tremelloni. E’ un passaggio del ‘67, lo si ritrova nel volume dei Discorsi al 3 Maggio ’67. Tremelloni sta riferendo da ministro della difesa su quello che stavano facendo i servizi, in una seduta molto accesa perché c’era il post Sifar; lui dice che i servizi avevano raccolto notizie sulle attività economiche, sui rapporti d’affari, sulle manifestazioni anche frivole di vita di tante persone, e Pajetta lo interrompe e dice: “Il suo fascicolo doveva essere vuoto, signor ministro” perché quanto a rapporti d’affari e ad attività frivole evidentemente anche Pajetta era consapevole che non c’era molto da scrivere su un uomo come Tremelloni. Quindi una vita di quelle che dopo che sei morto per magnificare la correttezza usano l’aggettivo “esemplare”. E il tipo di vita di Tremelloni meritava tale aggettivo. Una vita di grandi risultati
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Discorsi parlamentari di Roberto Tremelloni
anche fortemente innovativi nelle attività che ha svolto come ministro e come parlamentare. In questa sede secondo me merita soprattutto sottolineare in che modo credeva al Parlamento. Riteneva che la decisione parlamentare dovesse essere frutto di una seria approfondita istruttoria sui fatti per essere sicuri che quando si legifera si fa quello che incide in una realtà che si conosce e sulla quale non si opera a casaccio, prima legiferando e poi vedendo che ho fatto. Questo modo di procedere non l’amava e lo voleva escludere e vedeva nell’inchiesta parlamentare lo strumento conoscitivo principe di cui il Parlamento disponeva e che doveva usare per conoscere prima di deliberare. Questo è un tratto, se volete molto inglese, che io ho trovato in poche grandi figure del Parlamento, lui però l’aveva; non glielo aveva insegnato nessuno, non l’aveva letto nei libri, perché nei libri di economia che lui frequentava queste cose non ci sono, ma era la sua interazione col Parlamento e col suo senso di realismo. Tutto questo io l’ho trovato straordinario. Quando presenta in aula, il 29 novembre del ’51, la proposta di una “Commissione d’indagine sulla povertà”, lui dice: “Un’inchiesta sulla vita economica e sociale tenda a scoprire e porre in luce dati e fatti che resterebbero ignoti o malnoti e a mantenere l’azione del legislatore in armonia con le condizioni, d’altra parte non ho bisogno di ricordare l’inchiesta Iacini, l’inchiesta sul mezzogiorno e aggiunge: “Nessun serio esame è stato compiuto sui rapporti tra i provvedimenti escogitati e la concreta disoccupazione, sulle relazioni tra assicurati che ricevono il sussidio e disoccupazione, le condizioni familiari del disoccupato, le sue condizioni di qualificazione e di preparazione, dobbiamo noi crearci il bagaglio informativo su tutto questo e poi decidere utilizzando questo poderoso strumento di conoscenza che è
l’inchiesta parlamentare e dobbiamo tornare prima o poi a queste ordinate e sistematiche indagini se vogliamo risolvere con ordine, con sistema i difficili problemi che ci sono dinanzi”. Lo fa per la disoccupazione e lo farà esattamente dieci anni dopo per la concorrenza. Una commissione che purtroppo porta il suo nome ancora, e non lo merita perché lui la volle in quanto preoccupato per le condizioni della concorrenza in Italia, ma poi, diventato Ministro del Tesoro nel governo Fanfani 2, lasciò la presidenza che andò ad altri e la commissione continuò i suoi lavori concludendo con uno dei paradossi più inauditi della storia d’Italia e cioè che in Italia non c’era alcun bisogno di tutelare la concorrenza perché la concorrenza non c’era, non c’erano monopoli e se uno la legge, anche se non è stato come me all’antitrust, dice davvero ego te baptizo piscem; non si sarebbe conclusa cosi se fosse stato ancora lui il presidente. Le due commissioni messe insieme sono la testimonianza del suo profilo culturale. La disoccupazione è il suo primo problema, di qui l’attenzione alla giustizia sociale e poi la concorrenza: che il mercato funzioni. E’ un socialista liberale che non vede le sue idee realizzarsi in un sistema dirigista, statalista; le vede realizzarsi in un’economia di mercato regolato che garantisca non gli abusi del potere privato ma che garantisca la libertà di concorrere e quindi l’efficienza, il dinamismo, che non per questo può però garantire anche la socialità perché spesso l’efficienza dell’impresa è a danno dell’occupazione. Di qui gli strumenti per intervenire sulla disoccupazione. Insomma oggi non c’è nessuno che osa contestarlo più nonostante gli eccessi del liberismo, nessuno che metta in dubbio questi capisaldi. Quando queste erano le sue idee, in realtà lui era in una posizione di assoluta minoranza come Mazzini che andò a sfidare Marx alla prima internazionale proponendo la piccola
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Mattia Granata
proprietà e la cooperazione in luogo della proprietà collettiva dei mezzi di produzione e fu schiacciato. Molti anni dopo gli avrebbero dato ragione. Cosi accade per Tremelloni che al suo tempo vedeva il socialismo liberale giusto per la soluzione di tali problemi ma era fuori tempo. Lui si batté per esso e lui lo sostenne naturalmente in un governo di coalizione in un modo o nell’altro e le sue idee ebbero spazio. Ora ci accorgiamo che quest’uomo di grandi qualità umane, di grande intelligenza è collocato nel punto giusto della cultura politica; ci si è collocato trent’anni prima che ciò diventasse corrente, normale ed è quindi giusto che almeno ora ci ricordiamo di quanto ha anticipato idee, propositi e anche progetti concreti che altri hanno accettato molti decenni dopo. Del resto, e qui concludo, il riconoscimento del valore di Tremelloni ha avuto una lunga incubazione. Chi fondò quel partito, Giuseppe Saragat, fu reprobo per anni per decenni e si dovette arrivare al ’90 perché venisse detto: ma nel ’47 Saragat aveva ragione, e anche Tremelloni aveva ragione. Mattia Granata
Buongiorno a tutti e grazie di essere qui. Innanzitutto, pur non volendo apparire troppo protocollare, mi corre l’obbligo di cominciare questo intervento con una lista di sentiti ringraziamenti per la realizzazione di un’opera di alto valore il cui principale merito va alla Biblioteca della Camera, nella persona del direttore Dr. Antonio Casu, del Dr. Stefano Tabacchi, e di tutti i collaboratori che hanno reso possibile la ricerca e la redazione di un volume di grande complessità. Il volume nasce anche per l’impulso iniziale della Fondazione Italianieuropei, ringraziata nella persona del suo ex direttore Marta Leonori, ora assessore del comune di Roma, e della Fondazione Mezzogiorno Europa, nella persona del direttore Alberto Gambescia.
Questo lungo lavoro ha potuto avere un felice esito anche per merito della famiglia di Roberto Tremelloni, qui rappresentata dalla figlia Laura, e dei suoi amici, su tutti Giulio Antonini. La giornata di oggi è per alcuni dei presenti, oltreché momento di presentazione di un volume di pregevole fattura, anche una sorta di celebrazione. Questo volume arriva infatti a compimento di un processo articolato segnato dalla pubblicazione di alcuni libri che lo precedono; il primo, Cultura del mercato. La commissione parlamentare sulla concorrenza (1961-1965), (Rubbettino, 2008), con una prefazione di Giuliano Amato e una postfazione di Sabino Cassese, metteva a fuoco un primo aspetto dell’opera di Tremelloni nelle istituzioni, ossia quello relativo alla formazione e all’attività della Commissione antitrust che al principio degli anni sessanta aveva avuto l’ingrato scopo di analizzare le condizioni dei mercati italiani e porre le basi per una legislazione di tutela della concorrenza economica. Il secondo volume, Riformismo e sviluppo economico. Biografia di Roberto Tremelloni, uscito sempre per l’editore Rubbettino nel 2010, ricostruiva in maniera completa la figura e l’opera di questa personalità; il terzo, Un progresso possibile. Scritti e discorsi di Roberto Tremelloni (1945-1973) (Biblion, 2012), raccoglieva gli interventi svolti da Tremelloni lungo il suo percorso politico in sede di partito, fornendo una parabola delle visioni interne alla socialdemocrazia italiana; quest’ultimo oggi in presentazione, infine, autorevole pure per la sede resa possibile dall’impegno della Camera dei Deputati, permette di illuminare la trentennale attività parlamentare e ministeriale di Tremelloni, e ne pone in evidenza il posizionamento in tutti i momenti più importanti della storia repubblicana, una storia vissuta in prima persona e da un punto di vista di primaria importanza per comprendere gli avvenimenti osservati.
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Discorsi parlamentari di Roberto Tremelloni
Per questo motivo, l’incontro di oggi assume la veste di una celebrazione; qui, infatti, giunge a compimento un progetto pluriennale, condotto grazie alla collaborazione e al sostegno di più persone, e che aveva come obiettivo finale di favorire una riscoperta di tale personaggio riportandone simbolicamente la memoria in questo luogo, nella Camera dei deputati, dove Tremelloni spese trent’anni di impegno e fatica non sempre fruttuosi. Naturalmente, questo progetto di ricerca, ha tratto origine dall’esistenza di un vasto e importante archivio personale, valorizzato negli anni scorsi dalla famiglia, che ha costituito la fonte principale per ricostruire i molteplici aspetti di questa figura. Esso per le sue caratteristiche rappresenta forse l’unico archivio esistente che permetta una ricostruzione della storia della socialdemocrazia italiana nella prima fase del dopoguerra almeno fino alla metà degli anni cinquanta. Le controverse vicende dei partiti che si richiamavano a questa tradizione politica, infatti, non favorirono lo stratificarsi di una ordinata documentazione a sostegno degli studi storici. In questa vasta congerie di materiali, inoltre, resta traccia diretta e indiretta di tutte le molteplici attività portate avanti da questa personalità, sia in ambito politico che istituzionale che professionale. Volendo cominciare a delinearne la personalità, certamente la chiave euristica più importante è stata individuata dal Presidente Giuliano Amato; Tremelloni era conosciuto dai suoi coevi, e ricordato dai pochi che ne conservano memoria, per tre caratteristiche: la parsimonia, la sobrietà e la riservatezza. L’aneddotica, rispetto a tali aspetti era vasta e qualificava il personaggio in maniera ambivalente. Questa tendenza al basso profilo era posta in evidenza dallo stesso Saragat che lo spronava durante i comizi ad usare “parole forti” e ad apparire meno
“british” e più “avventuriero” agli occhi di un elettorato poco avvezzo all’undestatement in politica. Sono queste caratteristiche che oltre ad indicare e delineare la personalità di Tremelloni, in qualche misura permettono anche di comprenderne il percorso politico e le modalità di azione, essendo al tempo stesso la sua debolezza, poiché il suo essere defilato ne segnava una certa incapacità di produrre il “consenso”, ma pure la sua forza. Egli, infatti, in un paese in cui lo spazio di manovra di un socialismo riformista e di governo è sempre stato tradizionalmente stretto, per queste caratteristiche riuscì con pazienza a inserirsi negli spazi disponibili per condurre innanzi il suo progetto politico. Tremelloni era un tecnicopolitico e il suo percorso politico si fondava su un rapporto stretto di natura amichevole e fraterna con Giusepe Saragat; quest’ultimo uomo di strategie, vero leader politico, si fidava di Tremelloni per valutazioni e decisioni in ambito economico, di fatto “appaltandogli” il settore delle politiche economiche. E’ per questo motivo che la figura di Tremelloni assume un aspetto tutt’altro che marginale e interessante da studiare: egli, infatti, rappresentava l’uomo delle politiche economiche della socialdemocrazia italiana, e quindi lo studio della sua attività permette di osservare in modo compiuto la parabola della socialdemocrazia italiana in rapporto a tutti i nodi di maggiore importanza della storia dell’Italia del dopoguerra: il periodo della ricostruzione, il piano Marshall, la lunga preparazione del miracolo economico, lo sviluppo degli anni sessanta ma anche le occasioni mancate di questo periodo. Ognuno di questi momenti è ben rappresentato anche dalla produzione letteraria di Tremelloni, dagli studi che a mano a mano andava compiendo parallelamente al lavoro nelle istituzioni. La raccolta si avvia dall’immediato
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Mattia Granata
dopoguerra, quando Tremelloni era chiamato in qualità di commissario straordinario a reggere i maggiori organismi governativi deputati alla ricostruzione in campo economico e industriale. Il suo punto di vista era panoramico sui drammi e le occasioni della ricostruzione, era il punto di vista di un tecnico al governo e, d’altra parte, di un socialista incaricato, di elaborare e diffondere posizioni in un ambito poco frequentato e non sempre sufficientemente riflettuto, all’interno di neo ricostituiti partiti popolari. Già in questa fase, erano del tutto evidenti i temi forti del pensiero tremelloniano: l’accettazione piena delle logiche del mercato, la militanza nel fronte occidentale, un ruolo statale nell’economia interpretato in maniera protagonista ma non totalitaria. I tratti, insomma, di un socialismo liberale applicato con gli occhi alle socialdemocrazie e al laburismo delle democrazie più evolute, alle esperienze di pianificazione di Beveridge, all’esempio rooseveltiano, nel mito sempre rievocato di un pragmatismo fabiano e di un gradualismo turatiano; nella convinzione, in definitiva, che “a sinistra c’è posto per la libertà, oltreché per la giustizia sociale”. In seguito alla prima fase, riassumibile sotto l’etichetta della “ricostruzione”, nel corso degli anni cinquanta l’impegno politico di Tremelloni all’interno del partito – e di conseguenza negli incarichi di governo che aveva occasione di ricoprire – si dipanava tutto al fianco di Giuseppe Saragat e sulla linea politica da questi elaborata. E, infatti, lungo tutto il decennio Tremelloni si impegnava assiduamente per elaborare una piattaforma, via via più sgrezzata, vieppiù più raffinata, su cui potesse convergere programmaticamente un progressismo maturo e di governo. L’apporto socialista democratico alla formazione del centro sinistra, in proposito, è stato a lungo e ampiamente
rimosso. La compressione nell’angusto spazio politico e culturale stretto tra Democrazia cristiana, da un lato, e Partito comunista, dall’altro lato, aggravata, da questa parte, dalle concorrenze tra socialismo di opposizione e socialismo di governo, rese faticoso il cammino politico di quest’ultimo e, soprattutto, rese forse inevitabile la successiva rimozione di una posizione avanzata e moderna. Proprio su questa piattaforma teorica e politica, in larga parte frutto del lavoro di Tremelloni, convergevano le forze costitutive del centro sinistra di governo, che avrebbero dovuto completare la modernizzazione di un paese avanzato a disordinati balzi nel periodo della ricostruzione e, poi, del miracolo economico. Non per caso, nel primo governo di questa coalizione, a dimostrazione che il punto di equilibrio era quello a lungo indicato dalla socialdemocrazia, proprio Tremelloni andava a ricoprire il ruolo chiave di Ministro del tesoro, in piena sintonia con l’amico La Malfa, al ministero del bilancio, in quella che si sperava fosse la famigerata “stanza dei bottoni”. La terza fase, dopo quella del “programma progressista”, lungo tutti gli anni sessanta si configurava come del “socialismo di governo”, gravato dalle mille contraddizioni di un paese difficile da condurre nel recinto delle democrazie pienamente avanzate. Non per caso gli ultimi scritti qui riprodotti fotografano un’Italia “a metà strada”, posta di fronte a un bivio: da un lato, la correzione delle disfunzioni ormai patenti, che da contingenti si avviavano a diventare strutturali; dall’altro lato, la rassegnata e politicamente lucrosa accettazione di queste disfunzioni e di un paese che a lungo le avrebbe scontate. Per fotografare il periodo successivo, e comprendere se l’Italia sia poi riuscita a compiere la metà strada successiva auspicata da Tremelloni, servirebbero i discorsi parlamentari dei trent’anni
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Discorsi parlamentari di Roberto Tremelloni
successivi che noi, purtroppo, non abbiamo. Ma siamo lieti, e per questo ringraziamo nuovamente tutti i presenti, di essere riusciti a riportare Roberto Tremelloni nella sua sede di lavoro, auspicando che sia possibile diffondere la conoscenza dei temi e dei punti di vista contenuti in questa raccolta nell’auspicio che anche la politica odierna possa trarne utilità.
Angelo G. Sabatini
Politico militante, economista, giornalista, intellettuale raffinato, rappresentante delle istituzioni, uomo d’impresa: Roberto Tremelloni fu tutto questo, e lo fu ad alto, altissimo livello. Stupisce dunque in modo particolare l’oblio al quale sembravano destinate la sua figura e la sua testimonianza prima che una lodevole quanto opportuna iniziativa la pubblicazione dei Discorsi parlamentari tornasse a imporre alla nostra attenzione questo protagonista della vita pubblica del Novecento. Si è registrata, invero, di recente, una rinascita di interesse per Tremelloni grazie alla pubblicazione del brillante e ben documentato saggio di Mattia Granata. Ma era tuttavia tempo che fossero le istituzioni, e il Parlamento in primo luogo, a riproporre con autorevolezza e vigore una testimonianza politica che ha tuttora, come vedremo, profili di sconcertante attualità. Socialista riformista della prima ora, poi Costituente, poi ancora più volte ministro, Tremelloni è stato protagonista della ricostruzione del Paese in un difficile ma operoso secondo Dopoguerra, nel quale fu titolare del dicastero che gestiva il Piano Marshall e gli aiuti americani alla ricostruzione. Valente economista, Roberto Tremelloni rivolse naturalmente la sua passione politica alla promozione economica, sociale, culturale e politica dei lavoratori e delle classi disagiate. Ma fu anche analista attento e critico del suo tempo, come testimoniano le importanti -
e per l’epoca assai innovative - inchieste parlamentari da lui promosse sui temi della disoccupazione, della concorrenza, dei costi della Pubblica Amministrazione. La sua genuina passione di socialista riformista troverà, negli anni del secondo Dopoguerra, spazio e piena espressione nelle iniziative politiche sul lavoro e poi ancora nel campo della riforma fiscale e della lotta all’evasione in un quadro di iniziative al servizio di politiche di progresso e di sviluppo, ovvero di politiche, come si direbbe oggi, votate all’equità e alla crescita. Questa passione civile, che si innesta sulla figura del “tecnico” - esperto di economia e finanza, di politica economia e di tecnica gestionale - emerge in Roberto Tremelloni già negli anni giovanili quando, dopo l’esperienza della Prima Guerra Mondiale che rafforzò in lui la profonda convinzione pacifista - si iscrisse alla Bocconi e fece il primo tirocinio professionale come giornalista per il quotidiano La Sera. Risalgono a quegli anni - gli anni difficili e travagliati del biennio rosso e dell’ascesa dei fasci di combattimento - le testimonianze giovanili dell’adesione alla fede socialista. Tra i suoi primi contributi merita di essere ricordato l’intervento al XVIII congresso del Partito Socialista dell’ottobre del 1921. Tremelloni ha 21 anni e già si cimenta con uno dei temi che lo vedrà protagonista un quarto di secolo più tardi: la crisi postbellica e le politiche del lavoro per il rilancio del Paese prostrato dal conflitto. La relazione del giovane Tremelloni è dedicata al tema della riduzione dei salari, invocata dagli industriali quale medicina per il rilancio dell’economia nazionale e respinta dal Partito Socialista - e dal Nostro, con parole nette e chiare - in nome di una politica di sviluppo centrata sul riconoscimento pieno del ruolo e dei diritti dei lavoratori. E nel rimandare al mittente, ossia agli industriali, la proposta di finanziare la crescita con il taglio dei salari, Tremelloni già invoca temi che avrà modi di sviluppare nel secondo Dopoguerra: il rilancio e la modernizzazione del Paese passano attraverso l’affermazione delle
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ragioni della concorrenza e della migliore organizzazione della fabbrica e, in generale, del lavoro (La riduzione del salari. Cosa dicono gli operai e cosa dicono gli industriali, Atti del XVIII Congresso del Partito Socialista, 1921). Nel 1922 si iscrive al Partito Socialista Unitario (P.S.U.): siamo nel pieno della drammatica stagione delle scissioni socialiste, che vede la nascita del Partito Comunista d’Italia e l’espulsione dei riformisti da parte della maggioranza massimalista. Tremelloni fa allora, a ventidue anni, una scelta di campo che sarà sua per sempre: la scelta riformista che lo porta a militare nel partito di Treves, di Turati, di Prampolini, di Matteotti e più tardi - dopo la lunga stagione del fascismo e le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale - nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani di Giuseppe Saragat che diverrà, dopo il 1951, il PSDI. Negli anni Venti, mentre il fascismo si afferma come regime dopo l’assassinio di Matteotti (del quale ricordiamo quest’anno il 90° anniversario) e con l’emanazione delle “leggi fascistissime” del ’25, Tremelloni entra nell’Ufficio studi della Confederazione generale del lavoro e, quale ulteriore testimonianza della sua militanza sul fronte operaio, viene chiamato a dirigere “Battaglie sindacali”, la rivista dell’organizzazione, destinata ad essere di lì a poco soppressa. Come molti antifascisti Tremelloni sotto il regime fascista, lontano dalla politica attiva si dedicò prevalentemente agli studi economici e nel 1930 ottiene la libera docenza in Economia politica all’Università di Ginevra. Di quegli anni resta, tra l’altro, la testimonianza di un ampio lavoro di ricerca finalizzato alla realizzazione di un volume sulla storia economica italiana dal 1861 in poi. Di quel lavoro troviamo ampia
traccia nel saggio Orientamenti di politica economica, edito dalla Eri nel 1967, che raccoglie le più autorevoli testimonianze dell’epoca sul periodo 1915-1945, sotto il titolo Trent’anni di storia politica italiana. E tra i molteplici interessi da lui coltivati in quegli anni non va dimenticato il progetto giornalistico che darà vita, nel dopoguerra, alla nascita del giornale economico “24 Ore” (più tardi, “Il Sole 24 Ore”) e al periodico “Mondo Economico”. E’ con il 25 aprile 1945, giorno della Liberazione, che Tremelloni torna a Milano e a un ruolo politico attivo che gli consente di mettere al servizio dell’Italia liberata la sua grande competenza di economista democratico, di “tecnico” attento alla società e alle sue istanze di eguaglianza e di libertà. Subito assunse la carica di Commissario del Ministero della Produzione Industriale per l'Alta Italia e poi, nel luglio dello stesso anno, viene nominato vicepresidente del Consiglio Industriale per l'Alta Italia (C.I.A.I.), incarico che conserva sino al 1946. Conclusasi all'inizio del 1946 l'esperienza dei governi nati dalla Resistenza, Tre-melloni è ormai uno dei maggiori protago-nisti della nostra ricostruzione economica ed è chiamato ad occupare delicati ruoli di governo. Al primo Congresso nazionale del Partito Socialista Italiano nel dopoguerra, tenutosi a Firenze nell'aprile 1946, partecipa all'elaborazione, con altri esperti, del programma economico del PSI. Nel 1946, fu eletto dapprima consigliere comunale a Milano e in seguito entra a far parte dell'Assemblea costituente. Nel luglio 1946 assunse anche l'incarico di sottosegretario di Stato per l'Industria e Commercio e fu primo collaboratore del ministro Rodolfo Morandi, nel secondo Gabinetto De Gasperi, durante il quale condusse la difficile opera di rilancio dell'industria italiana.
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All’inizio del 1947 la svolta decisiva: la “scissione di Palazzo Barberini” di Giuseppe Saragat e con essa la scelta occidentale e anti-frontista e la nascita del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Tremelloni condivide con Saragat le linee politiche strategiche del socialismo democratico, cui resta fedele per tutta la sua militanza nel Partito. Una linea che individuava come punto di riferimento costante l'esperienza della socialdemocrazia dei Paesi europei, con lo sguardo rivolto ai grandi partiti socialdemocratici europei e al Labour Party inglese. Nella prima legislatura repubblicana, Tremelloni viene eletto deputato nelle liste socialdemo-cratiche a Milano con 9.818 voti di prefe-renza e dopo il 18 aprile 1948, con la con-ferma del governo di centro guidato da De Gasperi, fu nominato ministro delegato alla presidenza del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione (CIR). In quegli anni cruciali la sintonia politica con i principi della socialdemocrazia - e quella personale con Saragat - sono testimoniate dalle parole dello stesso Saragat: “Tremelloni è l’uomo politico e l’economista che ha forse più di ogni altro aiutato i lavoratori italiani a trovare nel campo economico e sociale la via verso una società giusta e libera ed è per questo che il suo nome è diventato per tutti gli italiani, per tutti i lavoratori, sinonimo di civismo, di responsabilità politica, di onestà intellettuale” (G. Saragat, Prefazione a R. Tremelloni, A sinistra c’è posto per la libertà, Firenze, 1963). Quello con Saragat - lo ricorda opportunamente Mattia Granata nell’ Introduzione alla sua importante
monografia (il già ricordato saggio Roberto Tremelloni. Riformismo e sviluppo economico) - è un rapporto stretto e fiduciario, che nasce all’indomani della Liberazione e si consolida, in nome della condivisa politica socialdemocratica, nella prassi di governo degli anni stimolanti, operosi e proficui del Dopoguerra. E’ - scrive Granata - “un rapporto di virtuoso ‘scambio’ tra tecnica e politica, in cui Tremelloni offriva le competenze in ambito di politica economica e in cui il leader ricambiava con la garanzia della spendibilità nel mercato politico delle visioni del ‘tecnico’”. Ed è del resto lo stesso Tremelloni a sintetizzare con efficacia e con disarmante franchezza - il seno di un’amicizia personale e di una proficua collaborazione durata quarant’anni, nell’ affermazione “Saragat era il vero capo” (R.T., Appunti). Il caposaldo di questo sodalizio politico era certamente costituito dalla condivisa fiducia nella superiorità del modello delle democrazie occidentali e del riformismo di impronta socialdemocratica, in grado di coniugare la democrazia, anche econo-mica, con la libertà, essa pure anche economica, dell’individuo, secondo la celebre formulazione saragattiana: “non c’è libertà senza uguaglianza, non c’è uguaglianza senza libertà”. Il tutto in un contesto nel quale la fiducia nell’economia di mercato e nella libertà d’impresa doveva trovare un necessario contrappeso in un capitalismo “controllato”, non privo di limiti, nel quale lo Stato è destinato a conservare il suo ruolo di regolatore e di stimolatore del sistema produttivo. E’ questa la via - e la ricetta - del “socialismo attivo” di Roberto Tremelloni:
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una “teoria moderna dell’azione socialista” citato - con la sua frase più appassionata e che è al contempo “liberista intransigente” più vigorosa, Uscire dal labirinto della - sono sue espressioni - e “consapevole dei povertà. Vale la pena di riportare per intero rischi e dei costi di mancati limiti alla libertà il contesto nel quale la frase si inserisce: economica”. Una teoria “sottoposta “Noi dobbiamo uscire, e al più presto unicamente alle leggi generali della realtà”, possibile, da questa indecisione, da questo ovvero pragmatica e mai ideologica. labirinto maledetto della povertà. E ciò che Le linee guida del “socialismo attivo” di noi socialisti vogliamo oggi è che le masse Tremelloni si dipanano nelle tre fonda- lavoratrici non paghino tutto il pedaggio mentali opere teoriche che ci ha lasciato in feroce di questa porta d’uscita parallelo alla sua azione di politico, a dall’autarchia, dall’ inflazione e dalla guerra: testimonianza di una riflessione sempre intendo dire non lo paghino con vigile che guidava i comportamenti e le sofferenze che mettano in pericolo la loro scelte del ministro e del civil servant. Si stessa vita fisica, oltreché la loro capacità tratta, in primo luogo, de L’Italia in produttiva…”. un’economia aperta, Pochi mesi più tardi che fa riferimento alla la storia si ripete: sue esperienze di siamo nel giugno del governo dell’imme’47 ed è in discussione diato Dopoguerra, da Milano 30.10.1900 - Brunico 8.9.1987 la fiducia al IV ministro Erp alla gabinetto guidato da prese con il Piano Alcide De Gasperi. Assemblea Costituente Marshall e la ricoTremelloni ancora una struzione del Paese. volta prende la parola PSIUP E’ la fase segnata dalle a nome dei socialscelte fondamentali, democratici, che Camera dei deputati riconosciute come tali resteranno fuori anPSDI anche nei decenni che da questo esecudurante quattro legislature successivi: il reinseritivo, e affronta, da mento dell’Italia nell’ economista e da economia mondiale, Ministro dell’Industria politico, il tema della nella sfera atlantica e ricostruzione del Ministro delle Finanze Paese. E’ un discorso delle alleanze occidentali, la scelta pacifista centrato sui grandi Ministro della Difesa ed europeista, la scelta temi di una politica per la modernizzazioeconomica fondata ne dell’economia e sulla programmaziodella società. ne, sull’intervento pubblico e sulla Di questa intesta e impegnativa stagione concezione socialdemocratica del “piano” restano numerose testimonianze. Tra le per la rinascita sociale ed economica di tante, ci piace ricordare, anche solo di un’Italia ancora prostrata dal conflitto. sfuggita, i discorsi di Roberto Tremelloni Tremelloni sollecita una coraggiosa politica alla Costituente. Il primo risale all’inizio del degli investimenti per valorizzare il lavoro e 1947 e fu pronunciato in occasione della le potenzialità produttive nazionali, per discussione del programma di governo sconfiggere l’inflazione e per riformare il esposto dal presidente del Consiglio De sistema tributario. La leva del cambiamento Gasperi dopo la composizione del suo è quella economica, ma da sola non basta. terzo gabinetto. I socialisti democratici Lo ricorda lo stesso economista Treerano appena usciti dal governo a seguito melloni nelle parole d’esordio: “Di che della scissione di Palazzo Barberini. cosa ha bisogno il Paese oggi? Il Paese ha Questo discorso viene spesso titolato - e bisogno soprattutto di sapere e, sapendo, di
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sperare: ha bisogno di quella che gli americani chiamerebbero la libertà dal dubbio e dalla paura; ha bisogno di un ordine giuridico volto al bene di tutti i cittadini e non di una parte soltanto; ha bisogno di un potere esecutivo che abbia il prestigio per far osservare questo ordine giuridico…”. Alla fase costituente fa seguito l’impegno attivo di Tremelloni a fianco di Saragat, negli anni Cinquanta, per costruire e rafforzare un Partito Social-democratico moderno ed europeo, prota-gonista delle politiche che generarono il “miracolo economico italiano”. Testimo-nianza di questi anni sono gli scritti di A sinistra c’è posto per la libertà (oltre che per la giustizia sociale) e altri saggi, sui quali torne-remo, che riflettono l’impegno di Tremel-loni nell’elaborazione del programma politi-co, economico e sociale del Psdi. Un impegno programmatico che testimonia quanto profondo sia stato il contributo teorico del “tecnico” Tremelloni alla socialdemocrazia italiana e quanto l’economista sia stato - sempre sensibile alle istanze sociali di un riformismo autenticamente socialista. Arrivano quindi gli anni Sessanta e l’esperienza politica del centrosinistra. Il lascito più rilevante di quest’ultima stagione è racchiuso in un nuovo saggio, Il danaro pubblico, che ripropone con vigore il tema, sempre assai caro a Tremelloni, del rigore nella gestione della cosa pubblica. Si parla con insistenza, in questo saggio, di “programmazione” quale strumento primario della politica economia, ma si parla anche di lotta agli sprechi, di efficientizzazione della pubblica amministrazione, di etica della gestione delle risorse della politica e del Paese. Ci sono, in questo volume, l’analisi e l’esposizione di questi principi manageriali che Tremelloni si trovo ad attuare, con brillanti risultati, nel ruolo di manager pubblico, alla guida dagli anni Cinquanta dell’AEM, l’Azienda Elettrica Municipale di Milano. Ma accanto all’esperienza di militante e teorico della socialdemocrazia e di manager, Tremelloni è protagonista, in quegli anni cruciali della storia del Paese,
anche sul fronte delle istituzioni e del governo. Tra il giugno 1952 e il giugno 1953 è impegnato nell'Inchiesta parlamentare sulla disoccupazione, da lui presieduta e personalmente diretta, che si affiancò all'Inchiesta sulla miseria in Italia. Il fondamentale rapporto in 18 volumi da lui curato venne definito da Einaudi come "una delle cose migliori" compiute dal Parlamento italiano nella prima legislatura, ed entrò in tutte le biblioteche universitarie del mondo. Nel 1954, benché non rieletto deputato alle elezioni dell'anno precedente, venne nominato ministro delle Finanze nel primo governo Scelba. Fu inoltre, nel 1956, tra i fondatori del CIRIEC, il Centro Italiano di Ricerche e di Informazione sull'Economia delle Imprese Pubbliche e di Pubblico Interesse. Negli stessi anni aveva avviato anche una brillante attività di docente al Politecnico di Milano. Nel 1962, dopo aver guidato l’AEM per oltre dieci anni e dopo aver realizzato opere pubbliche e infrastrutture che hanno segnato il cammino dell’industria energetica nazionale, si dimise dalla presidenza della municipalizzata e tornò al governo come ministro del Tesoro del IV gabinetto Fanfani. Alle elezioni dell'aprile 1963 fu rieletto deputato nella circoscrizione Milano-Pavia con 10.976 voti di preferenza, e divenne ministro delle Finanze del I e del II governo Moro. Con il III governo Moro, Tremelloni ricoprì la carica di primo ministro socialista della Difesa nella storia d'Italia. In tale veste si confrontò con fermezza con la vicenda dell'ex SIFAR e del "colpo di Stato" organizzato dal generale De Lorenzo, nel luglio 1964. Nell'ultimo scorcio della V Legislatura fu dapprima membro della Commissione Finanza e Tesoro e successivamente presidente dalla Commissione Bilancio e Programmazione della Camera (1969). Il tramonto politico di Tremelloni - come puntualmente nota Mattia Granata - al di là delle cause contingenti che lo motivarono “giungeva all’epilogo sostanziale dell’ esperienza del centrosinistra in Italia e alla vigila dell’esaurirsi della spinta ideale e delle
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condizioni che avevano sostenuto la parabola della ‘economia sociale di mercato’ tra la fine della guerra e gli anni Settanta”. Ma qui ci piace soffermarci sul significato a nostro avviso più autentico della testimonianza civile di Roberto Tremelloni: il suo contributo teorico - oltre che pratico e militante - all’elaborazione di un programma socialdemocratico per la modernizzazione e il rilancio dell’Italia nel contesto della nuova Europa e del “grandi” del mondo. Se si guarda con la dovuta attenzione a questo specifico aspetto dell’attività e del lascito politico di Tremelloni, allora la sua eredità più importante è racchiusa negli scritti raccolti nel saggio Le strade del benessere in uno Stato efficiente. Il volume, edito a Milano nel 1958, contiene il discorso programmatico di Tremelloni al Congresso del PSDI dello stesso anno e compendia e definisce le linee del programma politicoeconomico e sociale della socialdemocrazia italiana, linee elaborate e sviluppate anche con riferimento alle relazioni elaborate in occasione dei precedenti congressi socialdemocratici. Il testo rappresenta, di fatto, la summa di quello che fu allora - e per tutti - “Il programma per il socialismo democratico italiano”. L’importanza del contributo del “compagno” Tremelloni non sfuggì a nessuno, e tantomeno a Giuseppe Saragat che ne firmò la prefazione. Il discorso congressuale di Tremelloni viene definito da Saragat “un modello di serietà scientifica e di consapevolezza socialista. La solidarietà profonda con la classe lavoratrice e il disprezzo per ogni forma di demagogia - prosegue il leader nella prefazione - sono le note dominanti di questo come dei precedenti discorsi di Tremelloni. Dire dell’attività di Tremelloni è tracciare la storia delle riforme sociali italiane dopo la fine della guerra… ”. Non è questa le sede per un esame dettagliato del lascito più strettamente politico di Roberto Tremelloni, ma i capisaldi del “suo” programma - divenuto poi a pieno titolo “il programma del Psdi” - possono essere sinteticamente ricordati.
In primo luogo, in un preambolo programmatico tutto votato alla concretezza ed alla fattività, Tremelloni individua le “quattro semplici premesse al comportamento di un partito socialista”: “la sicurezza della serietà di formulazione, dell’irrevocabilità dell’impegno e delle capacità realizzatrici (…) di un chiaro e concreto programma”; una strategia che “non renda impossibile alcuna costruttiva solidarietà (…) con i partiti democratici” che condividono tale programma; una realtà come, quella del PSDI, “che offra la garanzia di essere non un movimento, ma un partito politico” e, soprattutto, “un Partito che sappia alzare la bandiera di un alto livello morale nella vita pubblica italiana”. Il programma - non un manifesto o un proclama - è dunque il centro del pensiero politico socialdemocratico. E quattro sono i capisaldi di questo programma, che Tremelloni vuole “socialdemocratico ed europeo”: 1. un preciso impegno per sollecitare e accompagnare uno sviluppo economico equilibrato della collettività italiana, e per affrontare tempestivamente i problemi sociali connessi; 2. un forte e organico sforzo di investimenti diretti a un miglior allevamento (sic!) degli uomini; 3. un più efficiente controllo pubblico sull’economia, anche se di area limitata, in particolare per eliminare gli abusi di potere economico; 4. una cura preminente rivolta ad estendere l’area di benessere e di sicurezza sociale alla popolazione e alle zone economicamente deboli (il neretto è di R.T.). Ecco, dunque, in sintesi estrema, i fondamentali del Tremelloni-pensiero: pianificazione economica, politica degli investimenti, regolazione dell’economia di mercato e degli abusi di posizione dominante, politica sociale e dei redditi, azioni di stimolo per il Mezzogiorno e di sostegno alle aree e alle fasce sociali più deboli e mono tutelate. Ecco, dunque, un autentico programma socialdemocratico europeo: un manifesto di fede nel mercato
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e nella libertà d’impresa ma anche nello Stato e nel suo insostituibile ruolo di regolatore e di argine ad una gestione meramente economica della società, di uno Stato tutore della dignità del lavoro e dei diritti dei cittadini. E’ appena il caso di notare che questo programma risale al 1958; un anno prima del più importante e celebrato progetto della socialdemocrazia in Europa, quel programma di Bad Godesberg (Godesberger Programm) che costituì la linea guida principale del Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD) e poi di tutte le socialdemocrazie del Vecchio Continente. La modernizzazione auspicata e voluta da Tremelloni passa anche attraverso una profonda riforma della pubblica amministrazione, attraverso la lotta agli sprechi, attraverso una più equa ed efficiente politica fiscale, attraverso un ruolo ottimizzato dello Stato quale propulsore dell’economia, dei servizi di pubblica utilità, delle infrastrutture: siamo, vale ricordarlo, nella stagione migliore delle “partecipazioni statali”, nella quale i colossi di Stato - Iri, Eni, Efim - stanno ancora dando buona prova di sé, dopo aver traghettato l’Italia dalle macerie del dopoguerra alle nuove frontiere del miracolo economico e della società del benessere. E dunque nel programma di Tremelloni ha ampio spazio il tema, affrontato con grande equilibrio, del “controllo pubblico dell’economia” quale premessa per uno Stato socialmente equo ed efficiente: da qui il richiamo insistito ad estendere l’area dell’assistenza sociale
perché “un Paese che si sviluppa economicamente e socialmente deve con tempestività migliorare l’habitat di tutti i suoi cittadini, a partire dai diseredati”. Il programma si chiude - e non potrebbe essere diversamente - con un forte richiamo a “un alto ‘clima morale’ nella vita politica”: è questa, per Roberto Tremelloni, la sintesi tra libertà e giustizia, tra impegno politico e gestione economica, tra riformismo e azione sociale. E’ questo “l’alto senso di solidale responsabilità” che incrocia, nelle parole conclusive del programma, le strade del benessere e della giustizia sociale, in un Paese che non vuole più rinunciare alla libertà politica. Ed è questo il senso ultimo della lezione etica, prima ancora che politica ed economica - di Roberto Tremelloni. Una lezione sempre accompagnata da quella genuina e profonda passione politica riformista e socialista democratica che con difficoltà traspariva dai comportamenti misurati di quell’uomo serio e riservato, ma che non lo abbandonò mai. Una passione che emerse tutta e rivendicò il suo ruolo quando Tremelloni, nel pieno delle sue fortune politiche, diede alle stampe la più importante raccolta dell’epoca dei suoi scritti e delle sue testimonianze di civil servant. Era ancora il 1958 e il libro (Milano, Editrice L’Ufficio Moderno) portava un titolo che ci sembra particolarmente opportuno ricordare a conclusione e a suggello del nostro ricordo di Roberto Tremelloni: Il cuore è a sinistra. Discorsi di un socialista democratico agli italiani.
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LE MASCHERE DELL’ARTE
Gaia Di Lorenzo
Cosa c’è di contemporaneo nell’arte oggi?
Lo storico dell’arte, critico e artista1, Terry Smith, nel suo testo Contemporary Art: world currents si chiede: “Che cosa c’è di contemporaneo nell’arte oggi?”. Quale elemento rende contemporanea un’opera? Per che cosa si distingue un opera d’arte contemporanea e in che modo invece si riallaccia alla tradizione della storia dell’arte? Analizziamo il testo di Terry Smith al fine di offrire un punto di vista più chiaro riguardo alcune tematiche dell’arte contemporanea.
comincia con una premessa: non tutta l’arte prodotta oggi è contemporanea. Alcune opere, anche se prodotte oggi, non differiscono né nella tecnica, né nel soggetto, né nel concetto o effetto dall’arte che si può trovare nei musei. Prendiamo ad esempio i grandi della storia dell’arte. Il loro merito e la loro fama permanente non sono dovuti (solo) alle loro capacità tecniche, quanto alla loro innovatività. Giotto ad esempio è passato alla storia per l’espressività dei volti ritratti,
Smith propone una comprensione di quest’ultima che si basa sulla distinzione di tre filoni principali, dei quali, come dimostreremo, solo uno dei tre è valido. Per farlo facciamo riferimento alle teorie dei filosofi Giorgio Agamben e di Theodor W. Adorno e al lavoro degli artisti Darren Bader e George Condo. Nel suo libro Terry Smith osserva alcuni degli aspetti che considera fondamentali nell’analisi della contemporaneità al fine di risalire a ciò che caratterizza l’arte contemporanea. Il testo
Caravaggio per la sua adesione totale ai principi veristi e naturalisti, Canaletto per l’utilizzo della camera oscura, Cezanne per la sua tecnica pittorica “modulare” e così via… Allo stesso modo, oggi risultano rilevanti solo coloro che danno un apporto positivo e non relativo alle belle arti. Non basta essere bravi, bisogna offrire nuove prospettive! Nella parte centrale del testo, come dicevamo sopra, Smith propone di distinguere l’arte contemporanea in tre
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Cosa c’è di contemporaneo nell’arte oggi?
filoni principali. Il primo filone riunisce tutte le opere che sembrano una continuazione delle correnti della storia dell’arte, in particolare quella modernista. Il secondo nasce da problematiche politiche come l’indipendenza economica, ideologie e esperienze contrastanti. L’ultimo filone è quello che esplora le domande che sorgono dal vivere nella contemporaneità. Per terminare l’autore enumera quelle che ritiene le qualità imprescindibili dell’arte contemporanea: l’attualità, la
risale al secolo precedente; anche Realismo è un termine introdotto da Courbet almeno un decennio dopo lo scoppio della rivoluzione del 1848 e circa mezzo secolo dopo la nascita del Positivismo, elementi che avevano dato vita al movimento artistico letterario2. Negli anni che sono preceduti alla sua morte avvenuta nel 1970, Adorno scriveva Teoria Estetica3. Le prime righe recitano così: “È diventato un’ovvietà il fatto che nulla di quello che concerne l’arte sia più ovvio, né in essa né nel suo
freschezza e la sorpresa. Prendiamo in considerazione il primo dei tre filoni proposti da Smith, quello che lui identifica come la continuazione delle correnti della storia dell’arte, in particolare quella modernista. La prima questione da porsi leggendo questa definizione è: è possibile parlare, e soprattutto definire (‘modernista’ in questo caso), un movimento contemporaneo? In tanti hanno osservato che i nomi delle avanguardie sono stati dati tempo dopo la nascita e l’evoluzione della corrente artistica che denominavano. Ad esempio, Rococò è un termine accettato solo a partire dal XIX secolo nonostante la corrente artistica cui fa riferimento
rapporto con l’intero, nemmeno il suo diritto ad esistere.”4. Nel libro afferma che il concetto fondante dell’arte risiede in una costellazione di momenti che cambiano nel tempo; afferma che l’arte è, per natura, avversa alla definizione5. Dice che: “La definizione di che cos’è l’arte è sempre prefigurata da ciò che essa un tempo è stata ma si legittima solo in riferimento a ciò che essa è diventata, aperta verso ciò che essa vuole diventare e forse può diventare”. Per Adorno il puro concetto di arte non può essere determinato in modo definitivo, è anzi prodotto volta per volta. Il processo di prendere la definizione precedente e rinnegarla
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Gaia Di Lorenzo
dev’essere continuamente rinnovato. Per lui la caratteristica di base della contemporaneità è l’opposto di qualsiasi determinazione, è, anzi, la continua oscillazione tra l’idea di realtà e la realtà stessa. Quest’oscillazione genera una continua riconsiderazione del primo termine in favore del secondo. Come il concetto dell’arte, così anche quello di essere, di società, di io (e così via), devono essere incessantemente aggiornati cosicché il concetto rispecchi la realtà mutevole e la definizione non sia mai definitiva. In questo modo vengono costruiti continuamente nuovi significanti, tra gli altri, per un significato in continua evoluzione: l’arte.
come forma, piuttosto che cibo). I suoi lavori sono la prova tangibile che, nel momento in cui dai qualcosa per scontato, questa ti sorprende con un significato nuovo. Sarebbe sciocco parlare in maniera più specifica di Darren Bader, dato che il fine della sua produzione è proprio di lasciarti senza parole, di non riuscire a descriverla o a etichettarla. A testimonianza di questa indescrivibilità del suo lavoro è riportata qui sotto parte del testo prodotto da Bruce Hainley e preso dalla pagina del catalogo dedicato all’artista in occasione della mostra Empire State. Arte a New York oggi a Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2013:
Passiamo a un esempio pratico, quello del giovanissimo Darren Bader che ha attirato notevole attenzione negli ultimi tre anni. Il suo lavoro consiste fondamentalmente nel suggerire nuovi significati attraverso l’associazione di oggetti familiari. Espone, ad esempio, due bicchieri d’acqua affianco a un paio di occhiali e chiama l’opera Glasses with/and Glasses oppure farcisce una baguette con una lampada tubolare a neon… Il risultato è insieme divertente e straniante. Tende a far sentire il pubblico in una posizione scomoda, cambiandogli il punto di vista o costringendolo a riconsiderare qualcosa che avrebbe pensato banale (ad esempio il panino
“[…] A lui piace che tutti sappiano cosa è un gatto. Idem per le vacche che ruminano in un campo, le corna, l’eroina. Lui sorride perché i gatti dureranno, molto più dei Kardashian, e questo è il motivo per cui in Egitto erano dei. Lui si chiede se opere di altri artisti possano mai essere oggetti comuni o simili al sapere comune, e se vogliamo che lo siano. Lui chiede al suo amico, Non desideri intensamente quella che si chiamava "aura" d'artista, non detesti il fatto che troppo spesso oggi sia ridotta a una fattura commerciale? Lui cerca di ricordare tutti gli eteronimi
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Cosa c’è di contemporaneo nell’arte oggi?
e semi-eteronimi di Fernando Pessoa. Lui stravede per il mistero e il potere dei nomi, del dare nomi. Lui è abbastanza sicuro che Oggetti comuni e loro semi-eteronimi sia sempre un titolo adatto. Lui - siamo sinceri - spesso preferisce le parole delle cose alle cose stesse, ma lui forse preferisce anche di più quando l'arte, in quanto cosa molto speciale, fa sì che tutti chiudano quella cazzo di bocca. Lui non sa decidere se masturbarsi o andare a correre. Lui rutta, grattandosi. Lui si mette i calzini Puma e si allaccia le Brooks. […]”6. Ho voluto mettere insieme questi due
passato. Nel momento in cui si sa definire (“modernista” nel caso di Smith), è già passata. Il secondo filone di cui parla Smith, è quello che nasce da problematiche politiche come l’indipendenza economica o ideologie contrastanti. L’arte cosiddetta “politica” è sempre esistita, sia sotto forma di propaganda sia sotto forma di messaggio più diretto. Ma è contemporaneo qualcosa che non sorprende, qualcosa che non è una novità? Smith stesso enumera quest’ultima tra le qualità imprescindibili della condizione contemporanea. Ma entriamo più nello specifico.
esempi, quello dell’indefinibilità di una corrente artistica o dell’arte in generale da un punto di vista teorico, e poi quello pratico dell’indefinibilità della produzione di un artista contemporaneo, al fine di dimostrare che è un paradosso tentare di definire e classificare una corrente artistica contemporanea come fa Smith riferendosi al suo primo filone. L’unica possibilità che si ha per farlo, è quella di ritenere il concetto, o addirittura l’intera produzione considerata, come noncontemporanea, ovvero, appartenente al
Che cos’è una sorpresa? Una sorpresa è qualcosa di ‘nuovo’, qualcosa di non visto né sentito prima. Creare qualcosa di nuovo è logicamente e praticamente impossibile, specialmente nell’era moderna7. Di conseguenza il nuovo è solo ‘scopribile’. Tutti hanno esperito la scoperta, ergo tutti sanno che cosa si prova: si percepisce come qualcosa di diverso, il nuovo, qualcosa che viene da un altro spazio o tempo, come qualcosa che potrebbe venire dal futuro (se non quello del mondo, allora quello personale).
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Gaia Di Lorenzo
Giorgio Agamben collega una dimensione specifica all’effetto di sorpresa8: l’inattuale. L’inattuale è quella dimensione che ci permette di essere, sì immersi nel nostro tempo, in quello che si percepisce come ‘presente’, ma anche di restare abbastanza distaccati da poter-lo vedere con chiarezza. L’inattuale è quella particolare condizione della quale partecipano i filosofi, gli artisti e i poeti; quella condizione di estraneità sostanziale.
maggior parte dei casi si vedono le stelle. Eppure tutti sanno che la luce delle stelle che si vede, è la luce che la stella irradiava anni, forse secoli fa. Nel momento in cui noi vediamo la luce, quella stella potrebbe essere già morta. Allo stesso tempo percepiamo il contemporaneo come il presente quando già non lo è più. C’è una leggera differenza tra i due. Quello che percepiamo come presente è, in realtà, già passato rispetto al contem-
Dice Agamben: “È contemporaneo colui che tiene lo sguardo fisso sul suo tempo percependone non la luce, ma il buio. Tutte le epoche, per colui che vive il contemporaneo, sono oscure. Il contemporaneo è proprio colui che sa vedere l’oscurità, colui che riesce a scrivere immergendo la penna nell’oscurità del presente”. Se si fissa il cielo durante la notte, nella
poraneo. È per questa ragione che Agamben attribuisce al contemporaneo la dimensione dell’inattuale che, come dice la parola stessa, è ciò che non è attuale, ovvero che non è presente. Logicamente, se il presente è ciò che è percepito come attuale, di conseguenza l’inattuale (quindi il contemporaneo), è percepito come futuro. Ed è proprio dal futuro che nasce il nuovo; non dall’ attuale, non dall’attualità.
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Cosa c’è di contemporaneo nell’arte oggi?
Un ottimo esempio pratico dell’ inattuale è la pittura di George Condo. Condo è un artista americano che vive e lavora a New York. Intorno agli anni ‘90 ha coniato il termine realismo artificiale per descrivere i suoi quadri. Dipinge ritratti tradizionalmente olio su tela di personaggi folli tratti dal suo immaginario a metà tra il comico e l’horror. L’artista trae ispirazione dalla quotidiana follia e difatti i suoi protagonisti sono: cardinali con diverse fila di denti, uomini tristi che fumano vestiti da supereroi, donne con collane di perle e diverse serie di gambe, scene bibliche fantastiche e orge cubiste. Quel che lascia disorientati oltre ai suddetti
fino alle ginocchia, di profilo ma con il volto e lo sguardo diretto verso il pubblico. È dipinto su uno sfondo giallo acceso e il personaggio è vestito di rosa e blu con un mantello da supereroe e un collare settecentesco. La mano sinistra è verde e palmata mentre con l’altra, che tiene poggiata sull’enorme pancia rotonda, fuma una sigaretta. Guarda lo spettatore con aria infastidita e sorpresa. È un personaggio lontano dalla nostra realtà eppure sembra così familiare. Inattuale in questo caso perché abbastanza vicino alla realtà da essere credibili, ma non abbastanza da essere verosimile oggi; ma forse in un futuro... Anche in questo caso, sia da un punto
evidenti elementi fantascientifici, all’atteggiamento a volte aggressivo, a volte avvilito dei personaggi in questione, e oltre al loro sguardo che fissa lo spettatore dritto negli occhi, è il fatto che tecnicamente sono il risultato della stratificazione di diversi stili ereditati dalla storia dell’arte; dalla pittura ottocentesca al cubismo, dal realismo al fauvismo. Il tutto è presentato in una forma lievemente umoristica e a tratti ridicola. Prendiamo ad esempio Superhero, una delle sue tele più note; la figura è quasi intera, dipinta
di vista teorico, con Agamben, che da uno pratico, con Condo, è stato dimostrato che la sorpresa nasce dal nuovo, che a sua volta nasce solo dall’inattuale, il quale è l’esatto contrario dell’attualità delle problematiche politiche. Si può anche aggiungere che, da un punto di vista ontologico, se il diritto a esistere di un’opera d’arte è dato proprio dalla sua capacità di parlare del mondo, esso non può rinunciare alla sua indipendenza da ciò che vuole giudicare. L’ultimo filone di cui parla Smith nel
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Gaia Di Lorenzo
testo, riguarda l’arte che si occupa delle questioni in cui gli artisti s’imbattono nel corso della vita; problematiche della realtà che toccano il loro interesse e che loro decidono di esplorare e sperimentare. Questa corrente è radicalmente diversa dalle altre per una ragione semplice ma fondamentale. Il suo focus è sul soggetto piuttosto che sull’oggetto, sull’artista piuttosto che sul prodotto artistico. Questa corrente soddisfa a pieno tutte le qualità del contemporaneo di cui abbiamo parlato finora: provoca un senso di sorpresa, è sostanzialmente indefinibile e ha una relazione particolare con il suo tempo per la quale vi aderisce e insieme se ne discosta. E’ a quest’ambito che appartengono, oltre ai sopra citati, i celeberrimi: Andy Warhol, Gerard Richter, Sigmar Polke, Ed Rusha, Martin Kippenberger, Alighier Boetti e Jeff Koons per nominare solo pochissimi tra i giganti dell’arte contemporanea. Ognuno di essi ha apportato un energia specifica, individuale e insieme comune alla storia dell’arte, non passata ma futura. Questo studio ha voluto analizzare i filoni in cui Smith suddivide l’arte contemporanea alla luce sia delle qualità che lui stesso giudica imprescindibili, sia Note
1 Terry Smith è uno dei membri del gruppo Art & Language. 2 Non si può negare l’esistenza di eccezioni a questa regola, di avanguardie che stabilivano programmaticamente i loro intenti e il loro nome prima di iniziare la produzione e l’azione (vedi Futurismo), ma confido che esistevano tempo prima, se non altro in forma di idee e valori, all’interno delle menti fondatrici. 3 Theodor W. Adorno, Teoria Estetica, Giulio Einaudi editore, Torino 2009 4 ibid. 5 Giorgio Agamben, nel suo breve saggio Nudità, ce ne dà un esempio perfetto, dice: “…la frase -Sono alla moda in questo istante-, è
dello studio dei filosofi Adorno e Agamben e anche degli artisti Darren Bader e George Condo. Il primo dei filoni è errato perché non partecipa dell’originalità (come scoperta, non come creazione), uno degli ingredienti basilari del contemporaneo. Il secondo, quello che nasce da questioni politiche e di attualità, è altrettanto scorretto perché invece di contrapporsi al mondo per parlarne, ne entra a far parte. Infine, l’ultimo filone, è pienamente coerente poiché partecipa dei tre requisiti elementari del contemporaneo: la sorpresa, l’inattualità e l’indefinibilità. Eravamo partiti da una domanda chiara che richiedeva una definizione come risposta, ma abbiamo poi dimostrato che tentare di definire il contemporaneo e l’arte contemporanea9 è sbagliato sia da un unto di vista logico che epistemologico. Non è una coincidenza che sembri impossibile. Se le definissimo, non si potrebbero più dire contemporanee. Quello che invece possiamo fare è dire quello che non sono. Infatti, de-finire, letteralmente10, significa parlare dei confini della cosa, di ciò che è intorno alla cosa, in altre parole, considerare ciò che non è. contraddittoria perché proprio nel momento in cui il soggetto la pronuncia, è già fuori moda”. Questo vuol dire che se se ne può parlare e, a maggior ragione, se gli si può dare un nome, allora fa già parte del passato. 6 Bruce Hainley, Darren Bader, http:// www.palazzoesposizioni.it/categorie/darrenbader 7 “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.” (Antoine-Laurent Lavoisier) 8 Giorgio Agamben, Che cos’è il contem-poraneo?, Nudità, Nottetempo, Roma 2009 9 Si parla di una definizione nel senso in cui intendiamo oggi. 10 Nella sua forma latina è composto da de, particella che indica il complemento di argomento, e finis, che significa fine.
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Angelo Angeloni
Premi letterari e fine della lettura
Già negli anni Sessanta Marshall McLuhan sosteneva che la logica della scrittura era destinata a soccombere alla logica dell’audiovisivo: il libro era destinato a morire. Ma, ciò che il sociologo canadese voleva intendere, è che sarebbe deperita la civiltà della lettura come modo di vita, si sarebbe affievolito l’amore per i libri. Oggi, questa “profezia” sembra essersi avverata. Diverse sono le cause: l’uso crescente dei mezzi di comunicazione di massa e delle varie tecnologie dell’informazione, e, di conse-guenza, una minore considerazione del libro come strumento di conoscenza; una diffusa mentalità tecnicistica e utilitaristica tutta rivolta al presente (come ha messo bene in evidenza, per esempio, Martha Nussbaum in Non per profitto [Il Mulino, Bologna]); la perdita della dimensione del passato, e, quindi, della coscienza del presente (non può darsi nessuna vera comprensione della contemporaneità, senza un vivo confronto con la tradizione). Naturalmente, si cerca in ogni modo di far fronte a questa situazione: a partire dal costo del libro, dal ruolo fondamentale della scuola nel far rinascere nei giovani l’amore per la lettura, dalla stessa televisione, la quale porebbe essere vantaggiosa ai fini di una sensibilizzazione e diffusione del libro (in realtà, poi, lo schiaccia, imponendo la sua cultura), dalle recensioni, e anche dai premi letterari. Quando parliamo di “morte del libro”, però, non si deve intendere la morte del libro come manufatto, come prodotto: come tale, esso non è morto, rientra nella logica del mercato. E gli editori sono diventati “mercanti” che obbediscono a quella logica. In questo senso, i premi letterari contribuiscono, indubbiamente, a vendere i libri, ad aumentare il numero dei lettori, a raggiungere un pubblico anche meno colto. A vincere il premio è l’autore del libro; ma da questo momento egli non è più solo scrittore, ma diventa intrattenitore,
frequentatore di talk-show, promotore della sua creatura: operazioni comprensibili, indubbia-mente, ma che rientrano tutte nella logica del mercato. Ma chi vince è anche (e direi soprattutto) la casa editrice del libro vincitore, in rivalità con le altre concorrenti. Nel libro di Maria Bellonci, creatrice del “Premio Strega” insieme al marito Goffredo (Il premio strega, Mondadori, Milano 2003), si legge che le scelte da esso compiute «hanno contribuito a migliorare il rapporto degli italiani con il libro, incoraggiandoli a leggere se stessi, la loro storia e il loro presente, attraverso lo specchio della narrativa contemporanea». Il romanzo che quest’anno ha vinto il 68° “Premio Strega 2014”, in realtà, sembra rispecchiare questo intento. Si tratta del romanzo di Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti (Einaudi), nel quale la vita privata dello scrittore si intreccia con la vita pubblica, a partire dal giorno dei funerali di Enrico Berlinguer, fino ad oggi, attraversando i momenti più importanti della storia italiana contemporanea. Come ha affermato lo stesso autore al momento della vittoria, «in questo libro ha vinto l’idea di un Paese che crede ancora alla politica, che non è disfattista, apocalittico e qualunquista. Questo libro cerca di dire che non si può partecipare solo alla propria esistenza e ai propri amori, ma anche alla vita del Paese». Indubbiamente, il libro deve essere sempre lo specchio della società. Ma bisogna intendersi: il libro deve rinvigorire, piuttosto, il senso della memoria, della storicità: non può puntare solo sull’effetto dell’azione immediata, come avviene con la televisione. Questo è il senso e la funzione della letteratura. Il libro racchiude dei valori, non può essere considerato semplice prodotto di mercato. Bisogna ritornare, invece, a una educazione alla lettura, a partire dalle scuole elementari; bisogna insegnare a leggere: insegnare il piacere della lettura, fin da bambini, perché la lettura è una educazione graduale.
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LETTURE
Antonio Casu Herbert Spencer, Troppa legislazione, con un saggio introduttivo di Enzo Di Nuoscio e Stefano Murgia, Rubbettino, 2013
E' senza dubbio un merito dei due curatori l'aver riproposto questo pamphlet del 1853, nel quale Spencer mette lucidamente a fuoco un limite del pensiero costituzionalistico del suo tempo, la convinzione cioè che i mali della società potessero essere affrontati e sopratutto risolti affidandosi ai parlamenti e alla legge. In questo Spencer rappresenta una posizione originale rispetto al filone critico rispetto alla effettiva capacità della legge di costituire lo strumento di risoluzione generale del conflitto sociale. E d'altronde questa posizione manifesta la coerenza del pensatore britannico rispetto alla sua fondamentale sfiducia rispetto a qualunque soluzione basata, in politica come in economia, sulla programmazione anziché sul libero dispiegamento dell'iniziativa privata. Concepire "lo strapotere dei parlamenti" come attentato alle libertà individuali è una posizione assolutamente coerente con l'impianto generale del pensiero di Spencer. Anzi, come i curatori sottolineano nella loro introduzione al testo, "l'invettiva contro lo strapotere del legislatore" (...) è ... parte di una imponente difesa epistemologica, sociologica, economica e giuridica della libertà". Certo, la preoccupazione comune al pensiero liberale di quel torno di tempo era, da una parte, il consolidamento di un progetto politico basato sulla pianificazione sociale ed economica e, dall'altra, dal carattere pervasivo e burocratizzato di quelle che egli definisce le "società militarizzate", fondato sulla fede cieca nell'autorità. Spencer ha buon gioco nel mettere in evidenza il carattere fideistico dell'una e dell'altra opzione, e le degenerazioni della deriva burocraticistica, come la storia ha peraltro puntualmente confermato. E tuttavia altrettanto fideistico ci appare oggi il suo stesso
approccio ai benefici di una politica e di un'economia fondati sul libero perseguimento del benessere individuale come presupposto indefettibile del benessere sociale. Una concezione fondata sulla legittimazione della ricerca del profitto come motore della realizzazione dei desideri, che trova tuttavia nel ruolo dello Stato, come si legge sopratutto nei Principi di etica, non solo un ruolo negativo, a garanzia dell'applicazione del principio del neminem laedere, ma anche uno positivo, per garantire i presupposti "ambientali" al pieno dispiegamento delle libertà individuali. In questo contesto il saggio si spinge fino a criticare la concezione che vede nello Stato l'unica fonte di produzione giuridica, preferendo al "diritto dei legislatori quale strumento del potere illimitato" il "diritto evolutivo", in altri termini il diritto consuetudinario che è compito dello Stato riconoscere e tutelare. Riecheggia in questa impostazione l'insegnamento di Locke sui diritti naturali preesistenti rispetto al patto sociale instaurativo dello Stato moderno. Da questo angolo di visuale, Spencer è erede di Locke, come anche di Mandeville, non certo di Hobbes. Nella "società senza leggi" vagheggiata o preconizzata da Spencer vi è molto di quello stesso spirito utopistico che egli così severamente critica, e tuttavia nella rivendicazione dell'opportunità, anzi della necessità imprescindibile di un "riformismo gradualistico" e di una "etica delle conseguenze", che anticipa l'etica della responsabilità di Weber e poi di Jonas, vi è più di un monito per i contemporanei. Innanzitutto, come mettono in evidenza i curatori, "una efficace profilassi contro uno statalismo sempre in agguato". E poi, non meno importante, il segno della lucida consapevolezza dei nodi irrisolti del parlamentarismo e in generale dell'evoluzione delle democrazie moderne, nonché del ruolo delle fondamenta etiche della collettività, sui quali ancora ci interroghiamo.
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Carlo Vallauri democratiche. E la narrazione prosegue Vittorio Cimiotta, La rivoluzione etica, spiegando molto bene il succedersi degli Mursia 2013 eventi e nello stesso tempo con una ampia compenetrazione sulla nascita in Vittorio Cimiotta con La rivoluzione etica clandestinità del partito d’azione, in prima (Mursia, 2013) aggiunge alle sue linea nella battaglia contro gli invasori pubblicazioni sulle radici della democrazia nazisti. Sono pagine che si rileggono con italiana una valida ricostruzione della storia emozione, grazie ad una discorsività dei movimenti politici che da Giustizia e semplice quanto incisiva sui punti e i temi Libertà al partito d’azione hanno attorno ai quali si avvieranno con estrema contrapposto alla dittatura mussoliniana, risolutezza i punti nodali del confronto con lucida chiarezza, l’esigenza diretto a far conoscere le posizioni assunte primordiale di dar vita ad una dal nuovo partito all’interno del Comitato organizzazione in grado, sulla base di di Liberazione nazionale. E viene illustrato significativi valori politici, di avviare la così un quadro ampio dell’impegno battaglia contro il fascismo attraverso una politico sul terreno della laicità come nel precisa linea di rivendicazione delle libertà. campo economico, andando ben oltre le Il suo libro rievoca con documentazione tradizionali posizioni socialiste, per meglio accurata ed attenta come ai vizi e alle individuare le nuove esigenze popolari e debolezze della nazione italiana sia emerso ricostituire uno Stato degno delle tra le metà degli anni ’20 e il decennio tradizioni mazziniane e garibaldine, e del successivo un movimento capace di indi- riformismo laico. care finalità autenticamente rinnovative. La ripresa dei concetti di moderno fedeAttraverso una serie di iniziative, le cui ralismo saranno utili per meglio definire prime testimonianze risalgono alla linea l’azione da effettuare nel Meridione in indicata già nel 1925 con le riviste vista di lanciare l’idea degli Stati Uniti d’ clandestina “Non mollare”, verranno in Europa. E ancora una volta sarà l’eticità luce – malgrado le persecuzioni, i processi della promozione rinnovatrice a carate le condanne di una sedicente giustizia – terizzare quel movimento così fortemente organismi pronti a battersi, come centrale nella nuova storia della nazione. affermerà “Giustizia e libertà” nata a Parigi Il lettore segue così, pagina dopo pagina, nel 1929 grazie all’impegno di Carlo i mutamenti determinatisi nel paese per Rosselli ed Emilio Lussu in collaborazione imprimere alla lotta contro fascisti e con Aldo Garosci, Carlo Levi e Nicola nazisti: i segni etici specifici dell’intera vita Chiaromonte. E l’anno successivo di G. e L. “Socialismo liberale”, pubblicato a Parigi, Vengono altresì richiamati personaggi ed definisce ancor più nettamente come fosse eventi nel pieno delle battaglie antifasciste, indispensabile dar vita ad un movimento da Pilo Albertelli a Riccardo Bauer: un che, con una rottura nei confronti legame umano profondo unirà così i dell’egemonia comunista sul fronte della combattenti antifascisti, artefici delle vittosinistra, stabilisse le fondamenta per dare riose battaglie, da Piero Calamandrei a alla lotta antifascista una indicazione Ferruccio Parri. Non mancano intelimpida ed eloquente. Nel frattempo la ressanti, specifici richiami ad Aldo Capitini guerra di Spagna stabilirà con più nettezza e all’inizio della sua fervida iniziativa per gli schieramenti europei delle forze sostenere le ragioni della pace, accanto a politiche e culturali. quella della giustizia sociale. E ricorrono Durante la guerra mondiale cadono, a altresì i nomi di Tristano Codignola e di livello popolare, i falsi valori della dittatura, Guido De Ruggiero, che si aggiungono e, a seguito dell’occupazione tedesca, alla tradizione che si può dire abbia avuto insorge la popolazione per dare all’Italia il il proprio antesignano in Piero Gobetti. suo giusto posto tra le nazioni Così ai fratelli Rosselli, massacrati dai sicari 45
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del fascismo internazionale, si aggiungono le voci di Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, Altiero Spinelli, Giorgio Spini, Silvio Trentin, Leo Valiani. Nella nostra epoca di profondi cambiamenti e di una globalizzazione malamente interpretata da troppe parti della stessa sinistra europea riemergono così gli autentici valori di quanti si sono battuti con coraggio e sino all’estremo sacrificio. Sergio Venditti Luca Martino Levi, Diritto e sviluppo missione e strumenti delle organizzazioni economiche internazionali, Roma, Aracne Ed., 2011
Il tema dei diritti, legati alle politiche di sviluppo, costituiscono oggi più che mai, un punto cruciale nella discussione istituzionale, politica ed economica mondiale. Le organizzazioni internazionali, rappresentano certamente gli strumenti fondamentali per favorire tutta una serie di processi, che vanno dalla cooperazione internazionale all’integrazione dei processi socio - economici, con competenze sia generali che settoriali: il caso principe è rappresentato dall’ONU, che al proprio interno ha costituito Agenzie Autonome, come l’UNHCR (l’Alto Commissariato per i Rifugiati): oggi in prima linea sulle tante aree di crisi, in primis quella umanitaria del Medioriente. Questo scenario complesso, vede il nostro Paese spesso ai margini non solo del dibattito politico istituzionale, ma anche degli approfondimenti e degli studi tematici, al di là dei contribuiti preziosi come quello prodotto dall’autore sul diritto e sviluppo. Nella stessa introduzione si riporta una citazione dell’Etica - Nicomachea di Aristotele “quando ci sono dei fini al di là delle azioni, i primi sono per natura di maggior valore delle attività”, che definisce i principi guida per individuare e attivare tutti i processi decisionali ed operativi nell’attuale scenario internazionale.
Una trattazione squisitamente giuridica, che detta le regole generali che dovrebbero guidare tutti i processi di sviluppo socioeconomico mondiali. Ecco perché l’autore opportunamente distingue le istituzioni tra: “le international development association, le united nations e la world trade organitation”, ovvero il focus va dal credito agevolato della Banca Mondiale all’attività generale delle Nazioni Unite, focalizzando le aree di maggiori crisi geopolitiche, fino all’integrazione del commercio globale. Tutte tematiche rilevanti in cui però spesso non si analizzano ed evidenziano sufficientemente tutti i fattori di influenza geopolitica ed economica, evidenziando la pressione delle stesse grandi lobbies e multinazionali, che a volte frenano i processi di cambiamento avanzati dagli stessi Paesi in via di sviluppo. In tal senso di grande attualità è la stessa dinamica di crescita avuta dai paesi del cd B.R.I.C., che vanno sempre più svolgendo un ruolo attivo ed autonomo sullo stesso fronte geopolitico, ipotizzando anche la costituzione di propri strumenti economici e finanziari di intervento delle crisi mondiali, sostenendo così lo sviluppo e l’integrazione di nuove aree di influenza e produzione globale, al di là delle tradizionali zone di influenza uscite dal secondo conflitto mondiale Molti analisti, così, di diverse scuole di pensiero, evidenziano comunque il declino e la marginalizzazione del vecchio continente europeo, a favore di nuovi equilibri che si vanno progressivamente spostando verso il sud e l’est asiatico del mondo. In questo scenario l’autore analizza lucidamente in modo documentato proprio l’evoluzione delle tre organizzazioni mondiali, facendo interagire le dinamiche giuridiche di base con quelle più legate ai parametri economici, oggi sempre più determinanti. In verità queste ultime risultano sempre più incidenti, ancor più delle stesse dinamiche geopolitiche, per condizionare le vecchie e le nuove relazioni internazionali. Da qui l’efficacia più o meno decisiva dei vari strumenti tipici del
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diritto internazionale come le stesse sanzioni, spesso nel passato aggirate o violate, che rischiano di colpire proprio gli interessi più deboli dei cittadini e consumatori (es. l’embargo del gas russo). Da qui le conclusioni amare, che evidenziano la impossibilità di fatto di elevare il diritto a unico principale fattore di sviluppo “integrandone i propri principi con l’azione istituzionale e politica al fine di coinvolgere la migliore cittadinanza nella fase di elaborazione e gestione dei singoli progetti”. La riflessione ulteriore dovrebbe però anche citare nuove ed avanzate politiche capaci di rappresentare l’innovazione dei processi, ed anche del loro continuo controllo democratico. Maurizio Di Michele Mario Ciampi, La "Democrazia Cristiana" in Giuseppe Toniolo. Un progetto etico-sociale, Edizioni Fontana di Trevi, Roma, 2012
Mario Ciampi nell'introduzione al suo saggio precisa espressamente che intende percorrere una via diversa per rileggere Toniolo nelle sue opere fondamentali, alla ricerca di alcuni elementi del suo pensiero, coerenti, costanti e sempre più chiari. Giuseppe Toniolo, nato a Treviso nel 1845, si laurea in Giurisprudenza a Padova nel 1867 e rimane nello stesso ateneo, come assistente, fino al 1872. Si trasferirà successivamente a Venezia, dove insegnerà Economia Politica, poi a Modena, infine a Pisa, quale docente universitario ordinario, posto che occuperà fino alla morte, nel 1918. Nel 1889 fonda una Unione Cattolica per gli studi sociali in Italia. Nel 1894 getta le basi della prima "Democrazia Cristiana". Il 31 dicembre 1896 appare per la prima volta il giornale "La Democrazia Cristiana" con il sottotitolo "In difesa dei figli del popolo". Nel 1908 Toniolo pubblica il Trattato di economia sociale, opera notevole per l'incidenza sul nuovo movimento sociale cattolico italiano, che ben presto, oltre a
sviluppare il sindacalismo cattolico, partecipa massicciamente alle votazioni del 1913, con un notevole successo. Il periodo nel quale Toniolo inizia la sua attività è pieno di fermenti politici, religiosi e culturali. Il pensiero marxista ha spostato l'attenzione sulle condizioni delle masse proletarie, denunciandone le disagiate condizioni di vita e di lavoro. Per contro, in campo economico, la teoria classica, con le sue idee di utilitarismo e di liberismo economico, è arrivata a qualificare come dannoso per la stabilità qualunque intervento che possa influire sull'azione delle componenti macroeconomiche. Toniolo elabora una sua teoria personale, sociologica, che vuole il prevalere dell'etica e dello spirito cristiano sulle dure leggi dell' economia. Propone una soluzione del problema sociale, che rifiuta sia l'individualismo del sistema capitalistico che il collettivismo esasperato, propugnato dal socialismo, attraverso la creazione di "corporazioni" di "padroni" e "lavoratori" organizzate e riconosciute dallo Stato. Nei suoi scritti avanza anche numerose proposte di azioni concrete: il riposo festivo, la limitazione delle ore lavorative, la difesa della piccola proprietà, la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli. Dal punto di vista religioso Toniolo propugna un'azione più decisa dei cattolici in campo sociale, al fine di una loro più incisiva partecipazione alla evoluzione storica, mediante un movimento ordinato e rappresentativo, gettando cosi le prime basi della"democrazia cristiana". In buona sostanza il suo pensiero si propone come una risposta sia al pensiero marxista che a quello liberale. Notevole è l'incidenza sul movimento sociale cattolico italiano e su personalità quali Romolo Murri (il prete marchigiano che teorizza una possibile convergenza tra dottrina sociale della Chiesa e movimento socialista e tra spirito religioso e istanze democratiche), Luigi Sturzo (che, a differenza di Toniolo, più ossequiente verso l'autorità ecclesiastica, vuole già nel 1905 costituire un partito, formato da
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cattolici, ma democratico e autonomo rispetto alle gerarchie ecclesiastiche e con un programma aconfessionale) e Giuseppe Dossetti (che è affascinato dal modello e dalla esperienza del Partito Comunista, capace di mescolare e unificare i movimenti sociali della base). Il pregevole saggio di Mario Ciampi parte, come già evidenziato, dall'intento di porre in rilievi i tratti del pensiero democratico di Giuseppe Toniolo, che emergono dai suoi scritti storici ed economici, scongiurando l'ipotesi che la democrazia tonoliana sia solo un frutto occasionale della situazione storica dei suoi anni e che la sua elaborazione "politica" non abbia alcuna relazione con il pensiero economico. Per l'Autore la " democrazia cristiana", come Toniolo l'ha pensata e vissuta, è preparata da un percorso lungo e faticoso, fondato sulla priorità dell'elemento etico/ cristiano nei diversi ambiti dell'agire umano. L'incivilimento dell'uomo avrebbe quindi nella priorità etico/religiosa una regola generale. La democrazia tonoliana coincide, pertanto, nel suo aspetto essenziale, con la tendenza dei popoli all'incivilimento, consacrata nel cristianesimo e nella sua forza spirituale. Grazie alla distinzione tra aspetti essenziali e accidentali della democrazia, il pensatore trevigiano è riuscito a innestare il pensiero democratico nella storia del cattolicesimo. L'autore afferma inoltre, con forza, che quella di Toniolo è una vera e propria metafisica della democrazia, una coerente teoria dell'obbligazione politica e della legittimazione dell'ordinamento civile in
chiave teologica. Per Toniolo il problema politico non è quindi soltanto un problema di strutture istituzionali, che anzi vengono da lui classificate tra gli elementi "accidentali" della democrazia. In questo anticipa gli orientamenti della più consapevole politologia contemporanea, che esclude qualsiasi riduzione della democrazia a pura tecnica di governo. Tuttavia, chiarisce l'Autore, la democrazia tonioliana non si presenta refrattaria a quella traduzione istituzionale che si rende necessaria per assicurare i suoi fini, anzi, si può affermare con l'Autore, che l'insistenza di Toniolo sul fine specifico della democrazia cristiana sia in qualche modo propedeutico alla democrazia politica, accettata successivamente dalla dottrina sociale cattolica. L'Autore conclude il suo saggio con l'affermazione puntuale che una volta posto come fine specifico dell'ordinamento civile il bene prevalente delle classi "inferiori" conduce inevitabilmente ad una radicale riforma sociale ispirata dalle perenni virtù di rinnovamento del cattolicesimo e della sua etica teologica. Il criterio di giudizio rimane quello del "dover essere", ma non manca la prospettiva organica ed istituzionale che Toniolo tratteggia, da economista sociale, in tutti i suoi scritti. La sua "democrazia" è una "dottrina dell'incivilimento", una teoria dell'ordine sociale, fondato sulla priorità assoluta dell'elemento "etico". In questo momento storico una delle cause della crisi della "democrazia" è proprio il contrasto evidente e stridente tra "politica" ed "etica".
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Il volume comprende gli Atti del Convegno tenutosi in due parti, il 29 novembre 2011 presso l’Aula Moscati della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” sulla letteratura, ed il 16 dicembre 2012 presso la Sala del Mappamondo della Camera dei Deputati a Palazzo Montecitorio sul pensiero politico, nell’ambito del Progetto “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento” della Fondazione Giacomo Matteotti Onlus in occasione delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Nelle rispettive Appendici si è ritenuto utile inserire due interventi in arricchimento e in sintonia con i temi del Convegno.
Il volume comprende gli Atti del Convegno su “La formazione dello Stato unitario” tenutosi a Palazzo Montecitorio il 6 giugno 2011 nell’ambito delle Celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Gli interventi sono stati integrati da altri svolti in occasione di incontri realizzati a Tagliacozzo il 18 marzo 2012 e presso la Biblioteca della Camera dei Deputati il 12 e 19 marzo 2012 sul tema “In difesa del Risorgimento” nell’ambito del Progetto della Fondazione Giacomo Matteotti - Onlus su “Pensiero politico e letteratura del Risorgimento”. In appendice sono riportati gli interventi che le più alte Autorità dello Stato hanno pronunciato in occasione della cerimonia celebrativa dell’Unità d’Italia che ha avuto luogo nell’Aula di Palazzo Montecitorio il 17 marzo 2011.