TEMPO PRESENTE
N. 409-412 gennaio-aprile 2015
euro 7,50
SEGNI E SIGNIFICATI DI UNA CRISI (6) * RESPONSABILITA’ CIVILE DEL MAGISTRATO * MARGINALIA * FRAMMENTI * DIZIONARIO DEL LIBERALISMO ITALIANO * CORRADO CALABRO’ * VIRNA LISI * LETTURE
g. bianco l. boldrini g. cantarano a. casu r. catanoso n. de giovanni v. emiliani s. freni g. jannuzzi g. lupi b. montinaro r. pace g. pacifici g. pagliano a. patuelli s. rogari a.g. sabatini a. taiuti
Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA
DIRETTORE RESPONSABILE
Angelo G. SABATINI
COMITATO EDITORIALE
Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Elio D’AuRIA - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Gaetano PECORA Luciano PELLICANI - Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI CONSIGLIO DEI GARANTI
hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE
Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE - Sergio VENDITTI COORDINAMENTO GRAFICO ED EDITORIALE
Salvatore NASTI
PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel. 06/8078113 - fax 06/94379578 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)
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TEMPO PRESENTE
Rivista mensile di cultura N. 409-412 gennaio-aprile 2015 PRIMA PAGINA Segni e significati di una crisi (6)
ANGELO G. SABATINI, La democrazia in Italia tra leaderismo e cesarismo, p. 3 GIUSEPPE CANTARANO, Rappresentare o decidere?, p. 7 OSSERVATORIO GIOVANNI JANNUZZI, Furia omicida, p. 10 BRIZIO MONTINARO, La responsabilità civile del magistrato, p. 11
MARGINALIA ANTONIO CASU, Il trasformismo. Ascesa e declino della Sinistra storica, p. 15 FRAMMENTI ANGELO G. SABATINI, Frammenti di pietà per chi fugge dal terrore, p. 17 UOMINI E IDEE DIZIONARIO DEL LIBERALISMO ITALIANO ROSSELLA PACE, Nota introduttiva, p. 18 LAURA BOLDRINI, p. 20 GERARDO BIANCO, p. 21 SANDRO ROGARI, p. 23 ANTONIO PATUELLI, p. 25 SARO FRENI, Liberalismo triste di Carlo Gambescia, p. 27 ALESSANDRA TAIUTI. Max Ascoli, p. 29 VITTORIO EMILIANI, Ritratto di una generazione, p. 33
LE MASCHERE DELL’ARTE NERIA DE GIOVANNI, La poesia di Corrado Calabrò, si può dimenticarla?, p. 37 GORDIANO LUPI, Amarsi un po’ (Film, 1984), p. 41 LETTURE ROSARIA CATANOSO, Il linguaggio della verità di Salvatore Natoli, p. 43 GIORGIO PACIFICI, Scrivere in fuga per l’Europa, p. 45 GRAZIELLA PAGLIANO, Memorie di una militante azionista, Storia della figlia di un onesto cappellaio di Gianna Radiconcini, p. 47
PRIMA PAGINA
Segni e significati di una crisi (6) Angelo G. Sabatini - Giuseppe Cantarano
Angelo G. Sabatini La democrazia in Italia leaderismo e cesarismo
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Non occorre grande acutezza d’ingegno politico per rendersi conto del disagio in cui in Italia la politica e le istituzioni si trascinano da tempo al di là delle manifestazioni di ottimismo con cui si governa e di crudo pessimismo con cui le classi meno abbienti manifestano il loro dissenso. La rappresentazione quantitativa che gli istituti di sondaggio e quelli di rilevazione statistica ci offrono dice che il corpo elettorale è in fermentazione e lentamente e progressivamente si allontana dagli appuntamenti in cui il consenso dovrebbe manifestare il proprio ruolo e la propria incidenza nell’attuare il principio democratico della rappresentanza. Ma dicono anche che la ripresa economica stenta a ripartire con scarsa efficienza di produttività e di impiego della forza lavoro, uno spaccato della società in evidente affanno, sia a livello delle regole che ne assicurano il riconoscimento legislativo (il dibattito sull’art. 18 ne mostrano la precarietà) e sia in termini di occupazione. E su tutto c’è la rappresentazione critica del mondo del benessere e della ricchezza (il divario tra ricchi e poveri cresce in termini statistici e in forme di vita). Si aggiunga lo stato di insicurezza del cittadino a cui viene negato il diritto di una vita serena, socialmente ordinata e garantita da un sistema di ordine pubblico efficiente, sempre più giudicato con diffidenza. Una insicurezza resa motivo di conflittualità e di preoccupazioni dalla crescente presenza di soggetti estranei alla identità nazionale: i migranti, in particolare i rom. Extracomunitari irregolari, borsaioli e ladri scritturati da organizzazioni criminali sempre più in aumento, a livello di crimine vero e proprio e di inserimenti nelle strutture amministrative
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della pubblica amministrazione. E tutto ciò soltanto per enumerare aspetti più rilevanti di una situazione di instabilità politica, resa sempre più malferma dallo spettacolo di un ceto politico in gran parte asettico, distante da quella forza interiore che le vecchie ideologie sostenevano e favorivano e oggi indifferente alla spinta etica che rende l’agire politico consono alle ragioni della sua esistenza. In questo stato di instabilità nascono e prosperano alcuni figli illegittimi della democrazia, nati nell’alveo di una realtà sociale in fibrillazione: in primis il populismo e l’antipolitica, aspetti infidi di un sistema democratico, termometro in fondo legittimo per il lavoro di diagnosi di una società politica che è comunque malata, anche se si rivelano insufficienti a indicare una terapia efficace. Paradosso di un corpo sociale instabile che per correggersi ha bisogno di autofrustrazioni, in attesa di trovare una correzione curativa per il recupero dell’ordinaria vita di una democrazia efficiente. L’Italia sembra averla ritrovata una cura idonea allo scopo: l’accentuazione di quel leaderismo cui spesso ricorre un partito, un movimento, un gruppo di soggetti vogliosi di realizzare un progetto capace di trovare un collante alle volontà discordanti o in conflitto. Nel periodo di crisi, allorché non si riesce a individuare correttivi interni al sistema, acquista spazio la logica del “fare” forzando quella della mediazione riformista maturata nel consenso “ragionato”. Il consenso, regola aurea dell’agire politico democratico, perde di efficacia sotto la spinta a debellare l’immobilismo di una politica incapace di mordere la realtà sociale, che evolve nella richiesta di riforme ma rimane disconosciuta ed inascoltata nelle stanze del potere. E’ convinzione del potere che il decisionismo non contrasti col principio della rappresentanza politica, anzi lo
Angelo G. Sabatini
rafforzi dando risposte ai rappresentati, agli elettori, lieti di avere un capo carismatico. L’intensità della crisi accoglie e legittima il gioco di una politica vissuta con abilità ai limiti delle regole della vita democratica allorché il regista gestisce con abile oscuramento la spericolata corsa al traguardo stabilito. Il regista è leader e le procedure che mette in gioco sono al limite tra leaderismo e autoritarismo. La deriva autoritaria è a portata di mano del leader che si adopera ad occultarla sfruttando abilità comunicativa e gesti trionfalistici, molto spesso alimentati di superficialità e ridondanza di vacuità. Sull’accostamento tra leaderismo e autoritarismo si esercitano la riflessione del giornalismo politico e la saggistica accademica. Nello stesso tempo essi sono il ballon d’essai che i tre schieramenti politici emergenti in Italia utilizzano nell’ incontro-scontro per la conquista del consenso: Berlusconi, Grillo e Renzi, tre leader che, sognando in velata forma il presidenzialismo, mescolano autoritarismo e cesarismo (quella forma di cesarismo che una intelligente analista ha denominato “dittatura democratica”) con motivazioni diverse più o meno compatibili con la democrazia che molti vorremmo realizzata secondo i canoni che la riflessione politica moderna ci ha tramandati.
*** Il dilemma è: più presidenzialismo con riflessi autoritari a discapito dei sani principi che la riflessione politica di lungo respiro ha difeso alimentando la speranza di una società equa, eticamente produttiva nel rispetto dei diritti fondamentali degli uomini o non piuttosto rafforzamento dei principi regolatori della vita democratica nel rispetto dell’apparato formale dell’agire politico definito costituzionalmente? E’ evidente che la scelta più consona al valore dell’agire politico, alla politica come sistema pragmatico, è la mediazione salutare del guicciardiniano interesse del “particulare” e l’istanza ideale, se si vuole anche utopica, di una società efficiente e ben ordinata.
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La realtà spesso sconfigge la riflessione teorica e la costruzione di un edificio politico razionalmente definito e spinge, così, i riformatori a preferenze che spesso rasentano l’occupazione di un terreno infido di decisioni dal sapore autoritario legittimato dall’esistenza di uno statu quo stagnante alimentato da immobilismo, fonte di danno sociale. In fondo a minare l’apparato costituzionale della politica stanno i molti luoghi della vita sociale dominati dall’inerzia progettuale, da insoddisfazioni individuali e collettive, dall’accettazione molto spesso passiva di una vita politica informe, priva del pathos partecipativo: una condizione esistenziale disarmonica dove i focolai attivi di riflessione analitica non riescono a coagulare in una spinta riformatrice organica. Un male endemico a quella classe privilegiata che la società culturale chiama “intellettuali”. Causa intrinseca del declino dell’ideologia, fenomeno diffuso e pervasivo, figlio naturale del declino stesso. Qui si impone il tema del ruolo e destino del lavoro intellettuale, del contributo in verità equivoco che contraddittoriamente porta alla comprensione del suo ruolo nel lavoro di approfondimento del movimento depressivo della vita sociale e all’individuazione delle spinte propulsive e terapeutiche per una sana vita del corpo sociale. Caduta l’impalcatura ideologica della società postbellica, che ha elargito una politica all’insegna di un progetto democratico, il rapporto del cittadino con lo Stato si è snaturato indebolendo il vincolo di fedeltà al messaggio di cooperazione: sull’etica sociale si è lentamente innestato il potere di un egoismo autoreferenziale. Il corpo sociale, impoverito eticamente, non risponde alle sollecitazioni della cultura politica, essa stessa disorientata e priva del messaggio persuasivo che rende accettabili le contraddizioni di qualsiasi proposta di organizzazione di vita associata. Il nodo più critico del disorientamento della società politica attuale è l’indebolirsi dell’accettazione di proposte di crescita della compagine sociale in un contesto storico che non sempre è disposto a farsi
La democrazia in Italia tra leaderismo e cesarismo
governare da forze troppo vincolanti, difficili da seguire. Preferendo così il disordine sociale, la disgregazione dell’architettura comunitaria e il prevalere di forze esogene la cui azione si rivela contraddittoria rispetto alla missione propria di una società politica. C’è un’evidente impasse nel programma riformatore di qualsiasi programma politico che non può consentire ai suoi fruitori la tentazione di non seguire la gestione giuridica e amministrativa del potere. Un qualsiasi modello di società democratica o totalitaria, liberale o conservatrice, per “funzionare” deve produrre e rendere attivi i principi regolatori, necessariamente impositivi onde evitare disarmonie, anarchie, frammentazioni organizzative e amministrative. L’organizzazione, l’ordinamento funzionale, la legislazione regolatrice dell’ appartenenza ad un gruppo sociale, l’esigenza di una autorità di garanzia tutoria della convivenza tra soggetti attivi sono istanze condizionali e inalienabili di ogni ordinamento politico che voglia garantire funzionalità nell’organizzazione ed efficacia nel conseguimento di fini propulsivi. Esigenze primarie che necessitano di risposte ferme, capaci di sanare il naturale dinamismo oppositivo di libertà e ordine. Un dinamismo che in sede teorica è conciliabile dialetticamente ma nel groviglio della prassi stenta a fornire una condizione di equilibrio. Il privilegio della riflessione teorica sta nella funzione di artificio concettuale che oscura la contraddizione e la tensione interna al “reale” a favore di una soluzione pacificante il cui risultato è l’assuefazione di ogni contraddizione logica con la pacificazione dialettica. Nel campo dell’azione politica la fuga dalla tensione è assicurata dal ricorso all’utopia, innocuo viaggio nell’«isola che non c’è», negazione della realtà come spazio e come tempo dove la durezza della vita quotidiana, compresa quella politica, evapora con conseguenze innocue, ma non incisive sulla soluzione del conflitto che vivifica la dialettica
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operativa della società politica. Anzi ne complica la soluzione. La speranza di armonizzare la dinamica reale della convivenza umana e civile sta tutta nella capacità di rendere possibile un ordine pacificante, compito centrale, ma complesso, della formazione di un potere risolutivo delle anomie insite nella città dell’uomo. La democrazia contiene questo potere, pur nella diversità delle forme con cui storicamente si propone. Del resto essa presenta la giustificazione del suo diritto di rappresentare una proposta di coordinamento delle complesse relazioni umane esistenti nel contesto della nostra civiltà di progresso civile e politico: pur nella sua fragilità è un vessillo di progresso politico secondo a nessun altro sistema di formazione e gestione del potere. (Esemplare è l’aforisma di Churchill: “E’ stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora”). Nella realtà l’esperienza storica, specialmente in Italia, ha mostrato la difficoltà per la democrazia di pervenire a risultati pienamente soddisfacenti: un progetto essenziale per superare l’eredità autoritaria dell’esperienza fascista nella ricerca di un sistema di rappresentanza atto a rendere possibile la governabilità del Paese nel rispetto dell’apparato costituzionale e nella preparazione culturale di quel soggetto centrale della democrazia: il popolo, in un dopoguerra fervente di attese rigeneratrici economicamente e politicamente difficili da soddisfare. La democrazia, che è generatrice di governabilità nel rispetto dei principi fondativi della vita civile, in Italia ha faticato a percorrere la strada di un percorso agile e ricco di successi politici: il governo del Paese è stato frenato dalla ricerca di un sistema elettorale efficace nella legislazione giuridica e nell’amministrazione dello Stato. La governabilità ha assunto le vesti di un’azione debole, complici la mancanza di una cultura politica della base elettorale e la fragilità di compagini governative instabili e litigiose
Angelo G. Sabatini
con la naturale conseguenza di uno scarso decisionismo governativo. I dati statistici sono emblematici. I governi si sono succeduti con una rapidità sconcertante e con durata impensabile: nell’ambito della durata il più breve governo fu quello di Giulio Andreotti nel 1972, durò 9 giorni (sic!), il più lungo quello di Craxi nel 1983, durò 1058 giorni. Tra l’uno e l’altro hanno agito governi sempre carenti di una durata consistente. A rendere le coalizioni governative e la loro durata fragili è l’esistenza di un pluripartitismo la cui forza aggregante, tradita dalle circostanze, non ha generato solidarietà e coesione tra i partners, anzi spesso ha legittimato la mancanza di rispetto del vincolo di mandato.
*** Di per sé la democrazia non nega la complessità della sua vita ma necessita di un coibente che dia organicità e durata alla sua gestione. Il cambiamento frequente di durata, di gestione e dei gestori mortifica la sua forza propulsiva e disillude i soggetti principali della rappresentazione del potere: il cittadino che hobbesianamente delega contrattualmente la sua sovranità ai governanti nella certezza che essi governino. La fragilità temporale della delega addebitata all’incapacità del governo, mal confortato da un Parlamento nato debole a seguito di una maggioranza malferma, priva di un consenso forte e stabile, favorisce l’affermarsi di una sfiducia di quell’ elemento centrale di una democrazia: il popolo, che a lungo andare disconosce alla classe dei rappresentanti la capacità di gestire produttivamente la delega accordatale. Di qui l’esuberante palcoscenico dell’antipolitica, uno tsunami incontrollabile capace di trascinare nella furia devastante l’intero edificio della politica. Il demos si autoflagella entro la forza della distruzione generando l’illusione di arrestare il processo critico affidandosi ad esso. In Italia più che altrove ha prosperato la discrasia tra le attese del demos e la gestione del kratos: popolo e potere confliggono e
il tentativo di restituire solidità all’instabile edificio della politica fatica a conseguire un successo. Si decide di rottamare i vecchi gestori dell’edificio, promuovendo una classe nuova di architetti, inclini inevitabilmente ad andare oltre, verso una postpolitica che accoglie in sé i segni di una terapia decostruttiva che in nome del novismo integrale predilige l’accelerazione alla maturazone riformistica e spinge sempre più la gestione del potere nelle spire di un leader decisionista, paternalista e, perché no, autoritario. Non si stenta molto a rinvenire tracce più o meno mascherate e poco visibili di presidenzialismo e, ancor più nascoste nel terreno chiaro-scuro dell’inconscio, di autoritarismo. Aver accostato il decisionismo dell’ attuale leader ad una “dittatura democratica” è certamente una forzatura interpretativa che entra in conflitto con la lezione classica della democrazia moderna. Ad addolcire la conduzione autoritaria del potere politico del leader c’è, l’abbiamo detto, la prova storica di una gestione frenata di esso, causa di frammentazioni nella rappresentanza e d’instabilità nel potere dello Stato. Di qui i segni di un disagio della vita democratica in un Paese che rischia di disperdere le conquiste di libertà e di civiltà conseguite con la sconfitta del fascismo, grazie al movimento di liberazione nazionale del dopoguerra.
Alla fine diventerai quello che tutti pensano tu sia.
Caio Giulio Cesare
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Giuseppe Cantarano Rappresentare o decidere?
Rappresentare o decidere?
Rappresentare o decidere? E’ questo il dilemma che ci pone la nuova legge elettorale – l’Italicum, per intenderci – che la Camera si appresta ad approvare. In via definitiva. Che vuol dire, senza ulteriori correzioni e aggiustamenti. Tanto è vero che Renzi sembrerebbe perfino disposto a chiedere il voto di fiducia, di fronte al fuoco di sbarramento degli emendamenti. Preannunciati anche dalla riluttante – ma inconsistente - minoranza del suo partito. Se la legge venisse modificata alla Camera, dovrebbe tornare di nuovo al Senato, come prescrive la prassi. E per Renzi certamente non sarebbe una buona notizia. Perché al Senato – contrariamente alla Camera – la maggioranza è più traballante, diciamo così. Non è, insomma, blindata. Come lo è, invece, alla Camera. Dato che il Senato non sarà più elettivo, la nuova legge elettorale riguarderà, pertanto, solo la Camera. Ma perché, rappresentare o decidere? Perché l’Italicum ci pone di fronte a questo dilemma? Perché, sebbene sia un sistema elettorale proporzionale – un voto, una testa, come si dice -, prevede un premio di maggioranza. E qual è il problema, direte voi? E’ “fisiologico” – non “patologico” - apportare correzioni al sistema proporzionale, mediante un premio di maggioranza. Vero. Il premio di maggioranza – come dice il nome – serve, infatti, a garantire una più solida maggioranza parlamentare ai governi in carica. Cose che sono arcinote, agli studiosi dei sistemi elettorali. E di cui non si stupiscono, evidentemente. Ma il punto è che il premio di maggioranza previsto dall’Italicum – per la sua entità tende a stravolgere il principio elettorale – e democratico, aggiungo io – della rappresentanza popolare. Giacché, alla lista che supera il quaranta per cento dei voti, regala ben trecentoquaranta seggi. Il cinquantacinque per cento del totale.
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Un po’ troppo, non credete? Ma non è tutto. E’ previsto un altro “corollario”. Che non è certo un trascurabile dettaglio. Saranno possibili le cosiddette “candidature multiple”. I capilista – ma anche altri candidati – potranno essere collocati in più collegi. Fino a un numero massimo di dieci. Ma questa stranezza – diciamo così – era già contemplata nel Porcellum. E chi mai saranno – voi vi chiederete - i cento capilista? Che verranno, cioè, sicuramente eletti? In quanto le liste – ma la Corte Costituzionale non aveva già bocciato questo sistema? – sono bloccate. Ciò significa che i vari candidati sono eletti in base all’ordine con cui risultano collocati in lista. E’ evidente che i cento capilista verranno scelti dalle segreterie dei partiti. E’ evidente che le segreterie dei partiti sceglieranno i candidati “allineati e coperti”. Dunque? Dunque, sarà un Parlamento in cui la stragrande maggioranza dei deputati sarà composta da “nominati”. Non da “eletti”. Dalla democrazia “elettiva”, alla democrazia “nominativa”: è questo il prezzo da pagare, se vogliamo avere un governo che decida. E che decida in tempi rapidi. Meno rappresentanza, per avere più decisione. Derive neoautoritarie? Suvvia, chi l’ha stabilito che maggiore rappresentanza equivale a maggiore democrazia? Anzi, un eccesso di rappresentanza tende a frenare – perfino a bloccare - i processi decisionali. E senza decisioni – senza un governo che decide – la democrazia implode. Collassa. Soprattutto in questa fase – economica, sociale, istituzionale critica. Ricordate Weimar, no? Insomma, o rappresentanza – e una democrazia debole, sull’inarrestabile china della dissolvenza – o decisione. Che comporta – va da sé – una democrazia forte. Aut, aut, per parafrasare quel celebre filosofo. Certo, Renzi non dice questo, naturalmente. O, quantomeno, non lo dice in questi stessi termini. E’ un uomo solo al comando: su questo non ci sono dubbi.
Giuseppe Cantarano
Per suoi meriti. Di cui sappiamo. Ma anche – soprattutto, direi – per i demeriti della classe politica che lo circonda. Amici e av-versari, fa lo stesso. E tuttavia, con l’Italicum Renzi – se non altro, implicitamente – ci pone davanti a quel dilemma. Badate – egli sembra volerci dire – so perfettamente che questa legge elettorale è – oplà – una “truffa”. Ma è un rospo che dovete ingoiare. Se non volete che la democrazia “ruini”, come avrebbe detto il suo più illustre concittadino, messe-re Niccolo. Insom-ma, ex malo bonum. Non sempre una cosa cattiva ne genera un’altra, altret-tanto cattiva. Fidatevi di me, egli sembra volerci rassicurare. Rinunciate ad un po’ di rappresentanza. E a un pizzico di partecipazione. Che una sua piccola rinuncia, inevitabilmente, comporta. In cambio avrete me. Il nuovo Principe. Per altri anni ancora. E non è poco. In cambio avrete il nuovo Principe che decide. Anche per voi. Anzi, soprattutto per voi. Ma il vero problema della democrazia italiana – ce lo ripetiamo ormai da anni – non è forse quello di ricostruire – o costruire? - un rapporto tra eletti e elettori, tra istituzioni e cittadini? Cosa è mai il populismo demagogico di Grillo – e l’astensionismo sempre più crescente – se non il sintomo di una pericolosa frattura – come diceva Gramsci - tra governanti e governati? Ha perfettamente ragione Renzi. Senza decisione, la democrazia implode. Come dargli torto? Ma la sacrosanta, ineludibile decisione si dà – comunque, sempre - all’interno delle regole democratiche. Altrimenti la democrazia diventerebbe una oligarchia. O peggio. Una democrazia dispotica. E tra le regole democratiche – non c’è bisogno di scomodare i costituzionalisti – ce n’è una. La più importante. Quella della rappresentanza. Curioso paese, il nostro, non credete? Sempre affascinato dalle polarità inconciliabili. Sedotto sempre dagli opposti. Aut aut. O rappresentanza, o decisione. Un paese, il nostro, sempre risucchiato – diciamolo con le parole di Carl Schmitt -
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dallo “stato di eccezione”. Ma cosa ci impedisce – chiediamocelo una volta per tutte – di immaginare che la necessità della decisione non possa coniugarsi con l’esigenza della rappresentanza? Cosa ci impedisce di immaginare che una democrazia matura – e l’Italia lo è – non possa congedarsi dall’aut aut e fare finalmente ingresso nell’et et? Insomma, perché mai la necessità della decisione deve, per forza di cose, comportare una pregiudiziale rinuncia alla rappresentanza? Diciamocelo francamente: forse è perché il sistema dei partiti – chiamiamoli così – non è più in grado di svolgere questa delicatissima – e insostituibile – funzione? Perché sono ancora i partiti – nelle odierne democrazie – a svolgere questa funzione. Nonostante Grillo. Sono ancora i partiti – nelle odierne democrazie – a selezionare il ceto politico. E a raccordare governanti e governati. Ecco perché la crisi della rappresentanza è la conseguenza della crisi dei partiti. Sappiamo quanto sia problematica la categoria giuridico-politico della rappresentanza. Lo sperimentiamo ormai da anni. Attraverso la crisi dei partiti. Rappresentare vuol dire rendere presente. Presentificare. Ma rendere presente non vuol dire semplicemente “stare per altri”. Né, tantomeno, “fare per altri”. Nella funzione rappresentativa, invece, il rappresentante rende realmente presente il rappresentato. Diciamolo diversamente: nel rappresentante, il rappresentato è realmente presente. Ecco perché la categoria della rappresentanza ha una origine teologica. In particolare, cattolico-romana. Giacché solo la Chiesa romana, evidentemente, possiede la forza di rappresentare interamente la civitas humana. Solo la Chiesa cattolica “rappresenta in ogni attimo il rapporto storico – come ci ha spiegato Carl Schmitt – con l’incarnazione e con il sacrificio in croce di Cristo, rappresenta Cristo stesso in forma personale”. Solo la Chiesa cattolica ha la capacità di rendere presente l’intera umanità. Di rendere visibile
Rappresentare o decidere?
l’invisibile. Di rendere presente il divino. Solo la Chiesa cattolica ha la capacità di dare forma al mondo. Conferendo senso alla realtà altrimenti inespressiva. Insomma, solo la Chiesa cattolica ha la capacità di rendere presente il tutto. Ma il tutto, cui la Chiesa dà forma e rappresentanza, non viene ridotto ad una indistinta coincidentia oppositorum. Al contrario, gli opposti che costituiscono il tutto, cui la Chiesa dà rappresentanza e forma, vengono mantenuti distinti all’interno della complexio, come direbbero i teologi. Perché la Chiesa cattolica è complexio oppositorum, non pura coincidentia. Non riduzione gno-stica della realtà ad uno dei suoi poli. Se la Chiesa cattolica è sopravvissuta per ben due millenni a tante altre imponenti istituzioni – l’Impero romano, ad esempio – ciò è dovuto anche a questa sua capacità di adattarsi, di acco-modarsi, di stringere compromessi – mai definitivi, però – con il mondo. La politica, tuttavia, non è la Chiesa cat-tolica. Se lo ricordi Renzi. Pertanto, è costretta a dare comunque rappresentanza a ciascuno dei singoli distinti. Insomma, solo e sempre a una pars. A un polo della realtà. Mai al tutto. Altro che partito della nazione. Come crede invece Renzi. Perché quando ha cercato titanicamente di farlo, nel corso del
Novecento, ha dissolto i singoli distinti nella statolatria totalitaria. Nel Behemoth del comunismo. Nel Behemoth del nazismo. Il modello secolarizzato del partito della nazione – a cui pensa Renzi – è la Chiesa cattolica. Il partito – pars – sebbene non sia la Chiesa cattolica – il tutto, l’intera realtà – si pensa comunque come quella. E’ con gli esiti spoliticizzanti di questa indebita e nichilistica assunzione del modello teologico, da parte della politica, che stiamo facendo tuttora i conti. Renzi lo sa perfettamente. E’ dunque necessario ripensare la rappresentanza. Cioè la forma partito, come si diceva una volta. Per poter garantire una miglio-re selezione del ceto politico, innan-zitutto. Perché è ancora il partito – nonostante tutto – che, nelle odierne democrazie, ha la funzione di colmare la distanza tra rappresentanti e rappre-sentati. E il partito deve dare rappresen-tanza solo, esclusiva-mente a un parte della società. Un partito di sinistra deve dare rappresen-tanza a quella parte della società che ha più bisogno – socialmente, economica-mente - di essere rappresentata. Giacché senza rappresentanza, nessuna decisione potrà mai essere legittimata politicamente. Democraticamente. Se lo ricordi Renzi. Che non lo dimentichi.
Così come non vor r ei esser e uno schia vo, così non vor r ei esser e un padr one. Questo esprime la mia idea di democraz ia.
Abraham Lincoln
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OSSERVATORIO
Giovanni Jannuzzi
Furia omicida
Lo abbiamo scritto molte volte e non era difficile prevederlo. Mentre la furia omicida della jihad si scatena in Medio Oriente e in Africa, il nostro mondo civile e pacifico è sotto attacco diretto da parte di gente che vive tra di noi, che da noi è stata accolta e che della nostra civiltà ha avuto non pochi vantaggi. I sanguinosi fatti di Francia lo confermano. Diciamolo subito, la vignetta di Charlie-Hebdo che ridicolizzava il Profeta Maometto era non solo stupidamente offensiva ma criminale perché volutamente provocatoria. La libertà di opinione e di espressione va difesa a tutti i costi, non quella di insultare i sentimenti profondi di chicchessia, specie quelli religiosi, siano essi musulmani, cristiani, ebrei, buddisti. Ci dovrebbero essere in Occidente leggi che lo vietano. Ma niente, niente giustifica la furia sanguinaria dei sicari di Parigi, Dammartin e Montpellier, e chi da noi accenna anche a una pallida scusa, a un tentativo di comprensione, compie un atto suicida. Che dietro ci siano AlQaeda o l’IS, o fanatici isolati, istigati però dalle prediche di tanti falsi profeti, poco importa. Il terrorismo è terrorismo, senza scuse e senza perdono possibile. E sarebbe stupido chi pensasse che sotto assalto è solo la Francia. La Francia – pur modello di laica tolleranza e di accoglienza – è la più esposta, perché è quella che più musulmani delle excolonie ha accolto nel suo seno. Ma atti del genere sono già avvenuti, e possono avvenire, altrove e possono ripetersi anche da noi. Bene ha dunque fatto il Governo italiano, come quelli di altri grandi Paesi occidentali, a esprimere subito piena solidarietà alla Francia e male fanno tutti quelli che, per
convenienza o paura, tacciono e guardano timorosamente altrove. Perché non bisogna illudersi: sotto attacco è tutto l’Occidente, sono i suoi valori di libertà e di tolleranza. L’ho scritto e lo ripeto: non è guerra di religione, la furia sanguinaria degli estremisti islamici non merita questo nobile nome. È guerra tra la civiltà e la barbarie, tra la convivenza pacifica e l’intolleranza fanatica e omicida. Come reagire? Le Autorità francesi si sono mosse con rapidità ed efficacia nel solo modo possibile, identificando e perseguendo i criminali. È bene che lo abbiano fatto, non solo per la immediata punizione dei colpevoli, ma per evitare il peggio: e cioè che la gente esasperata sia tentata di vendicarsi con le proprie mani e ne patiscano diecine, centinaia di migliaia di musulmani che vivono tra di noi in pace e rispettano le nostre leggi e non meritano di pagare per qualche centinaio di folli omicidi, e che cosí si arrivi a una escalation di rappresaglie che insanguinerebbe le nostre città. Non è questo il mondo che vogliamo, ma attenti, ci sono fin troppi estremisti di destra pronti a profittare della situazione e della pretesa debolezza ufficiale per imporre la loro legge, una legge che, senza proteggerci veramente, esaspererebbe ancora di più le cose e ci riporterbbe indietro a epoche oscure. Perciò è imperativo che Governi, Giustizia e Forze dell’Ordine intensifichino la loro azione preventiva e repressiva, senza tentennamenti, senza falsi pietismi, senza soste. I terroristi devono essere identificati e messi in condizione di non nuocere, come avviene per i delinquenti della criminalità organizzata e in questa azione non ci devono essere linee divisive tra destra, centro e sinistra, e chi nella sinistra
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La responsabilità civile dei giudici
estrema delle reti sociali simpatizzasse coi criminali, meriterebbe di essere trattato alla loro stregua. Va da sé che questa non può essere opera di un solo Paese, per quanto poderoso, o di più Paesi separatamente: è un’opera collettiva, che impegna tutti i Paesi civili dell’Occidente, ma anche la Russia, l’India, la Cina, il Giappone, i Paesi arabi non fanatici, i Paesi di America Latina, e per quanto ci riguarda in Europa deve trovare nella NATO uno dei punti focali di collaborazione. Egoismi o calcoli meschini non possono essere permessi in questa lotta per la sopravvivenza di un mondo e neppure le ragioni che ci separano in questo momento da Mosca devono far dimenticare l’imperiosa necessità di una
lotta che deve essere comune. In parallelo, tutte le iniziative volte a rafforzare il dialogo con le componenti moderate dell’Islam vanno perseguite con tenacia e spirito aperto. Ma i musulmani moderati, attraverso le loro espressioni comunitarie autorizzate, devono chiaramente, senza remore o ambiguità, dissociarsi dalla furia omicida, condannarla in nome della propria stessa fede, isolare i responsabili e se del caso denunciarli alle Autorità. Altrimenti si renderanno, agli occhi di un’opinione pubblica che non va tanto per il sottile, corresponabili dei loro crimini. ©Futuro Europa®
Brizio Montinaro
La responsabilità civile del magistrato
La legge n. 18 del 2015 ha pesantemente innovato la legge Vassalli n. 117 del 13/4/1988 che aveva introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento il risarcimento dei danni cagionati dai magistrati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Quest'ultima legge prevedeva una responsabilità per dolo e colpa grave del magistrato che con un comportamento, un atto, un qualsiasi provvedimento giudiziario avesse cagionato un danno ingiusto, prevedendo tuttavia un metodo indiretto, perché l'azione di risarcimento doveva essere proposta contro lo Stato, che solo all'esito di una sentenza di condanna al risarcimento era legittimato ad esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato responsabile. Essa poneva inoltre il cosiddetto filtro di ammissibilità della domanda rivolta contro lo Stato, poiché il tribunale
competente in via preliminare era tenuto a compiere un giudizio sull'ammissibilità della domanda rivolta contro lo Stato per valutare se fossero stati rispettati i termini e i presupposti dell'azione e per bloccarla quando essa fosse stata ritenuta manifestamente infondata. La legge Vassalli prevedeva inoltre analiticamente i casi di colpa grave, individuandoli nella grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; nell'affermazione determinata da negligenza inescusabile di un fatto la cui esistenza fosse esclusa dagli atti del procedimento; nella negazione determinata da negligenza inescusabile di un fatto la cui esistenza risultasse dagli atti del procedimento; nell'emissione di un provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. Dunque la legge Vassalli, con riguardo
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Brizio Montinaro
ai casi di violazioni di legge e a quelli di affermazione o negazione da parte del magistrato di un fatto in contrasto con gli atti del processo, prevedendo che occorresse una “negligenza inescusabile”, ha fino a poco tempo fa comportato che la giurisprudenza dei giudici di merito e della Corte di Cassazione si consolidasse nel senso di ritenere la colpa grave del magistrato solo in caso di violazione o di errore grossolano e macroscopico, del tutto illogico ed aberrante, cosicché su circa 500 casi in 27 anni solo una decina si sono conclusi con l'affermazione di responsabilità del magistrato. Si può dunque ritenere che di fronte a centinaia di migliaia di atti emessi da tutte le magistrature il controllo sulla responsabilità della funzione giudiziaria voluto dalla legge Vassalli ha dato risultati statisticamente ridotti e deludenti per coloro che si aspettavano un vaglio più rigoroso dell'operato dei magistrati italiani. La recente legge numero 18 del 27/2/2015, entrata in vigore il 19/3/2015, con poche espressioni e pochi ritocchi ha innovato pesantemente i contenuti e i principi ispiratori della legge Vassalli. Pur conservando la responsabilità indiretta del magistrato e l'obbligo del presunto danneggiato di agire nei confronti dello Stato con la conseguenza che solo dopo la sentenza di condanna di esso lo Stato stesso deve agire in rivalsa contro il magistrato, la novella del 2015 ha eliminato il filtro sull'ammissibilità, con la prima importante conseguenza che d'ora in avanti sarà consentito a chiunque adducesse con argomentazioni ancora tutte da vagliare un'ipotesi solo astrattamente riconducibile a dolo o colpa grave, potrà pro-
muovere un giudizio contro lo Stato per fatto del magistrato e dunque avviare un'azione che, sebbene diretta contro lo Stato, subito sarà idonea a coinvolgere il magistrato in forza dell'obbligo del tribunale adito di informare immediatamente il magistrato interessato per l'eventualità che egli voglia intervenire volontariamente nel giudizio intentato contro lo Stato. Dunque in forza di questa modifica il magistrato autore dei presunti fatti di dolo o di colpa grave verrà subito, sia pure indirettamente, additato come un possibile responsabile e ben presto si sentirà indiziato di responsabilità e, se vorrà fin dall'inizio difendersi nel giudizio promosso formalmente contro lo Stato, dovrà costituirsi affrontando costi economici ed impegni emotivi e di tempo. Il suddetto coinvolgimento immediato potrebbe essere tanto più pesante se si verificassero nel tempo contro lo stesso magistrato più casi di avvio dell' azione di responsabilità e se la notizia della promozione di un giudizio per fatto a lui relativo divenisse per qualche verso subito diffusa all'esterno. Queste evenienze prevedibilmente saranno di peso assai rilevante, se, come molti commentatori anche autorevoli già prevedono e come logica vuole, a causa della eliminazione del filtro di ammissibilità i casi di avvio di azioni contro lo Stato diventeranno in futuro assai più numerosi di quelli che si sono avuti in vigenza della legge Vassalli. La legge numero 18 del 2015 ha inoltre introdotto marcate innovazioni con riguardo alla colpa grave del magistrato, poiché sia con riferimento all'ipotesi di violazione di legge che ai casi di affermazione o negazione da parte del magistrato di fatti contrastanti con gli atti del processo la novella ha eliminato
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La responsabilità civile del magistrato
il presupposto della “negligenza inescusabile”, cosicché si è aperta la strada per ritenere la colpa grave con maggiore facilità di quanto non sia avvenuta sotto la vigenza della vecchia legge. Infatti, se questa, come già detto, portava a ravvisare la colpa grave solo nei casi di violazioni veramente grossolane e macroscopiche, ora basterà una negligenza più attenuata, secondo una formula che è molto più vaga e che consentirà di accampare e di dimostrare più facilmente e frequentemente che nel passato l'esistenza della colpa grave. Dunque con l'avvento della novella del 2015 non solo tutto lascia prevedere che ci sarà una proliferazione notevole del numero dei processi di responsabilità, ma sarà anche assai più semplice avviare subito il processo suddetto senza alcun filtro di ammissibilità e poi dimostrare in modo più facile la responsabilità del magistrato. Sulla proliferazione dei processi hanno parlato con allarme non soltanto i magistrati per mezzo della loro associazione ma anche autorevoli e insospettabili personaggi, poiché lo stesso Ministro della Giustizia Orlando, a parte il suo lapsus di aver affermato che “con questa legge la giustizia sarà meno ingiusta del passato”, come se la giustizia in via di principio fosse sempre connotata da ingiustizia, ha anche testualmente dichiarato: “valuteremo laicamente gli effetti e siamo pronti a correggere”, come ad ammettere che quella appena approvata é già definibile una legge tale da comportare correzioni e da contenere aspetti di un qualche allarme. Il Vicepresidente Mignini del Consiglio Superiore la Magistratura ha inoltre precisato che il consiglio da lui presieduto “potrà verificare se, come noi temiamo, ci sarà un eccesso di ricorsi con i conseguenti problemi sul sistema giudiziario”. Infine il Presidente della Repubblica Mattarella, in un incontro con i magistrati in tirocinio ha testualmente detto : “le recenti modifiche della legge Vassalli andranno attentamente monitorate alla luce degli effetti
concreti”, anch'egli presupponendo aspetti di allarme contenuti nel nuovo normativa e la possibilità che essa possa portare a sviluppi aberranti. Non va infine dimenticato il clima mediatico che si è creata nei confronti dei magistrati, peraltro messa in luce dallo stesso Presidente Mattarella nelle sue recentissime dichiarazioni rese in occasione del triplice omicidio che pochi giorni or sono ha prodotto anche la morte di un magistrato in un'aula di giustizia. Non c'è dubbio, infatti, che da parecchi anni i magistrati italiani sono sempre più spesso indicati come i principali se non unici responsabili delle gravi disfunzioni che si sono determinate nell'ambito dell'espletamento della funzione giurisdizionale, cosicché in caso di soccombenza nei vari processi civili e penali sarà sempre più probabile che alcuni dei soccombenti si sentano sempre più facilmente spinti ad avviare azioni di responsabilità contro lo Stato, ma sostanzialmente in contestazione dell'operato dei magistrati. Ciò potrebbe avvenire soprattutto nell'ambito delle categorie, non poco numerose, di persone che hanno mezzi economici notevoli e che hanno poco da perdere a seguito dell'avvio di azioni pretestuose e temerarie. Si pensi agli appartenenti ad associazioni mafiose e a tutti coloro che in qualche modo abbiano una psicologia distorta e prevenuta, pronta a convincerli di aver ragione ad ogni costo. All'esito della nuova legge dunque si possono prevedere degli effetti concreti sul modo di svolgimento delle loro funzioni da parte dei magistrati. Essi potrebbero essere di tipo organizzativo delle udienze, perché in un periodo in cui la quantità di lavoro negli ultimi 20 anni è quintuplicata (si pensi che alla fine degli anni 80 i processi portati in primo grado in udienza penale erano circa 7-8 e in udienza civile circa 20, mentre oggi mediamente sono rispettivamente 30 e 90; nelle sezioni penali della Corte di Appello di Roma in ogni udienza vengono fissati 25-30 processi con la conseguenza che si
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Brizio Montinaro
emette una sentenza ogni 20 minuti circa; nella Corte di Cassazione, sezioni penali, vengono fissati 40-45 processi per ogni udienza settimanale di ciascun collegio, con la conseguenza che ogni relatore deve studiare e motivare circa 12 processi la settimana, dedicando mediamente a ciascuno di essi non più di cinque-sei ore di cui solo la metà per lo studio), il magistrato italiano potrebbe irrigidirsi e, essendo chiamato, giustamente, ad un impegno di preparazione e di studio più elevato e responsabile, ed essere portato a ridurre drasticamente il numero di processi da fissare in ciascuna udienza, con una conseguente paralisi o quasi di un'attività processuale già congestionata nonostante i suoi sforzi di portare avanti il carico così elevato di cui si è detto. Ma potrebbero verificarsi anche effetti sui contenuti delle decisioni, perché il magistrato, al fine di ridurre il rischio di responsabilità, potrebbe mutare il suo metodo di lavoro, attestandosi alla giurisprudenza consolidata, procedendo dunque sulla falsariga dei precedenti giudiziari ed evitando qualsiasi interpretazione di tipo evolutivo, che, pur stando nell'alveo dello spirito e della lettera della legge, possa tuttavia portare ad una giurisprudenza evolutiva e più aderente alle mutate esigenze del costu-me e della società del tempo. Potrebbe essere anche indotto ad intimidirsi di fronte alle situazioni più gravi e a optare per la decisione meno rischiosa. Dunque la legge numero 18 del 2015, in un'ansia pure altamente apprezzabile di esigere un espletamento più responsabile e più attento della funzione giurisdizionale, potrebbe cagionare
effetti perniciosi sullo sviluppo futuro della giurisdizione. Per di più essa è insoddisfacente per gli operatori di giurisdizione perché non è stata accompagnata, almeno al momento, da leggi auspicabili di organizzazione, razionalizzazione e snellimento della giustizia italiana. Da anni il Consiglio Superiore della Magistratura e l'Associazione Nazionale Magistrati richiedono che i concorsi per l'assunzione di magistrati vengano indetti velocemente ed espletati in tempo utile a coprire tutti i posti vacanti, laddove negli ultimi quarant'anni i vuoti di organico non sono stati mai inferiori ad 800 su poco più di 8000 magistrati e in alcuni periodi hanno superato le 1500 unità. Dalle stesse fonti sono stati chiesti tirocini più lunghi e più adeguati controlli sulle capacità e sulle attitudini dei magistrati tirocinanti. Anche le valutazioni periodiche di professionalità dei magistrati potrebbero essere espletate in modo più rigoroso di quanto avvenga oggi, forse anche con l'integrazione dei consigli deputati alle valutazioni mediante professori universi-tari e avvocati illustri. Da decenni si chiede invano di modificare il codice penale e quello delle leggi penali speciali mediante una drastica depenalizzazione. Da venti anni in qua gli uffici di cancelleria sono letteralmente allo sbaraglio, perché gli organici sono ormai pressoché dimezzati e del tutto inidonei a far procedere in modo accettabile la macchina della giustizia. Dunque prima di sanzionare tanto rischiosamente la responsabilità del magistrato sarebbe necessario contribuire a prevenirla con un impegno di tutti.
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MARGINALIA
di Antonio Casu
Il trasformismo. Ascesa e declino della Sinistra storica
Con l’avvento della Sinistra storica al potere il trasformismo trova una codifica strutturale. Il termine prende piede durante il governo di Agostino Depretis, il quale aveva incentivato l’ingresso nell’area della maggioranza degli esponenti più progressisti della Destra. Intendiamoci, i termini “Destra “ e “Sinistra” non avevano la stessa valenza che hanno avuto nel secondo dopoguerra del Novecento, nella democrazia di massa, in cui i partiti avevano basi sociali abbastanza differenziate: la borghesia al centro, con la Democrazia cristiana; la classe operaria ripartita tra il partito socialista e quello comu-nista. E questo perché sul finire dell’Ottocento i rappresentanti del popo-lo erano sostanzialmente l’espressione della classe egemone, la borghesia, e in particolare della gran-de borghesia, oltre che dei ceti privilegiati. La sostanziale conver-genza d’interessi da una parte non favoriva una netta distinzione della Destra rispetto all’oppo-sizione, indebolendone la fisionomia rispetto al glorioso passato, come anche Croce ebbe a sottolineare; e dall’altra consentiva oggettiva-mente una riaggrega-zione parlamentare dei moderati. Fu così che la Destra storica perse le elezioni del 1876, e che il 25 marzo di quell’anno si insediò il primo governo della Sinistra, guidato appunto da Depretis e composto integralmente da esponenti della Sinistra. Per rafforzare l’esecutivo, Depretis varò una politica centrista con l’obiettivo di avvicinare le ali moderate dei due schieramenti politici e indebolire le estreme. Un esempio di questa strategia è costituito dal proposito di revocare il progetto di nazionalizzazione delle ferrovie, che comportò proprio l’effetto desiderato di aggregazione al centro, ma a costo di vibrate proteste al suo fianco sinistro, tanto da condurre a nuove elezioni, il 5 novembre dello stesso anno. La vittoria di Depretis suonò come una conferma della validità del suo indirizzo politico, e come spesso accade si determinò una vera e propria corsa al centro, nel tentativo di non restare esclusi dalla nuova maggioranza. In tal modo, si creò una nuova e più vasta aggregazione, nella quale finirono per convergere gli scontenti della politica del rigore che aveva caratterizzato storicamente la Destra: politici di
varia provenienza, tra i quali ex cavouriani ed ex radicali (con i quali Depretis aveva avuto contatti da giovane), gruppi industriali e ceti produttivi, nostalgici del vecchio regime borbonico e fautori di un aumento della spesa per le forze armate, tra cui il Re. Anche in questo, la comune estrazione sociale fece da collante della nuova maggioranza. Il recupero di radicali sul versante sinistro fu così bilanciato dalla riconver-sione di esponenti della Destra storica che aveva-no ricoperto incarichi di governo, tra i quali spiccavano il marchese di Rudinì e, a partire dal 1883, il cavouriano Marco Minghetti. All’allargamento dei confini politici della nuova maggioranza cercò di far corrispondere l’allargamento della base elettorale. Allora come oggi, si mise mano alla riforma elettorale. A questo fine Depretis si prodigò per anni, cioè fino al 1887, l’anno della sua morte, eccettuate le due parentesi dei governi presieduti da Benedetto Cairoli nel 1878 e nel 1879-1881. Tuttavia, come spesso è accaduto, la riforma elettorale tesa a rafforzare l’esecutivo corrispose ad un processo di sfaldamento di una maggioranza peraltro resistente, che durò appunto un decennio. Fu un altro esponente di rilievo della Sinistra, Francesco Crispi, a rilevare l’eredità di Depretis. Crispi, che nell’anno della vittoria del suo schieramento (il 1876) era stato Presidente della Camera, era un oppositore interno di Depretis, almeno fino a quando Crispi, nel 1886, gli offrì il Ministero degli Interni. La scelta di Crispi segnò di fatto la fine della cosiddetta “pentarchia”, della quale Crispi faceva parte con Giuseppe Zanardelli, Alfredo Baccarini, Benedetto Cairoli e Giovanni Nicotera. Con Crispi entra al gover-no anche Zanardelli, chiamato per la seconda volta a reggere il Ministero della Giustizia dal 1887 al 1891 (lo era già stato nel 1881-1883). Quest’ultimo per la verità operò molto in profondità, e fu lui a varare importanti riforme legislative, tra cui il nuovo codice penale, che sostituiva quello sardo esteso a tutti i nuovi territori dopo l’unificazione nazionale. Quel codice aboliva la pena di morte (prendendo esempio dal Granducato di Toscana), assicurava la libertà di sciopero, non-ché la
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libertà di riunione e di associazione. Ma vanno anche ricordate le riforme relative al lavoro femminile e minorile Da Presidente del Consiglio, Crispi dismise la critica nei confronti dei metodi del suo predecessore, ponendosi anzi rispetto ad essi in una certa continuità. Sul piano economicosociale, ne costituisce testimonianza l’adozione di misure protezionistiche, nel 1887, nei confronti di alcuni prodotti importati, e specialmente di quelli che l'industria nazionale era in grado di produrre. L’intervento ne accrebbe il consenso da parte tanto degli industriali quanto degli agrari, favorendo la costituzione di un più ampio blocco sociale. Sul piano politico, mostrò un rilevante pragmatismo che lo portò a seconda delle condizioni a compiere scelte anche contrastanti nei rapporti tra Stato e Chiesa, in materia di interventismo e di ordine pubblico. Sul piano parlamentare, siccome la riforma elettorale del suo predecessore era stata alquanto travagliata, si regolò di conseguenza con le cosiddette “infornate di senatori”: addirittura ottantaquattro, scelti di norma tra gli aristocratici ma anche tra gli
di Antonio Casu
industriali. Ed erano anni difficili, minati da una crisi finanziaria e scossi da scandali, che coinvolsero perso-nalità dell’epoca. Grande e crescente fu l’opposizione del fronte radicale alla politica crispina, ed è nota la veemente denuncia di Felice Cavallotti, il quale asseriva di aver visto “il parlamentarismo ridotto alla senile abilità nel comporre, giorno per giorno, comporre e ricompor-re le maggioranze, non secondo i principi che definiscono i partiti, ma secondo le debolezze che trasci-nano i convincimenti degli uomini". Crebbe così in peso e prestigio il ministro del tesoro, e ad interim delle finanze, del secondo governo Crispi, Giovanni Giolitti. Questi, nominato nel 1889, si dimise l’anno seguente in disaccordo con Crispi sulla politica di bilancio e sulla politica coloniale. Così, quando Crispi nel 1891 andò in minoranza su una politica di inasprimento fiscale, dopo la breve parentesi del governo guidato dal conservatore marchese di Rudinì, il 15 maggio 1892 Giolitti fu nominato Primo Ministro. (4 - continua)
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FRAMMENTI di pietà per chi fugge dal terrore
Si parla molto, e spesso a sproposito, di migrazioni di persone che lasciano il proprio Paese per ricevere accoglienza in Italia e in altri Paesi d’Europa. La cronaca quotidiana narra di barconi occupati all’inverosimile da fuggiaschi che portano con sé familiari grandi e piccoli sperando di trovare non l’Eldorado ma almeno un giaciglio, una minestra calda e una tazza di latte per i più piccoli esseri frastornati da una corsa alla salvezza. Un fenomeno che non costituisce un’accidentalità storica di un Paese in crisi; è una intera regione del globo che vive la turbolenza di conflitti che sembrano non sanabili. Paesi che espellono oltre i propri confini persone costrette a migrare verso luoghi non sempre ben definiti. Figli dell’avventura dalla meta incerta, governati da un destino il cui disegno spesso sfugge, abbandonano il proprio tetto, amato ancorché misero e fragile, per muoversi verso territori di promettente sicurezza. Una marcia che di giorno in giorno assume l’aspetto di un ciclone ingovernabile, un esodo biblico verso una terra sognata e voluta con coraggio, spesso diventata inospitale. Il flusso dell’emigrazione cresce quotidianamente in misura tale da rendere difficile agli “uomini di buona volontà” riuscire a rispondere positivamente alla pres-sione disordinata degli approdi. La risposta si ostruisce nel flusso irregolare degli arrivi e nella leggerezza con cui diventano vittime del pregiudizio e dell’egoismo oppure di un pernicioso interesse propagandistico-politico; atteggiamenti ricorrenti nel dibattito politico e nella stampa che con leggerezza spogliano l’immigrato della sua umanità. Realtà molto complessa, che, accostata enfaticamente all’esodo biblico, non può realisticamente essere accostata a quei momenti particolari di storia di Paesi, come l’Italia, che un tempo furono costretti a ricorrere all’emigrazione per far fronte a necessità d’ordine fondamentalmente economico. Ma pur nella diversità per entità geografica e per la complessità dei mezzi e delle strutture utilizzate, pensare al fenomeno dell’emigrazione
di Angelo G. Sabatini
d’oggi con la memoria rivolta ad un passato che ci appartiene aiuta certamente a costruire atteggiamenti e giudizi politicamente meno affrettati, meno duri, pur nella cautela di dover separare loglio dal grano, l’infiltrato politico portatore di una missione di conflitto o di terrore dall’emigrato rifugiato politico. L’emigrazione verso terre lontane è stata nel passato la spinta naturale di esseri umani che non riescono a dare risposte a bisogni del vivere quotidiano. Famiglie che non reggono il ritmo di bisogni di benessere adeguati alla nuova società emergente. Un caso esemplare è l’emigrazione che l’Italia ha visto crescere nel proprio seno tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. E’ certamente un errore assimilare il flusso migratorio dell’area mediterranea di questi anni a quello che ci viene dipinto dal resoconto statistico storico che fornisce dati da cui si evince il grande numero di italiani emigrati nei Paesi dell’America latina o negli Stati Uniti o nel Canada. Le due storie, parallele ma non convergenti, consentono comunque alle giovani generazioni d’oggi di cogliere le motivazioni profonde che spingono individui o famiglie a lasciare la propria dimora per portarsi nei Paesi lontani in cerca di quella fortuna di cui non hanno avuto la ventura di beneficiare nei luoghi di nascita. Ma rappresentano anche la spinta a vivere nei confronti dell’“altro”, del “diverso”, dello “straniero” un sentimento di comprensione. L’esplosione oggi di un flusso migratorio complesso spinge tutti a domandarsi quale debba essere il sentimento di partecipazione in un rapporto da costruire al lume dell’accoglienza e dell’integrazione oppure nel crudo rigetto di ogni sentimento di carità. La memoria di tempi lontani in cui l’emigrazione ha fatto una parte della storia di Paesi europei ci appartiene perché porta le stimmate e la sofferenza dei nostri progenitori ed è di estrema utilità per farci partecipi di decisioni verso gli attuali immigrati nello spirito di fratellanza, quale che sia, religiosa o laica.
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UOMINI E IDEE
Dizionario del Liberalismo italiano Presentazione del secondo tomo Roma, 3 marzo 2015
I testi integrali degli interventi di tutti i relatori sono consultabili sul sito dell’Istituto Storico per il Pensiero Liberale. www.ispli.it, mentre ci limitiamo a proporre all’attenzione dei lettori di «Tempo Presente» il messaggio della Presidente della Camera Laura Boldrini e gli interventi di Gerardo Bianco, Sandro Rogari e Antonio Patuelli.
Rossella Pace Nota introduttiva
Il 3 marzo scorso, è stato presentato nella storica cornice della Sala della Regina in Montecitorio il II volume del Dizionario del Liberalismo Italiano difronte a numerose personalità della politica e delle istituzioni, agli autori del volume, ai discendenti dei biografati e a tutti quanti coloro che, hanno voluto sottolineare la loro attenzione verso un lavoro di così grande impegno ed importanza culturale che, come è stato definito durante il corso della serata è unico nel suo genere. Il panel dei presentatori, composto da Sandro Rogari, Gerardo Bianco, Ginevra Cerrina Feroni, Paolo Savona, Antonio Patuelli e Marina Valensise in veste di moderatrice, con i loro puntuali interventi hanno ben animato la discussione, ponendo l’accento su vari punti di interesse in particolare su cosa sia il liberalismo, quali i suoi confini, la metodologia usata e soprattutto come rapportarsi ad esso e quali le possibili chiavi di lettura. L’opera, preceduta da un primo volume di lemmi storico - concettuali è arrivata a coronamento di quella fase, che, apertasi con i convegni del 1993 e del 2002 – 2003 , ha mirato a colmare quel vuoto, che, la storiografia prevalente occupatasi fino a quel momento di storia sociale, di storia di partito o di classi popolari aveva creato. Si è cercato di imprime una svolta a questo modo di fare storia, che fosse
diretta: “ad un recupero della dimensione politica, cioè in direzione dello studio delle istituzioni, delle élites dirigenti e delle classi politiche e, infine non dei partiti presi singolarmente, bensì dei sistemi politici”, proprio in queste occasioni, come ha chiarito il Direttore dell’Ispli Fabio Grassi Orsini, in una sua recente intervista, si è arrivati alla conclusione che: “il settore meno coperto era quello dei liberali intesi in senso lato, dal Risorgimento al secondo dopoguerra. […] Tutti i movimenti politici, avevano repertori a loro dedicati. Ne mancava uno che riguardasse appunto la cultura e le personalità appartenenti alla «galassia liberale»”. Il volume nelle parole della Presidente della Camera Laura Boldrini affidate ad un messaggio, del quale ha dato lettura ai presenti Marina Valensise: “restituisce, la vivacità di un’Italia liberale, non limitata alla classe politica oppure alla sfera istituzionale, ma allargata agli esponenti della letteratura, della filosofia, dell’arte, del teatro, della musica, dell’impresa, del giornalismo, dell’economia, del diritto”. Il Dizionario, stando alle parole di Antonio Patuelli, è “una somma di volumi. Un’opera che si può leggere come un’enciclopedia, si può leggere come un’emozione andando a cercare le voci conosciute o sconosciute”. Oppure, rifacendosi ad un altro metodo tentando “di ricercare una maggiore conoscenza dei personaggi risalendo a ritroso nella
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Dizionario del liberalismo italiano
storiografia, proprio attraverso l’opera stessa. Il Dizionario è più di una semplice raccolta di biografie, il suo valore sta nella sua idea unitaria, che unisce personaggi, sia pure nell’ambito della cultura liberale ma di orientamenti estremamente diversi” (Bianco). A differenza degli altri repertori in questo emerge chiaramente, che, il suo scopo, ben evidenziato dalla pubblicazione appunto, di questi due tomi, è quello di ricostruire la cultura, le vite e le opere di personalità appartenute al mondo liberale nel senso più ampio del termine. Vite queste che, come ha ben sottolineato Ginevra Cerrina Feroni nel suo intervento, hanno tutte un elemento comune, non solo nella cultura ma “anche uno straordinario senso dello Stato e delle responsabilità anche morale della loro funzione nella società, l’impegno come vera e propria missione: insomma un consenso di optimates, una aristocrazia nel senso proprio del termine, ovvero un’aristocrazia dell’intelletto e delle capacità. […] Il nesso – continua la Cerrina Feroni – tra le vite di questi uomini, è l’uomo, al centro delle riflessioni del pensiero liberale, mai lo Stato, quantomeno in prima battuta. L’uomo con la sua libertà, la sua visione del mondo, con i suoi inalienabili diritti che nessuna autorità potrà mai conculcare, con le sue ambizioni, con la sua dignità. In ciò sta l’essenza autentica del liberalismo italiano”. Chiave di lettura, poi, di tutte queste “vite” è l’inconfutabile certezza che tutti questi uomini e queste donne abbiano apportato il loro essenziale contributo al liberalismo nonostante percorsi e scelte conseguenti di vita molto diversi che hanno avuto tutte un unico comune denominatore rintracciabile nei più alti valori della libertà. È, infatti, solo grazie alla concatenazione e all’intreccio delle biografie delle varie personalità che si può comprendere appieno la loro vicenda umana e personale. Nel corso della serata, l’accento è più volte caduto, sulle metodologie e sui
criteri che hanno ispirato i curatori, decretando l’inclusione o l’esclusione di una personalità rispetto ad un’altra. La tesi sostenuta nell’Introduzione del volume, parla di un criterio di inclusività, che avrebbe portato all’inserimento anche di coloro i quali attraverso la loro dialettica politica e le loro critiche al liberalismo hanno contribuito con la loro presa di posizione e con il loro apporto positivo a rafforzare le istituzioni e il metodo liberale. La spiegazione di ciò c’è la dà Sandro Rogari inquadrando in quei suoi cinque punti il fondamento dell’intera opera: “i cinque principi nei quali e per i quali tutte queste 400 e passa figure in qualche modo sono riconducibili ad un unico grande vaso, ad un unico grande contenitore, che è il liberalismo italiano”. Principi riassumibili in valore supremo della libertà, tutela delle minoranze, valore dell’individuo, autonomia della politica e laicità, principi questi, verso i quali nessuno che si proclami liberale può prescindere. È proprio, in questo senso, che la presenza di alcune figure, che potremmo definire discutibili per un Dizionario liberale trova la sua spiegazione più alta. Ritendo essenziale l’inclusione nell’opera di quelle figure, per cosi dire, di raccordo. I suoi ideali e i suoi valori – parlando del liberalismo – sono stati in grado di penetrare e influenzare figure e movimenti ad esso estranei che hanno dato vita ad un grande caleidoscopio dove si trova la giustificazione della presenza di Benedetto Croce insieme a Giovanni Gentile, della presenza di un Mazzini o di un Gobetti o ancora di uno Sturzo e di un Salvemini, accanto a Bruno Lauzi o a Gino Cervi, dunque “un caleidoscopio non del liberalismo ma dei liberalismi”, e di quelle sfaccettature riconducibili tutte alla medesima medaglia. Una classe politica che va al di là della classiche definizioni di genere. L’esercizio prescritto da Patuelli è il più illuminante in questo senso, ci porta bene a comprendere il perchè di una scelta e lo
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Laura Boldrini
affidiamo proprio alle sue parole. “Fate un esercizio, prendete i firmatari del Manifesto Croce. Confrontatelo con l’indice del Dizionario, dei viventi novecenteschi e troverete che Fabio Grassi Orsini e la sua équipe hanno compiuto una scelta largamente coincidente con quella di Benedetto Croce”. Un corpus, questo. di biografie, che aspetta il suo completamento e arricchimento nella sua versione on line e che sicuramente ci riserverà delle piacevoli e inaspettate sorprese. In ultima istanza quello che ci si augura, anche nelle aspettative di tutti coloro che ci hanno lavorato in questi anni, è che il Dizionario possa toccare un pubblico vasto, attraverso il suo viaggio per l’Italia. Un pubblico non solo di addetti ai lavori, ma anche di persone appassionate, animate dalla possibilità e dalla volontà di conoscere il nostro recente passato alla luce delle vite dei suoi protagonisti, verso la riscoperta di una memoria comune. Proprio in nome di questa memoria comune si indirizza l’appello alle famiglie dei biografati affinché aprano i tesori custoditi nei loro archivi ai giovani studiosi, fornendo quel prezioso materiale che consentirebbe di aprire nuovi filoni di ricerca. Soprattutto, si spera, che il volume possa mantenere sempre viva ed indelebile l’eredità e il ricordo del nostro Risorgimento, l’importanza dell’unità nazionale e degli ideali dell’antifascismo, trasmettendo e mantenendo sempre vivo il ricordo di tutte quante quelle persone che a vario titolo e con apporti diversi hanno “fatto” l’Italia e contribuito alla sua ricostruzione nel secondo dopoguerra, e verso le quali, noi tutti, abbiamo un indubbio debito di riconoscenza. Il giudizio finale dell’opera, lo vogliamo affidare alle parole di Gerardo Bianco: “il libro è pieno di vigore, perciò lo raccomando, anzi stanotte prima di andare a dormire, consultatelo e cominciate a scorrere le voci una ad una. Scoprirete ciò che voi non pensiate mai possa esserci: pittori, musicisti del
calibro di Donizetti, di Rossini, ovviamente Verdi, gli storici che hanno fatto la storia del nostro Paese. È veramente una miniera che viene offerta alla cultura italiana, ed è stata veramente cosa buona e giusta averlo pubblicato”. Messaggio della Presidente della Camera Laura Boldrini
“Nell’impossibilità di partecipare personalmente a causa di impegni istituzionali precedentemente assunti, rivolgo i miei più cordiali saluti ai promotori, ai relatori e a tutti gli intervenuti alla presentazione del secondo tomo del Dizionario del liberalismo italiano, formulando il più vivo apprezzamento per l’iniziativa editoriale che arricchisce sostanziosamente la conoscenza di una delle culture politiche che hanno fondato l’Italia moderna. Considero significativa la scelta della Camera dei deputati quale sede della presentazione, non solo per il fatto che molte delle oltre 400 personalità del mondo liberale biografate nel volume ne hanno fatto parte nel corso degli ultimi due secoli, ma soprattutto perché la concezione della democrazia rappresentativa, la pratica del “conoscere per deliberare” e la fiducia nella dialettica parlamentare hanno costituito un tratto distintivo del liberalismo italiano. L’ampio materiale bio-bibliografico raccolto nell’opera, che si aggiunge alla ricognizione tematica e ideologica condotta nel primo tomo, è il frutto maturo di un’opera collettiva realizzata da una nutrita e qualificata schiera di studiosi che ha saputo rendere al tempo stesso l’unità e la varietà di quello che, non a caso, i curatori definiscono l’“arcipelago” del liberalismo italiano. L’opera restituisce, inoltre, la vivacità di un’Italia liberale non limitata alla classe politica oppure alla sfera istituzionale, ma allargata agli esponenti della letteratura, della filosofia, dell’arte, del teatro, della musica, dell’impresa, del
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Dizionario del liberalismo italiano
giornalismo, dell’economia, del diritto. Desidero quindi unirmi all’auspicio, manifestato nell’introduzione al volume, che il Dizionario possa svilupparsi anche nell’edizione on line, nella certezza che in tal modo i suoi importanti contenuti potranno avere ancora maggiore diffusione e contribuire efficacemente alla formazione intellettuale della politica contemporanea”.
Gerardo Bianco
[…] Devo dire subito che, quando, il Professore mi ha indicato il progetto mi sono sentito entusiasmato, perché mi è parso subito che l’idea di questo Dizionario corrispondesse pienamente a quella che è, in un certo senso, anche la storia dell’Associazione degli Ex parlamentari, nata nell’immediato dopoguerra. Quindi, con entusiasmo, ho accettato questa iniziativa, che mi è stata esposta come una raccolta di biografie di personaggi appartenenti alla cultura liberale che hanno ricoperto ruoli rilevanti e importanti. Quando ho avuto fra le mani il libro, devo dire, però, di essermi accorto che era qualcosa di più che una semplice raccolta di biografie, direi che il valore del libro sta proprio nella sua compattezza, nell’idea unitaria, che unisce personaggi, sia pure riconducibili nell’ambito unitario della cultura liberale ma di orientamenti diversi. Questo ci consente di porre nuove domande alla storiografia del nostro tempo. Mi pare fuori discussione, ma qui ci sono esperti e storici di grande valore, e non vorrei commettere errori, e credo si possa dire senza temere smentite che questo è un volume che copre un vuoto da sempre esistente nella storiografia. Esso, offre una omogenea rappresentazione di questi personaggi, dei quali, leggendo le loro biografie, ci si accorge che hanno inciso nella vita politica italiana a prescindere dal movimento politico o dalla cultura alla quale essi si rifacevano. Una cultura liberale, che ha avuto delle
variazioni di interpretazioni e di orientamento. Ho visto che in contemporanea, ma non ho ancora letto il libro, è uscito un altro volume, di uno studioso, Bonetti, il quale ha pubblicato un volume, in qualche maniera specificato: Breve storia del liberalismo di sinistra. Quindi che già caratterizza il liberalismo di sinistra. Il dizionario invece, unisce insieme, personaggi che in qualche maniera pur essendo di sinistra, hanno avuto all’ interno del loro partito visioni diverse rispetto alle problematiche che essi dovevano affrontare. Classico il caso di Gobetti da una parte, e di Giovanni Amendola dall’altra. È proprio in questi raffronti, che, il Dizionario ci offre, di ripercorrere la storia politica del nostro paese a partire dal Risorgimento. Ci sono pilastri culturali, basti pensare alla biografia di Cuoco, che è un punto di riferimento importante. Sono rimasto molto colpito dalla scelta che è stata fatta di inserire alcuni nomi. Devo dire che va letta subito l’introduzione. Essa è mirabile per misura, per equilibrio, direi che già blocca subito qualsiasi obiezione che si possa fare al libro, perché spiega con grande precisione la metodologia che è stata seguita, e si capisce anche che c’è dietro il rigore della scelta e della proposta, mette, per cosi dire anche le mani avanti rispetto a chi potrebbe dire - e anche io potrei farlo - manca il tal nome, non c’è questa o quella presenza, oppure ce n’è qualcuna sorprendente. Per me ad esempio, è stato sorprendente di vedere la figura di Sturzo, fondatore del Partito popolare, inserita nel Dizionario. Poi, però, mi sono chiesto è giusta questa scelta? Ho dovuto convenire con Grassi Orsini, che in fondo questa scelta è giusta, perché indubbiamente, passatemi l’espressione, il liberalismo è un po’ come l’acqua, che penetra da tutte le parti, e in qualche maniera è andata a fecondare tendenze e filoni che hanno avuto poi sbocchi politici ed esiti diversi. È chiaro, che
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Gerardo Bianco
questo è un libro che a leggerlo stupisce, mi sembra che anche l’angolazione di cogliere la storia del nostro Paese partendo dalla classe dirigente, da uomini e personaggi che hanno svolto ruoli fondamentali, è in qualche maniera un approccio un po’ diverso da quello tradizionale. Io sono stato uno che in passato è stato un fanatico de Les Annales, delle ricerche soprattutto francesi. Mi entusiasmavano le indagini svolte negli archivi, anche, come dire, negli ospedali per capire quali erano le malattie, tutte cose importantissime, rilevanti, ma questa idea di prescindere dalla classe dirigente, dall’esame, che in fondo bisogna fare, del ruolo che questa ha avuto nella storia di un Paese, mi sembrava un impoverimento, soprattutto impoveriva le grandi domande che la storiografia si deve porre. Questo libro impone, a tutti noi, di farci delle grandi domande, di analizzare il ruolo che è stato giocato dai singoli insieme legati da una comune cultura. Le biografie sono puntuali ma non è il loro valore singolo a dare significato al volume. Molte di esse hanno profili molto più completi nel Dizionario biografico degli italiani. Penso, per esempio al mio De Sanctis, ha un’ampiezza di elementi ed aspetti biografici maggiori. L’opera va vista, dunque, nella rappresentazione unitaria di un filone che è fiorito in tante direzioni, che consente di porci - ripeto - grandi domande. Devo dire che tutte le voci andrebbero lette, io mi sono letto più di un centinaio di voci, tra cui le 38 a firma di Fabio Grassi Orsini, perché mi interessava leggere le biografie di alcuni personaggi che hanno avuto un ruolo molto importante nella storia dell’Associazione che io ho l’onore di presiedere come si usa dire. Mi riferisco all’Animi, un’associazione di classica ispirazione liberale, io sono il primo cattolico non so se liberale o meno, ma visto che c’è Manzoni nel Dizionario, mi rifaccio a lui, che ne ha preso l’eredità. Leggere le voci del Professore su Salve-
mini e Zanotti Bianco è stato davvero interessante. Ci sono poi delle voci che hanno un’importanza straordinaria per capire determinati momenti o storie. Mi è parsa una pagina esemplare, anche dal punto di vista della comprensione di quelli che sono stati i passaggi importanti, leggere la voce De Nicola di Piero Craveri, come quello dalla monarchia alla Repubblica. Esso è infatti legato alla figura De Gasperi e, se permettete, alla DC e al partito comunista, ma poi ci si accorge che emergono, in questo passaggio, dei personaggi come De Nicola che hanno svolto una funzione fondamentale, essenziale, di collegamento. In qualche maniera, come è stato scritto, sono vecchi monarchici che traghettano l’Italia verso la forma repubblicana, e lo fanno con la loro sapienza giuridica. Ci sono poi personaggi che hanno fatto la storia, chi può dimenticare il ruolo di Gaetano Martino nella costruzione dell’Europa, certo, noi ci rifacciamo alla figura di De Gasperi, ma c’è anche la figura di quel grande liberale. Sono biografie che fanno vivere la storia, la fanno pulsare, la fanno vedere davanti come qualcosa di vivo. E’ un invito anche agli storici anche perché molte di queste personalità sono politici che hanno vissuto la loro esperienza in Parlamento. L’invito a loro rivolto è di leggere gli atti parlamentari prima di scrivere la storia. Se non si leggono gli atti si capisce poco della storia, bisogna andare nel pieno della dialettica parlamentare. Ciò è necessario! Questo è un libro stimolante, un’opera forse in progress, come è stato detto, perché credo che ci siano archivi ancora intonsi, che devono essere aperti e scoperti. Come ha detto Grassi Orsini è bene che si riaprano. Noi [Animi] stiamo facendo la nostra parte. C’è il Prof. Elio d’Auria che ha raccolto il carteggio di Giovanni Amendola, che stiamo pubblicando e che sarà un opera straordinaria. Come è ben stato definito, il liberalismo è un arcipelago nel quale ci sono tanti elementi. La conclusione è che esso
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Dizionario del liberalismo italiano
ha dato frutti in tutte le direzioni, ed ha alimentato anche altre correnti politiche. Posso dire che la presenza di Sturzo porta, dentro il filone popolare della Democrazia Cristiana, anche questo empito di libertà e di senso dello Stato, del quale Aldo Bozzi è stato maestro. È poi, è pieno di vigore, perciò lo raccomando; anzi stanotte prima di andare a dormire, consultatelo e cominciate a scorrere le voci una ad una. Scoprirete ciò che voi non pensereste mai possa esserci, i pittori, i musicisti, Donizetti, Rossini, a parte Verdi, ci sono gli storici che hanno fatto la storia del nostro Paese come Chabod. È veramente una miniera che viene offerta alla cultura italiana. E credo sia stata veramente cosa buona e giusta averlo pubblicato. Ed io, per la verità, vi prometto che prima di andare a letto almeno un altro paio di voci le leggerò. Grazie. Sandro Rogari
[…] Devo dire che posso confermare quello che poco fa diceva l’onorevole Bianco in merito al Dizionario: quando si comincia a leggere si salta poi da una voce all’altra, magari non di seguito, magari avendo sempre presente l’indice dell’opera, per cercare i nomi e le voci che più ci interessano. Come il rosario una perla tira l’altra, e non si riesce mai a fermarsi di leggere. Naturalmente, dovendo parlare del volume, ci si pongono dei problemi. Io non faccio parte ovviamente del Comitato Promotore, verso il quale ho dei sentimenti di gratitudine fortissimi; tutti noi dobbiamo poi avere sentimenti di gratitudine particolare verso Fabio Grassi Orsini, che si è sobbarcato, insieme ai colleghi, l'onere di questa impresa titanica. Un’impresa titanica per tanti motivi. Il primo motivo sul quale vorrei richiamare la vostra attenzione, è legato al fatto che è molto, molto più difficile costruire un Dizionario del liberalismo, che per esempio un Dizionario del movimento cattolico, che c’è ed è stato pubblicato
negli anni '80-'90; un Dizionario del movimento operaio; i Dizionari del fascismo, ce ne sono tantissimi, uno recentissimo curato dal collega Sergio Luzzatto; poi anche uno in lingua inglese, uscì negli anni '80 a cura di Philip V. Cannistraro. Un Dizionario del liberalismo, è un’impresa ciclopica, perché richiede, preventivamente, dei criteri definitori, cioè richiede di stabilire dei paletti, dei limiti, dei varchi stretti o larghi, all’interno dei quali collocare una serie di figure, che potremmo dire, usando una terminologia abbastanza corrente sono borderline, oppure di primo acchito noi diremmo stanno fuori da quello che è il pensiero e il movimento liberale. Questa è la prima grande sfida che il Comitato promotore ha raccolto dando una risposta ampia ma metodologicamente molto fondata, e cioè fondata sul presupposto che sì, ci sono figure di intellettuali, di pensatori, di uomini politici, di uomini di prassi e di uomini di pensiero, che sono classicamente riconducibili al liberalismo, ma che il liberalismo è una categoria che ha condizionato, influenzato in modo molto largo, figure e movimenti ad esso anche estranei e in quanto tali le figure di raccordo tra questi movimenti e il pensiero liberale debbono a buon diritto essere raccolte in un Dizionario del liberalismo. Ecco che noi, troviamo pubblicate in questo poderoso volume, una voce su Mazzini; ecco che noi troviamo raccolta una voce su Rosselli; ecco che noi troviamo raccolta una voce su Salvemini; su Sturzo e potremmo anche continuare. Ovviamente, noi, Sturzo lo ritroviamo nel Dizionario del movimento cattolico; Rosselli lo ritroviamo in un Dizionario del movimento socialista. Eppure, la forza condizionante, influenzante del pensiero liberale è stata prevalente; questa è stata la grande chiave di lettura, a mio avviso, scelta positiva, fatta dal comitato promotore: individuare, come e dove, pur non dichiarandosi esplicitamente liberali, tanti intellettuali e tanti uomini politici appartenenti alle parti più disparate, sono
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Sandro Rogari
stati fortemente condizionati, e in qualche misura scientemente o meno scientemente hanno dovuto pagare il loro prezzo nei confronti di quella che è stata la grande tradizione liberale. La scelta è, quindi, quella di un grande caleidoscopio, non del liberalismo, ma direi piuttosto dei liberalismi, cioè del molto e diverso essere liberali, che caratterizza le oltre 400 figure che sono state raccolte in questo poderoso volume. Credo che la prima grossa fatica che il Comitato promotore ha dovuto affrontare sia stata limitarsi a 400 voci, perché basta scorrere gli annali parlamentari della storia dell’Italia liberale per raggiungere un numero di voci che superava di gran lunga e andava ben oltre la soglia che questo aveva delimitato. Facendo una lettura, che io vi consiglio in termini di metodo, ho cercato di risalire dalla scelta delle figure ai criteri ispiratori, dei quali io non ero fatto consapevole all'inizio, adottati dal comitato promotore e ordinatore, perché non ne ho fatto parte, non ho partecipato alle loro discussioni, che credo siano state vivaci, per non dire qualche volta veementi. Quindi, ho cercato di risalire ai principi cardine che alla fine in qualche modo sono stati scelti e selezionati per andare a definire un confine all’interno del quale poteva stare Einaudi, ma poteva stare ovviamente Croce, ma, insieme a Croce potevano starci anche Mazzini, piuttosto che Rosselli, piuttosto che Sturzo, piuttosto che Salvemini, cioè figure di intellettuali che di primo acchito noi siamo indotti a collocare in aree politiche e culturali diverse. Ho individuato cinque principi o criteri, naturalmente io adesso ve li espongo, e quindi mi presto anche ad attacchi e critiche. Naturalmente il comitato promotore mi potrà dire no, erano 7 oppure 10, oppure molto meno di quelli che ho individuato. Quindi, questi sono, a mio avviso, i cinque principi nei quali e per i quali tutte queste 400 e passa figure in qualche
modo sono riconducibili ad un unico grande vaso, ad un unico grande contenitore, che è il liberalismo italiano. Dizionario del liberalismo, attenzione, non Dizionario di storia del movimento liberale, perché se questo fosse stato, i criteri e le scelte sarebbero state forzatamente diverse. Quali sono questi principi? Primo punto: valore supremo della libertà individuale e collettiva. Se si parte da questo principio la lotta per la libertà e l’affermazione individuale e collettiva, intendendo per collettiva quelle di società territoriali o piuttosto quella delle nazioni, a questo punto la scelta di Mazzini diventa una scelta assolutamente coerente e assolutamente condividibile. Secondo punto: il valore dell’individuo, il valore della singola persona umana e della sua tutela come principio imprescindibile. Terzo punto: il potere. Una visione del potere che è innanzitutto pessimistica, e cioè il potere in quanto tale tende ad abusare, ad oltrepassare i corretti limiti di se stesso. Una dimensione del potere fortemente etico-politica, non mai riconducibile ad una dimensione puramente economico-sociale. Nel senso che il potere ha una propria autonomia, ed implicita all’autonomia del potere è anche la sua potenzialità, quindi gli strumenti che il liberale deve adottare perché il potere non prevalga. Quarto punto, che si associa alla tutela del singolo, è la tutela della minoranza, cioè quel fondo di relativismo, potremmo dire anche laicismo, (ma sul tema di laicismo torno tra un attimo), per cui non esiste una verità, il liberalismo non è una chiesa, dicono i coordinatori dell’ opera nella loro introduzione e quindi non detiene una verità, e non detenendo una verità, le minoranze, che contrappongono alla maggioranza un’altra verità debbono essere tutelate in via di principio. Infine c’è la laicità, non intesa come avversione alla religiosità, al credo individuale, al pensiero religioso, ma intesa come separazione fra credente e
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Dizionario del liberalismo italiano
cittadino che procede di pari passo con la separazione fra l’autorità laica e l’autorità religiosa, la grande conquista, questa, del pensiero liberale del XIX secolo. Questo principio giustifica il fatto che Luigi Sturzo, un cattolico, prete, ma laico nella difesa dei principi di libertà e della laicità, soprattutto dopo il ritorno dal suo lungo esilio più che ventennale negli Stati Uniti, possa benissimo e correttamente essere compreso all’interno di questo caleidoscopio. Paradossalmente, e qui chiudo, perché credo che i tempi siano stretti, qualche discussione, ma sarebbe stata una discussione dagli esiti eretici se fosse stato espunto da un Dizionario del liberalismo, qualche discussione, ma forse c’è stata, e Fabio mi potrà contraddire, a proposito di Piero Gobetti. Certo che se fosse stato espunto, le polemiche sarebbero state molte. Tuttavia, il Gobetti che teorizza la classe progressiva e, soprattutto, il Gobetti che esalta la rivoluzione d’ottobre, paradossalmente, può essere considerato un liberale borderline, e cioè un liberale che sta ai limiti di quelli che sono i principi e i criteri di un Dizionario come questo. Ma come espungere Gobetti, che per la libertà si è battuto fino in fondo e che per la libertà è morto per le sue posizioni di antifascista da un Dizionario del liberalismo italiano? Questa sì sarebbe stata un’eresia. Grazie.
Antonio Patuelli
E’ una specie di miracolo laico quello di Fabio Grassi Orsini e della sua autorevolissima équipe di aver fatto un Dizionario di qualcosa che non è comprimibile, né pienamente definibile. Però l’aggettivo italiano è oltremodo positivo, perché rivaluta un filone di pensiero che era trascurato non solo negli ultimi decenni per le mode, che, giustamente Paolo Savona, poco fa, identificava con precisione. Ho fatto un altro esercizio, sull’opera, che è una somma di volumi, nel senso
che è un volume che lo si può leggere come un’enciclopedia, che non la si legge mai tutta, lo si può leggere come un’emozione andando a cercare le voci conosciute o sconosciute che, sono queste tante, almeno nel mio caso. C’è, poi, un altro tentativo di lettura: ricercare una maggiore conoscenza dei personaggi risalendo a ritroso nella storiografia attraverso questo Dizionario. Normalmente i personaggi vengono conosciuti poco. Il Dizionario li focalizza. Ma la cosa più importante è la concatenazione dei personaggi. Faccio alcuni esempi. Vittorio Emanuele Orlando, che vive una lunghissima vita tutta all’insegna del costituzionalismo, oppure Francesco Saverio Nitti che innova molto in termini economici i filoni classici ottocenteschi liberali. Lo stesso “Gigione” Luigi Luzzatti, nel suo eclettismo, è un personaggio più difficilmente concatenabile con altri. L’italiano che nella Repubblica ha avuto, da liberale, i ruoli maggiori è Luigi Einaudi. È il liberale più commemorato negli ultimi sessant’anni, quello più studiato e non messo da nessuno, giustamente, all’Indice. Vorrei risalire rispetto ad Einaudi. Egli ritorna in Italia all’inizio del 1945 chiamato dalla Svizzera (per fare il Governatore della Banca d’Italia) da Marcello Soleri, persona poco conosciuta. Invece Soleri è un grandissimo personaggio ed è l’anello di connessione fra l’immediato postfascismo e il prefascismo. Perché, egli, fa fare ad Einaudi, claudicante già allora, questo viaggio cosi complicato dalla Svizzera con l’Italia ancora divisa in due, attraverso la Francia, per arrivare a Roma sotto la linea gotica? La risposta è perché, questo viaggio, era frutto di vent’anni di meditazione e di sofferenze intellettuali della sua generazione che si era travagliata durante il fascismo. Soleri chi era? Era l’erede morale principale di Giovanni Giolitti, questo è il punto. Lo stesso esercizio permettetemi di farlo in altri casi. Aldo Bozzi, che mi fu
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Antonio Patuelli
Maestro, è benissimo focalizzato nell’affettuosa ma prudente ricostruzione del figlio, Giuseppe; però Aldo Bozzi lo si conosce meglio se si risale a Meuccio Ruini, con il quale crebbe ancora negli anni della Resistenza e si risale oltre a Ruini, a quelli che ricordo, Aldo citava come coloro che erano stati i suoi maestri, cioè Vittorio Emanuele Orlando e Luigi Luzzati. Lo stesso ragionamento e meccanismo, lo possiamo sviluppare comprendendo molto di più del personaggio, anche per quanto riguarda Giovanni Malagodi, sul quale continuo a scoprire dei tesori. L’ultimo è contenuto nelle carte di Raffaele Mattioli che Banca Intesa San Paolo, Archivio Storico, sta pubblicando. Gli anni dal 1946 alla morte, avvenuta nel 1972, sono un pozzo senza fondo, soprattutto nei rapporti con chi gli era più in confidenza, Malagodi soprattutto. Ad esempio, c’è la lettera di premessa del suo ritorno da Sudameris e dal Sud America, nella quale negozia con Mattioli il suo ritorno alla «virgola» e chi ha conosciuto Malagodi e sa come negoziava, può capire. Egli era stato circa 10 anni in Sud America, perché era di sangue ebraico, era stato fatto scappare su idea di Cuccia che “ante vedeva”. Ma Malagodi non lo si conosce fino in fondo se non si capisce chi fosse il padre Olindo, di cui emergono rapporti con lo stesso Mattioli. Olindo, consigliere della Banca commerciale italiana e contemporaneamente senatore del Regno. Era il principale collaboratore intellettuale di Giolitti, questa presenza enorme nel Novecento, ma non solo negli anni Dieci, o nell’ultimo suo governo quando era “giovanissimo ottuagenario”. La presenza di Giolitti è veramente infinita, egli è il maestro di Malagodi che ne è il continuatore. Il rapporto diretto tra Giolitti e Malagodi è mediato solo parzialmente
dalla figura del padre, che aveva steso le memorie dello statista di Dronero, che sono una testimonianza fondamentale. Dovrei dire molti grazie, ve ne dico due in particolare. Il primo a Fabio Grassi Orsini instancabile intellettualmente oltre che operativamente e a molti degli autori. In particolare Sandro Rogari che ha steso una voce su Eugenio Artom che è la testimonianza del Novecento, delle complessità, delle identità e della limpidezza di ciò che c’è di più esemplare del liberalismo italiano. Ho conosciuto diverse delle persone, che sto per citare, ho capito molto di più concatenando due voci, quella su Agostino Bignardi con quella su Alberto Giovannini che pochi conoscono. Proprio quest’ultimo ha avuto un ruolo determinante nei primi anni Venti, e poi nel 1943. Spadolini, infatti, parlava sempre dei 45 giorni in cui Giovannini diresse «Il Carlino» nel 1943. Si conoscono tante cose, come i collegamenti tra Ugo La Malfa, Mattioli e il mondo di Mediobanca. Il pensiero di Mazzini, non vi stupiate, è parallelo e simile a quello di un suo grande contemporaneo che è Marco Minghetti. Nicola Matteucci mi diceva sempre: “Devi leggere Minghetti” ed io gli ho obbedito pian piano, la sua opera è immensa. Quali erano le principali differenze fra Mazzini e Minghetti? Erano soprattutto di sensibilità tattiche, ovverosia le strade per perseguire gli ideali. Ultimissima osservazione. Fate un esercizio: prendete i firmatari del Manifesto Croce. Confrontateli con l’indice del Dizionario, dei viventi novecenteschi e troverete che Fabio Grassi Orsini e la sua equipe hanno compiuto una scelta larghissimamente coincidente con quella di Benedetto Croce.
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Liberalismo triste
Saro Freni
Liberalismo triste di Carlo Gambescia
Che molti liberali abbiano deciso di darsi alla politica, nel corso dei decenni, è un dato di fatto. Che, talvolta, abbiano condotto battaglie vittoriose, è una certezza. Ognuno, naturalmente, l'ha fatto a modo suo. C'è chi ha servito l'ideale con grandi aspettative e altrettanti successi; e c'è chi ha solcato i mari col destino controvento, raccogliendo magri risultati elettorali, raggranellando sconfitte e consegnando la propria opera alla benevolenza degli storici. La fortuna, del resto, distribuisce i suoi doni con deplorevole parzialità, non meno di quanto faccia la virtù, ovvero quella rara e rabdomantica capacità di mettere a profitto le buone mani della sorte. In questo, come in molto altro, Machiavelli, aveva visto giusto: da grande teorico, da buon diplomatico, ma soprattutto da accanito giocatore di dadi. Il tema, per farla breve, è il rapporto tra liberalismo e politica. O, per essere più precisi, tra liberalismo e politico. Di un argomento così denso di implicazioni parla il più recente libro di Carlo Gambescia, intitolato Liberalismo triste e pubblicato dalle Edizioni Il Foglio. Partiamo da qualche considerazione generale, che speriamo essere chiara e semplice, ma non impressionistica o facilona. Perché ci si dà alla politica? Per desiderio di potere, per spirito di sacrificio, per anelito di cambiamento? Difficile dire. Nelle motivazioni di ciascuno c'è un po' di tutto, mescolato così bene da rendere indistinguibile il fuoco dell'ambizione dalla nebbia delle parole alate con cui si crede di rendere accettabili i propri miserabili interessi di bottega. E insomma, sulla politica si può dire molto, ma alla fine è sempre un
dibattersi inesausto tra la proverbiale capra e gli altrettanto proverbiali cavoli: ovvero, fuor di metafora popolaresca, tra l'individuo e la collettività. Il liberale dovrebbe avere a cuore l'uno e l'altra: nessuno, nemmeno il più irriducibile individualista, vede l'uomo coma una monade, ovvero come un soggetto smarrito ma felice che recide ogni vincolo con i suoi simili, estraneo ad ogni sentimento di socialità e insuperbito dalla hybris dell'eroica solitudine. Questa, del liberalismo, è solo la parodia, la maschera deformante, appiccicata dai nemici per vincere più facilmente qualche polemica culturale sui quotidiani; ma destinata a fare la fine dei quotidiani medesimi, il cui triste destino, il giorno seguente, è pur sempre quello di incartare il pesce. Per molto tempo si è creduto, e ancora si continua a credere, che il modo più utile per rendere un servizio alla società sia quello di occuparsi della cosa pubblica. Una volta, per recarsi in questo agone, si scendeva, come da abusata metafora. Ora, da qualche mese, si sale; ma le scale spesso sono ripide e, talvolta, si trova la porta chiusa. Per farla breve, che si scenda o che si salga, perfino un soggetto portato allo scetticismo come può esserlo un buon liberale, si trova a cimentarsi con quello strano animale che si chiama politica. Che lo faccia suo malgrado o ispirato da una vocazione, non sappiamo. Gambescia dice che lo fa con realismo, quasi con malinconia, perché, a differenza dei giulebbosi utopisti e dagli irenici sognatori di mondi nuovi, è consapevole che la realtà ha la testa dura e i fatti una scorza inscalfibile. La politica non è una cosa necessariamente sporca, come si ripete stancamente, tra
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Saro Freni
una banalità e l'altra, sui treni di tutta Italia; ma è un materiale vile – sangue e m... per Rino Formica – che solo un grande progetto può trasformare in metallo pregiato. Questo rende tristi? Forse sì, forse no. La consapevolezza è, talvolta, foriera di scoramento; ma spesso aiuta ad accogliere con maggior distacco i rovesci della vita, sia quella individuale che quella pubblica. Alle corte, il discorso di Gambescia è questo: il liberalismo deve valorizzare quei filoni che maggiormente si sono mostrati sensibili alla necessità di assumere un punto di vista realista. Non tutte le scuole lo hanno fatto, e perciò si sono trovate a mal partito, perché ora dicono poco o nulla a chi voglia utilizzare il loro pensiero per comprendere le cose del mondo. L'autore si appella all'autorità di numerosi pensatori illustri, che avrebbero in comune un analogo approccio. Se il liberalismo non è realista, non è. Oppure è soltanto un pensiero infecondo, un ramo secco, una dottrina sterile, buona per riempire tomi e vincere – quando li si vince – i concorsi universitari. Sebbene il realismo politico, come corrente teorica, abbia annoverato fior di belle teste, non sempre è tenuto nel giusto conto. Un'alleanza con il pensiero liberale farebbe comodo all'uno e all'altro: e, d'altra parte, questo connubio, in modo più o meno esplicito, è stato benedetto da una serie di uomini di idee senz'altro rilevanti, sebbene non sempre egemoni nella cultura ufficiale. Siccome alle cose bisogna pur dare un nome, per inserirle in una categoria, l'autore ha scelto l'appellativo di liberalismo archico, quello buono, per distinguerlo dagli altri. Il liberalismo archico è consapevole della necessità del potere, e anche delle sue asprezze, della sua sgradevole indispensabilità, dei suoi compromessi e mercanteggiamenti che non odorano sempre di mughetto. Naturalmente, la politica non è soltanto
Machiavelli, veleno e pugnale. Nella modernità, essa si è data forme più accettabili, se non altro perché il confronto democratico punta a contare le teste e non a tagliarle. Tuttavia, un fondo di indeterminatezza rimane. Il liberale, archico o no, coltiva sempre una certa diffidenza nei confronti di ogni discrezionalità, spesso cagione di abusi. Come ci si debba difendere, se con le garanzie della procedura o con l'appello ai diritti naturali, è oggetto di feroce disputa. Ma è fuori discussione che vadano posti dei limiti al potere, anche a quello esercitato con maggior giudizio e lungimiranza. Non è un caso che la filosofia liberale assuma, in genere, il punto di vista dei governati, più che quello dei governanti. Certo è che il politico, cosiddetto, ha un suo specifico, ed è cosa diversa dall'economico o dal giuridico. Per Gambescia, questa specificità dev'essere valorizzata, per non smarrirne il senso. Non tutti lo fanno, a suo giudizio; e qui entrano in campo i suoi due idoli polemici. Uno è il socioliberalismo, che chiama libertà ciò che libertà non è, confondendo i piani in un imbroglio inestricabile di equivoci lessicali, che poi nascondono un cedimento neanche troppo velato al socialismo e al paternalismo. L'altro nemico dell'autore si trova nei pressi dell'anarcocapitalismo, accusato di farsi condurre per mano da un economicismo non sempre adeguato a comprendere la complessità delle cose. Buona riflessione, quella di Carlo Gambescia. In fondo, il dilemma al centro del suo libro, anima tutti i liberali che, per un verso o per un altro affrontano, nella militanza o nella speculazione teorica, il nodo della politica. Chi fa politica, da liberale, lo fa per chiedere meno politica, oltre che una politica migliore. E' una sorta di cura omeopatica. Però la politica esiste. Si può cercare di ridurne il perimetro, di lasciare più spazio alla società e meno all'intermediazione pubblica; oppure si può
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Max Ascoli
imbrigliarla in regole ferree, normarla fino all'ultima virgola; si può fare di tutto: meno che farne ignorare l'esistenza. Tutto giusto. Però non si deve esagerare nell'eccesso opposto. Per essere chiari: viviamo in un paese che, storicamente, ha assegnato alla politica un ruolo che questa non poteva assolvere. Non soltanto per l'enorme peso dello Stato nell'economia. Ma anche perché sulla politica è stato riversato un carico eccessivo di pretese, un vero e proprio investimento emotivo, non sempre ben ripagato. In passato, soprattutto, si riteneva la politica capace di rispondere ad esigenze interiori, di appagare vuoti esistenziali, di offrire risposte definitive sul destino dell'uomo.
E questo ha prodotto molti danni. Pertanto, un sano scetticismo è sempre benvenuto. Anche quando questo reca le sembianze, apparentemente estreme, dell'anarco-capitalismo. E d'altra parte, la cosiddetta antipolitica appare oggi come la reazione dell'innamorato deluso: di chi si aspettava troppo e – non avendolo ottenuto – reagisce male. Perché non l'ha ottenuto? In parte, certamente, per lacune personali, morali e culturali dei ceti dirigenti. Ma anche per dei limiti intrinseci alla politica, a cui è difficile sfuggire. Per concludere: la politica non può tutto. Guardando le facce di chi la fa, verrebbe da dire: per fortuna.
Alessandra Taiuti
Max Ascoli
Intorno agli Anni Venti, nella complessa temperie culturale, sociale e politica del Primo dopoguerra, Max Ascoli, giovanissimo, tentava di dare un indirizzo preciso al suo pensiero, connotato ancora da argomentazioni e sentimenti ambivalenti. Mosso dall’intento di capire la storia dell’Italia unitaria di cui denunciava le insufficienze, credeva che spettasse alle nuove generazioni il compito di risollevare le sorti del paese, di provvedere all’educazione intellettuale e morale degli italiani; inoltre, era consapevole dell’importanza delle masse ed aveva a cuore il problema del loro ingresso sul palcoscenico politico per il quale, diceva, occorreva l’intervento degli intellettuali. In quel tempo ammirava Vico, Proudhon, aveva come guida accademica Alessandro Levi, socialista, che poi lo introdusse nell’ambiente del socialismo riformista italiano e tramite il quale conobbe Nello e Carlo Rosseli, e si nutriva del pensiero
di Croce del quale mai disconobbe l’insegnamento politico e morale. Non era ancora laureato, Ascoli, quando colse l’importanza di Sorel e si affacciò sulla scena pubblica, nel 1920, pronunciando una conferenza leggendo un suo breve saggio, intitolato Giorgio Sorel, che rappresenta il tentativo di una sua prima elaborazione politica. E’ un interesse, questo per il maggiore teorico del sindacalismo, che rientra nell’attenzione più generale che la cultura italiana del tempo riservò all’opera di Sorel della quale, in Italia, esistono due diverse letture: una che potremmo definire “rivoluzionaria” e una in chiave “liberal-socialista” o “riformista”, meno studiata, cui appartengono tra gli altri Gobetti, Carlo Rosselli e lo stesso Ascoli. Nel saggio, di Sorel, recepisce l’eticità, l’idea del mito (sebbene con alcune riserve), di decadenza, di lotta di classe. Egli, infatti, non teme la modifica degli equilibri sociali ma dimostra di avere una
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visione dinamica della realtà sociale che esclude la prospettiva di una rivoluzione distruttiva. Nel motivo della decadenza, invece, inserisce altri elementi che lo convincono della forza corruttiva della democrazia ma sempre senza concederle un valore del tutto negativo: la sua è piuttosto una critica politica in favore di un ideale democratico ancora più esigente. L’influsso soreliano lo induce a far propria una concezione volontaristica del socialismo, con una forte connotazione morale; apprezza lo slancio idealistico dato al socialismo che considera non il monopolio di un partito o di un gruppo di uomini, ma un processo “non fatale” della storia al quale tutti collaborano. Ascoli crede fermamente che il socialismo potrà diventare non tanto un movimento di rivendicazioni economiche quanto un movimento di carattere morale, una possibilità di liberazione per gli individui che vi aderiscono, quando potrà tradursi in termini sia individuali che spirituali, quando ciascuno uomo vedrà nel movimento socialista quel qualcosa che serve ad esprimere e ad accrescere la parte migliore di sé. Oltre le matrici politico-ideologiche, il saggio colpisce per il ruolo importante che ebbe nella storia della diffusione del pensiero di Sorel in Italia e in Francia. Fu pubblicato sulla rivista «Pagine Libere» e quindi a Parigi, nel ‘21 per volere di Sorel, con una lusinghiera prefazione di Edouard Berth, massimo interprete del sorelismo, con il quale Ascoli fu in contatto epistolare fin dal ‘20. Ascoli e il Giorgio Sorel divennero più noti in Francia, dove sono citati nella recente storiografia su Sorel e Berth. In Italia, Carlo Rosselli scrisse la sua prima tesi di laurea su Il sindacalismo nel ‘21 mutuando da Ascoli alcuni temi fondamentali, sia pure con decise sfumature: la fatalità della lotta di classe, la critica alla teoria soreliana del mito, la visione del socialismo come movimento di carattere morale e come fede. Solo di recente, in Italia, negli studi dedicati all’influenza di
Sorel sugli intellettuali democratici italiani, si è riscontrato come sia stata sottovalutata l’influenza di Sorel su tutto il gruppo della rivista «La Rivoluzione Liberale». Ce lo dimostrano anche le lettere inviate da Ascoli a Gobetti tra il 1924 e il ’25 dalle quali si scopre che ancora in quegli anni, Ascoli concordava con Gobetti sull’opportunità di ripubblicare il Giorgio Sorel e addirittura di scrivere un nuovo “volumetto” dedicato a Sorel. L’ascendente soreliano lascia tracce di sé negli articoli che negli anni successivi all’avvento del fascismo Ascoli pubblicò nelle principali riviste dell’antifascismo, mentre le circostanze esterne mutavano rapidamente il suo pensiero ed egli cercava una sua strada fra socialismo e liberalismo. Nell’articolo Il gigante cieco, uscito su «La Rivoluzione Liberale» il 17 aprile 1923, nel quale da un lato descriveva la democrazia a lui contemporanea come una situazione di «confusione» suscettibile di degenerazione, dall’altro lato la contrapponeva decisamente a fascismo e bolscevismo formulando una proposta di democrazia consistente non solo negli «immortali principî» o nelle sue espressioni istituzionali, pur fondamentali, ma intesa come «diritto e necessità di critica», critica che si manifesta come libertà di voto, di parola, di pensiero, di azione. In un altro articolo pubblicato due mesi dopo, sempre su «La Rivoluzione Liberale», intitolato Il gentiluomo liberale, in cui definiva la democrazia «cieca e flaccida», poi assurgeva a modello Tocqueville per tratteggiare la via del liberalismo inteso quale «metodo di vita e disciplina», quale forza e l’abilità di giudicare i fatti che avvengono in democrazia in tempo utile perché gli uomini possano modificarli, qualcosa che non si teorizza ma che deve poter derivare da «una sorta di cosciente rivoluzione» e che sia insieme «educazione». Nel 1924, rivedendo le dottrine di Proudhon, Sorel, Berth, Bergson e Schopenhauer, questo giovane studioso
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Max Ascoli
pubblicò un libro molto interessante, Le vie dalla Croce, un testo mai studiato, complesso, nel quale cercò di ricondurre ad unità organica le proprie idee religiose, filosofiche, estetiche e politiche, individuò la forza traente della libertà e pose le basi per una teoria del lavoro portata poi a maturazione negli anni americani. Ne Le vie dalla Croce, Ascoli delinea una nuova visione della vita fondata sul lavoro partendo da un assunto fondamentale, che il lavoro non è solo un fenomeno individuale ma il presupposto dell’intera società, la somma di tutti i doveri ma anche una forma di riscatto. Analizzando la condizione del lavoratore moderno, ci dice che esso è libero e che tuttavia paga un prezzo per questa liberazione perché lavora con fatica e sacrificio; esiste poi un’«incomprensione» fra il lavoratore e il suo lavoro che spezza l’umanità in proletariato e borghesia, così che il lavoratore rimane estraneo dalla propria opera e non può riassorbire in pieno il lavoro prodotto. Ascoli non parla mai di alienazione e si contrappone alla visione negativa di Marx con una soluzione che prevede la conservazione di tutte le conquiste, anche meccaniche, nella cornice della società capitalistica: stabilito un nesso inscindibile tra religione, arte, lavoro e società (nel quale l’arte assume un valore universale, liberatorio, etico), propone un nuovo «patto di lavoro» secondo il quale il lavoratore deve adempiere alla propria opera con la stessa gioia creatrice con la quale l’artista attende all’opera d’arte. Così, l’operaio-artista intuito da Ascoli supera l’incomprensione con il suo lavoro e trasmette l’esperienza acquisita e l’energia che ne ha tratta, quale materia d’educazione, all’intera massa dei lavoratori. In un’industria perfezionata, il lavoro è reso creativo dall’operaioartista, educato da una disciplina volontaria, che prende coscienza, si emancipa e realizza il passaggio dall’arte al socialismo, e questa è anche la sua unica possibile rivolta. Il lavoro non è
solo un elemento fondamentale per una crescita individuale e collettiva, ma uno strumento indispensabile per la costruzione di un nuovo ordinamento sociale in cui gli individui procedono in senso progressivo, è il “ponte” attraverso il quale avviene il passaggio dal capitalismo al socialismo. Nel mondo socialista il lavoro, non più servile, rappresenta una vera e propria “ascesi”, si trasforma in una religione della quale possiede gli slanci e le caratteristiche che spingono l’uomo ad affermare la propria personalità, la propria vita, verso la libertà. Com’era stato per Sorel, anche per Ascoli l’organizzazione politica e giuridica della società assume una preminenza rispetto a quella economica, e il progresso è determinato prima di tutto dall’uomo e dalla sua evoluzione: egli è interessato alla formazione della coscienza politica e giuridica degli individui, alla portata etica del socialismo. La parabola che lo conduce dalle opere giovanili alla maturazione intellettuale è segnata dal suo intransigente antifascismo al quale si mantiene fedele anche dopo l’esilio negli Stati Uniti, nel 1931. I suoi libri di analisi politica pubblicati tra gli anni Trenta e Quaranta, gli articoli apparsi sulle riviste americane, stabiliscono un ponte ideale tra l’ispirazione dei lavori giovanili e l’approdo a una genuina fede nell’ideologia liberale. Quando nel 1949 pubblica l’importante opera The Power of Freedom, Ascoli è un maturo studioso americano; tuttavia non rinnega i primi maestri, Vico, Proudhon, Croce, Sorel, Tocqueville, e salva quanto di essi si è sedimentato nel suo pensiero rielaborando le sue teorie politiche e sociali del lavoro in una società politica libera. The Power of Freedom è collocato dalla storiografia esistente all’interno della realtà americana alla quale Ascoli ormai apparteneva, e in questo senso è vero che questa è un’opera emblematica, perché ripropone il tema del totalitarismo già entrato a far parte del vocabolario degli antifascisti in America e al centro del dibattito politico della
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New School for Social Research di New York fin dai primi anni Trenta. Ma il libro contiene anche una riformulazione del liberalismo democratico quale dottrina centrale rispetto al fascismo e al comunismo, ed è soprattutto una “esaltazione” della democrazia e delle libertà sulle quali si fonda, alle quali Ascoli vuol dare un contenuto concreto. In proposito, egli elabora una teoria della libertà e del suo rapporto dinamico con il lavoro per la quale la libertà è così strettamente legata al lavoro che nessuno può conoscerla a meno che non lavori. Contro ogni forma di totalitarismo, afferma, bisogna esaltare i pregi della libertà, non a parole, bensì rafforzando le condizioni in cui gli uomini si sentono liberi, padroni di sé, non schiavi né del lavoro né di un’opprimente organizzazione politica. Il protagonista della libertà è l’individuo ma la sua produzione è un fatto sociale. L’indipendenza che si guadagna con il lavoro si adopera e si scambia nella comunità, è la materia prima che le istituzioni trasformano in libertà politica, intellettuale o religiosa. Ascoli crede che il lavoro, oltre a beni e servizi, debba produrre «persone». La libertà politica garantisce l’uscita del lavoratore dall’anonimato, dalla fatica del lavoro e lo munisce di un “surplus”, oltre alla retribuzione, sotto forma di altre libertà. La libertà non è né un dono né un diritto di natura, ma una conquista dell’uomo, il prodotto del suo lavoro, l’essenza stessa dei diritti. Primordiale è invece il diritto al lavoro, che ha un valore fondante perché consente di conquistare tutti gli altri diritti. Ora, osserva Ascoli, ogni regime totalitario può garantire il lavoro ad ogni uomo; quindi, per vincere il totalitarismo, occorre garantire l’esercizio di tale diritto e un efficiente dinamismo della libertà. E questo è il paradosso: dobbiamo essere
liberi per stabilire la libertà. I lavoratori raggiungono la piena cittadinanza quando traggono dal loro lavoro una certa misura di potere politico che possono utilizzare prima di tutto all’interno del sindacato, nel quale si delinea «una nuova sfera politica». Fascismo, comunismo, liberismo, cercano di eliminare il potere politico che è efficace solo in una società capitalista democratica in cui il diritto al lavoro garantisce all’individuo la possibilità di diventare un «portatore e creatore di libertà». La politica, invece, è la tecnica per usare la libertà che deve aiutare e, in certa misura, superare l’economia. Ascoli completa la sua teoria con l’esternazione del suo profondo convincimento: la democrazia è quell’ordine politico che offre al popolo il pieno godimento dei diritti che esso ha conquistato, ad ogni cittadino il migliore compenso e la migliore opportunità per compiere bene il suo lavoro, conciliandolo anche con gli effetti degradanti dell’industrializzazione. Soltanto col tendere verso questa forma politica, che assicura ad ogni uomo nel proprio Stato, ad ogni popolo nel campo internazionale, lavoro e libertà, le democrazie possono competere con il totalitarismo. The Power of Freedom, dunque, non può essere letto soltanto come il prodotto della riflessione americana di Ascoli. L’importanza del libro sta nel fatto che egli approfondisce certi temi - l’anelito di libertà, la liberazione dal bisogno, il diritto al lavoro - dimostrandosi capace di sviluppare un suo pensiero politico originale. Dapprima, come giovane intellettuale italiano che in una forte accezione morale individua la forza traente della libertà, successivamente, quale maturo studioso americano che la traduce in una precisa teoria ed azione politica che deve operare nel mondo tramite la missione degli Stati Uniti.
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Ritratto di una generazione
Vittorio Emiliani
Ritratto di una generazione
Il Collegio Mussolini come «Universitas personarum» Lettere a Giovanni Pieraccini (1937-1943) di Giovanni Pieraccini
Giovanni Pieraccini, viareggino, classe 1918, socialista fin dalla Resistenza, sette volte ministro col centrosinistra, titolare di Ministeri “pesanti” quali Bilancio e Programmazione (firmò il solo piano quinquennale della storia italiana) e Lavori Pubblici, parlamentare dal 1948 al 1976, uscito dalla politica ancora pienamente vitale per passare ad attività molto legate alla cultura. Ha pubblicato da Lacaita il denso volume “Ritratto di una generazione. Il Collegio Mussolini come «Universitas personarum». Lettere a Giovanni Pieraccini (1937-1943)”, affidato alla cura esperta di Ginevra Avalle, con una complessa, articolata prefazione storica di Mauro Moretti. In esso vengono riprodotte e utilmente annotate le numerose lettere ricevute da alcuni compagni del Collegio Mussolini di Pisa (oggi Scuola Superiore di Sant’Anna), la branca della Normale dove allora si studiava Giurisprudenza. Con una ricostruzione di Pieraccini stesso, che è insieme una postfazione e la vera biografia della generazione formatasi sotto il fascismo e che il fascismo gradualmente abbandonò o subendo l’amaro forzato esilio degli italiani ebrei (quelli salvatisi comunque dalla tragedia dei lager) o maturando un distacco totale negli anni della guerra, già nel 1942 oppure subito dopo, nella tragedia collettiva dell’8 settembre e della guerra civile. Pieraccini aveva frequentato nella sua città, Viareggio, un liceo classico decisamente speciale, intitolato a Giosuè Carducci, nel quale si respirava, nonostante il fascismo fosse al colmo del potere un’aria ancora liberale, con un
professore di storia e filosofia, Giuseppe Del Freo, in particolare, il quale aveva educato lui e gli altri coetanei ad una sorta di religione laica della libertà. In una intervista radiofonica che mi rilasciò parecchi anni fa sulla propria formazione musicale, Giovanni si riferì anche allora a quel liceo e al professor De Freo che lo avevano sollecitato all’arte e alla musica nel modo meno conformista. Nel casellario della polizia di regime si è scoperto che quel professore era già definito “antifascista”. Anche a Pisa, alla Normale e quindi al Collegio Mussolini, come emerge chiaramente da questo epistolario fra ventenni, circolava un’aria diversa da quella degli altri Atenei, dovuta al magistero di Giovanni Gentile, di Luigi Volpicelli e di Ugo Spirito e alla tutela che Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale, riservava a quei corsi selettivi e abbastanza speciali. Certo esso dovette costituire una grande scuola di politica e, contro gli intendimenti del regime mussoliniano, di democrazia, se oltre a Giovanni Pieraccini, vi crebbero e maturarono altri tre ministri della Repubblica, i dc Mario Ferrari Aggradi (1916) e Paolo Emilio Taviani (1912), entrambi fra i cattolici più attivi, Taviani addirittura medaglia d’oro, nella Resistenza, e il socialista Achille Corona (1914) impegnato nella trafila clandestina fin dagli anni ’30 e, come Giovanni, ministro nei governi di centrosinistra. Subito dopo la Liberazione, ne sortì un quarto ministro, già segretario generale della Camera e del Quirinale, l’irpino Antonio Maccanico (1924), di scuola
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Vittorio Emiliani
prettamente laica, al pari di Carlo Azeglio Ciampi, altro normalista, classe 1920, laureato in Lettere, governatore della Banca d’Italia, ministro del Tesoro, presidente del Consiglio e della Repubblica. Senza dimenticare alcuni intellettuali e politici comunisti come il ligure Alessandro Natta, segretario del partito dopo Berlinguer, autore di un bel libro su “L’altra Resistenza” (Einaudi, 1993), quella di ufficiali e soldati internati nei lager tedeschi per aver detto no alla Repubblica Sociale di Mussolini, Mario Spinella (1918), varesino, anch’egli nella Resistenza, letterato e saggista politico, Giorgio Piovano (1920), torinese, vincitore nel 1950 del Premio Viareggio opera prima di poesia, trapiantato, dopo la laurea a Pisa, a Pavia dove sarà eletto più volte al Senato per il Pci. Ma l’elenco non è certo completo. I coetanei coi quali Giovanni colloquia per iscritto sono soprattutto due anconetani, Elio Rosini, allora decisamente vocato alle lettere, e un ragazzo appartenente a quella Comunità israelitica marchigiana, molto importante, il futuro economista Giorgio Fuà, e un versiliano di adozione, Massimo Monicelli, detto Mino, classe 1919, figlio del famoso giornalista Tomaso (1883), che era mantovano di nascita, prima socialista e sindacalista rivoluzionario, poi nazionalista e interventista. Mino, futuro importante giornalista, soprattutto nei settimanali “Europeo” ed “Espresso” e al “Giorno”, dei tre figli di Tomaso è quello di mezzo, minore rispetto al regista Mario (1915) e maggiore invece rispetto a Furio (1924) saggista e romanziere. Un personaggio di spicco di quel gruppo sarà, dopo la laurea, magistrato antiveggente del Tribunale dei minori di Firenze, il
fiorentino Gian Paolo Meucci (1919), cattolico democratico, considerato uno dei padri del diritto minorile in Italia Un altro corrispondente del giovane Pieraccini, il solo a non essere ospite del Collegio Mussolini, è il fiorentino Bindo Fiorentini, anch’egli di famiglia ebraica anche se per parte di padre, anch’egli nella Resistenza. Fra le conoscenze di quei tre anni decisamente intensi compare pure Ruggero Zangrandi (1915) il quale, compagno di scuola di Vittorio Mussolini al Liceo “Torquato Tasso” di Roma, viene protetto fin dove è possibile allorché fonda dei centri culturali per il “fascismo universale”. “Io non fui mai universalista”, precisa Pieraccini. “Zangrandi riuscì a costituire 30 centri in Italia e si infiltrò nel Guf e nei Littoriali, ed infine fu sconfessato proprio proprio dal segretario nazionale dei Guf, Fernando Mezzasoma, perché prendeva troppo sul serio la proclamata politica corporativa”. Da lì l’autore del fondamentale ritratto della sua generazione Lungo viaggio attraverso il fascismo (Mursia) passa a costituire nuclei di socialismo rivoluzionario, per poi approdare infine al Pci. Nelle lettere che il futuro ministro socialista riceve da questi compagni di viaggio così diversi e stimolanti affiora sempre più il malessere che produce l’inasprirsi del regime, anzitutto con le leggi razziali che colpiscono due studenti molto brillanti come il già citato Giorgio Fuà e Bruno Bassani, scienziato, e che aprono gli occhi anche ai loro amici. Tuttavia sia Fuà che Bassani, pur messi fuori automaticamente dal Collegio dei normalisti, potranno laurearsi come gli altri, probabilmente per l’intervento dall’alto di Giovanni Gentile. Come capita a Elio Toaff col professor
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Lorenzo Mossa il quale accetta, a differenza di altri, di farlo laureare con una tesi sul conflitto giuridico in Palestina fra legislazione ottomana, inglese ed ebraica. Nel libro di cui stiamo parlando, si racconta che alla discussione della tesi di laurea (Come misurare il livello di vita di una collettività) il laureando Fuà, nell’agosto 1941, sta per esporre anche il contenuto di una tesina esplosiva nella quale dimostra come l’Italia, con la guerra d’Etiopia, abbia compiuto numerose violazioni del diritto internazionale. Viene subito interrotto dal suo professore che poi in privato lo apostrofa severamente: “Ma sei impazzito? Guarda che ti ho salvato togliendoti la parola”. In una lettera dell’aprile aveva anticipato all’amico Pieraccini la volontà di “infliggere alla commissione una predica di morale pubblica”. Predica scongiurata e laurea con lode per lui. Successivamente Fuà riesce ad espatriare e rimanere fuori dall’ Italia fascista, precisamente a Losanna dove ricopre incarichi scientifici, dialogando di là con Pieraccini e gli altri compagni. Giovanni Pieraccini viene colpito da una grave crisi esistenziale nel 1941. Anche a causa della morte della madre: figlio unico, rimane solo al mondo, il padre non l’ha mai conosciuto essendo egli mancato per l’epidemia di spagnola nel 1918, negli ultimi giorni di guerra. Lo scoppio del secondo conflitto mondiale nel giugno di quell’anno coglie lui e gli altri compagni in una situazione di profondo malessere. C’è chi chiede di venire arruolato volontario con la piena convinzione tuttavia che quella guerra debba essere persa. Giovanni, reclutato fra i carristi (senza mai vedere un solo carro armato) viene in qualche modo salvato da una pleurite secca che gli consente una vita da burocrate militare, prima a Parma e poi a Lucca, per cui ha tutto l’agio di leggere libri, riviste, giornali, di scrivere e di pensare. Finché a Lucca non lo coglie l’8 settembre e lui fa prigioniero un plotone di soldati della
Wermacht salvo poi non sapere che farne nel trambusto generale. Torna a casa e però il carattere indomito (dalla crisi ormai è uscito) lo porta a costituire subito un gruppo antifascista. Che si riunisce, ricorda ora, in una chiesa della periferia viareggina. “Dove facevamo prove di democrazia molto diretta con la elezione dal basso del parroco, noi che poi eravamo laici”. Ma l’arrivo in forze anche in Versilia dei tedeschi li costringe a sciogliere quella curiosa comunità di base e a darsi alla macchia. Pieraccini prenderà la strada di Firenze partecipando alla Resistenza armata dentro la città, munito di un fucile ’91, venendo chiamato dalle donne del quartiere dove agisce “sor Ribelle”. E’ già socialista, in stretto contatto col Comitato di Liberazione Toscano, ma trova il tempo di realizzare un proposito che ancor oggi lui e la moglie Vera Verdiani all’epoca appena ventenne, quindi neppure maggiorenne, considerano “folle”, quello cioè di sposarsi e di partire per un avventuroso viaggio di nozze in bicicletta (su una sola bicicletta, beninteso) da Firenze a Viareggio. Una strada che il “sor Ribelle” conosce metro per metro avendola percorsa tante volte in bici, in un senso e nell’altro. Avrà poi un ruolo nell’organizzazione della insurrezione di Firenze contro i nazifascisti nell’agosto del 1944 quando gli Alleati stanno per arrivare (è il bellissimo episodio fiorentino di “Paisà” di Roberto Rossellini). “Riuscimmo a far trovare una città in cui, pur fra le macerie, tutti i servizi civili funzionavano”. Lui divenne subito giornalista, direttore del quotidiano del CLT, la “Nazione del Popolo”, dove con lui, in rappresentanza del Psiup, compaiono nella “gerenza” intellettuali del calibro di Carlo Levi (Partito d’Azione), di Vittore Branca (Dc), Mario Fabiani, futuro sindaco, per il Pci. Una esperienza entusiasmante, durata fino al 1946, che Pieraccini ancora ricorda con orgoglio e passione. Come rammenta i nomi dei collaboratori, una rosa incredibile:
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Vittorio Emiliani
Eugenio Montale, Eugenio Garin, Romano Bilenchi, Piero Calamandrei, Giorgio Spini, Carlo Cassola, Manlio Cancogni e tanti altri. Poi comincerà un nuovo ciclo dirigendo presto l’“Avanti!” e iniziando anche una eccezionale esperienza di collezionista d’arte contemporanea. Quindi l’impegno politicoparlamentare dal 1948 al 1976. Decisa dal suo partito l’alleanza, che si rivelerà disastrosa, del Fronte Popolare, il trentenne politico versiliano è il primo firmatario di una mozione, alla quale aderiscono Riccardo Lombardi e Vittorio Foa, contraria alla lista unica Pci-Psi fortemente voluta (e purtroppo ottenuta) da Pietro Nenni. Un segno chiaro di spirito autonomistico. Una foto del 1964 lo ritrae mentre da un palchetto parla, da ministro dei Lavori pubblici presentatore di un progetto di legge urbanistica (bocciato per soli sette voti), all’assemblea dei costruttori e alcuni di questi gli si fanno sotto agitando mani e pugni in modo minaccioso. Una scena che oggi sarebbe del tutto impensabile. Quale ministro polemizza ancora, a sinistra, con costruttori e industriali? Indi l’uscita dalla politica più diretta, il ruolo di presidente di Assitalia, dove patrocina sponsorizzazioni culturali decisamente importanti e costituisce una pinacoteca aziendale di tutto rispetto cominciando con uno stupendo Boccioni pre-futurista e col primo quadro firmato da Giorgio De Chirico allorché frequentava l’Accademia a Monaco di Baviera. Nel contempo fonda e presiede l’Associazione Amici dell’Opera con la quale svolge una intensa attività di promozione culturale, tutelando l’ingentissimo patrimonio di costumi storici del teatro dell’Opera di Roma minacciato di dispersione e partecipando in prima persona alla campagna per la realizzazione al Flaminio del nuovo Auditorium della Musica della capitale, con alcune intuizioni strategiche (scelta dell’area, concorso a inviti riservato ai soli progettisti di Auditorium nel mondo, ecc.) rivelatesi subito decisive.
Anche da presidente dell’Istituto di Studi Legislativi ed Economici (Isle) dà vita a ricerche e a convegni di grande attualità, per esempio sull’abuso della decretazione d’urgenza, sulla erosione dei poteri nazionali da parte della Unione Europea. Ma il gioiello di quegli anni è sicuramente il Festival Internazionale Roma Europa basato sul forte legame fra la capitale e le numerose istituzioni culturali straniere che vi hanno sede, spesso da secoli. Prima fra tutte l’Accademia di Francia a Villa Medici, ma anche l’Accademia di Germania a Villa Massimo, quella di Ungheria a Palazzo Falconieri o l’altra di Spagna a San Pietro in Montorio. Roma Europa, sotto l’impulso di Giovanni, ha donato a Roma spettacoli di prosa, di musica, di balletto di spicco davvero internazionale: una “prima” di Bejart e “Le martyre de San Sébastien” di D’Annunzio con musiche di Debussy a Villa Medici, la prima recita in Italia del rinato Balletto Nazionale Cambogiano dopo il terrore di Pol Pot, l’affascinante galoppata acrobatica e poetica di Zingarò a Villa Borghese, un concerto/ confronto fra l’orchestra smagliante di Michael Nyman e l’arpeggiante complesso arabo-andaluso di Tangeri e Tetuàn e tanto altro ancora sul piano, spesso, della sperimentazione più ardita. Pieraccini del resto ha una visione fortemente solidarista, progressista, innovativa dell’Europa. “Quella attuale mi sembra davvero un goffo pigmeo”. Tempo fa mi ha chiamato per parlarmi dell’uso della robotica nei musei e mi è tornato in mente quel professore di storia e filosofia che a Viareggio lo fece innamorare dell’arte e della cultura. Una formazione complessa, forse unica, unita, impastata, fin dal Collegio universitario di Pisa, con una fortissima carica di volontà politica nutrita però di ricerche, confronti, collaborazioni scientifiche improntate al pluralismo, ad una cultura libera e libertaria. Che questo epistolario giovanile così ben esprime, in nuce.
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LE MASCHERE DELL’ARTE
Neria De Giovanni
La poesia di Corrado Calabrò: si può dimenticarla?
1. Non nascondo che quando mi accingevo a scrivere sulla poesia di Corrado Calabrò, sono stata colta da sconcerto. Mi sono domandata: cosa posso dire di più su questa poesia che non sia stato già detto? Cosa di personale, di nuovo, di fuori dal coro? Perché di vero e proprio coro si tratta, un coro di critici che negli ultimi anni ha seguito con interesse sempre più crescente la produzione poetica di Calabrò, portando esempi illustri che supportano la sua poesia, che ne parafrasano i risultati. Negli anni della sperimentazione linguistica che in Italia è nota con il nome del Gruppo ’63, la poesia immediata, sensoriale e descrittiva di Calabrò ha trovato il suo nascondimento, troppo apparentemente semplice per essere inserita nella pattuglia degli intellettuali teorici di un nonsense linguistico, cervellotico e elitario, che guardava al significante come produttore di significato. Ma Calabrò è restato fedele a se stesso, ed ha fatto bene. Le stagioni della critica letteraria - e della poesia di conseguenza - o viceversa, si alternano: quello che prima era interessante e preminente, dopo è dimenticato. Alterne vicende delle umane cose… Ma Calabrò, dicevo, è restato fortunatamente fedele a se stesso, alla sua vocazione poetica, a tal punto che i maligni (e ci sono sempre quando c’è il successo) dicono che Calabrò scrive sempre la stessa poesia, o meglio Calabrò ha scritto solo un libro, poi ripassato in tante lingue, in tante edizioni
diverse. Solo a leggere i titoli dei libri tradotti così come appare nell’ultima edizione spagnola, la poesia di Corrado Calabrò viaggia da Parigi a Buenos Aires, Mosca, Odessa, Timisoara, Budapest, New York, Belgrado, Città del Messico, Varsavia, Atene, Vienna, Madrid, Washington, Praga, Lisbona, ecc. Anche il titolo di alcuni fortunati libri ritorna con spudorata freschezza: nel 1999 con la Newton & Compton dI Roma ha pubblicato un romanzo “Ricorda di dimenticarla”, e con il medesimo titolo, “Acuerdate de olvidarla”, esce in Spagna la sua ultima raccolta poetica che ha vinto, meritatamente, il Premio Internazionale di Letteratura “Gustavo Adolfo Becquer” 2015. Ma ci sarà un motivo per cui la poesia di Corrado Calabrò ha superato le onde procellose della critica intellettualistica e formalista degli anni sessanta, ed è riapparsa sempre più vigorosa e fertile nel nostro nuovo secolo.
2. Leggendo anche l’importante bibliografia raccolta da Anna Manna nel suo volume “L’illimite - Incontro con Corrado Calabrò”, noto che l’attenzione dei lettori più accreditati delle nostre lettere, da Pietro Cimatti a Luigi Reina, a Pierantonio Milone, a Pierfranco Bruni, a Lorenza Rocco, ecc, si concentra su tre tematiche-concetto, tre lemmi che si allargano a dismisura producendo una moltiplicazione di significante: il mare, l’amore, la donna. Riflettevo: i tre termini tematici sono intercambiabili e uno può contenere l’altro come in un gioco raffinato e un po’ perverso di scatole cinesi o di
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Neria De Giovanni
matrioska: la donna si fa mare nell’amplesso d’amore, il mare accoglie l’amore della donna, l’amore per la donna esplode nell’abbraccio del mare. Giochi di parole, significati che si rincorrono in un universo poetico che non muta ma si rafforza con gli anni, si concentra su di sé e così fortifica le proprie convinzioni, il proprio universo esistenziale. Credo che abbia influito sui geni culturali e poetici di Calabrò la sua nascita in Calabria, regione della Magna Grecia, davanti al mare “da cui vergine nacque Venere” e sempre secondo Ugo Foscolo lì dove “ erra ignudo spirito / di Faon la fanciulla”, lo spirito di Saffo suicida per amore. L’eros in Grecia era la più alta forma di conoscenza supe-rando la dualità tra corpo e spirito, tra femminile e maschile, così come il mito dell’Androgine nel Simposio di Platone ci ricorda. E’ la potenza dell’ eros che ci fa cercare il nostro completa-mento e in tale ricerca non c’è niente di ripetitivo, bensì il rafforzamento di una necessità esistenziale primaria. Per questo in molte critiche sulla poesia di Calabrò si legge il termine ulisside, o il concetto-metafora del viaggio: non è mai conclusa la ricerca del nostro completamento, della nostra metà tagliata dalla spada affilata dall’invidia del padre Zeus. Ma torniamo all’eros, a quell’amore che riempie le pagine poetiche di Corrado Calabrò fin dalla prima silloge, “Prima attesa”, nell’ormai lontano 1960. Mi sono chiesta perché tante donne nei suoi versi e di quasi nessuna ci è consentito conoscere il nome. Per esempio nell’ultima Antologia spagnola, raccolta “amorosa” già citata, soltanto Jessica, rompe il silenzio della nominazione fin dal titolo “Jessica che levandoti…”. Poteva essere Volpe o Clizia, come nel pluricitato Montale, nome simbolo dietro cui celare, per corretta onestà, una vera identità; oppure poteva Calabrò esaltare sempre la stessa donna
cambiandone il nome per eleganza poetica. Poteva… Ed invece c’è nei suoi versi la potenza del femminile ammaliatore, esibito nell’amplesso, nella rinuncia, nell’abbandono, nel rimpianto, nel desiderio, ma rarissimamente con un nome proprio. Perchè? Ritorno al mito di Eros e Psiche. La donna non conosce il volto e il nome dell’amante che viene a trovarla di notte, che la col-ma di carezze e amplessi. Non conosce e quando infrange la promessa di guardar-ne il volto nell’oscu-rità del talamo, Eros fugge via per mai più ritornare. Forse Corrado Ca-labrò, nascondendoci l’identità dell’amata, ne preserva l’immortalità.
3. L’eros è il principio di individuazione del femminile ed il logos lo è del maschile; così hanno insegnato gli psicanalisti junghiani con il loro Maestro in testa… E’ certo dunque che nella poesia di Calabrò l’eros è coniugato con il logos, in un intreccio di forte valenza universale perchè propria dell’umano completo e complesso. So di non dire niente di nuovo quando, a questo proposito, faccio riferimento ai lirici greci. La lirica monodica di Alceo e Saffo fu una vera rivoluzione nell’allora comunicazione poetica ellenica. Infatti il linguaggio della poesia era stato utilizzato dai filosofi cosiddetti presocratici, Talete, Anassimandro, Anassimene, fino a Epicuro, per divulgare le proprie teorie teorico-filosofiche soprattutto sull’archè delle cose. Con i poeti monodici si può invece asserire che la poesia diventa a tutto tondo il luogo letterario in cui Eros domina portando al centro dell’attenzione appunto il canto di uno solo, monos, un solo animo che racconta i suoi struggimenti d’amore e così trova la nota universale che accomuna tutti gli uomini. Proprio andando indietro alla poesia monodica greca, è del tutto evidente come in essa l’Eros si accompagni
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La poesia di Corrado Calabrò
stabilmente con la Natura: la gelosia d’amore di Saffo non potrebbe esistere fuori dal colore verde delle foglie, l’amore consapevole di caducità di Alceo viaggia nel mare sulle ali di un gabbiano. La natura, soprattutto la natura marina, diventa sempre più protagonista quasi a competere con il contenuto amoroso. Soltanto a mo’ di esempio: Frammento di Alceo “La conchiglia marina” O conchiglia marina, figlia della pietra e del mare biancheggiante, tu meravigli la mente dei fanciulli. E Saffo: Le stelle intorno alla bella luna nascondono il volto luminoso quando, piena, molto sfavilla sopra la terra... Come diceva Ernst Bloch, “La vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti”, così la poesia di Calabrò, costantemente rivolta al futuro, a nuovi incontri, a nuove avventure, si capisce e si inquadra meglio se si guarda al passato, all’humus greco-classico che la sostiene e la motiva.
4. Parliamo di mondo greco antico come referente poetico di Corrado Calabrò senza però dimenticare la sua conoscenza delle poetiche contemporanee. Eros e logos, si è detto, in cui eros è un vissuto reale o simbolico, biografico o letterario, ma il logos è la capacità di razionalizzare e versificare, di rendere il magma dei sentimenti e delle esperienze personali all’interno di un codice comunicativo e segnico riconoscibile. Ecco così i quasi calchi da Pavese: Verrà l’Estate “Verrà l’estate / e avrà il tuo vestitino”, dove la cifra ironica lascia trasparire comunque la più drammatica “Verrà la morte / e avrà i tuoi occhi”. E ancora in un’altra lirica più esplicitamente fin dal titolo: “Verrà l’amore ed avrà le tue labbra”. E Dante? Quanti richiami, quante eco dell’amato poeta: “Alla moviola” “Amore che alla gola mi sorprendi / come si scopre d’essere feriti / dalla macchia di sangue che
s’espande (…)Amore che mi scopri nelle arterie / e crei l’effetto notte nella mente” e così via in una lirica in cui le strofe in perfetti endecasillabi sono in corsivo e rimandano al refrain del Canto V dell’Inferno in cui è Francesca che parla mentre Paolo piange: “Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. / Amor, ch'a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte,/ che, come vedi, ancor non m'abbandona. / Amor condusse noi ad una morte”. I corsivi si alternano a strofe in tondo dove il verso libero libera la quotidianità che incornicia l’epifania amorosa. Ma a bel leggere le numerose raccolte poetiche di Calabrò, molti sono i nomi degli illustri scrittori cui egli rimanda, in maniera più o meno velata: Goethe, Dino Campana, Petrarca, Leopardi. E Montale. Soprattutto nelle poesie dell’ultima stagione poetica di Calabrò, da “T’amo di due amori” del 2010 a “Mi manca il mare” del 2013, riscontro una reductio ad minimum come in “Satura” e “Xenia”, dove Montale lascia indietro gli intellettualismi de “Le Occasioni” e “La Bufera ed altro”, per andare su un vissuto personale ricondotto all’universale della condizione umana. Anche coniugale. E poi c’è l’amata poesia spagnola, tanto amata da riprendere un verso di Antonio Machado, “te quiero para olvidarte, / para quererte te olvido” che dà il titolo alla poesia, “Ricordati di dimenticarla”, dà il titolo ad un romanzo del 1999, dà il titolo alla raccolta appena pubblicata e premiata nel 2015 in Spagna. A Corrado Calabrò piace il gioco di parole, la riconversione di lemmi come nel verso di Machado perfettamente speculare nella posizione dei verbi/azione. Come per il grande poeta spagnolo, è questo un retaggio della poesia barocca che proprio nello spagnolo Gongora ebbe un importantissimo esempio, tradotto in Italia magistralmente da Giuseppe Ungaretti. E non sarà un caso, allora, se il libro appena pubblicato a
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Neria De Giovanni
Madrid, porta in colophon, la dicitura: “se acabò de imprimir el 3 de enero de 2015 aniversario del nacimiento de Pietro Metastasio…”, un altro grande poeta del virtuosismo lessicale…
5. E virtuoso del verso lo è Corrado Calabrò anche nella variazione del modulo poetico scelto. Infatti va dal lungo poemetto come “Marelungo”, Sole di paglia, “L’esorcismo dell’Arcilussurgiu” a poesie brevi, addirittura distici come “Insulto”: “Pesante come un insulto / il tuo silenzio”. Nel 2013 è uscita per i tipi di Vallardi un’intera raccolta che come dice il titolo “Rispondimi per SMS” trova nella comunicazione minima del messaggio sul telefonino, la sua dimensione metrica. Ma la forza poetica di Calabrò si può anche concretizzare in un unico verso: “Ressa”: “La penuria di te mi affolla l’anima”, dove l’uso sapiente dell’oximoro è giocato non soltanto all’interno del verso (affolla/penuria) ma anche tra verso e titolo (Ressa/penuria) rilasciando un’immagine indelebile della sofferenza amorosa. E a proposito di titoli, l’illimite è un termine molto singolare che Anna Manna ha scelto per presentare la sua ultima fatica critico-letteraria che appunto ha come sotto titolo “Incontro con Corrado Calabrò”. E’ lo stesso poeta a spiegarne l’origine in una intervista rilasciata a Oxana Pachlovska e opportunamente antolo-
Ricordati di dimenticarla...
(2000)
gizzata nel volume: “Il vero poeta sa di terra - diceva Goethe; di terra, di mare, di voglia d’oceano, d’illimite” (p.86). Sempre la Pachlovska incalza il poeta ricordandogli come “In un’intervista concessa a Mario Lucchesi, lei sostiene che la poesia è il bisogno dell’illimite” (p.89). Infine, ancora dal libro di Anna Manna, Silvia Marzano recensendo la raccolta “Mi manca il mare” apre con: “Il titolo “Mi Manca il mare” esprime più di quel che dice: va colto nella sua eco, nella risonanza di un non detto, di un tendere a un oltre e a un illimite” (p.130). E forse proprio a questo orizzonte illimitato, non limitato neppure dalla linea del mare, tende Corrado Calabrò. Ma il destino del poeta è più apertamente il destino dell’uomo: in questo per questo la lirica di Calabrò non è soltanto una litanìa di eventi personali, più o meno amorosi, più o meno felici. Per questo la sua tende ad essere , vuol essere, la voce di un individuo che indica la strada della propria umanità all’umanità. E’ poesia monodica alla greca, poesia di uno solo ma che raggiunge tutti. Perchè l’illimite è nella mente umana pur nella sua finitezza, perché: “La cosa più penosa è far le mosse / Sulla battigia, invece di nuotare” (da “Lo stesso rischio”) . E questo vale non soltanto per il nuotatore Corrado Calabrò.
Non ti regalerò un castello e nemmeno un flat a Manhattan. Non ti regalerò un anello col suo occhio spocchioso di diamante. Ti donerò un ventaglio con su scritto: «te quiero para olvidarte, para te quererte te olvido»*. 40
* Omaggio ad Antonio Machado
Amarsi un po’
Gordiano Lupi
Amarsi un po’ (Film, 1984) Virna Lisi (Virna Pieralisi, 1936-2014) è scomparsa il 18 dicembre 2014. Per ricordarla, visto che un attore vive in eterno nelle sue opere, parliamo di un suo film non molto conosciuto. I fratelli Vanzina scrivono e girano una storia d’amore in puro stile giovanilistico anni Ottanta, una commedia sentimentale senza pretese, ingenua ma piacevole. Cristiana (Welch) è una principessa romana, ma si finge una donna del popolo e si innamora di Marco (Amendola) che fa il mecca-nico al Testaccio. Il loro incontro avvie-ne a un semaforo, quando Cristiana guida senza patente e tampona Marco a bordo di una moto nuova di zecca. La famiglia della ragazza si oppone alla storia d’amore, ma soprattutto gli amici sconsigliano di mandare avanti un rapporto impossibile. I ragazzi della Roma bene che frequentano la casa di Cristiana sfottono Marco perché non sa andare a cavallo, non gioca a tennis e non parla francese. In compenso la ragazza si fa irretire da un rampollo di sangue blu che le fa una corte serrata. Finisce che i due ragazzi si lasciano, Marco si mette con una parrucchiera (Cavalcanti), ma pensa ancora a Cristiana. Un bel giorno arriva una telefonata da Parigi: Cristiana chiama Marco per dirgli che sta per sposarsi con un altro, ma in
vita sua ha amato soltanto lui. Marco non si dà pace, ruba un’automobile e corre da lei per impedire il matrimonio, ma provoca un incidente e finisce all’ospedale. Cristiana si convince che al cuore non si comanda, va da sua madre e le confessa di amare Marco. La nobildonna (Lisi) comprende la situazione e manda all’aria il matrimonio: secon-do lei sua figlia sta commettendo un errore, ma non vuole impedirle di provare a essere felice. Un film semplice che parla di vero amore senza paura di sem-brare sdolcinato, romantico e irreale. L’amore supera ogni barriera secondo i Vanzina. Una favola, certo, ma a volte è bello sognare. Tra gli attori ricordiamo una stupenda Virna Lisi, attrice di gran classe, che interpreta la madre di Cristiana. Bravo anche Riccardo Garrone nei panni del padre nobile, così come sono credibili Mario Brega e Rossana Di Lorenzo come genitori trucidi di Marco. Claudio Amendola è il classico bello di periferia, ragazzo di borgata cresciuto in strada, meccanico che si è fatto da solo. Il rapporto tra lui e gli amici della ragazza è divertente, ovvio che non hanno niente in comune, ma quando si tratta di menare le mani non si fa pregare. Tahnee Welch interpreta una bella principessa diciassettenne che non
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Gordiano Lupi
conosce il mondo, ma impara a vivere seguendo il suo amore per Marco e si allontana da una realtà fatta di lustrini e di finzione. Luigi Grazzini sul Corriere della Sera del 7 ottobre 1984 scrive: “Amarsi un po’ è un’altra di quelle commedie alla lavanda con le quali Enrico e Carlo Vanzina tengono vivo un filone di cinema giovanilista, sentimentale e pulito, che piace alla platea di età verde, tutta contenta di riconoscersi nei suoi acerbi protagonisti e di vedere annaffiata la speranza che il conflitto fra padri e figli sia superato col sorriso indulgente”. A parer nostro il film è più fragile degli altri, perché i ritrattini sono frettolosi, la galleria dei tipi è meno varia, e abbondano i luoghi comuni nel confronto tra gli snob della Roma di sangue blu e i popolani di borgata. Ma Carlo Vanzina regista ci sa fare. Commisurando il passo alla sua gamba e a quella dei suoi attori, rimpasta con garbo vecchi spunti, schizza affetto e ironia un po’ dovunque, ci fa parteggiare per quei due ragazzi, e semina fiori di campo in questo giardino di veleni. Il principe che ha come sola occupazione il proprio albero genealogico, la mamma di Marco che manda in regalo alla principessa un vaso di peperoni, l’amico di Marco che con la ragazza vuol venire subito al sodo, gli amici di Cristiana con la puzza al naso sono stereotipi rinfrescati da una regia comunicativa e da una recitazione disinvolta. Sebbene il profumo non persista, e l’unghia affondi nel morbido, dunque lo spasso c’è. Favorito dalle canzoni, dalla musica di Mario Lavezzi, da interpreti bene assortiti (Marco è il gradevole Claudio Amendola, Cristiana la spontanea
Tahnee Welch, figlia di Raquel Welch) e dalla presenza di una Virna Lisi che si cala negli abiti di sartoria della principessa con la saggia eleganza in cui confluiscono le virtù della donna e dell’attrice”. Marco Giusti è meno indulgente, secondo lui “il film sfiora il peggior populismo vanziniano, ma è comunque gradevole”. Non si comprende perché il critico romano scrive che manca il lieto fine, forse non ha visto la pellicola fino in fondo. Secondo Giusti “Amendola finisce tra le braccia della popputona Claudia Cavalcanti e non con la figlia di Raquel”. Non è vero, perché il rapporto tra i due è soltanto temporaneo in attesa che trionfi il vero amore. ... Regia di Carlo Vanzina. Soggetto e sceneggiatura: Carlo Vanzina ed Enrico Vanzina. Fotografia: Claudio Cirillo. Montaggio: Raimondo Crociani. Costumi: Paola Comencini. Musiche: Mario Lavezzi. Produce: Mario e Vittorio Cecchi Gori per G. C. G. Silver Film e Rete Italia. Distribuzione: Ceiad. Interpreti: Claudio Amendola, Tahnee Welch, Virna Lisi, Riccardo Garrone, Mario Brega, Fabrizio Bracconieri, Paolo Baroni, Alain Blondeau, Nicoletta Elmi, Carlo Marescotti, Claudia Cavalcanti, Marco Urbinati, Nicoletta Papetti, Francesca D’Aloia, Aurelio Borzini, Jimmy il Fenomeno e Cristiana Colecchia. ©Futuro Europa® [NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]
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LETTURE
Rosaria Catanoso
Il linguaggio della verità di Salvatore Natoli
Al centro dell’indagine promossa dal filosofo Salvatore Natoli, nell’ultimo suo libro, Il linguaggio della verità. Logica ermeneutica (Morcelliana, Brescia, 2014) risiede il significato rivestito dalla verità all’interno del linguaggio. Può il linguaggio non tradire la verità? Come dirla, questa parola di verità? In questione per Natoli non è l’esperienza. Ma la verità dell’esperienza. Nel momento in cui è detta l’esperienza manifesta il suo carattere veritativo. In ogni discorso la verità assume simultaneamente una doppia veste, essendo sia soggetto che oggetto. Il linguaggio, nel suo uso strumentale, è il luogo del disvelarsi del vero. Mai, come nell’epoca post-moderna, la verità non è più assoluta. Nella storia dell’umanità la verità, in senso forte, si è incarnata nella divinità. Nelle religioni l’aspetto veritativo è rivestito dalla sacralità dei testi. Eppure in un tempo che di Dio ha decretato la morte, come ricorda Nietzsche, ne ha distrutto anche la Sua verità. E la Verità, nel suo essere figlia del tempo, è diventata sempre più labile e passeggera. Sempre meno assertoria e oggettiva. Sempre più congetturale e costruita. Scopo del saggio è mostrare come una logica ermeneutica diventi efficace per demitizzare il nostro presente, con l’obiettivo di mettere in mora le presunzioni di verità non argomentate. Natoli compie una ricerca genealogica sulla genesi dei significati con cui, nella storia, sono venute formulandosi domande di verità e sono stati scelti, di volta in volta, criteri per decidere di essa. Il senso comune ritiene che il problema
della verità riguardi solo le scienze naturali. Ed invece non è affatto così. La filosofia si è posta al centro del sapere, proprio perché ha cercato di rinvenire e di disporre di un principio primo e fondante da cui dedurre e a cui ridurre la totalità della conoscenza. La ricerca del vero, lungo la storia della filosofia, si è costituita come ricerca sull’origine. Un problema mai risolto. E quindi non definito. Affaticarsi sul senso dell’origine è il compito più alto che la filosofia si è posta. Origine allude a un accadere che ha all’interno sia l’inizio sia il movimento che si genera, da quel principio. All’interno della storia del pensiero quel che conta non è tanto la tipologia dell’origine, che di volta in volta è stata presa in considerazione. Ma la possibilità di asserire qualcosa sull’origine. La domanda ontologica è l’unica che conduce all’origine, perciò stesso non può essere evasa. Un autentico rapporto con l’essere è possibile solo attraverso il linguaggio. Da un punto di vista gnoseologico e metafisico, l’apice del discorso sulla verità è rappresentato da Hegel. Da lui abbiamo imparato che “Il vero è l’intero”. E l’intero non è solo il risultato, ma al contempo il processo all’interno del quale si compie la verità. In origine il vero coincideva con la parola efficace. Quando la verità si è impiantata come corrispondenza tra parola e cosa ha elevato l’oggettività a suo criterio e misura. E con la scienza galileiana moderna è stato possibile rappresentare in modo perfetto e non deformato l’oggetto stesso. Con il tempo le cose sono cambiate. E con l’inizio della contemporaneità l’interpre-
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Rosaria Catanoso
tazione diviene la sola possibilità innanzi allo spezzettamento della verità. A partire dalla teoria della relatività, dalla fisica quantistica e dalle scoperte scientifiche del Novecento abbiamo sperimentato come qualsiasi fatto conoscitivo abbia una natura parziale. Ogni situazione storica ha una sua verità e ciò conduce ad una molteplicità di prospettive. Tuttavia non vogliamo permanere innanzi ad una frantumazione del Vero. Aspiriamo continuamente alla verità. Sentiamo sempre più cogente l’esigenza di decidere del vero e del falso. Gli uomini non possono rinunciare nella vita ordinaria a distinguere il vero dal falso. Una tale distinzione è essenziale per poter giudicare. Per poter agire. Non è semplicemente una questione di principio. Il dire e l’agire si coniugano. Le parole vere si manifestano nelle azioni. I comportamenti sono le dimostrazioni della verità espressa nel linguaggio. O della falsità. Ecco come tra agire ed asserire viene a crearsi una circolarità. In altre parole, senza verità non è dato vivere. E per continuare a vivere bisogna presumere una qualche verità. Da questo punto di vista la presunzione tende a coincidere con l’invenzione della verità. La verità corrisponde a quell’ordine di discorso che presiede alla formulazione dell’enunciato. La misura della verità di un discorso è il modo in cui il discorso funziona. Senza il linguaggio non è possibile accedere al vero. I linguaggi sono illimitati, non ci sono note le regole di tutti. Ogni verità è contestuale, coincidendo con la correttezza delle regole linguistiche. Applicare correttamente o scorrettamente le regole del linguaggio è la sola possibilità per discriminare il vero dal falso. La verità, come distinzione tra vero e
falso, rende possibile e valido un giudizio. L’attività discorsiva, configurandosi come speculazione, non fornisce più giudizi assoluti. Ogni giudizio è aperto. Provvisorio. E può cambiare all’interno della stessa provvisorietà del discorso. In altre parole c’è verità quando gli oggetti corrispondono ai giudizi. E viceversa. Come possiamo produrre giudizi in assenza di regole di metodo critico? Possiamo farlo consapevoli che più che di critica dei contenuti si dovrebbe parlare di “contenuti critici”. Si critica perché si è in uno stato di domanda. La critica contiene in sé il desiderio di verità. Non il suo compimento. La critica è fatta di parole e concetti. E con essi si confronta. La critica vive nell’elemento della parola. La critica è la possibilità effettiva della validità di un giudizio. Si deve esercitare la critica fino a quando non venga fuori la verità. Sempre se sia possibile. Critica è campo della scelta. Del giudizio adeguato. Della libertà. Della prassi. E il momento più alto della prassi è rappresentato dalla politica. La critica è un movimento risolutore. Vuole giudicare il mondo. L’atto critico che vuole concretarsi nel giudizio giusto deve interpretare i segni delle cose. O le cose come segni. In questo modo, il giudizio giusto mostra l’autentico essere delle cose. Così l’indagine filosofica si situa, da un lato, come ermeneutica, come interpretazione e possibilità di determinare il significato delle cose. Dall’altro come pragmatica, proprio perché verte sui modi e le forme con cui gli uomini abitano il mondo. Le decisioni circa il vero e il falso vengono prese dentro una prassi. Cercare una pragmatica della verità serve affinché l’uomo riesca a comunicare con gli altri, con cui abita il mondo.
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Scrivere in fuga per l’Europa
Giorgio Pacifici
Scrivere in fuga per l’Europa
Madame de Staël, Dieci anni d’esilio. Manoscritti criptati a cura di Daria Galateria
E’ assai probabile che i paesaggi del Lazio meridionale siano stati guardati da Mme de Staël quando li attraversava viaggiando sulla sua carrozza, con quel sentimento misto di incredulità, amore e ammirazione che segna i diari di viaggio di quei pochi grandi viaggiatori del ‘700 e dell’800 che osavano allargare fino a Napoli i confini del Grand Tour. Di questi paesaggi meravigliosi si parla nel grande romanzo di Madame de Staël che ebbe tanta fortuna presso i contemporanei, Corinna (Corinne ou l’Italie, 1807). Non invece nei “Manoscritti criptati” dei “Dieci anni di esilio”, che Daria Galateria ha raccolto e analizzato in un interessante quaderno della collana Testimoni di libertà diretta da Antonio Casu (Madame de Staël. Dieci anni d’esilio. I Manoscritti criptati, a cura di Daria Galateria, traduzione di Giorgio Pacifici, Fontana di Trevi editrice, Roma 2015). Nessuna cornice avrebbe potuto essere più adatta per la presentazione di questo volume di quella del Museo Napoleonico di Roma dove i manoscritti sono stati esposti, e dove da un amabile ritratto copia di quello classico di François Gerard, Germaine sorvegliava con sguardo benevolo ma vigile i partecipanti all’incontro, come se si fosse trattato degli invitati ad un ricevimento nel proprio salotto parigino. Come ricorda Antonio Casu nella sua
introduzione ai Manoscritti le ragioni per rileggere oggi l’opera di Madame sono molte, ma “In primo luogo il messaggio che ci lasciano in eredità Germaine Necker e il Gruppo di Coppet, che intorno a lei raccolse. Un gruppo di intellettuali di varia nazionalità, estrazione sociale, vocazione culturale, un gruppo “europeo” che compie consapevolmente, e quindi coraggiosamente una scelta minoritaria di opposizione, sul piano teorico ma anche politico, alla deriva autoritaria della rivoluzione francese e della teoria della sovranità popolare”. Come lettore dei Manuscrits Déguisés penso di poter fare soltanto poche osservazioni su Germaine che non siano quelle di riconoscere la sua viva intelligenza e il fascino che esercitava su quasi tutti coloro che la incontravano. La prima osservazione è che Madame apprezzava più di ogni altra una particolare forma di intelligenza, quella che permette in ogni occasione la risposta pronta e brillante, spiritosa e mordente. Quando nei suoi manoscritti si trova l’aggettivo spirituel il traduttore si trova veramente in imbarazzo: Madame lo usa indifferentemente per indicare un uomo di cultura, un uomo di spirito, un uomo di gusto, un intellettuale, una persona intelligente e gradevole, e certe volte con più di uno di questi significati insieme.
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Giorgio Pacifici
Questi erano gli interlocutori che Madame amava avere attorno a sé. La seconda osservazione, che viene spontanea è che Mme de Staël aveva una grande capacità di decidere rapidamente, di trovare delle soluzioni, di concentrarsi sui propri progetti anche nella circostanze più difficili. La scena in cui in carrozza, sulle difficili strade di allora, Germaine, circondata dalla sua prole, detta alla intelligente segretaria Fanny Randall il testo del volume potrebbe rappresentare una “sequenza cinematografica” degna di un grande regista. La preoccupazione che i manoscritti non cadessero nelle mani della polizia segreta napoleonica e non venissero distrutti come era successo per le 5000 copie già stampate del volume De l’Allemagne, giustifica nei testi quelle incertezze, quelle imprecisioni, quelle duplicazioni, che certamente hanno reso arduo il lavoro del curatore di un’opera come questa. Il salotto di Madame de Staël era essenzialmente un partito politico. Un partito politico piuttosto forte e importante in un’epoca in cui non esistono ancora partiti politici strutturati e d’altra parte non ci sono più i vecchi club rivoluzionari. E Mme de Staël sa benissimo che il suo salotto è il suo partito e in taluni passi lo scrive. Per questo quando Napoleone decide il suo allontanamento da Parigi e poi il suo esilio dalla Francia, Germaine sa che non è soltanto la fine degli incontri con tutto quel mondo intellettuale che amava, ma è soprattutto la fine del suo partito. Personalmente ho sempre ammirato il salotto milanese della Contessa Maffei (di cui mia madre era una studiosa), un salotto che trent’anni dopo, come quello di Mme de Stael, era frequentato, da personaggi di primissimo piano: Alessandro Manzoni, Honoré de Balzac, Massimo d’Azeglio, Tommaso Grossi, Giuseppe Verdi. Un salotto nel quale si discuteva di letteratura, di arte, di musica: ma il
paragone non regge. Dalla contessa Maffei si parlava anche di politica ma non si elaboravano delle tesi politiche radicali, non si facevano discorsi “forti” come quello di Benjamin Constant contro la tirannia. Il salotto di Clara Maffei era certamente risorgimentale e patriottico, ma (almeno fino all’incontro di Clara con Carlo Tenca) non così polarizzato sulla politica come quello di Germaine. Comunque non era certo un partito. La seconda osservazione è indubbiamente collegata alla prima, il salotto di Mme de Stael è frequentato da personaggi come Luciano e Giuseppe Bonaparte che le dimostrano la loro amicizia. Madame porta direttamente all’interno della compagine familiare di Napoleone la propria critica a tutto ciò che il Primo Console compie o ordina; è difficile immaginare qualcosa di più irritante per Napoleone che sentir ripetere nelle riunioni di famiglia - quelle da cui sono esclusi persino i grandi dignitari, i generali, i consiglieri - le tesi di Germaine de Staël. E’ possibile, ma certamente dovrebbe essere esplorato con un’analisi attenta dei documenti familiari dei Bonaparte, che la decisione di Napoleone di tenerla lontana prima da Parigi e poi dalla Francia, sia stata anche la manifestazione esteriore della volontà di tenere “il partito de Staël” lontano dalla capitale, ma soprattutto dalla famiglia del Primo Console. Penso che abbia assolutamente ragione Antonio Casu quando rileva che il progetto culturale di pubblicare i Manoscritti non avrebbe potuto essere realizzato “se non grazie allo straordinario sodalizio culturale instauratosi con un gruppo di amici”, con ruoli differenti ma tutti fondamentali, Daria Galateria, Renzo Baldino, Veruska Ottaviani, Emanuele Rizzo, Ruth Theus Baldassarre. Un sodalizio culturale al quale certo chi scrive non può non sentirsi legato.
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Memorie di una militante azionista
Graziella Pagliano
Memorie di una militante azionista Storia della figlia di un onesto cappellaio di Gianna Radiconcini
Un libro denso dei ricordi della lunga attività dell’autrice eppure agile come una conversazione. Gianna rammemora infanzia e adolescenza sotto il fascismo che detesta così da collaborare come staffetta per piccoli incarichi nella Resistenza. Già in questo periodo, come poi in seguito, i ricordi intrecciano sentimenti ed eventi politici con la vita privata, istituendo una decisa correlazione come avviene nel pensiero femminista: la ricerca del cibo, l’insicu-rezza, l’informazione si riverberano sui due versanti. La liberazione, giugno 1944 a Roma, è una festa ma tutto o quasi è da ricostruire. L’autrice insegna ad analfabeti adulti nelle borgate (poi UNLA) e si iscrive al Partito d’Azione che nel primo congresso del 1946 già si scinde nel Movimento della democrazia repubblicana e Gianna non ancora ventenne diviene vicesegretario del comitato romano, pur conservando la nostalgia per il Partito d’Azione. I ritratti dei politici frequentati sono vividi: Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Altiero Spinelli e molti altri sono ripresi negli atteggiamenti quotidiani, come la campagna elettorale per il referendum e i dibattiti. Gianna si iscrive all’UDI,
Unione donne italiane, e collabora al settimanale ‘Noi donne’, si iscrive al Movimento federalista europeo, fondato da Spinelli, e anche al Partito repubblicano dove rimarrà per circa quaranta anni, notando come in esso fossero molti artigiani, commercianti, operai mentre gli ex azionisti erano prevalentemente intellettuali. Molte notizie sono relative a teatri o concerti, viaggi o incontri e poi ad una vicenda privata che molto risentì della legislazione vigente, assenza di divorzio, colpevolezza della donna adultera fino all’eventuale detenzione. Dopo l’abban-dono da parte del marito, Gianna rimane con i due figli ma ne avrà un altro dal nuovo compagno e riuscirà a non perdere il lavoro alla RAI, a tenerlo con sé con una forma di adozione, a dargli un cognome simile a quello del padre che poi, a legislazione modificata (1975), potrà riconoscerlo. Interessante anche il breve capitolo sulle vicissitudini in RAI organizzata prevalentemente per comparti politici. L’autrice riuscirà a farsi inviare a Bruxelles e a seguire i lavori della Commissione europea. Oltre settanta anni di vita italiana, visti con intelligenza e con la partecipazione, anche sofferta, in prima fila di una
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Graziella Pagliano
donna dove si passa dai ruoli prefissati ad una sempre maggiore libera autodeterminazione. Possiamo ricordare che l'espressione scritta della soggettività, e cioè il diario o l'autobiografia, sarebbe legata ai mutamenti subiti dai rapporti sociali (così per L. Febvre, Amour sacre et amour profane, Autour de l’Héptameron, Paris 1971, pp. 284-90). La nozione di persona viene infatti collegata alla memoria, che permetterebbe di costruire il ritratto dell’ esistenza. Il lavoro selettivo della memoria scarta il ricordo inattuale e sceglie secondo un criterio di organizzazione che parte dalla prospettiva del presente (G. Gusdorf, Mémoire et personne, vol. I, Paris 1951), mentre per altri studiosi diviene elemento essenziale il principio di responsabilità. Il soggettivismo e l'individualismo appaiono il portato delle società moderne (R. Lafont in AA.VV., La production d'identité, Montpellier 1986, e la nozione di persona sembra aver subito un mutamento sostanziale (P. Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris 1975). Nel Novecento prevarrebbe l'idea di una autocreazione permanente, e implicito in tale operazione è il valore
attribuito alla propria esperienza, generalmente rappresentativa della propria generazione o del proprio gruppo sociale. J. Starobinski (“Poétique”, 1970, n.3) conferma come sia l'importanza culturale dell'esperienza personale ad autorizzare la scrittura autobiografica, e la motivazione al racconto autobiografico sarebbe il cambiamento. Dunque la nuova parità di diritti nell'attività lavorativa e professionale, la fatica e tensione per la molteplicità di ruoli che vengono affidati alle donne, la ricerca difficile di relazioni di solidarietà, in luogo di quelle di dominio e subordinazione, sarebbero determinanti. Sovente nel testo della Radiconcini ritorna anche il motivo della differenza fra l’attività politica del periodo ’40-‘70, incentrata sui problemi e bisogni del Paese, e il periodo successivo che vede emergere soprattutto interessi privati. Ma su questo mutamento (che presenta peraltro qualche eccezione), come sul venir meno della vita interna dei partiti, il discorso mi sembra aperto e l’individuazione di cause e soluzioni appare ancora lontana.
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