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TEMPO PRESENTE

N. 413-415 maggio-luglio 2015

euro 7,50

* GIACOMO MATTEOTTI * ENRICO BERLINGUER * GUIDO CORTESE *

g. benvenuto a. casu l. compagna m. degl’innocenti e. f. m. emanuele p. fontanelli s. garofalo g. granati p. grasso g. la malfa a. patuelli a.g. sabatini f. tessitore a. tortorella a. vittoria Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


DIRETTORE RESPONSABILE

Angelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALE

Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Elio D’AuRIA - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Gaetano PECORA - Luciano PELLICANI Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI - Sergio VENDITTI CONSIGLIO DEI GARANTI

hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE

Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Paola BENIGNI - Matteo MONACO - Francesco Russo Marco SABATINI - Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE COORDINAMENTO GRAFICO ED EDITORIALE

Salvatore NASTI

PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel. 06/8078113 - fax 06/94379578 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)

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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura N. 413-415 maggio-luglio 2015

GIACOMO MATTEOTTI

SENATO DELLA REPUBBLICA, 10 GIUGNO 2015 SALA ZUCCARI, PALAZZO GIUSTINIANI PIETRO GRASSO, p. 3 ANGELO G. SABATINI, p. 4 GIORGIO BENVENUTO, p. 8 GIANNA GRANATI, p. 14 MAURIZIO DEGL’INNOCENTI, p. 17 CAMERA DEI DEPUTATI, 10 GIUGNO 2014 SALA DELLA REGINA EMMANUELE F. M. EMANUELE, p. 21 TEATRO TALIA DI TAGLIACOZZO, 13 DICEMBRE 2014 Convegno “Perché ricordare Matteotti” ANTONIO CASU, Matteotti in Parlamento, p. 23 SARA GAROFALO, Matteotti. Dal martirio al mito, p. 26

ENRICO BERLINGUER

CAMERA DEI DEPUTATI, 23 LUGLIO 2014 SALA ALDO MORO ALDO TORTORELLA, p. 31 ALBERTINA VITTORIA, p. 34

GUIDO CORTESE

CAMERA DEI DEPUTATI, 14 MAGGIO 2015 SALA DEL REFETTORIO DELLA BIBLIOTECA PAOLO FONTANELLI, p. 38 ANTONIO PATUELLI, p. 39 LUIGI COMPAGNA, p. 42 GIORGIO LA MALFA, p. 44 FULVIO TESSITORE, p. 46


AL LETTORE

Vasto è l’elenco dei personaggi che hanno fatto nascere e crescere una Italia democratica meritando un posto nel Pantheon ideale che racchiude la memoria del Novecento. Nel clima incerto e fragile di un consenso molto critico nei confronti di confusi gestori della rappresentanza politica la memoria storica recita il suo ruolo riportando all’attenzione del presente coloro che, al di là dell’azione di contrasto che li ha messi spesso a duro confronto nel passato, ci forniscono l’immagine di un tempo in cui la prassi dell’agire politico si nutriva di una istanza etica che consentiva al potere di operare ricevendo la fiducia del cittadino elettore e nutrendo la classe politica di principi guida nella realizzazione di una società fonte di benessere e di rispetto dei diritti fondamentali del vivere sociale. Il 2015, ricorrendo molte occasioni di rimembranza, ha reso possibile indirizzare il ricordo alla vita e all’opera di alcuni personaggi che con il “ben operare” hanno meritato l’onore di un posto nella memoria del nostro tempo. Un anno ricco di stimolo a rintracciare orme di viaggiatori che nel percorso infido di una mappa politica sbiadita dalla crisi possono ancora fungere da stimolo a correggere i percorsi sbagliati e i programmi infruttuosi. Un messaggio che alcune istituzioni pubbliche e centri culturali, guidati da progetti di ricerca funzionali al superamento della crisi, hanno accolto favorendo la memoria del riformista Giacomo Matteotti nella scia del superato 90° della morte, del compagno Enrico Berlinguer in occasione del 30° anno della morte e del liberale Guido Cortese in occasione della presentazione dei Discorsi parlamentari. Gli interventi che Tempo Presente pubblica sono quelli di alcuni estimatori che a titolo diverso hanno dato un contributo di riflessione sulla vita e l’opera dei tre personaggi.


GIACOMO MATTEOTTI

Il 10 giugno 2015 presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani del Senato della Repubblica è stato ricordata la figura di Giacomo Matteotti con la partecipazione del Presidente del Senato Pietro Grasso. Sono intervenuti Angelo G. Sabatini, Presidente della Fondazione Giascomo Matteotti, Giorgio Benvenuto, Presidente della Fondazione Bruno Buozzi, Gianna Granati della Fondazione Pietro Nenni e Maurizio Degl’Innocenti, Presidente della Fondazione di Studi Storici Filippo Turati.

Pietro Grasso

Autorità, gentili ospiti, è un piacere aprire i lavori di questo Convegno nella splendida cornice della Sala Zuccari. Desidero innanzitutto salutare affettuosamente gli organizzatori della giornata di oggi e confermare la gratitudine del Senato della Repubblica per il prezioso lavoro che compiono nel tenere vivo l'interesse per la nostra storia e per alcuni dei suoi più grandi protagonisti. Ricorre oggi il 9lesimo anniversario dall'uccisione, per mano fascista, di Giacomo Matteotti; è lecito domandarsi, oltre le giuste celebrazioni che a lui dedichiamo, quali lezioni, a distanza di così tanti anni, possiamo ancora trarre dall'approfondimento degli aspetti più rilevanti della sua vita e del suo pensiero. La risposta è nei valori che rappresenta: competenza, tensione ideale, amore per la politica, impegno istituzionale, esigenza insopprimibile di impedire il consolidamento del fascismo. Quel che più mi affascina della figura di

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Matteotti è il suo rigore morale per il quale non ammise mai compromessi di alcun genere. Coraggiosamente e assolutamente consapevole dei rischi ai quali si sarebbe esposto, accusò a più riprese Mussolini, mettendo in luce le intimidazioni, le collusioni, gli abusi e la violenza squadrista del fascismo. Nella seduta del 30 maggio 1924 pronunciò, in una Camera dei Deputati percorsa da una fortissima tensione, il suo più duro e frontale atto di denuncia dei brogli elettorali delle elezioni politiche dell' aprile precedente. Le sue parole non rappresentarono solo un atto di sfida alla maggioranza fascista ma anche una lucida analisi dei pericoli che il Paese stava correndo: in un tempo rapidissimo, e proprio con l'omicidio Matteotti, si sarebbe infatti realizzata, con tutte le sue tragiche conseguenze, una drammatica accelerazione del disegno autoritario del Duce. Le sue parole e il vigore con le quali le pronunciò hanno mantenuto intatto il loro portato ideale, restituendoci il pro-


Angelo G. Sabatini

fondo senso delle Istituzioni e l'amore per la libertà di cui Matteotti fu testimone in uno dei momenti più difficili del nostro passato. E' per questo che, come ho avuto modo di dire un anno fa nella solennità dell'Aula del Senato, Giacomo Matteotti rimane un punto di riferimento della nostra storia, una luce che dal passato continua a illuminare il nostro presente e, per più ragioni, ad orientare il nostro futuro, una figura che può parlare a tutti e che per tutti, oggi, può rappresentare un messaggio di speranza e di progresso. La sua vita e la sua morte costituiscono ancora una lezione di intransigenza e di onestà, insieme a quella dei molti altri che nel momento più buio sacrificarono tutto per la libertà. Sono certo che con l'aiuto degli autorevoli ospiti, che ringrazio per la loro presenza, potremo far tesoro della straordinaria eredità morale, politica e intellettuale di Matteotti in un momento nel quale abbiamo più che mai bisogno di ripartire dalle nostre migliori esperienze per affrontare le difficile sfide che si pongono davanti a noi. Auguro a tutti voi buon lavoro.

Angelo G. Sabatini

Ci troviamo, oggi, dopo 91 anni, a rendere il nostro omaggio alla figura di Giacomo Matteotti rapito e poi ucciso, il 10 giugno del 1924. Il nostro ricordo si unisce a quello di quanti si riportano con la memoria a 91 anni fa, quando i nemici della democrazia e del socialismo lo eliminarono dalla scena politica Noi lo vogliamo ricordare traendolo fuori da ogni disputa ideologica che finirebbe col mummificarlo nel sarcofago di un passato esangue degno di venerazione da parte solo dei credenti di una fede politica arroccata a tempi superati, difficili da rivitalizzare. Se lo sguardo rivolto al passato ci costringe a restituire a Matteotti la sua appartenenza ad un movimento politico che in nome di un riformismo realistico

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doveva contrastare, con fermezza, fierezza e asprezza un massimalismo ai suoi occhi improduttivo, guardando al presente e al futuro, un presente politicamente sconnesso e un futuro dal destino incerto, l’omaggio migliore che possiamo rivolgere alla vittima sacrificale per il socialismo e per la democrazia è tirarlo fuori dalle dispute ideologiche e dai vecchi rancori che hanno segnato la storia del socialismo italiano. L’insegnamento che ci viene dal ricordo della sua vita e dai suoi ideali è patrimonio che appartiene ormai a tutti, perché tutti oggi hanno bisogno di guardare a lui come ad un esempio di alta dedizione alla costruzione di una società giusta ed equa. I fatti sono ormai noti, anche se gli storici lavorano a chiarire qualche elemento per definire con certezza la responsabilità del delitto. La bibliografia su questo illustre personaggio della democrazia è ormai sterminata. Il problema è importante e speriamo che si giunga ad una verità definitiva. C’è chi invece mira a presentarci una ricostruzione dell’intero arco della vita di Matteotti, dagli austeri studi giuridici alla politica attiva nella sua terra segnata dalla povertà contadina, nella partecipazione costante alla vita amministrativa di alcuni comuni, fino alla vita parlamentare e alla tragica morte. Ma noi oggi, giorno di commemorazione, non siamo chiamati a ripercorrere le vicende della luminosa vita di Matteotti: dobbiamo invece ricordare cosa ha significato il delitto che ha come itinerario il lungotevere Arnaldo da Brescia a Roma e Riano Flaminio e come arco di tempo il 10 giugno del 1924, giorno del rapimento, e il 14 agosto giorno di ritrovamento del cadavere. Cominciando dalla reazione popolare, che ha finito col ridurre Matteotti a un mito, cercando il significato oggi della lezione matteottiana. E’ noto che il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti, deputato del Partito Socialista, sta camminando sul Lungotevere


Giacomo Matteotti

quando viene aggredito da un gruppo di uomini, che dopo una colluttazione riescono a caricarlo su una macchina. Da questo momento in poi Matteotti sparisce. Il suo cadavere verrà ritrovato solo due mesi dopo, in avanzato stato di decomposizione, a 25 chilometri dalla Capitale. Considerando che il deputato socialista aveva ripetutamente contestato il Partito fascista e aveva denunciato gli abusi commessi dagli esponenti del Partito stesso alle elezioni dell’aprile del 1924, appare evidente che si tratta di un omicidio politico. Dopo il delitto si pone il problema delle responsabilità: chi è stato ad uccidere Matteotti? Gli esecutori materiali vengono individuati in Albino Volpi, Amerigo Dumini, Amleto Poveromo, Augusto Malacria e Giuseppe Viola. Si tratta di uomini della Ceka fascista, la polizia segreta del regime. Nel procedimento giudiziario aperto nei loro confronti a due anni dal delitto, i primi tre vengono condannati alla pena, che può quasi essere definita simbolica, di 5 anni e 11 mesi di reclusione, mentre gli altri due vengono assolti. Ma il processo non risolve la questione del mandante. Dall’opposizione partono accuse contro Benito Mussolini e anche parte dell’opinione pubblica è convinta della responsabilità del Duce nella vicenda. Mussolini in un primo momento nega, ma poi fa dietrofront e rivendica la responsabilità morale dell’omicidio nel discorso del 3 gennaio 1925, che viene da più parti considerato come il punto di inizio del fascismo. La notizia del delitto favorì la nascita di un mito. Oggi dobbiamo restituire alla figura di Matteotti il valore di mito che egli ebbe nel momento della sua morte, riconducendolo al valore che esso può avere in questo momento critico per la vita politica del nostro Paese. La nostra memoria può tornare a quel giugno del 1924 per cogliere il grado di sconforto in cui gli spiriti democratici

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italiani e europei si trovarono a vivere, ma anche il valore simbolico che quella morte generò nell’immaginario collettivo. Nella collana che raccoglie le Opere di Giacomo Matteotti, curata da Stefano Caretti presso l'editore Nistri-Lischi di Pisa, un volume è dedicato al «mito» Matteottl. Sono trecento pagine di testimonianze, documenti, lettere, articoli che mostrano con quanta forza, dal giorno del suo rapimento il parlamentare polesano sia entrato nei cuore popolare. In tutta Europa, non solo in Italia. È uno dei nomi che ricorre con maggior frequenza nella toponomastica del nostro Paese, ma vie, busti, bassorilievi gli sono stati dedicati anche all'estero, in Francia, Belgio, Svizzera, America Latina, in Austria, dove gli fu intitolato un intero quartiere di abitazioni popolari di Vienna, il Matteotti-hof. La sua memoria è entrata nella migliore letteratura europea: è ricordato nelle opere di Miguel de Unamuno, Stefan Zweig, George Orwell, Ivo Andric, Marguerite Yourcenar, Leonardo Sciascia. È una delle grandi figure dell'immaginario novecentesco, simbolo dovunque di libertà, di resistenza alle dittature, di coraggio intrepido spinto fino al totale sacrificio di sé. Durante il fascismo, quando il suo nome poteva costar caro anche soltanto a pronunciarlo, fotografie, immagini, ricordi e frasi di Matteotti venivano conservati gelosamente e nascostamente, celati nei portafogli, rinchiusi negli armadi, appesi ai muri di casa più riparati e inaccessibili. La trasfigurazione del personaggio fu immediata. Sandro Pertini, in una lettera scritta pochi giorni dopo la scomparsa, quando non era ancora sicuro che fosse stato assassinato, lo chiama già «il grande Martire». Il personaggio subì una specie di santificazione laica, avviata dall'ispirata commemorazione che ne fece Filippo Turati il 27 giugno, due settimane dopo la sparizione, in una sala di Montecitorio davanti alle opposizioni riunite. Con straordinaria padronanza della parola e


Angelo G. Sabatini

accorto dosaggio dei sentimenti, Turati sublimò la morte dell'amico e del compagno alzandola fino al livello di un lavacro battesimale. «Noi non commemoriamo. Noi siamo qui convenuti ad un rito, ad un rito religioso, che è il rito stesso della Patria. Il fratello, quegli che io non ho il bisogno di nominare, perché il Suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore, al di qua e al di là dell'Alpe e dei mari, non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui presente, e pugnante. Egli è un accusatore. Egli è un giudicatore. Egli è un vindice». E continuò: «Invano gli avranno tagliuzzato le membra... Le membra si sono ricomposte. Il miracolo di Galilei si è rinnovato [...] L'avello ci ha reso la salma. Il morto si leva. E parla». Proprio a commento di quell'orazione funebre, pronunciata quando ancora il cadavere non era stato ritrovato, il sacerdote ex modernista Ernesto Buonaiuti, uno dei maggiori intellettuali del tempo, da poco colpito da scomunica per le sue opinioni teologiche giudicate pericolose dal Vaticano, scrisse un articolo sul Mondo, il giornale di Giovanni Amendola, nel quale andava oltre le parole di Turati e paragonava la morte di Matteotti al sacrificio di Cristo: «L'orazione è stata squisitamente religiosa: tutta soffusa di un meraviglioso alito cristiano». E aggiunse che l'oratore era «stato il ministro inconsapevole di una cerimonia battesimale», perché «ogni stilla di sangue versato per la tutela di una causa santa» acquista «una taumaturgica virtù di proselitismo e una prodigiosa capacità di riscatto». Il giornale postillò l'articolo

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di Buonaiuti scrivendo che «in quest'ora solenne della vita nazionale» esso documentava «la profonda significazione e la trasfigurazione ideale che nelle anime più fervidamente cristiane assume il sacrificio di Matteotti a simbolo della nuova redenzione civile». Sappiamo che in quei giorni roventi dell'estate del 1924 l'imponente ondata di indignazione e di cordoglio suscitata dalla scomparsa di Matteotti - un evento che secondo Luigi Sturzo «commosse tutto il mondo civile» - fece vacillare il regime fino al limite del collasso. Da vivo era una voce che si poteva zittire. Da morto divenne un'ombra inafferrabile e paurosa, un testimone che con il suo silenzio parlava più forte di quanto avrebbe potuto fare con le parole. Passato il momento di commozione e superata la crisi, divenne un simbolo, disprezzato dagli uni, sacralizzato dagli altri. Per tutto il ventennio Matteotti continuò a vivere tanto per i fascisti, che cercarono in tutti i modi di cancellarne il ricordo, obbligando addirittura i familiari a tenere per alcuni anni la salma nascosta, quanto per gli antifascisti, che ne coltivarono la memoria con religiosa attenzione. Il suo mito crebbe e si fissò attorno a questi sentimenti contrapposti, che rendevano impossibile storicizzarne la figura e l'operato. Piero Calamandrei intervenne alla Costituente e ricordando «il popolo dei morti» il cui sacrificio illuminava l'opera di chi si apprestava a varare la nuova Italia democratica, il primo nome che ricordò fu quello di Giacomo Matteotti. Dopo il fascismo il suo nome divenne una bandiera, uno stendardo glorioso da


Giacomo Matteotti

alzare in tutti i momenti solenni e davanti al quale era doveroso inchinarsi. Oggi lo riconosciamo come protagonista di un momento fondamentale della vita civile del nostro Paese. Quel primo ventennio del Novecento che vide la crescita tumultuosa della democrazia e della partecipazione popolare e poi, nel periodo drammatico che precedette e seguì la Prima guerra mondiale, la crisi e il crollo delle istituzioni liberali. Uomo del postrisorgimento, estraneo alle mitologie dell'unificazione, Matteotti appartiene alla generazione dei Prezzolini, dei Papini, di coloro cui importava il futuro, non il passato. Scontenti, ribelli, inquieti. Aveva la stoffa e la preparazione dell'intellettuale, con solidi studi di diritto e di economia. Ma in lui era più forte la sensibilità del politico, dell'uomo d'azione. Vìveva in una provincia povera, depressa, dove i contrasti fra miseria e ricchezza erano sfrontati e i rapporti sociali dominati dall'ingiustizia e dalla prepotenza. Allora il socialismo era sinonimo di lotta di classe, di rivoluzione. E Matteotti fu un rivoluzionario. Contro i suoi interessi e contro la sua classe d'appartenenza, che non glielo perdonerà più. E' bene rammentare a noi stessi, e principalmente alle giovani generazioni, che è stato grazie all'adesione totale, spinta fino alla morte, ai principi di libertà, di giustizia, di uguaglianza, di tolleranza di uomini come Giacomo Matteotti che la nostra Repubblica ha visto la luce dopo il ventennio fascista. Il 1924 era l’anno in cui la logica della dittatura nascente, attraverso lo squadrismo, spingeva i nuovi barbari a compiere sull'altare della forza e della violenza il rito sacrificale di un nemico, il deputato Matteotti, considerato un ostacolo all’affermazione di un regime che allo strumento della ragione ha preferito quello della violenza. Per questa via, che è estranea allo spirito della civiltà moderna ma che è dura a morire nella prassi istitutiva delle

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dittature di ogni tempo, si compiva il destino di uno degli uomini più puri e rappresentativi della democrazia, in generale, e del socialismo riformista, in particolare. Il suo martirio, il cui significato per la storia politica italiana va oltre il mito di cui fu investito e oltre ogni ambito più strettamente ideologico, è posto al crocevia delle diverse strade da cui è stato attraversato un Paese, come l'Italia, proiettato alla realizzazione, in chiave moderna, del compito civile e politico che il Risorgimento aveva affidato alle nuove generazioni. Matteotti fu uomo coraggioso e determinato nel difende la democrazia dagli attacchi che le venivano dalla nascente dittatura fascista. Era perfettamente consapevole dell'alto rischio a cui si esponeva, tant'è che al collega Giovanni Cosattini che lo raggiunse per congratularsi dell'intervento fatto in Parlamento contro Mussolini disse: «Però voi adesso preparatevi a fare la mia commemorazione funebre». Matteotti capi, prima di ogni altro, che non si trattava solo di ripristinare la legalità e di restaurare l'ordine democratico. Era necessario evitare che il fascismo si impadronisse dello Stato. Lanciò l'allarme del pericolo fascista come fenomeno anche europeo, non solo italiano. Giuliano Vassalli ricordandolo nell' ottantesimo anniversario della morte di Matteotti indicò in lui «il giovane alfiere del socialismo italiano». La sua vita è una pagina straordinaria di grandi idealità che lo portarono ad essere il socialista riformista che fu capace di tradurre il pensiero nell' impegno quotidiano. Fu un riformista convinto, nemico dell'estremismo; affidava all'azione politica fermezza di idee ma anche apertura alla comprensione della realtà su cui operare per migliorarla e farla progredire. Esemplificativo in questo senso mi pare questo brano tratto da una relazione dell'aprile 1923: «Rivedere la propria dottrina, saggiarla e aggiornarla


Giorgio Benvenuto

al confronto dell'esperienza è cosa degna di un partito d'avvenire che vuole essere al tempo stesso un partito di realtà». In questo senso aveva una visione alta della politica e della missione di parlamentare. I suoi interventi in Aula e nelle Commissioni parlamentari non conoscono la retorica, ci mostrano piuttosto lo scrupolo con cui egli raccoglieva cifre, dati, statistiche, prove inconfutabili. Avverso alla politica dei compromessi praticata anche da molti suoi compagni, coerente avversario della guerra, riformista serio e coerente, uomo d'azione e un uomo di profonda cultura. Preciso, tagliente, coraggioso fino al punto di affermare: «uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai». Anche in questo era stato profetico. L'idea resiste, sopravvive e noi siamo chiamati a tenere vivo il suo insegnamento, al di là, come abbiamo detto, di ogni appartenenza politica, specialmente in quei momenti, come l'attuale, in cui la politica soffre di mancanza di ideali e di valori. Noi abbiamo il dovere di non disperdere quell'eredità di valori unificanti per i quali egli fu disposto all'estremo sacrificio. Tornare a ricordare la sua figura significa rivisitare ancora una volta il valore della politica, per coglierne, al di là del pessimo uso che spesso se ne fa, la freschezza ideale e il potere di organizzazione della difesa dei diritti umani. Perciò noi dobbiamo restituire alla sua figura di combattente non soltanto la dimensione storica che gli compete, facendo convergere il nostro sentimento di venerazione verso una puntuale ricostruzione del suo pensiero e delle sue azioni politiche, ma anche esaltare le sue virtù di autentico politico moderno perché sia di modello ai molti, e sono tanti, che siedono negli scranni del Parlamento lontani dal sentimento etico dell’azione politica. Filippo Turati, nel suo discorso pronunciato il 27 giugno del '24 in ricordo dell'amico assassinato, si rivolse all'Assemblea dei deputati di oppo-

sizione con una preghiera: «Vorrei che a questa riunione non si desse il nome logoro, consunto di "commemorazione". Noi non "commemoriamo"». E anche noi oggi non commemoriamo la morte di Matteotti, ma lo ricollochiamo nella nostra memoria per trarne insegnamento e stimolo a continuare a credere ad alcuni valori del riformismo per la cui affermazione fu costretto ad offrire la propria vita. L'invito di Turati sia nostro: un invito a non consegnare al ricordo - o solamente al ricordo - il sacrificio di un uomo che pagò con la morte il suo implacabile atto d'accusa contro la soppressione della libertà e della legalità democratica. Giorgio Benvenuto

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Giacomo Matteotti è un riformista. Vigile. Calcolatore. Accorto. Apparentemente duttile ma irremovibile sui principi. Paziente. Tenace. Giovane, giovanissimo si impegna nel PSI. Ha appena vent’anni. Viene assassinato a soli 39 anni. Non è un isolato. Ci sono in quegli anni molti altri giovani (Sandro Pertini, Giovanni Amendola, Antonio Gramsci, Piero Gobetti) che si sono battuti con coraggio e con determinazione contro il fascismo. Matteotti, politico di eccezione in tempi eccezionali, è un amministratore di grandi capacità e di grande valore. Svolge le funzioni di sindaco in molti comuni del Polesine, di consigliere provinciale, di parlamentare, di giornalista, di sindacalista. Appartiene ad una famiglia borghese e benestante. Si laurea a pieni voti. Scrive saggi e libri importanti. Si perfeziona in economia in Inghilterra. Ha dinanzi a sé la possibilità di una splendida carriera accademica. Non la coglie. Sente forte il richiamo del riscatto del mondo del lavoro. La miseria abissale dei contadini del Polesine lo spinge all’impegno civile e politico. E’ influenzato dall’opera di Nicola Badaloni. Rifugge dal socialismo massimalista, esibizionista e parolaio.


Giacomo Matteotti

Aspira a fare del proletariato misero e analfabeta una forza di cambiamento della società. Come Bruno Buozzi, come Giuseppe Di Vittorio, Giacomo Matteotti ritiene fondamentale un’estesa alfabetizzazione per formare entro il proletariato una classe dirigente in grado di avere credibilità perché capace di trasformare la protesta in proposta di governo. Gobetti scriveva al riguardo che l’attenzione era quella di formare tra i socialisti i nuclei della nuova società: il comune, la scuola, la cooperativa, la lega: “la vera rivoluzione è quella con la quale i lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica, non per un decreto o per conti-nue sommosse e ribellioni”. Matteotti sa, come Filippo Turati, che l’attuazione dei principi del socialismo richiede tempi lunghi che vanno scanditi con una paziente opera di costruzione di movimenti, opere e istituti, con le leghe di resistenza, con le cooperative di produzione e consumo, con l’associazionismo diffuso, con la conquista e la gestione dei comuni. Luciano Casali ha definito l’azione dei riformisti con l’ossimoro politico di “sovversivi e costruttori”. Matteotti, esperto conoscitore di Marx, aveva chiara la necessità di conciliare la lotta di classe con il rispetto delle regole dello stato borghese di diritto. Matteotti, come Prampolini, si oppone con intransigenza alla prima guerra mondiale (non ritiene sufficiente, anzi definisce ipocrita la linea dei socialisti del “né aderire, né sabotare”). Comprende che poi tutto cambierà. Moltiplica il suo impegno, la sua attività, il suo lavoro per affermare i valori del riformismo socialista.

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Le elezioni politiche del 1919, le prime con il proporzionale, rappresentano il momento più favorevole per i socialisti: ottengono 1.835.000 voti, pari al 32,3%; i deputati eletti sono 156; i popolari, presenti per la prima volta, ottengono 1.167.000 voti, pari al 20,6%, con 100 deputati; i gruppi democratico-liberali conservano solo 179 dei 310 seggi ottenuti nelle precedenti legislature. I fascisti non hanno presenze in Parlamento. Raccolgono appena 4.000 voti. L’affermazione del PSI è schiacciante al Nord con il 46,5%, e con risultati meno rilevanti nel Centro e nel Sud. Matteotti è un esordiente ed ha un successo straordinario. Nel collegio di Ferrara-Rovigo è eletto con 99.609 voti, secondo dopo Ademo Niccolai. Raccoglie i consensi più consistenti tra i lavoratori delle campagne. Pochi mesi dopo la stipula dell’ accordo sull’imponibile di manodopera nelle elezioni amministrative il PSI conquista tutti i 63 comuni del Polesine e manda in Consiglio provinciale a Rovigo 38 su 40 consiglieri. Invano Filippo Turati ammonisce: “Parlare di violenza continuamente e rinviarla sempre all’indomani è la cosa più assurda di questo mondo. Ciò non serve che ad armare, a suscitare, a giustificare anzi la violenza avversaria, mille volte più forte della nostra. Questo è un inganno mostruoso, una farsa, che per altro può tralignare in tragedia, preparando i tribunali di guerra, la reazione più feroce, la rovina del movimento per mezzo secolo, non solo sotto la compressione militarista, ma sotto l’ostilità di tutte le classi medie, quelle piccole classi, quei ceti intellettua-


Giorgio Benvenuto

li, quegli uomini liberi che si avvicinano a noi – colla minaccia della dittatura e del sangue – li gettiamo alla parte opposta, li regaliamo ai nostri avversari, privandoci di un presidio inestimabile di consensi, di cooperazioni, di forze morali che, in dati momenti, sarebbero decisive a nostro favore”. Lo scenario nel quale opera Giacomo Matteotti come sindacalista è il Polesine. Le grandi inondazioni del Po e dell’ Adige nella seconda metà dell’Ottocento hanno determinato delle grandi agitazioni agrarie in tutta la Valle Padana. L’epicentro delle lotte è Rovigo. Nel giugno del 1884 scioperi imponenti coinvolgono decine di migliaia di braccianti. Al grido di “La boje! De boto la va fora” (“bolle e subito esce fuori!”) i mietitori di Polesella si astengono dal lavoro per trenta giorni. I militari intervengono in sostituzione degli scioperanti, mentre ai carabinieri è affidata la repressione. Sono arrestati 168 “eccitatori”, poi prosciolti nel processo di Venezia. Il Resto del Carlino del 1° aprile 1885 sostiene che le agitazioni sono provocate non da facinorosi ma dalla fame. Gli arresti sottolinea il Resto del Carlino - eliminano gli individui ma non le cause della protesta. Vengono così predisposti, con imponenti investimenti statali, lavori di bonifica per arginare i fiumi e i canali, per infrastrutture stradali e di comunicazione. In quattro decenni vengono bonificati 72.000 ettari nella sola provincia di Rovigo. Ma la situazione dell’occupazione rimane drammatica: accanto ad un milione di contadini fissi, poco meno di un altro milione è invece occupato nelle bonifiche e nei lavori dei poderi. Anzi c’è una profonda differenza tra le bonifiche lombarde (la cerealicoltura si associa alle foraggere, all’allevamento e alla connessa trasformazione casearia) e le bonifiche della Padania centro orientale (la cerealicoltura è ancorata solo al binomio mais-frumento). Ecco

perché nel Polesine il lavoro dei braccianti, legato al ciclo stagionale delle piante, è solo avventizio con una tragica alternanza tra lavoro e disoccupazione. In particolare a Rovigo e a Ferrara le bonifiche stentano a ridurre la salinità che corrode la canapa e isterilisce i prati artificiali. I terreni bonificati sono eccessivamente umidi e non sostengono a sufficienza il peso degli animali e delle macchine. E’ in questo contesto che Giacomo Matteotti, diventato segretario della Camera del lavoro della CGL a Ferrara, predispone specifiche rivendicazioni per proseguire con le operazioni di bonifica, di manutenzione idraulica, di foraggere per realizzare una connessione tra la cerealicoltura e le trasformazioni industriali conseguenti. Matteotti si rende conto che nel cuore della Valle Padana, come ebbe a dire un grande politico ed economista agrario, Giuseppe Medici, la bonifica concentra un esercito di braccianti avventizi e giornalieri stimolandone le capacità di auto organizzazione sul piano politico e sindacale. Matteotti delinea una coraggiosa ed innovatrice strategia, indicando due obiettivi: l’ufficio di collocamento e l’imponibile di manodopera, entrambi gestiti dai sindacati dell’agricoltura. L’ufficio di collocamento viene recepito dal Parlamento legislativamente nel 1919, mentre l’imponibile di manodopera ha vicende alterne legate all’andamento dei rapporti di forza tra sindacato ed agrari. Particolarmente importante è il Patto Matteotti-Parini, cioè l’accordo tra la CGIL e la Federterra con l’Agraria (l’associazione del grande padronato) raggiunto a Roma il 18 marzo 1920 con la mediazione del Sottosegretario all’Interno onorevole Giuseppe Grassi. Gli aspetti più significativi sono la limitazione dell’orario di lavoro; un aumento sensibile delle paghe orarie; l’istituzione di una Commissione arbitrale atta a dirimere le controversie; l’utilizzo

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concordato delle macchine agricole. I punti essenziali dell’accordo sono invece l’istituzione dell’ufficio di collocamento da parte delle leghe contadine e la definizione dell’imponibilità di manodopera con l’assunzione di un lavoratore ogni cinque/sette ettari di terreno a seconda delle lavorazioni, delle dimensioni della proprietà, della stagionalità. Le resistenze all’attuazione dell’accordo saranno immense. Nel 1921-22, grazie alle violenze del fascismo, gli accordi vengono smantellati, così come avviene per le conquiste ottenute con gli accordi realizzati dopo l’occupazione delle fabbriche. “Nel Polesine, racconta Piero Gobetti, Giacomo Matteotti vide nascere il movimento fascista come schiavismo agrario, come medioevale crudeltà verso qualunque sforzo dei lavoratori volto a raggiungere la propria dignità e libertà. Matteotti sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere di intransigenza, di rigorismo. Si era così creata intorno a lui un’atmosfera di astio pauroso da parte degli agrari: mentre lo stimavano, capivano che lo avrebbero avuto nemico implacabile.” E’ particolarmente drammatico ciò che accade il 12 marzo 1921. Per evitare incidenti, in un contraddittorio tra lavoratori ed agrari Matteotti va nella sede dell’associazione padronale. Appena varcata la porta gli agrari lo minacciano e con le rivoltelle in mano vogliono che dichiari di lasciare il Polesine. Matteotti allora risponde: “Ho una dichiarazione sola da farvi: che non vi faccio dichiarazioni”. Viene sequestra-

to, bastonato, insultato, minacciato di morte, spinto a vive forza su di un camion che lo abbandona in una via isolata di campagna. Il 1919, il 1920 ed il 1921 vedono acuirsi il confronto nel PSI tra massimalisti e riformisti soprattutto in presenza di grandi lotte sociali. Il 15 gennaio del 1921 si apre a Livorno il XVII Congresso del PSI: le linee di divisione all’interno del partito sono nettamente e drammaticamente segnate. Alla votazione, su 172.000 voti 98.000 vanno ai massimalisti di Serrati, 59.000 ai massimalisti comu-nisti di Bordiga, 15.000 appena ai riformisti di Turati. Si consuma la scissione tra i due massimalismi con la costituzione del PCdI, il Partito Comunista d’Italia. Inizia così la “Caporetto” socialista, sotto la spinta potente dell’ offensiva sempre più violenta ed illegale del fascismo. Le elezioni del 1921 vedono il PSI attestarsi al 24,7%, con 1.631.000 voti; il PCdI raccoglie 300.000 voti, pari al 4,6%; vengono eletti 122 deputati socialisti e 15 deputati comunisti; i popolari arrivano a 107 seggi; entrano alla Camera dei deputati appena 32 parlamentari fascisti. Il 10 ottobre del 1921 si tiene a Milano il XVIII Congresso del PSI. E’un partito indebolito, dominato dalla contrapposizione al suo interno tra la transigenza e l’intransigenza. Incisivo, in questa occasione, il discorso di Giacomo Matteotti, che sottolinea il dramma del suo Polesine, ove il terrore fascista sta dilagando, mettendo a repentaglio l’esistenza delle organizzazioni sindacali e politiche di sinistra. “Era indispensabile – dice

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Matteotti – uscire al più presto dall’ equivoco inerte del massimalismo e concentrare le proprie energie sul problema vitale di come fronteggiare il fascismo senza precludersi l’uso di tutti i mezzi disponibili, da quelli legalitari e parlamentari sino a quelli volti a rispondere con la violenza alla violenza e alla illegalità”. Ma non accade nulla di nuovo, anzi il declino e la paralisi dei socialisti aumentano. Il XIX Congresso del PSI si apre a Roma il 1° ottobre del 1922, a pochi giorni dalla marcia su Roma. I massimalisti di Serrati prevalgono per pochi voti sui riformisti, 32.000 voti contro 29.000. Si consuma così una nuova scissione, ed il 4 ottobre si costituisce il PSU, il Partito Socialista Unitario, con Segretario Giacomo Matteotti. Al nuovo partito aderiscono 63 deputati su 122; dei restanti 59 molti rimangono incerti e solo una trentina aderiscono al PSI. Entrano nel PSU tra gli altri Filippo Turati, Claudio Treves, Bruno Buozzi, Argentina Altobelli, Giuseppe Modigliani, Camillo Prampolini, Emilio Caldara. La scissione del PSI non è accompagnata da asprezze polemiche. Massimo Serrati replicando al commosso commiato di Filippo Turati dice: “Ognuno al proprio lavoro: voi alla collaborazione, noi nella nostra critica assidua. Tutti per il proletariato, tutti per la rivoluzione socialista”. Matteotti inizia infaticabilmente a documentare e a denunciare le violenze ed i soprusi di cui è vittima la democrazia. L’avvento di Mussolini rafforza in lui la consapevolezza di una antitesi insanabile – di carattere morale prima ancora che politico – tra socialismo e fascismo, quella visione politica, insomma, che Arfè ha ben definito come “etica dell’antifascismo”. La rigorosa ed intransigente opposizione al fascismo è per Matteotti l’unico mezzo per valorizzare l’autonomia politica ed il carattere riformista del socialismo, evitando così il rischio di

essere assimilati alla democrazia borghese come era capitato a Bissolati. Il PSU, in definitiva, diviene così il vero ed autentico continuatore della tradizione socialista, riempiendo lo spazio abbandonato dai massimalisti e dai comunisti, per proporsi come il fulcro di una coalizione democratica e riformista aperta a tutte le forze progressiste. Sono interessanti le battaglie fatte da Matteotti nel 1923 per la riscossa socialista e per fronteggiare le insidie della nuova legge elettorale maggioritaria voluta da Mussolini per consolidare il proprio potere alla testa di un nuovo blocco sociale. In un convegno del PSU nel mezzogiorno, nell’ottobre del 1923, Matteotti incentra la sua relazione sull’antitesi tra i socialisti ed il governo fascista: “da esso non era possibile attendersi nulla se non al prezzo di una rinuncia impossibile alla democrazia: la libertà va riconquistata con uno sforzo autonomo dei lavoratori e in particolare dei socialisti unitari, ai quali spetta un compito preciso: quello di resistere nettamente all’opposizione”. L’11 e il 12 novembre 1923, a Milano, Matteotti afferma che “il problema è quello di staccare dalle classi capitalistiche e plutocratiche quegli elementi che si son dati al fascismo soltanto per paura dei nostri veri o immaginari eccessi, ma i cui interessi sono in antitesi con quelli del fascismo. Il PSU deve fare appello a tutti i lavoratori che credono nella democrazia come condizione irrinunciabile dell’azione socialista. Qualcuno dubita che vi sia un interesse diverso dall’organizzazione economica. La verità è che in una dittatura non esiste più né il comune, né la cooperativa, né l’organizzazione sindacale e che ciò viene elargito dall’alto può essere ritolto in ogni momento”. Nonostante gli appelli e gli sforzi unitari di Matteotti i tre partiti della sinistra – PSU, PSI, PCdI, vanno alle elezioni del 1924 in ordine sparso e senza alcun collegamento organico con le altre opposizioni.

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Giacomo Matteotti

I risultati elettorali del 6 aprile 1924 risentono fortemente delle violenze, delle intimidazioni, delle irregolarità, dei brogli più o meno palesi. Su 7.600.000 votanti, il Fascio Littorio ottiene 4.300.000 voti; altri 350.000 vanno ad un’altra lista fascista: in tutto Mussolini ottiene il 66,9% dei voti e 375 deputati. Tra i partiti dell’opposizione i popolari ottengono 637.000 voti con 39 deputati; il PSU 415.000 voti con 24 eletti; il PSI 342.000 voti con 22 deputati; il PCdI 268.000 con 19 eletti. Giacomo Matteotti nella seduta inaugurale della nuova legislatura alla Camera reagisce con forza, con coraggio: parla tra clamori, contumelie, minacce ed interruzioni. Il suo discorso è una requisitoria intransigente che documenta le violenze, i brogli, le corruzioni che avevano caratterizzato la campagna elettorale: è una contestazione appassionata e ferma della validità delle stesse elezioni. Straordinario è il saggio di Giacomo Matteotti sui guasti di un anno di governo fascista. Viene svolta una analisi documentata sulla situazione economica e finanziaria del Paese: è indicato con dovizia di dati come sono peggiorati i conti pubblici; in particolare per quanto si riferisce alla bilancia commerciale, alla situazione di bilancio e di cassa (vengono analizzati i dati sul debito pubblico, sul disavanzo, sulle entrate tributarie, sulle imposte locali). Vengono forniti dati sulla circolazione bancaria, sui depositi, sull’andamento dei prezzi, sulla evoluzione dei profitti e dei salari, sull’andamento dell’occupazione, della emigrazione e sulla conflittualità. E’ un affresco importante della geografia economica e sociale italiana all’indomani della prima guerra mondiale; è indicata ed è sottolineata con lucidità e con l’attento messaggio delle cifre, l’iniquità sociale dei provvedimenti economici del fascismo, tutti tesi a privilegiare i settori forti dell’economia. Dati che confermano la profonda ingiustizia sociale, ma anche la

grande incompetenza del fascismo che avrebbe poi portato l’Italia nello sperpero delle avventure coloniali e nel dramma della seconda guerra mondiale. Ma ancora più interessante è la valutazione precisa e puntuale degli atti del governo fascista: il ricorso alla decretazione d’urgenza largamente usato ed abusato da Mussolini è evidenziato dal fatto che i decreti legge sono addirittura 517 in 12 mesi, e di questi addirittura 500 registrati con riserva dalla Corte dei Conti. Degno di attenzione è anche l’elenco documentato sullo scioglimento degli organi rappresentativi nelle autonomie locali e sull’utilizzo della propaganda. Il dossier economico e politico presentato da Giacomo Matteotti alla Camera è completato dalla pubblicazione delle “parole dei capi” e le cronache dei fatti che documentano come capillarmente la violenza e l’intimidazione fascista, con il bavaglio alla stampa, hanno spento la democrazia creando le premesse per la dittatura nel nostro Paese. L’opuscolo è tradotto in inglese e diffuso in tutta Europa. Quando si svolgerà il processo farsa di Chieti agli assassini di Matteotti, il loro avvocato difensore, Roberto Farinacci, lo porterà a testimonianza della “denigrazione” che il deputato socialista aveva svolto ai danni dell’Italia. Otterrà addirittura le attenuanti per gli assassini perché avevano voluto difendere l’onore della patria macchiato dalle denunce di Matteotti. Matteotti non cadde mai nella trappola della pacificazione. Ostacolò l’ala collaborazionista nel PSU e nella CGL; impedì, dopo la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, che nel Governo di Mussolini entrassero con incarichi ministeriali esponenti socialisti, per partecipare, come invece imprudentemente fecero i popolari, al processo di normalizzazione con la legalizzazione dello squadrismo fascista. Matteotti ricerca l’unità; rifiuta l’ipocrisia di coloro che si nascondono dietro il pretesto formale che tutti i

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Gianna Granati

governi sono uguali: “il nemico - dice – è uno solo: il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura dell’altro”. Gramsci in modo avventato, ingeneroso e ideologico scrisse: “Pellegrino del nulla appare a noi Giacomo Matteotti quando consideriamo la sua vita … Partiva da un desiderio generoso di redenzione totale, e si esauriva miseramente nel nulla di un’azione senza vie di uscita, di una politica senza prospettiva … Solo per i militanti comunisti la classe operaia cesserà di essere pellegrina del nulla … Solo per essi la classe operaia diventa libera e padrona dei propri destini”. Giacomo Matteotti non era un “Pellegrino del nulla”, né un perdente. Si batteva per far cadere il Governo Mussolini mettendo in crisi la sua maggioranza, denunciando il dilagare nel paese della violenza che contraddiceva clamorosamente l’impegno a realizzare la pacificazione e a ripristinare la legalità e l’ordine. Il tentativo di Matteotti era disperato. Ne era consapevole lui stesso. Ma non si rassegnava. Poteva essere sconfitto, ma non si sarebbe mai rassegnato ad essere un vinto. Gobetti era d’accordo con un lavoratore ferrarese che in una lettera diceva che Giacomo Matteotti era un uomo capace di affrontare la morte volontariamente se questo gli fosse sembrato il mezzo adatto per ridare al proletariato la libertà perduta. Così si esprime Gobetti: “non si può immaginare una comunicazione più spontanea e più generosa. Come se i lavoratori abbiano sentito in lui la parola d’ordine. Perché la generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta”. Carlo Rosselli così ricordava Giacomo Matteotti dieci anni dopo il suo

assassinio: “Matteotti è diventato il simbolo dell’antifascismo e dell’eroismo antifascista ... Eppure nessun uomo fu meno simbolo, meno eroe, nel senso usuale dell’espressione. Gli mancavano per questo le doti di popolarità, di oratoria, di facilità che creano nel popolo il feticcio … Matteotti possedeva però in grado eminente una qualità rara tra gli italiani e rarissima tra i parlamentari. Era tutto d’un pezzo. Alle sue idee ci credeva con ostinazione e con ostinazione le applicava”. Il fascismo prima con l’accordo di Palazzo Chigi nel 1923 e poi dopo l’assassinio di Matteotti, con l’accordo di palazzo Vidoni, mette in disparte il sindacato e i lavoratori. La lunga notte del fascismo finisce con una lenta agonia tra il 1943 e il 1945. Si ricomincerà dai lavoratori con la Resistenza e con la ricostituzione della CGIL unitaria. Giacomo Matteotti e gli altri martiri del fascismo riemergeranno vindici e costruttori della Repubblica fondata sul lavoro.

Gianna Granati

Anche quest'anno ci troviamo riuniti per ricordare un grande italiano, un uomo straordinario che ha sacrificato la sua vita per i valori in cui credeva: la libertà, la democrazia, la giustizia sociale: Giacomo Matteotti, a cui va il nostro reverente pensiero. Ma io, più che del martire, voglio parlare del militante. La morte tragica ha messo in ombra la sua vita breve ma intensa, ricca di grandi idealità tradotte nell'impegno quotidiano. Tratta dall'ombra, la sua vita, contrassegnata da tante scelte contro, dà maggiore luce al suo sacrificio. La prima scelta “contro” è quella di aderire al socialismo. Giacomo Matteotti nasce in una famiglia ricca. La ricchezza gli verrà spesso rinfacciata dagli avversari politici, ma anche da compagni di partito, come

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Giacomo Matteotti

ad esempio Gino Piva che lo accusava di essere un “socialista milionario”. Studia, si laurea brillantemente. Ha davanti a sé la professione forense e la carriera universitaria. Come ho detto, ha mezzi che gli consentono una vita tranquilla. Potrebbe essere un padrone “buono”, “pietoso” per i suoi contadini non sfruttandoli fino allo sfinimento. Ma fa un'altra scelta “contro”: contro la sua classe sociale, che lo accuserà di tradimento, e a favore di una plebe affamata e stracciona. Le con-dizioni di vita nel Polesine all'inizio del '900 erano tragiche, la miseria, la fame, le malattie, la pellagra in particolare, la mortalità infantile, le abitazioni malsane erano proverbiali. Nel 1907 a 22 anni Matteotti è eletto per la prima volta al consiglio comunale di Fratta Polesine e, come diceva sorridendo, “grazie a qualche baiocco sparso in alcuni paesi” è amministratore in parecchi comuni polesani. Fu un amministratore severissimo, incubo dei sindaci per la diligenza e le critiche inesorabili. Ma era anche consapevole delle difficoltà economiche incontrate dai comuni, arrivando ad offrire “prestiti graziosi” da restituire in varie annualità, senza interessi. Oltre che per il buongoverno comunale si impegnò fortemente per l'istruzione. Vedeva nella scuola uno strumento insostituibile di elevazione e di redenzione dei lavoratori e alla istituzione di scuole si dedicò non solo come amministratore ma anche offrendosi di finanziare scuole serali per i lavoratori. All'istruzione dedica tanta attenzione anche perché la legge elettorale del 1912 prevede che possano esercitare il diritto di voto giovani anche

non possessori di reddito purchè in possesso della licenza elementare. L'istruzione è perciò per Matteotti non soltanto un mezzo di elevazione ma lo strumento principale attraverso il quale la “plebe” prende coscienza: lo strumento per conoscere e difendere i propri diritti e diventare classe dirigente. Ed ecco di conseguenza la creazione di organismi dei lavoratori: leghe, cooperative, per poter ottenere dai padroni migliori condizioni di vita e di lavoro. E' “contro” l'entrata in guerra dell'Italia nel maggio 1915: non si lascia abbagliare dalle “radiose giornate di maggio” ed è “contro” la formula pilatesca adottata dal Partito socialista “nè aderire né sabotare”, perché convinto, come il papa Benedetto XV, che la guerra è una inutile strage. E' “contro” addirittura il suo maestro Filippo Turati con il quale polemizza sulle colonne di “Critica Sociale” e non esita, lui riformista, a propugnare anche il ricorso all'insurrezione per fermare la guerra. Voglio ricordare che la sua posizione trovò un forte seguito soprattutto tra le donne, sensibili alla propaganda antimilitarista e che inscenarono manifestazioni nelle quali minacciavano di “fare la rivoluzione”. L'antimilitarismo gli guadagnò l'internamento in un campo di punizione in Sicilia. Durante il periodo militare di forzata inattività politica non dimentica il suo impegno per l'istruzione. Riesce ad organizzare una scuola per i suoi commilitoni analfabeti e ne scrive alla moglie Velia: “Oggi finalmente la scuola ha avuto il definitivo consenso ... Ho messo insieme delle tavole e domenica comprerò io penne, carta, ecc.”. Alla fine della guerra è di nuovo

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Gianna Granati

totalmente assorbito dalla vita politica. Nel 1919 è eletto nel collegio FerraraRovigo, nel 1921 nel collegio PadovaRovigo. Nel 1924 è eletto sia nel Veneto che nel Lazio, ottenendo in tutte e tre le tornate elettorali un grande successo. Nel 1922 è segretario del PSU (Partito socialista unitario) nato dalla scissione del PSI al congresso di Roma di quell'anno. Oddino Morgari, deputato socialista, lo ricorda al lavoro nella sede del partito “un immondo bugigattolo di Piazza di Spagna, una ex casa da the, dove la direzione del partito aveva dovuto rifugiarsi, avendole tutti i padroni di casa chiuse le porte per timore di un'invasione delle camicie nere”. Se non lavora al partito è al lavoro in biblioteca a Montecitorio: i temi sui quali interviene sono la scuola, le amministrazioni locali e soprattutto la democrazia minacciata, le conquiste dei lavoratori e la difesa degli organismi dei lavoratori, colpiti dalle violenze fasciste, violenze che denuncia ripetutamente in Parlamento. La sua attività parlamentare non è senza conseguenze: Matteotti fu ripetutamente minacciato e aggredito dai fascisti e dagli agrari che non gli hanno perdonato il suo tradimento di classe. L'aggressione più grave, quasi premonitrice, avviene a Castelguglielmo nel marzo del 1921. Fu malmenato, issato su camion, portato in aperta campagna e gli fu intimato di non rimettere piede in Polesine. Il 3 maggio 1923 Il Popolo d'Italia scriveva: “... Quanto al Matteotti – volgare mistificatore, notissimo vigliacco e spregevolissimo ruffiano – sarà bene che egli si guardi, che se dovesse capitargli di trovarsi un giorno o l'altro con la testa rotta (ma proprio rotta) ... non sarà certo in diritto di dolersi dopo tanta ignobiltà scritta e sottoscritta”. E' stato riconosciuto che Matteotti aveva capito lucidamente, più di chiunque altro, la vera natura autoritaria e totalitaria del fascismo. E' quindi intransigente nella critica ma anche nel

contrastare la politica del regime, come si vede nella cura che pose nel seguire la campagna elettorale del 1924, chiedendo anche ad osservatori stranieri, laburisti inglesi per la precisione, di monitorare le elezioni italiane. Vi è nell'Archivio centrale dello Stato un telegramma a firma di Mussolini che definendo le elezioni “fasciste” ordina che gli osservatori siano respinti alla frontiera. E' consapevole Matteotti che Mussolini vuole tutto il potere e che per ottenerlo non avrebbe badato a mezzi. Le elezioni si svolsero in un clima di violenza, di intimidazioni e furono inficiate da brogli. Il 30 maggio 1924 Matteotti intervenne alla Camera dei deputati in una tumultuosa seduta chiedendo l'annullamento delle elezioni. La convalida dei risultati non era iscritta all'ordine del giorno della seduta. Ma Matteotti è informatissimo su come si sono svolte le votazioni e contesta con assoluta precisione fatti, dati e nomi. Il clima di intimidazioni era tale che a fare il resoconto del suo intervento non furono solo gli stenografi parlamentari e i giornalisti. Vi erano anche dei poliziotti: la polizia di fida solo dei suoi. Il discorso si concluse con la richiesta di rinvio della convalida delle elezioni. E' l'ennesimo atto di coraggio di Giacomo Matteotti con la piena consapevolezza dei rischi, testimoniata dalla famosa risposta ai compagni che si congratulavano con lui: “Ed ora preparate la mia orazione funebre”. Fu buon profeta: dieci giorni dopo la vile aggressione e l'omicidio. All'inizio del 1924, in un articolo rivolto ai giovani Matteotti aveva scritto: “Tutte le grandi cause della civiltà hanno dovuto avere prima le loro vittime, i loro martiri, gli inutili (sottolineato nel testo) eroi, che hanno aperto gli occhi e la strada agli altri”. Per quanto lo riguarda il suo sacrificio non è stato inutile.

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Maurizio Degl’Innocenti

Giacomo Matteotti

Quello di oggi è da considerarsi non convegno di studi ma una cerimonia laica, per l’ambiente, per il saluto portato dalla seconda carica dello Stato, per la promozione anche, diciamolo pure, delle quattro fondazioni che da anni coltivano studi e iniziative in materia. C’è da chiedersi che senso ha una cerimonia laica al novantunesimo anno dalla morte di Matteotti: ha un significato profondo, credo quindi che sia benemerenza delle fondazioni che si sono fatte carico di questa iniziativa, e sia anche benemerenza delle istituzioni che hanno voluto accoglierci non solo ora, ma anche con le solenni manifestazioni del novantesimo in Senato e alla Camera perché questa cerimonia laica serve, oggi forse ancora più di prima, a riaffermare un’identità come elemento costitutivo di una comunità nazionale. Il primo martire, il primo caduto della “Resistenza”, io lo voglio parafrasare questo concetto, non è Matteotti forse il primo e certamente non l’unico, ma in Matteotti si può dire si riassume tutta una generazione che nella lotta per la libertà comune, un bene comune, per la democrazia perse la vita, così come poi la generazione partecipò. Mi richiamo, proprio come disse Calamandrei in un famoso discorso alla Costituente, appunto ai caduti dell’antifascismo. Quindi possiamo considerare Matteotti il Martire con la M maiuscola, che con la sua morte indica un nuovo cominciamento. L’Italia repubblicana si può ben dire pone lì un suo elemento identitario e per questo ha un senso reiterare a questo punto, se si vuole, a

questa cerimonia laica, che nel pomeriggio di oggi tra l’altro avrà una seconda fase con la cerimonia sul Lungotevere Arnaldo da Brescia. È stato ricordato dal Presidente Grasso che, innanzitutto, Matteotti fu uomo delle istituzioni, uomo contro, come è stato ricordato, ma al tempo stesso uomo delle istituzioni. Matteotti, come con Treves, come Turati e altri certamente rappresenta un momento alto della storia parlamentare del nostro Paese. È stato proiettato all’inizio di questa iniziativa quel filmato: la cronaca ci rappresenta che le cose andarono in modo molto più violento di quanto non appaia. Il discorso, come altri, sul bilancio di denuncia delle aggressioni fasciste rappresento certamente uno dei momenti alti della storia parlamentare del nostro Paese; anche questo è un elemento importante da ricordare. Quanto al Matteotti socialista, di cui francamente non vorrei parlare molto se non dire poche cose, accogliendo solo in parte l’invito che mi è stato rivolto dal Presidente, è da tenere presente questo: Matteotti apparteneva a una generazione immediatamente successiva a quella dei grandi pionieri del socialismo della sinistra italiana, quelli che avevano promosso le istituzioni che poi sono rimaste fino a oggi, se ci pensate, il partito il sindacato confederale in particolare le cooperative, la lega delle cooperative 1893, quindi quella generazione. Matteotti si forma immediatamente dopo, muore è stato ricordato a 39 anni ma si forma all’interno di queste istituzioni nel momento del loro sviluppo in una fase congiunturale favorevole. Il suo

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Maurizio Degl’Innocenti

socialismo è quello della massima socializzazione della società attraverso lo sviluppo dei corpi sociali; tra questi ci sono delle istituzioni pubbliche, la scuola giustamente è stata ricordata, la lega e il sindacato sono stati ricordati, la cooperativa e l’amministrazione comunale, sono stati ricordati tutti. Questo sviluppo della scolarizzazione di massa è una funzione essenziale della contemporaneità, della modernizzazione, è un obbligo per tutti gli Stati nazionali territoriali. Merito e capacità dei socialisti, e in Matteotti questo è fortissimo, è di intercettare questa esigenza del tempo suo, in particolare poiché un Paese come l’Italia dove l’analfabetismo rappresentava una vera e propria emergenza nazionale, quando Matteotti parla prima della guerra e poi dopo la guerra della scuola elementare di base parla come di una vera e propria emergenza nazionale. Nel Polesine il 46% erano ancora analfabeti; non solo la scuola, a livello di istruzione elementare, ma anche in un processo oggi si direbbe, allora non si parlava in questi termini, ma per capirsi di educazione permanente, organizza ed è favorevole comunque a tutte quelle istituzioni che integrino, completino e proiettino la formazione, l’educazione e quindi la formazione del cittadino anche in epoca successiva; organizza addirittura, come uomo molto conto e ama l’arte, fallisce questo tentativo, dei gruppi di giovani in particolare che lui vorrebbe accompagnare per esempio a Ferrara dove è deputato del collegio a visitare il castello, Palazzo Schifanoia presentandosi lui stesso come guida. Quindi è una educazione e formazione proiettata e diffusa a livello generale. Per quanto riguarda l’amministrazione comunale arriva a dire che gli strumenti del riformatore quale lui si considera fin dall’inizio, 1911 come si diventa che cosa significa essere riformisti, gli strumenti dell’amministratore sono la padronanza del bilancio, la competenza, la conoscenza delle leggi. Il Comune

rappresenta quel momento di aggregazione di una comunità locale che però non deve agire solo in maniera isolata ma al contrario attraverso una rete, perché solo così si può assumere una funzione di emancipazione, come consigliere provinciale si adopera per la creazione di una rete telefonica a livello provinciale, di una rete tranviaria e così via; quindi non comuni isolati, ma comuni rurali nell’ambito di un contesto. Il comune significa coscienza, partecipazione, organizzazione di una comunità. Si dirà “ma questo è logico”; no, la visione dello Stato liberale era quella di un Comune che era soprattutto funzione e articolazione dello Stato centrale; ma quando invece la comunità, attraverso la sua rappresentanza, si organizza e quindi persegue delle proprie finalità, che non sono quelle solo la trasmissione di comandi dal centro, diventa autogoverno, partecipazione, coscienza. La lega e l’organizzazione sindacale dall’800 al 900, il mettersi insieme, l’associazionismo a tutti livelli, politico, sindacale, cooperativo, mutualistico è la risposta che le masse, siamo una società di massa, sanno dare di fronte ai poteri costituiti; uniti siamo tutto, disuniti siamo nulla; se nel simbolo dei socialisti, a differenza dei comunisti, il libro aperto era elemento costitutivo, una propria identità forte, insieme ai simboli del lavoro e nel movimento sindacale anche, ma soprattutto cooperativo, fino a oggi le mani intrecciate costituivano l’altro elemento identitario forte. Questo mettersi insieme in una società di massa una società che si organizza per interessi, e quindi è una cosa che riguarda soprattutto i lavoratori innanzitutto, che non hanno più le tutele di un tempo e quindi o si uniscono e si organizzano; si è sentita prima l’importanza, voglio riaffermare questo, dell’organizzazione dell’Ufficio di Collocamento naturalmente ma perché questo fosse efficace occorreva organizzare tutta la manodopera sul mercato di lavoro e poi portare questa manodopera

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Giacomo Matteotti

sul livello di contrattazione più alta: nel Polesine nel ’19 c’erano 70 contratti agrari; scommessa di Matteotti è arrivare a un contratto provinciale e lui riesce, attraverso un suo fedele collaboratore un certo Parini che è l’ispiratore di quelle note psicologiche che ha ricordato il nostro Presidente Sabatini all’inizio di Gobetti, Matteotti organizza una Camera del lavoro provinciale; c’è questa esigenza di organizzarsi, e anche questa è un’esigenza di quei tempi, di quella generazione. La grande forza e capacità del movimento socialista, pur con tutti i suoi demeriti o limiti, era quella di intercettare i bisogni della società contemporanea, della modernizzazione

non come una rivoluzione, un atto impositivo dall’alto, una volta per tutte la presa del Palazzo d’inverno; no, era un movimento, una costruzione evolutiva era il suo concetto, una costruzione che si rendeva nella partecipazione, nella competenza, nella conoscenza (sapere era anche volere e potere) collettiva, era un moto di civilizzazione. Storicamente io credo che sia grande merito, scusate se do un giudizio valutativo in questo caso del movimento socialista al quale Matteotti appartenne in maniera alta sia pure per un periodo breve sia come dirigente nazionale sia come vorrei dire anche socialista europeo dopo che aveva assunto la segreteria del PSU nell’

Foto aerea d’epoca del quartiere Flaminio a Roma. Sono visibili, in alto a sinistra, il palazzo dove Giacomo Matteotti abitava e il luogo in cui fu rapito il 10 giugno 1924.

quale si affacciava tra ’800 e ’900. La cittadinanza politica, anche questa è un’esigenza, allargamento del suffragio un po’ dovunque fino ad arrivare al suffragio universale, da noi si votò nel ’13 e poi la rappresentanza su basi proporzionali a scrutinio di lista con le elezioni del ’19. E anche in questo, nell’allargamento della cittadinanza politica e della difesa delle istituzioni, questo avrebbe comportato tentare questa esigenza rendeva forte l’offerta politica socialista e anche spiega perché le istituzioni, questa vicenda ha avuto degli effetti di lunghissimo periodo, si può dire fino ai giorni scorsi. Quindi, per arrivare a una conclusione, il socialismo di Matteotti era un socialismo concepito

ottobre del 1922, fu un periodo breve ma si dimostrò anche un socialista di livello europeo. Questo merito, mi si consenta un giudizio valutativo, di questa esperienza storica era quello di aver contribuito in maniera consistente alla civilizzazione del nostro Paese. Se uno va a leggere discorsi e gli iscritti di Matteotti, così come di altri esponenti del socialismo di quel tempo, quest’idea di civilizzazione; prima questi lavoratori, per esempio del Polesine, erano – scusate la parola – dei bruti che non avevano nemmeno percezione dei propri diritti, una massa informe; ebbene, a questa massa informe socialisti come Matteotti avevano dato una coscienza, una consapevolezza di sé,

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Maurizio Degl’Innocenti

l’avevano trasformati in cittadini. In questo contesto è anche facile comprendere come il socialismo di Matteotti fosse tutt’uno con un’idea di democrazia e di libertà. Fu un uomo libero e improntò sempre i suoi comportamenti politici alla libertà. Lo fu intanto con la moglie, che aveva orientamenti culturali distinti dai suoi e tutto sommato rispettò in questo suo orientamento. Ad esempio, lui era contrario alla presenza di massoni nel Partito Socialista, ma pur al Congresso che è un’icona del 1914, pur dichiarando che non fossero ammissibili nuove iscrizioni al partito da parte di massoni, si espresse in maniera contraria all’espulsione dei massoni che fossero già iscritti al partito; li invitò, semmai, perché qualsiasi elemento coercitivo sembrava che fosse controproducente, perfino da laico quale egli era ammetteva, nelle scuole rurali del Polesine potete pensare che ci potesse essere l’insegnamento religioso nelle scuole; non era favorevole a misure tassative, come altri compagni del suo partito, purché fosse una libera scelta dei genitori da esplicitare secondo apposite modalità. La distanza che poi sarebbe maturata nei confronti per esempio del comunismo bolscevico fu grande su questo punto. Poi democratico, socialismo e democrazia perché la tutela delle minoranze, è stato detto, si è sviluppato fino in fondo questo ma è implicito: attraverso la tribuna parlamentare non è che si manifestasse una posizione di difesa dello spazio politico socialista: lui parlava a favore in tutte le minoranze, a favore del diritto di parola, a favore del diritto di associazione e questa è una testimonianza alta. È stato giustamente ricordato che questo governo Mussolini che viene creato nella fine di ottobre del ’22 è una specie di governo di unità nazionale, ne fanno parte tutte le forze politiche, comprese i popolari meno i

socialisti che votano contro. Ma è stato giustamente ricordato che sospenda subito, e questo davvero tra i primi, Mussolini parla di dittatura, ma non è che ne parlassero in tanti nel ’23-’24 di dittatura come non un rischio, ma come una prospettiva lungo la quale il governo Mussolini avrebbe portato l’Italia. Allora i deputati fascisti erano solo 37 in Parlamento, però c’era il governo Mussolini. Le elezioni fasciste sarebbero state quelle del ’24; allora questa è una battaglia di democrazia per tutti, socialismo era inscindibile dalla concezione di democrazia profonda, di partecipazione, di civilizzazione, di competenze, di cultura. Questo era il socialismo di Matteotti e della generazione che con lui aveva costruito le istituzioni della sinistra italiana. Oggi sarebbe impensabile pensare a una generazione politica che avesse quelle caratteristiche, i tempi sono profondamente cambiati, certamente, e sarebbe ingiusto, guardando anche alle generazioni successive alla seconda guerra mondiale, fare dei confronti, dei paragoni. Nel libro abbiamo parlato di eroismo e in qualche modo anche oggi la figura è eroica, quella di Matteotti; non è possibile richiedere alla classe dirigente manifestazioni di eroismo, ma certamente almeno un auspicio: il nostro Paese riesca a esprimere personalità che almeno sappiamo coniugare impegno politico, come è stato ricordato dal Presidente Grasso all’inizio, competenza e rigore morale, passione per il bene collettivo questo forse è un auspicio che possiamo rivolgere; e facendo questo io credo che sia anche il modo migliore per fa sì che quella eredità di Matteotti resti sempre attuale e che quindi cerimonie come queste siano una fonte di affermazione dei valori civili che dovrebbero essere a fondamento della nostra comunità.

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Giacomo Matteotti

GIACOMO MATTEOTTI A NOVANTA ANNI DALLA MORTE

In occasione dei novanta anni dalla morte di Giacomo Matteotti, la Fondazione Giacomo Matteotti e la Fondazione di Studi Storici Filippo Turati il 10 giugno 2014 hanno organizzato a Roma, presso la Sala della Regina della Camera dei Deputati, un Convegno con la partecipazione della Presidente della Camera dei deputati On. Laura Boldrini, e di Angelo G. Sabatini, Maurizio Degl’Innocenti, Stefano Caretti, Ennio Di Nolfo e Emmanuele F. M. Emanuele. In attesa della pubblicazione degli Atti del Convegno, riproduciamo l’intervento del Prof. Emanuele, Presidente onorario della Fondazione Giacomo Matteotti.

Emmanuele F. Emanuele

A novant’anni esatti dalla morte, è per me un onore concludere, in qualità di Presidente onorario della Fondazione che porta il suo nome, la giornata di celebrazioni con cui è stata commemorato quel grande uomo, direi di quell’eroe civile, modello di rettitudine e di lungimiranza istituzionale, che fu Giacomo Matteotti. Questo ancor più in un momento così difficile della nostra storia, in cui la pesante e lunga crisi economica, che è anche crisi morale e culturale, con gli effetti che essa produce, tra i quali va necessariamente citata, in primo luogo, la disoccupazione, che colpisce soprattutto i giovani, arrivando ad un tasso del 60,9%, nello sbandamento collettivo che ne consegue, e che induce tutti a tenere la testa bassa per affrontare il quotidiano, ci porta a recuperare la memoria di persone esemplari, che non si sono lasciate travolgere dagli eventi, pur drammatici che hanno attraversato il loro percorso umano, ma sono rimasti con la schiena dritta a denunciare responsabilità precise ed a dire no al conformismo comodo e dilagante, alla violenza, al sopruso, alla meschinità, alla rassegnazione. Quella di oggi è una crisi profonda, che arriva a corrompere la mente e il cuore dei singoli e dei popoli, mediante una

visione iperindividualista che è all’origine di molti problemi anche globali, e che ha pervaso ogni ambito collettivo, le istituzioni politiche ed economiche, con la perdita di ogni riferimento morale nell’azione di governo a tutti i livelli e con l’evidente predominanza della finanza sull’economia reale. Questo morbo ha contribuito a rendere smarrita e confusa la persona sulla sua identità, a minare le certezze di quell’umanesimo che è patrimonio nostro, dell’Europa e dell’intero Occidente, il quale non è più il centro del mondo, e che venendo meno rischia di porre la premessa perché i più forti e senza scrupoli arrivino a manipolare ed a piegare persone e Nazioni ai propri interessi. Non a caso, in Europa, le recenti elezioni hanno fatto emergere non solo la distanza dei cittadini dalle istituzioni comunitarie, ma l’ostilità aperta verso il progetto europeo, non certo immune da critiche e da gravi sbandamenti rispetto al disegno dei padri fondatori, sull’onda di nazionalismi e populismi di destra, con la creazione di formazioni dichiaratamente naziste in Ungheria e fasciste in Grecia, che stanno minando seriamente la tenuta dell’architettura politica dell’Unione Europea, con aperte minacce di chiamarsi fuori fatte da schieramenti politici che hanno clamorosa-

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Emmanuele F. M. Emanuele

mente conquistato un largo consenso anche in Francia e nel Regno Unito. L’esempio di Matteotti, dunque, in una situazione come quella che viviamo oggi, è utile e prezioso per contrastare questi pericolosi teoremi. Dopo le macerie della prima guerra mondiale e la crisi economica che ne derivò, il caos istituzionale, l’evidente fragilità della democrazia liberale, in molti pensarono che la soluzione potesse essere rappresentata dall’uomo forte, da colui che sembrava poter rimettere da solo le cose a posto. Questa tentazione, purtroppo, ritorna ciclicamente nel nostro Paese, e ancora viene invocata come la soluzione alla crisi. E’ grazie a testimonianze come quella di Matteotti, che fu la traccia e l’esempio per tutti coloro che lo seguirono, sebbene molto più tardi, quando le sorti della guerra volgevano al peggio, ed ormai tutti avevano compreso la rovina in cui il fascismo aveva condotto il Paese, che noi oggi possiamo fruire della libertà che allora fu negata e della pace che settantacinque anni fa, per la seconda volta a distanza di un ventennio, fu drammaticamente travolta e calpestata, e riconquistata solo a prezzo di decine di milioni di vittime. Matteotti aveva visto giusto prima di tutti e questa visione la offrì al Paese nel luogo più rappresentativo, il Parlamento, pronunciando quel memorabile discorso, in cui denunciò la serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per condizionare l’esito delle elezioni, e lo fece con la coscienza dell'uomo che non aveva paura, che anteponeva i propri principi e le proprie convinzioni politiche, i grandi valori della spiritualità del socialismo e soprattutto della vicinanza ai meno fortunati, ai rischi per la propria incolumità personale. A me piace ricordare qualcosa che nessuno ha detto in occasione della commemorazione alla Camera dei Deputati o nel recente passato, e cioè

che egli, oltre che antifascista, fu anche orgogliosamente avverso al comunismo, come testimonia la risposta che diede a Togliatti che lo esortava a partecipare ad una manifestazione unitaria con il Partito comunista. In quella circostanza, Matteotti rispose: “Restiamo ognuno quello che siamo. Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza sulle minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo delle libere maggioranze”. Se si fosse trovato a stare in Parlamento oggi, non è difficile immaginare come avrebbe reagito questo grande uomo di fronte alla corruzione dilagante, agli scandali ed al malcostume che sono triste cronaca quotidiana. Senza dubbio, egli avrebbe gridato il suo sdegno contro chi offende la democrazia, chi sporca la politica, che dovrebbe essere un servizio disinteressato e competente alla collettività, chi fa prevalere il proprio interesse personale, colpa ancora più grave in una fase di forte crisi come questa. Abbiamo bisogno, dunque, oggi più che mai, di conservare il ricordo di Matteotti, affinché sia sempre di monito in tutte le epoche, presenti e future, perché la difesa dei propri principi, delle proprie idee e convinzioni è la base insostituibile di quel sistema di convivenza sociale che, pur con le sue fragilità, non ha alternative migliori, cioè la democrazia. Teniamoci, dunque, strette le nostre conquiste, faticosamente acquisite e ricordiamo che le libertà di cui oggi godiamo, e forse abusiamo, dipendono da quella libertà che diventa valore assoluto soltanto quando si offre la vita per essa, sacrificio di cui siamo debitori a Giacomo Matteotti. E questo credo sia il testamento autentico che Matteotti ha affidato alle generazioni future che, anche io, a novant’anni dalla sua morte, mi permetto di indicare ai giovani come linea di orientamento per la loro vita.

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Giacomo Matteotti

PERCHE’ RICORDARE GIACOMO MATTEOTTI

Tra le altre occasioni di commemorazione della figura di Giacomo Matteotti, ricordiamo il convegno realizzato presso il Teatro Talia di Tagliacozzo (AQ) il 13 dicembre 2014 con la partecipazione di vari relatori. Riportiamo di seguito gli interventi di Antonio Casu e di Sara Garofalo. Antonio Casu Matteotti in Parlamento

1. Come è noto, Giacomo Matteotti è stato deputato della Camera dei deputati nelle legislature XXV, XXVI e XXVII del Regno d’Italia. Una verifica attendibile del rapporto tra Matteotti e il Parlamento non può che partire dalla raccolta dei suoi Discorsi parlamentari, pubblicati dalla Camera dei deputati nel 1970 in tre corposi volumi (circa 1650 pagine complessive), con prefazione di Sandro Pertini. I tre volumi ci restituiscono la figura del Matteotti parlamentare, ma anche più in generale quella del politico e dell’uomo delle Istituzioni democratiche. La raccolta comprende sia i 106 discorsi da lui tenuti in Assemblea lungo l’arco di sei anni, dal 21 dicembre 1919 al 4 giugno 1924, sia le due commemorazioni svolte al Senato nella tornata del 24 giugno 1924 e alla Camera nella tornata del successivo 12 novembre. Tra i discorsi in Assemblea è opportunamente inserito il dibattito intorno alla sostituzione di Matteotti, che si era reso necessario per il fatto che questi, eletto in due circoscrizioni, era stato assassinato prima di esercitare la prescritta opzione. Al termine, l’Assemblea approvò la proposta della Giunta delle elezioni di procedere alla sostituzione in entrambe le circoscrizioni, “per non rendere più gravosa la condizione di un partito politico, solo perché l’optante è morto prima di esercitare questo diritto”. La raccolta non si limita ai discorsi in Aula, ma ricomprende altri interventi pronunciati in qualità di relatore della Commissione finanze e tesoro: sulla

conversione in legge dei regi decreti sulla finanza locale, sul bilancio dello Stato per il 1922-23, e sul disegno di delegazione dei pieni poteri al Governo per il riordino del sistema tributario e della pubblica amministrazione. Sono inoltre ricomprese interpellanze interrogazioni e mozioni presentate sui problemi della scuola e degli enti locali, nonché sulle violenze fasciste, e su argomenti di varia natura. Il terzo volume, in particolare, ci aiuta a perfezionare, nella sua prima parte, il profilo parlamentare di Matteotti, includendo i documenti parlamentari e la sua attività ispettiva riferita prevalentemente ai problemi della scuola, degli enti locali, ai danni di guerra; mentre, nella sua corposa seconda parte, completa il suo profilo politico, riportando gli interventi di Matteotti in seno al consiglio provinciale di Rovigo dall’8 agosto 1910 al 7 luglio 1916, e poi - dopo il periodo trascorso sotto le armi (1916-19) - dal 6 giugno al 28 dicembre 1920. La raccolta - che ricomprende anche parte delle lettere scritte alla moglie dal fronte - si conclude infine con una nota sulle origine del fascismo nel Polesine, nel biennio 1920-21. 2. Le materie oggetto degli interventi di Matteotti ci aiutano a definire con precisione i suoi interessi, che tenterò sommariamente di raggruppare – solo per comodità ricostruttiva - per grandi insiemi. Un primo gruppo di interventi ha carattere preminentemente politicoistituzionale, dagli interventi sulle comunicazioni del Governo alla legislazione

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Antonio Casu

elettorale, soprattutto amministrativa, e alla riforma dell’amministrazione dello Stato, dalle politiche di bilancio alle politiche fiscali e doganali. Un secondo gruppo ha per fulcro i problemi della scuola, dall’istruzione elementare alla scuola media, dal testo unico sull’istruzione superiore alla richiesta di maggiori assegnazioni al bilancio della pubblica istruzione. Un terzo gruppo concerne le tematiche di interesse della sua zona di provenienza, i problemi dello sviluppo economico e sociale, delle infrastrutture, dell’istruzione, delle comunicazioni ferroviarie tramviarie e stradali, e via dicendo. Il quarto gruppo, di maggior rilievo politico, nella situazione in cui il Paese si trovava, era quello legato alla denuncia e contestazione della violenza politica, contro “ogni forma di violenza” (come recita la mozione socialista del 31 gennaio 1921), ma anche più specificatamente contro le “violenze” e le “manifestazioni fascistiche” nel Polesine (rispettivamente il 10 e il 17 marzo 1921), ovvero mirata “contro alcuni deputati socialisti” (19 marzo 1921), contro le amministrazioni locali della provincia di Rovigo (27 luglio 1921), sull’ordine pubblico (2 dicembre 1921), su una manifestazione fascista in Rovigo (20 maggio 1922), sulla domanda di autorizzazione all’arresto a suo carico ed alla estinzione dell’azione penale per amnistia (16 maggio 1923), e sull’arresto del vice segretario del Partito socialista unitario (1 e 4 giugno 1923). L’elenco è significativamente lungo e non si esaurisce negli interventi specifici, ma deve necessariamente estendersi a considerazioni e denunce contenute in interventi vertenti su altre materie e perfino nei puntuali interventi procedurali svolti in Aula. 3. Nella sua Prefazione, Sandro Pertini rileva come dai discorsi parlamentari di Matteotti emerga un “socialismo pragmatico, nei cui schemi non allignava il dogmatismo preconcetto”, traendone

conferma dal quasi assente riferimento al marxismo e anzi da un’impostazione marcatamente storicista, che motivava la sua avversione al protezionismo e il suo favore al libero scambio, espressione di una linea volta ad accrescere la ricchezza nazionale e non ad incrementare i privilegi. Pertini rileva che questa sua impostazione riformistica, aliena da ogni massimalismo, era stata forgiata durante gli anni nei quali fece parte del Consiglio provinciale di Rovigo, che gli consentì di portare in Parlamento la concretezza della politica territoriale e la sua consapevolezza dell’importanza dell’azione politica nelle sedi rappresentative. Una consapevolezza che costituisce il presupposto della sua intransigente e strenua difesa dell’istituzione parlamentare che perdeva di credito e legittimazione di fronte alla violenza della piazza. Pertini richiama al riguardo l’amaro presagio di Matteotti, secondo il quale proprio i socialisti sarebbero divenuti “le ultime scolte, ultime guardie del sistema costituzionale”. Pertini mette in luce la lucida consapevolezza con la quale Matteotti reagisce allo strapotere della maggioranza fascista intravedendo fin dagli albori il tentativo, poi riuscito, di annichilire la funzione e le prerogative del Parlamento. Matteotti si pone dunque - osserva Pertini - come non “un disperato volontario della morte, ma un lucido ed indomabile testimone delle ragioni della sopravvivenza del Parlamento e della libertà”, ritenendo che la difesa della democrazia rappresentativa, come del resto il processo di formazione di un’Europa unita, da lui espressamente auspicato, una tappa fondamentale e necessaria ai fini della costruzione di una società socialista fondata sulla libertà e sulla giustizia sociale. 4. La difesa del Parlamento è dunque uno dei capisaldi del pensiero di Matteotti, e conseguentemente uno degli argomenti che maggiormente ricorre nei suoi interventi parlamentari, ed anche uno dei concetti maggiormente valorizzati nelle circostanze nelle quali, spe-

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Giacomo Matteotti

cialmente in Parlamento, ne sono stati rievocati il pensiero e l'azione politica. Le varie commemorazioni a lui dedicate di norma nel corso del tempo (incluse quelle che si sono svolte presso i due rami del Parlamento in occasione del novantesimo anniversario della morte, il 10 giugno 2014) hanno spesso richiamato il suo ultimo discorso parlamentare, pronunciato il 30 maggio 1924 a Montecitorio, dunque appena dieci giorni prima del suo assassinio, nel quale il leader socialista contestò con forza e tra numerose interruzioni la regolarità dei risultati delle elezioni politiche dell'aprile precedente. Tra le tante commemorazioni, merita di essere ricordata quella che si svolse alla Camera il 10 giugno 1945, nella quale la figura di Matteotti fu ricordata insieme a quelle di Giovanni Amendola e di Antonio Gramsci, definiti "tre Martiri del Parlamento". È particolarmente degno di nota che il Presidente della Camera dei deputati, Vittorio Emanuele Orlando, nel suo intervento introduttivo, individui il tratto comune a quella che definisce "la triade del sacrificio parlamentare" collocandolo nella sfera etica, posta a fondamento dell'azione politica. E' illuminante al riguardo il suo riferimento al legame tra il martirio, come volontario e consapevole sacrificio della vita, e la coscienza, al cui "appello preciso" essi non si sottrassero. Con magistrale sensibilità, quasi drammaturgica, Orlando così rievoca e commenta proprio il resoconto della seduta del 30 maggio, nella quale Presidente della Camera era Alfredo Rocco: “Il 30 maggio 1924 egli parla alla Camera. Formidabile discorso. Procede fra interruzioni, ingiurie, rumori che tendevano a rendere fisicamente impossibile di farsi ascoltare. Egli tiene fronte alla tempesta con coraggio, con intrepidezza incomparabili, finché il Presidente, dopo avere in ogni modo tentato di farlo tacere, da' la parola ad un altro deputato. Matteotti resta impavido

al suo posto: ha la parola, non la cede. Dice il resoconto ufficiale della seduta: "Matteotti - Onorevole Presidente.... "Presidente - Ma, onorevole Matteotti, se ella vuol parlare ha facoltà di continuare, ma prudentemente". Questa parola fa fremere. "Prudentemente". Non occorre essere dotato di una straordinaria fantasia per immaginare che proprio in quel momento cominciasse a maturare il proposito, a delinearsi la minaccia di quella soppressione che doveva avvenire dieci giorni dopo e che qualche parola minacciosa fosse udita dal Presidente. In ogni caso, il preavviso era nelle cose. Il Presidente, dunque, facendo prevalere una preoccupazione di umanità sulla ferocia naturale del suo ambiente, concede di parlare, ma consiglia di parlare con prudenza. E Matteotti risponde: "Io chiedo di parlare non prudentemente, non imprudentemente, ma parlamentarmente". E continuo’ a parlare.” 5. La difesa del Parlamento e del parlamentarismo sono dunque al centro del pensiero e dell'azione politica di Matteotti. Vale la pena, di questi tempi, ricordare che la difesa del sistema parlamentare era, per Matteotti come per gli altri oppositori dello Stato totalitario, la difesa di un sistema politico fondato sulla rappresentanza e sul contemperamento dei valori e degli interessi, e dunque sull'imprescindibile necessità del dialogo tra le parti. Il corollario di questo sistema è necessariamente l'equilibrio dei poteri. Da questo punto di vista, il ricorrente vento anti parlamentare che scuote la politica italiana (lo stesso Orlando in un suo scritto citava una levata di scudi anti parlamentare in un trattato duecentesco di Albertano da Brescia) non è solo un giusto contrappunto alle degenerazioni della politica, ma spesso configura un progetto politico alternativo, ed anche un alibi. Il Parlamento non è mai davvero un

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Sara Garofalo

luogo altro rispetto al Paese. Al contrario, ne è la proiezione. L'Uomo della Provvidenza è sempre il segno di una rinuncia collettiva oltre che individuale alla responsabilità, all'esercizio dei diritti e al corrispondente rispetto dei doveri. L'anti parlamentarismo è il volto oscuro dell'assenza di coesione nazionale, che non può non fondarsi sul rispetto delle regole, ed è spesso un bacino di coltura di quella illegalità diffusa che ambisce ad ergersi a sistema organico di potere. Matteotti ci indica la via della politica considerata nella sua dimensione etica e civile, come rappresentazione delle esigenze e delle aspirazioni di un popolo, e dell'insopprimibile bisogno di libertà e di giustizia sociale, che possono vivere e prosperare solo nella legalità e nella trasparenza. Matteotti - "un socialista scomodo", come è stato definito - ci appare come una icona della coscienza civile e politica che mantiene fede a se stessa, come una attendibile manifestazione contemporanea, insieme a molte altre, anche invisibili, di una coerente capacità di testimonianza, e martirio in greco vuol dire appunto testimonianza, di una volontà insopprimibile di non omologarsi, di non asservirsi al potere, di non "fare l'inchino" al potere, che la storia, direi quasi generosamente, ci ripropone nei momenti più difficili. Sara Garofalo Matteotti. Dal martirio al mito

Il mio compito oggi è di affrontare il periodo cronologico successivo all’aggressione e al tragico sequestro del deputato socialista, un periodo che possiamo definire dai confini dilatati, perché la poetica del mito di Matteotti, seppur con cromature diverse, ha di gran lunga superato le frontiere della risposta emotiva contingente, quale fu, per intenderci, quella immediatamente successiva al 10 giugno 1924.

La notizia del rapimento, complice la spiccata personalità di Matteotti e le modalità violente dell’accaduto, suscita infatti l’immediato sdegno della società civile. Sono giorni di profondo sconvolgimento, in cui sono toccate anche le coscienze la cui identità non appartiene affatto alla tradizione socialista: molti fascisti abbandonano il distintivo e stracciano la propria tessera di partito (con conseguenze irreparabili sul proprio percorso politico, visto che, una volta rientrati negli antichi ranghi, saranno per sempre etichettati come “quartarellisti” e de facto esclusi dalla possibilità di una qualsivoglia prospettiva di carriera). Alcuni, addirittura, si allontanano per non tornare mai più all’antico partito di appartenenza: paradigmatico, a questo proposito, è l’aneddoto riportato da Indro Montanelli in un articolo apparso sul Corriere della Sera nel 1999, in cui il giornalista racconta di uno zio sdegnato che, clamorosamente uscito dal partito fascista a seguito del delitto Matteotti, amava recarsi ogni anno a Roma per commemorare il segretario socialista nel luogo della sua aggressione, ricevendone in cambio puntuali bastonature. Questo episodio, tra l’altro, costituisce solo una delle moltissime testimonianze di pellegrinaggi spontanei che nei diversi mesi si susseguono sul luogo dell’avvenuto sequestro, presso il Lungotevere Arnaldo da Brescia, spesso solo con lo scopo di deporre fiori e palme o di recitare una preghiera, secondo le dinamiche di un vero e proprio culto. E’ il momento di maggiore fragilità dell’esperienza fascista: non stupisce, a questo proposito, che molta storiografia si sia soffermata sulle conseguenze dell’assassinio su tutto il Ventennio (dall’opera di Renzo De Felice in poi); ai fuoriusciti dal partito – che non raramente confluiranno nelle file dell’opposizione al regime – si sommano i timori dei membri del Governo per le reazioni dell’opinione pubblica e lo sdegno unanime della stampa nazionale

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Giacomo Matteotti

ed estera (a cui, per inciso, la personalità di Matteotti è ben nota, viste le sue frequenti e attive partecipazioni a conferenze internazionali sui temi della ricostruzione post bellica - in particolare si era occupato per conto dell’Internazionale Socialista della questione dei debiti di guerra e dell’occupazione della Ruhr - e le sue collaborazioni assidue con diversi periodici stranieri, dove scrive appassionati articoli fedeli alla grammatica del suo impegno politico e della sua passione per i temi economici e sociali. L’intervento della stampa straniera è fondamentale nel processo di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e nel moltiplicarsi delle manifestazioni di solidarietà all’estero). Del resto, il rapimento è subito intuito come un delitto: a Roma, in una atmosfera particolarmente tesa, i manifesti elettorali con il profilo di Mussolini vengono imbrattati con della vernice rossa. A testimonianza della consapevolezza del clima di generale tensione nazionale, il Presidente del Consiglio invia alle prefetture un telegramma dove si raccomanda la massima vigilanza su eventuali dimostrazioni di dissenso e sulla necessità di una repressione senza indugio. Le manifestazioni di affetto e di partecipazione emotiva ricevute dalla salma di Matteotti durante il suo frettoloso trasferimento in treno dalla stazione di Monterotondo - prossima a quella Riano dove era avvenuto il riconoscimento del cadavere - alla volta del Polesine, confermano come più che mai fondate le preoccupazioni del Presidente del Consiglio, che del deputato socialista temeva soprattutto il carisma e l’appeal presso la società civile, carisma che evidentemente continuò ad esercitare anche da morto. Nei giorni precedenti la sepoltura, il corpo di Matteotti è meta di numerosi pellegrinaggi e omaggi, nonostante il diffuso clima di intimidazione e l’obbligo per ciascun visitatore di essere identificato dalla forza pubblica. Successivamente, la sua tomba sarà

costantemente ricoperta da una coltre di garofani rossi, dedica dei contadini del suo paese, ma anche di anonimi lavoratori e lavoratrici. A testimonianza di quanto la formazione di una precisa mitologia su Matteotti fosse chiara e percepita sin da subito dal fascismo in tutto il suo potenziale sovversivo, alla vigilia del primo anniversario dalla morte, viene proibita qualsiasi forma di commemorazione del deputato di Fratta Polesine. Una triste disposizione che purtroppo si consolida rigidamente negli anni, tanto che ancora nel 1944 le autorità fasciste della Repubblica Sociale saranno solerti nell’emanare severe direttive per una intransigente vigilanza contro il ricordo del 10 giugno a Fratta Polesine, in particolare nell’area del cimitero. La visibilità del processo di Chieti, la cui iniquità susciterà lo sdegno non esclusivo degli ambienti socialisti, viene ridotta al minimo, a conferma della necessità di regime di non alimentare lo sviluppo del culto del sacrificio matteottiano. Tra l’altro, con la soppressione delle libertà del novembre del 1926, diviene sempre più periglioso rendere omaggio e rispetto alla figura di Matteotti, tanto che negli anni la visita clandestina alla tomba di Fratta Polesine viene percepita come una vera e propria prova di coraggio rivoluzionario e come una chiara indicazione della propria identità politica. Al tema della mitopoiesi progressiva del deputato di Fratta Polesine ha dedicato particolare cura Stefano Caretti, il cui lavoro non soltanto ha avuto il merito di dimostrare che la testimonianza di Matteotti continuò ad occupare l’immaginario collettivo dei cittadini italiani durante tutto il Ventennio (nonostante i numerosi tentativi di rimozione operati dal regime), ma ha anche fornito prove - grazie al corredo di una ricchissima documentazione - di un’attenzione che si è susseguita senza soluzione di continuità nel corso dei decenni successivi.

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Sara Garofalo

L’immaginario popolare attribuisce subito al deputato la poetica frase: “Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai”; frase che caratterizza migliaia di volantini, di medaglie, di oggetti personali e di arredo, nonché addirittura di santini votivi dedicati allo stesso Matteotti. La venerazione nei confronti del cosiddetto “santo di Fratta” è la risultante di una complessa commistione tra la grammatica tradizionale della ritualità cattolica ed una devozione all’eroe tipicamente risorgimentale. Il fascino e la riconosciuta caratura morale di quello che può essere definito il primo cadavere eccellente del fascismo, ha contribuito a consolidare nel tempo la poetica di Matteotti come martire, inteso nel duplice aspetto di vittima e – nel rispetto della corretta etimologia del termine – di profondo testimone di un’idea. La creazione di una vera e propria aura di santità laica è testimoniata nelle numerose missive ricevute personalmente da Velia Titta, vedova Matteotti, nelle quali spesso viene fatta richiesta di immagini e fotografie da poter rendere oggetto di venerazione domestica. In assenza di originali, la maggior parte dei cittadini si organizza ritagliando il ritratto dell’eroe direttamente dai quotidiani, per poi poter riporre il frammento vicino alle foto dei familiari scomparsi più cari, o addirittura accanto ad una candela, dopo aver organizzato un piccolo altare personale. A scrivere sono anche molti emigrati, in particolare esiliati politici perseguitati dal fascismo, che organizzano nei loro nuovi paesi di appartenenza manifestazioni di cordoglio e di solidarietà alla famiglia Matteotti (ovviamente sotto l’occhio vigile delle ambasciate e dei consolati italiani), fino ad arrivare a veri e propri atti dimostrativi, come il grido di Viva Matteotti! che accompagnerà il colpo di pistola di Fernando De Rosa al cospetto di Umberto di Savoia in visita ufficiale a Bruxelles nell’ottobre del 1929.

È interessante a questo proposito notare come il più significativo avversario del fascismo abbia sfidato con successo proprio sul terreno del culto dell’immagine un regime che della retorica e della mistica del simbolismo aveva fatto la propria cifra distintiva. Consapevole dell’importanza dell’iconografia dell’eroe, infatti, il fascismo comincia a vietare con sistematicità tutte le testimonianze di affezione nei confronti di Giacomo Matteotti: la grande croce rossa dipinta sul parapetto del ponte teatro del sequestro viene fatta cancellare e si vieta con attenta vigilanza la sosta e il raccoglimento in quelli che possono costituire pericolosi luoghi della memoria: dal Lungotevere a Roma, al cimitero di Fratta Polesine, fino addirittura alla macchia della Quartarella, dove il cadavere del deputato era stato ritrovato il 16 agosto. È sufficiente una delazione sulla presenza di una immagine di Matteotti nelle mura domestiche, per dover subire la perquisizione della propria abitazione da parte della polizia. Secondo quasi un principio di diretta proporzionalità, gli oltraggi alla memoria di Matteotti e le vessazioni nei confronti della sua famiglia (nei termini di lettere minatorie e di manifestazioni minacciose dinanzi alla casa romana e a quella di villeggiatura) vanno inasprendosi proprio con il diffondersi della mitologia del martirio, mitologia suggerita già dal linguaggio contenuto nei messaggi di cordoglio di coloro che partecipano al dolore della sua morte e allo sdegno per gli esiti iniqui del processo di Chieti, dai compagni di partito, agli intellettuali, ai rappresentanti del mondo del lavoro, ai combattenti, agli studenti, fino ai semplici cittadini sinceramente colpiti. Titta Ruffo, fratello della vedova Matteotti e noto baritono, che per il suo rapporto di parentela e per la sua pubblica manifestazione di sdegno sarà costretto ad abdicare – seppur nolente – ad una brillante carriera artistica, in una lettera di vicinanza a Velia, si esprime

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Giacomo Matteotti

addirittura nei termini di apostolo dell’umanità degno di venerazione. Ad onorare il carattere devozionale del ricordo di Matteotti sono soprattutto le donne, fortemente colpite dalla brutalità del sequestro prima e dalle strazianti condizioni del ritrovamento del cadavere poi. L’empatia con il dolore della vedova e della madre del deputato è anche, da questo momento in poi, in qualche modo responsabile della formazione di una prima coscienza politica di molte cittadine italiane. Non stupisce, quindi che siano proprio alcune donne le protagoniste di una iniziativa politica alternativa a carattere sovversivo (lo sventolamento di una serie di drappi rossi tra i campi di riso dove operavano) verificatasi in Emilia Romagna durante l’astensione dal lavoro di dieci minuti del 27 giugno, che il Presidente del Consiglio aveva indetto nella speranza di emanciparsi dai sospetti di responsabilità nell’affaire del Lungotevere. In quegli stessi dieci minuti, per citare un ulteriore esempio, un gruppo di operaie fiorentine si inginocchieranno in preghiera. La forza evocativa ed il potere di formazione delle coscienze delle masse popolari contenuta nel simbolo di Gia-como Matteotti è riconosciuta correttamente anche dagli esponenti di partiti altri rispetto a quello socialista: celebre, a questo proposito, è la frase di Palmiro Togliatti, che affermava come il più grande martire dell’antifascismo non fosse comunista. Il mito di Matteotti si consolida dunque perché comune denominatore delle più distinte categorie che, pur con declinazioni diverse, manifestano attraverso la propria devozione il medesimo rispetto nei confronti del valore della vita umana e della libertà del pensiero. Come ricordato da Gaetano Salvemini, la partecipazione emotiva alla sua sorte fu una di quelle reazioni spontanee di tutto un popolo, che nessun regime può impedire né tentare di soffocare con la forza. Lo mitizzano studenti giovani e giovanissimi destinati a divenire gli

antifascisti della generazione successiva, che già si erano distinti per le loro manifestazioni di sdegno (in particolare gli universitari dell’Unione Goliardica Italiana per la Libertà, ma non solo) nei giorni successivi al ritrovamento del 16 agosto: lo stesso Sandro Pertini si iscriverà al Partito Socialista Unitario proprio in seguito al delitto, la cui data, come scrive all’avvocato Diana Crispi, segretario del PSU di Savona, egli considererà sacra, a titolo di imperituro ammonimento e comando. I rappresentanti del mondo del lavoro, come i Circoli operai, Le Leghe Contadine, le Federazioni di mestiere e le stesse Camere del Lavoro, lo ricordano quasi nei termini di una viva religiosità: si pensi ad appellativi quali martire apostolo delle classi lavoratrici usati dalla categoria dei tramvieri di Catania in una lettera di condoglianze inviata alla vedova. Anche alcuni membri del clero, in particolare appartenenti all’ordine benedettino, domenicano e francescano (nonostante l’atteggiamento di generale prudenza raccomandato dalla Chiesa cattolica), prendono parte attiva alla formazione di una mitopoiesi matteottiana, parlando di eroico martirio e imponendo la propria benedizione sulla casa e sulla famiglia del deputato. Una posizione questa tanto più significativa se si pensa alle lacerazioni interne al mondo cattolico sul tema del socialismo e dei suoi rappresentanti. A dispetto della vulgata che voleva Matteotti inviso ai militari a causa del suo storico neutralismo, figura in questo repertorio anche la commossa partecipazione di numerose associazioni di combattenti ed ex combattenti, nel nome della indiscussa integrità morale del segretario del Partito Socialista Unitario. Anche gli uomini di governo come Francesco Saverio Nitti o il giovanissimo Alcide De Gasperi si uniscono alle voci d’elogio nei riguardi di Matteotti, in nome di una indefessa fiducia nei valori

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Sara Garofalo

della democrazia. Ferruccio Parri parlerà subito in termini di martirio in nome della libertà d’Italia. Anche per i popolari ed i repubblicani Matteotti è da considerarsi un martire sacrificato alle ragioni degli ideali. La cifra comune di queste manifestazioni collettive è certamente il consolidamento di un’urgenza di riaggregazione delle componenti socialiste: è proprio all’ombra di un grande ritratto di Matteotti che durante il congresso di Parigi del luglio 1930 la scissione del 1922 (da Matteotti fortemente avversata) si ricompone nel segno di un unico partito. Dal delitto, dal processo di Chieti, dalla progettata fuga all’estero della vedova e dei figli di Matteotti traggono ispirazione diversi scrittori stranieri, per molti dei quali il nome del segretario socialista è stato, accanto a quello di Mussolini, il primo nome della storia italiana di quegli anni ad essere conosciuto. L’autrice belga Marguerite Yourcenar pubblica nel 1934 un’opera che qui sarà tradotta con il titolo Moneta del sogno, nella quale, nell’Italia mussoliniana, una giovane donna è impegnata nella vendetta del padre antifascista, in nome anche del ricordo di Giacomo Matteotti. La figura di Matteotti viene subito eretta a simbolo dell’impegno politico antifascista, universalmente riconosciuto quale punto di riferimento di quella opposizione che mai si era lasciata sedurre dalla retorica e dall’abilità politica di Mussolini: fin dai giorni immediatamente successivi alla sua morte, la Commissione amministrativa dell’Internazionale Operaia Socialista decide di finanziare e di diffondere in diverse lingue la pubblicazione del volume Un anno di dominazione fascista, saggio che il nostro aveva redatto nel 1923 e che gli era valso il pesante avvertimento del «Popolo d’Italia» e dell’«Impero», nonché di costituire il Fondo Internazionale Matteotti, un fondo per l’aiuto del movimento operaio

e delle vittime dei totalitarismi. Un mito, quello di Matteotti, i cui lineamenti paradossalmente poco avevano a che fare con la figura reale dell’uomo concreto e del politico dal peso specifico non caratterizzato affatto dalla levitas del mistero e del rito domestico, quanto piuttosto della gravitas dell’impegno costante nella passione politica. Come ricorda Pietro Gobetti nel profilo di Matteotti tracciato nel 1924 su «Rivoluzione Liberale». Al nome di Matteotti sono state intitolate piazze, strade ed edifici, oltre che, naturalmente, circoli culturali e sezioni di partito, per un totale di circa 3.200 dediche, che collocano il deputato socialista al settimo posto nella toponomastica italiana. Il suo nome è stato responsabile dell’affermazione del Partito socialista come primo partito della sinistra alle elezioni del 1946 per la Costituente, consultazione in cui sono risultati eletti anche due dei suoi tre figli. Per diversi anni, Matteotti è rimasto però confinato alle liturgie della sua stessa leggenda, vivificata dai costanti pellegrinaggi dei compagni presso la tomba e il luogo del rapimento, nonché, a contrario, dai periodici atti di oltraggio presso i loci della sua memoria o perpetrati ai danni della sua immagine, fino a tempi recentissimi. Come ricorderà Pietro Nenni, del fascismo Matteotti era stato lucido battagliero fin dalla sua fondazione, avendo intuito sin dal principio la potenziale pericolosità di un fenomeno che, visti i suoi caratteri di modernità e di assoluta novità rispetto ai paradigmi ottocenteschi, avrebbe potuto penetrare a fondo il tessuto connettivo italiano. Ad oggi il mito di Giacomo Matteotti, abbandonate le forme devozionali, ci consegna soprattutto la lezione dell’importanza di non abdicare mai a se stessi e la consapevolezza che il senso di giustizia e la fiducia nelle istituzioni democratiche sono in grado di sopravvivere alla storia più fortemente del clamore della retorica.

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ENRICO BERLINGUER

Il 23 luglio 2014. presso la Sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio, è stata presentato il libro Enrico Berlinguer a 30 anni dalla scomparsa Ha partecipato la Presidente della Camera, Laura Boldrini. Sono intervenuti Paolo Fontanelli, Francesco Barbagallo, Aldo Tortorella, Albertina Vittoria. Pubblichiamo gli interventi di Tortorella e Vittoria. Il volume è a cura della Biblioteca della Camera dei deputati.

Aldo Tortorella

Signora presidente, signore e signori, consentitemi innanzitutto di rivolgere il mio ringraziamento alla presidenza della Camera dei deputati che ha voluto celebrare il trentennale della scomparsa di Enrico Berlinguer, oltre che con la cerimonia di ricordo tenutasi a giugno in questa sede, anche con questo volume di scritti, raccolti con scrupolosa cura dal direttore e dal personale della Biblioteca, con l’ausilio del prof. Francesco Barbagallo, un volume che si aggiunge alla raccolta dei discorsi parlamentari pubblicati tempo fa. Naturalmente, ogni raccolta non può che essere assai parziale rispetto alla produzione scritta e parlata, sia pure soltanto quella di un periodo limitato e quella non ripetitiva, di una personalità politica di rilievo. Anche perciò, si dice abitualmente che per i politici valgono più gli atti che le parole quasi necessariamente gravate dal peso di un uso in tutto o in parte strumentale dato che il loro fine è quello dell’efficacia effettuale. E il successo o l’insuccesso delle azioni varrebbe a provare la fondatezza o l’erroneità delle affermazioni verbali. Ma i successi possono essere effimeri e gli insuccessi transitori: in realtà, solo il trascorrere del tempo, come tanti esempi dimostrano, darà un giudizio più veritiero sulla validità dei

pensieri e delle parole che hanno preceduto e indirizzato le azioni. E’ stato questo il destino delle espressioni, illustrate negli interventi contenuti in questa raccolta, che Berlinguer usò per definire il corso delle politiche da lui pensate. Nessuna di esse – il compromesso storico, l’austerità, la questione morale, la carta della pace e dello sviluppo per i rapporti tra il nord e il sud del mondo, per citare le maggiori – ha conosciuto un’attuazione secondo le linee da lui proposte, come egli stesso ebbe modo di sottolineare. E tuttavia a distanza di tanti anni, in un mondo radicalmente mutato e in un’ Italia dove sono scomparsi tutti i maggiori partiti di allora, compreso quello ch’egli diresse, le principali di quelle parole chiave sono rimaste nella memoria di molti e nel linguaggio della politica. La sua figura si è venuta affermando negli anni come quella di una autorità morale cui fare riferimento, in modo più o meno proprio o improprio, non solo per quello che egli fu come dirigente politico il cui carisma si fondava sulla dote, semplice e rarissima, di essere come appariva, ma anche per quelle sue intuizioni politiche apparse alla lunga come diagnosi più che fondate. E’ a causa di questa riconosciuta

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Aldo Tortorella

autorità che la interpretazione del suo pensiero politico é stata piegata nelle direzioni più diverse e talora opposte, come avviene ad ogni pensiero aperto e significativo. Spesso, come si è sentito in questo trentennale, anche in un’aula parlamentare vicina a questa nostra di oggi, la sua storia politica è stata tutta riassunta nella vicenda della solidarietà nazionale, identificata – contro il parere di Berlinguer - nel compromesso storico, che aveva altro significato e altre ambizioni. Lo scopo della lotta politica di Berlinguer, secondo queste versioni, sembrerebbe consistere essenzialmente nello sforzo di portare il proprio partito nell’area di governo, come in effetti avvenne con la maggioranza parlamentare che costò la vita ad Aldo Moro, assassinato dalle brigate rosse, ma già isolato e avversato nel blocco occidentale, come s’era visto nella riunione del G7 del ‘76, nel mentre dall’altra parte si avversava Berlinguer e si tramava contro di lui e contro la sua politica, anche intrattenendo rapporti con l’estremismo armato. Berlinguer non dubitò di aver subito nel ’73 in Bulgaria un attentato che per puro caso non ebbe esito mortale e Moro, il cui coraggio politico troppo poco è stato sottolineato, non esitò a sfidare i veti degli alleati e a denunciarne l’abbandono nel tempo del suo rapimento. Il suo assassinio disse e dice, anche, quanto fosse e sia lontana da ogni consapevolezza della realtà di allora la critica a Berlinguer di aver sopravvalutato i pericoli di eversione pur di comporre una intesa con la DC. Quel delitto fu un capolavoro dell’eversione e avviò alla fine la prima repubblica. Ma non è vero che con l’assassinio di Moro finisce anche Berlinguer e l’unica sua politica considerabile di grande valore e cioè quella dell’approdo all’area di governo. Per contrastare questa tesi altri sostengono che in sostanza Berlinguer non abbandonò mai la politica del compromesso storico, intesa come linea di accordo con la DC. Ma,

come prova la larga parte del volume destinata agli scritti successivi al 1979 cui molti altri, se non fosse per la tirannide dello spazio, se ne sarebbero potuti e se ne voleva aggiungere - né Berlinguer rimase ancorato all’idea di un accordo di unità nazionale né rimase privo di una nuova proposta di grande respiro. Fu lui a volere la rottura della maggioranza di solidarietà nazionale perché la considerava ormai pura maschera di una politica conservatrice ma anche perché, riflettendo sul mondo che stava mutando e sul fallimento dell’esperienza sovietica, veniva pensando ad una strada del tutto nuova. Già il compromesso storico, se si leggono bene i testi qui contenuti, l’aveva concepito - pur nel solco dell‘ aspirazione alla politica d’unità nazionale seguita da Togliatti, per il quale rimarrà il rispetto sino alla fine - come una innovazione anche in rapporto ai modi dell’intesa costituente. Se questa era stata un accordo tra forze politiche diverse ma accomunate da una medesima lotta combattuta contro il fascismo, ciò di cui si parla ora è innanzitutto un compromesso di classe (è il secondo articolo del ‘73) e, in conseguenza, di un accordo tra classi e forze politiche che si erano aspramente combattute per un quarto di secolo. Un accordo in nome di una “emergenza” non provvisoria – come dice nel discorso per l’astensione sul governo Andreotti del ‘76 – considerata superabile solo con un risanamento dei mali storici del paese. Analogamente, un anno dopo di fronte alle delusioni suscitate dal governo di solidarietà si cita, non per esercizio retorico, il passo del manifesto di Marx ed Engels sulla possibile rovina comune delle classi in lotta e dunque si lancia la idea di una politica dell’austerità intesa come mutamento del tipo di sviluppo in un accordo tra i protagonisti del progresso economico. Come Berlinguer stesso disse più tardi vi potette essere una “ingenuità” nell’appello alle classi abbienti e vi era, senza dubbio, una

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Enrico Berlinguer

visione ristretta alla nazione, in modo contraddittorio al coerente europeismo di cui proprio Berlinguer si faceva protagonista. Ma la critica postuma, echeggiata anche in pubblicazioni recenti, secondo cui la tesi dell’insufficienza del 51% per governare avrebbe significato la tendenza ad una negazione della democrazia come conflitto ignora i motivi di eccezionalità e le finalità trasformatrici spiegati nei testi ancora qui riprodotti. E ignora che, rifiutando la proposta di una austerità come occasione di cambiamento (Berlinguer fu definito un “frate zoccolante”) si tornò alla politica della spesa facile con il risultato dell’ascesa di 40 punti del debito pubblico negli anni ’80 (da meno del 60 a più del 100% del PIL) e con la deriva successiva che si conosce. Le innovazioni maggiori, però, furono proprio negli anni successivi a quelli della solidarietà nazionale, usualmente ignorati o descritti dai critici e da qualche romanziere come quelli in cui Berlinguer immiserisce e isola il suo partito nel culto della propria diversità. La ricerca di una terza via tra l’idea sovietica di una economia statalizzata e burocratizzata e la scelta di una pura rivendicazione redistributiva della parte meno avanzata delle socialdemocrazie – mentre Brandt e Palme erano stati i suoi interlocutori privilegiati – non lo porta ad una chiusura settaria, come spesso si dice, ma all’idea di una alternativa democratica che, fino alla accettazione socialista del nuovo ostracismo verso i comunisti voluto dalla DC (il preambolo Forlani per la formazione del governo), cerca la strada di un accordo con il Psi, sancito anche in un documento comune, e con le correnti più aperte del cattolicesimo democratico. Su questo punto ha ragione chi ha detto che Berlinguer sentì quel ritorno alla esclusione pregiudiziale del Pci come una pugnalata alla schiena. Soprattutto, quegli ultimi anni furono il tempo della piena rottura con il mondo sovietico e dell’avvicinamento a categorie di pensiero prima ignorate e a realtà

politiche e umane prima considerate estranee o persino ostili. Già quell’ affermazione qui contenuta - fatta al Cremlino dinnanzi ad un’attonita platea congressuale – sul valore universale della democrazia recava come conseguenza, ratificata anni dopo, che la democrazia non è una via al socialismo ma del socialismo. La successiva constatazione, all’inizio degli anni 80, dell’esaurimento della spinta propulsiva dei regimi nati dalla rivoluzione d’ottobre significava il definitivo superamento di un complesso di idee, e questo chiedeva non la rinuncia, come dice, all’indignazione verso la ingiustizia sociale e all’aspirazione ad una società di liberi e di uguali, ma una elaborazione teorica e pratica completamente nuova. Aveva fatta propria e rilanciato, dopo la fine del governo di solidarietà nazionale, l’idea della priorità dei programmi rispetto alle alleanze, superando una consolidata tradizione ancor oggi dura a morire e inizia, poi, la riscoperta dei movimenti nati fuori della tradizione classica del movimento operaio. Assisi e il pacifismo come valore, il femminismo della differenza che porta una critica radicale al modello d’incivilimento costruito sotto il dominio maschile, l’ecologismo che critica l’idea di uno sviluppo infinito in un mondo finito: sono tutte scoperte di quel tempo ed elementi di un nuovo percorso. Che deve fare i conti, come qui ricorda, con le modificazione degli strumenti di produzione e comunicazione indotti dalla rivoluzione scientifica e tecnologici: possibili strumenti di liberazione, dice, o, all’opposto, mezzi di un nuovo dominio a seconda del loro uso. Anche per questo motivo bisognava rinsaldare il rapporto con la propria base sociale. Furono molto criticate la visita ai cancelli della FIAT, dove si protestava per i licenziamenti di massa, e la lotta sulla scala mobile, tagliata per decreto, ma quei gesti significarono la scelta di stare dalla parte dei lavoratori nei giorni buoni come in quelli cattivi: ed era assoluta-

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mente vero, al di la del contenuto dei singoli episodi, che si annunciava quella che Bruno Trentin definirà poi, icasticamente, una “vendetta di classe”. La quota del lavoro sul reddito nazionale scese in pochi anni del 10% e non ha cessato da allora di scendere. La diversità che egli rivendicava per il suo partito, come si legge in questo volume, era, appunto, la volontà di mantenere saldo l’obiettivo della trasformazione socialista nella democrazia e non – come si dice e si scrive erroneamente – la pretesa di una presunta superiorità genetica del Pci. Al contrario, quando porrà come prioritaria la questione morale come questione politica, se volge la critica principale ai partiti di governo, non esclude il proprio. Non si tratta, come è parso in qualche interpretazione, di una fuga nell’etica, come dice qualcuno, o di una sorta di caccia al ladro, pur sempre necessaria, come pensano altri. Si tratta di una critica radicale alla politica che abbia come finalità dominante la conquista dei luoghi del potere e tanto più a quella che intende i posti di potere come servizio alla fazione. Berlinguer pensa chiaramente ad un’altra fondazione alla politica e della sua pratica. Pensa che la separazione dell’etica dalla politica, che sta tra i fondamenti della modernità, non può e non deve significare una politica senza etica, senza alcuna base morale. Ma questo comportava iniziare tutto un nuovo discorso, che la morte repentina ha troncato. Questo libro, come altri di questo trentennale, aiutano a ripensare il percorso di Berlinguer e a ripercorrere con lui, uomo del tempo suo, il cammino di una generazione che scoprì l’idealità comunista ai tempi della battaglia di Stalingrado e della Resistenza antinazista e dovette superare difficili e dolorose prove politiche e morali per cercare strade nuove e cambiare se stessi senza smarrire i motivi della propria scelta. E’ di questo che parlava Berlinguer quando disse di essere

orgoglioso di essere rimasto fedeltà agli ideali della sua giovinezza. Quegli ideali non erano i convincimenti in parte fondati in parte sbagliati e caduchi, ma le ragioni morali di un impegno. E’ stato detto che non bisogna fare di Berlinguer un santino. Giustissimo. Egli stesso ne sarebbe rimasto desolato più che indignato. Ciò che rischia di sfuggire è che la sua è la storia di una persona, di una coscienza in movimento. Dietro la fermezza delle sue lotte ispirate al bisogno di libertà, giustizia ed eguaglianza, dietro la sua serenità di fondo c’è uno sfibrante lavoro, c’è un non detto tormento e c’è una riflessione teorica su cui pensare anche oggi e, quali che siano le convinzioni di ciascuno, una lezione umana da riscoprire. Albertina Vittoria

Questa raccolta di scritti di Enrico Berlinguer curata dalla Biblioteca della Camera dei deputati costituisce un’importante occasione per ricordare e riflettere sul pensiero politico di una delle figure più rappresentative della storia dell’Italia repubblicana. A rileggere oggi questi interventi si rimane colpiti dalla profondità delle sue analisi, dallo stretto collegamento nel suo pensiero tra politica nazionale e politica internazionale e tra trasformazioni del paese e trasformazioni complessive, dall’attenzione prestata anche ad aspetti che non riguardavano il campo esclusivamente politico, economico o sociale. Come egli stesso affermava, «non c’è solo la politica». Troviamo ricorrenti in queste pagine, indipendentemente dall’anno cui appartengono, alcuni termini: solidarietà, società più umana, fratellanza, liberazione dall’oppressione. Sono i valori che Berlinguer contrapponeva a quelli della società capitalistica, il cui valore fondante era costituito dall’individualismo e dalla contrasto fra individui –

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come affermava nell’intervista a Tortorella su «Critica marxista» del 1981 e in diversi altri luoghi. In questa direzione andava un discorso molto importante, innovativo, che guardava lontano, Austerità occasione per trasformare l’Italia, pronunciato in chiusura al convegno degli intellettuali del 1977: fase difficilissima della solidarietà nazionale, come è noto, quando al terrorismo e alle stragi si aggiunsero i movimenti dell’autonomia e la violenta protesta dei giovani, che nella politica di Berlinguer (ancor più in quella dell’ austerità) e del Pci non si riconoscevano minimamente. L’austerità era intesa da Berlinguer non come mero provvedimento economico, ma nell’ambito del progetto di trasformazione della società, ovvero «come il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco, lo sperpero, l’esaltazione di particolarismo e dell’individualismo più sfrenati». Superamento ancor più necessario a quella data (all’indomani della crisi mondiale di inizio anni ’70), quando sempre più premevano sulla scena del mondo popoli e paesi ex coloniali, cioè due terzi dell’umanità, che «non tollerano più di vivere in condizione di miseria, di fame, di emarginazione, di inferiorità». Il messaggio importante lanciato da Berlinguer – oggi possiamo capire quanto fu attuale – era che una «trasformazione rivoluzionaria» poteva essere avviata «solo se sapeva affrontare i problemi posti all’occidente dal moto di liberazione dei popoli del terzo mondo». Questa era la via indicata da Berlinguer per uscire «dal quadro e dalla logica del capitalismo». L’obiettivo non era più – e non lo era da tempo – la rivoluzione socialista, ma una trasformazione complessiva che implicava la conquista di «una programmazione dello sviluppo che abbia come fine l’elevazione dell’uomo nella sua

essenza umana e sociale, non come mero individuo contrapposto ai suoi simili»; «il superamento di modelli di consumo e di comportamento ispirati a esasperato individualismo»; «la piena eguaglianza e l’effettiva liberazione della donna». In questo quadro stava l’attenzione posta da Berlinguer alle nuove forze sociali che emergevano sulla scena politica: nell’epoca che vedeva l’ingresso «nella storia del mondo delle masse sterminate di popoli già oppressi dal colonialismo e dall’imperialismo», si assisteva anche all’entrata «sulla scena della storia e della politica di nuove masse, nuove aree sociali come le donne, i giovani, i giovanissimi, gli emarginati, decisi a contare, ad esigere che le proprie aspirazioni [fossero] soddisfatte dai partiti, dalla società, dallo Stato». Così scriveva in un articolo su «Rinascita» del dicembre 1981. Protagonisti che dovevano essere ascoltati e sui quali Berlinguer nel corso degli anni pose sempre maggiore attenzione. A questo proposito vorrei sottolineare l’importanza nella politica di Berlinguer della questione femminile, che non fu tema di un solo periodo, ma tema centrale, visto con la sensibilità e l’attenzione, oltre che con la profondità politica che lo caratterizzava. Un tema certo non assente nella storia del Partito comunista, ma che acquistò con lui una piena centralità. Anche la questione femminile era vista da Berlinguer in un contesto più ampio: come disse nell’intervista a Carla Ravaioli del 1976 (La questione femminile. Intervista col Pci, Milano, Bompiani, 1976), «l’emergere così clamoroso della questione femminile oggi si iscrive a mio parere in questo vasto fermento che scuote il mondo intero», che riguardava «vasti gruppi sociali e interi popoli che per secoli o addirittura per millenni sono stati assenti dalla storia, i paesi del Terzo mondo, le zone tradizionalmente oppresse e sfruttate, tutti i cosiddetti “emarginati”».

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Quello che si può osservare – e in questo mi pare ci fosse una posizione molto avanzata – è che la donna, la questione femminile non erano isolate, non erano viste come questioni che riguardassero solo le donne – affermava – ma come questioni che interessavano e dovevano «impegnare in prima persona il partito come tale, tutto il partito». Così come le battaglie delle masse femminili erano ritenute da Berlinguer un «fattore decisivo per far avanzare tutta la società italiana sulla via di una profonda trasformazione dei suoi ordinamenti economici e sociali», come disse in due interventi del 1975 e del 1974, ricordati da Aida Tiso (I comunisti e la questione femminile, Roma, Editori Riuniti, 1976). Se rileggiamo le Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile del 1973 [“Rinascita”, settembre-ottobre 1973, ndr], vediamo ad esempio come la donna fosse inserita all’interno del discorso sulle alleanze e dell’analisi della stratificazione sociale del paese. Le masse femminili erano infatti considerate da Berlinguer assieme a quelle forze sociali (larga parte delle popolazioni del Mezzogiorno e delle isole, delle masse giovanili, delle forze della scienza, della tecnica, della cultura e dell’arte), «che non sono assimilabili nella dimensione di categoria e che tuttavia hanno una condizione sociale che le accomuna e le unisce, al di là della propria posizione professionale». La politica del Pci doveva porsi l’obiettivo dell’alleanza anche con queste categorie non definite. Dal momento che la «strategia delle riforme» poteva affermarsi solo se sorretta da una «strategia delle alleanze». In tempi lontani da questi, Berlinguer avrebbe parlato a proposito delle donne, dei giovani, degli anziani, del sottoproletariato urbano di «masse sindacalmente non definite e organizzabili», che tuttavia non per questo ponevano esigenze meno rilevanti di altre categorie (luglio 1981). La spinta principale che fece diventare la questione femminile aspetto centrale della politica del Pci e che la impose a

livello politico italiano, fu naturalmente la vittoria dei no al referendum abrogativo del divorzio nel maggio 1974, con il 59% dei voti, una vicenda che si collocava all’indomani dei movimenti degli anni ’60 e del movimento femminista. «Una grande vittoria della libertà, della ragione, del diritto, dell’Italia che è cambiata e che vuole andare avanti», la definì Berlinguer nella dichiarazione rilasciata dopo i risultati; la «prima vittoria laica di massa della storia italiana», affermò nella riunione della direzione che esaminò i dati, ottenuta grazie al grande contributo delle «masse femminili le quali esprimono una spinta crescente all’emancipazione, alla libertà, al rinnovamento generale del paese». Da questa fase prenderà ulteriore slancio la sezione femminile del Pci, prima diretta da Nilde Iotti e ora da Adriana Seroni; così come inizierà il grande impegno delle deputate e dei deputati, non solo comunisti, per l’attuazione di quelle leggi che molto hanno cambiato per la modernizzazione del paese e della condizione della donna, a cominciare dalla fondamentale Riforma del diritto di famiglia (19 maggio 1975, n. 151), voluta dalle comuniste Nilde Iotti e Giglia Tedesco, e dalle democristiane Franca Falcucci e Maria Eletta Martini, all’Istituzione dei consultori familiari (29 luglio 1975, n. 405), alla Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (9 dicembre 1977, n. 903) fino, per rimanere negli anni ’70, alle Norme per la tutela sociale della maternità e l’interruzione della gravidanza (22 maggio 1978, n. 194). In un discorso del luglio 1981 alla festa nazionale delle donne a Venezia sulla vittoria dei no al referendum per l’abrogazione della legge 194 sull’aborto (oltre il 68%), Berlinguer definì questa «una delle più importanti» vittorie delle donne. Al tempo stesso, rimproverò la sottovalutazione del risultato da parte dei partiti, compreso il proprio, perché

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Enrico Berlinguer

sembrava si desse importanza solo a risultati relativi a elezioni politiche o amministrative. A questi ragionamenti Berlinguer rispondeva che non c’era solo la politica, secondo quel suo modo di concepire i problemi non in termini meramente politici di cui si è detto. Per Berlinguer, in particolare, non si dovevano trascurare «quei movimenti che si manifestano nella società, nelle idee e nei costumi, che sono parte viva e indice di ciò che si muove nei pensieri e nei comportamenti di un popolo». In realtà era proprio la politica tradizionalmente intesa ad esser cambiata e questo era dovuto alla «presenza innovatrice della donna» su scala mondiale: proprio di questo non ci si era resi pienamente conto. Oggi bisognava prendere coscienza che «le donne sono portatrici di esigenze, di bisogni e anche di proposte che indicano soluzioni nuove a problemi che esigono un intervento in campi e modi nuovi dello Stato, delle istituzioni, del governo centrale e delle amministrazioni locali». La donna, insomma, assumeva piena centralità nella politica. Quella di Berlinguer era una posizione grandemente avanzata per il ruolo che

affidava alla donna nella battaglia politica del partito comunista: l’apporto della donna in questa battaglia non era dato semplicemente dal fatto che essa rappresentava una «forza quantitativamente enorme», ma era un apporto della «donna in quanto tale – sono sempre sue parole del discorso di Venezia –, per i suoi valori specifici, per le esigenze peculiari, per le idee di cui essa è intrinsecamente portatrice». Mi sembra che Berlinguer sia stato tra i primi a insistere su questo aspetto della specificità della donna, che per il suo essere donna, è portatrice di un valore aggiunto. Da qui un lungo cammino è stato fatto, anche se le violenze che continuano a verificarsi a ritmo crescente fanno temere una terribile regressione sociale. Sempre più donne però occupano posti di rilievo e ruoli di governo. Le numerose giovani donne protagoniste di questa legislatura, a cominciare dalla presidente della Camera dei deputati, e del governo sono segno di passaggi significativi. Enrico Berlinguer in questo – come per altro – ha svolto un ruolo importante e di grande apertura.

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GUIDO CORTESE

Il 14 maggio 2015 presso la Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei deputati è stato presentato il volume Cortese – discorsi parlamentari pubblicato dalla Biblioteca della Camera. Il volume raccoglie gli interventi alla Costituente e alla Camera. Ha introdotto l'incontro il questore della Camera Paolo Fontanelli e sono intervenuti Antonio Patuelli, Giorgio La Malfa, Luigi Compagna e Fulvio Tessitore.

Paolo Fontanelli

Sono particolarmente lieto di introdurre la presentazione dei “Discorsi parlamentari” di Guido Cortese, una delle personalità più significative non solo del liberalismo italiano ma anche di quella corrente ideale che guidò la costruzione della democrazia italiana tra la Costituente e le prime legislature repubblicane. I relatori illustreranno con sicura competenza gli elementi centrali dell’azione politica e culturale di Cortese, restituendoci l’originalità del suo pensiero, che si sviluppò dal un liberalismo di impronta crociana a un crescente interesse per le riforme sociali, e anche l’intensità della sua attività politica, svoltasi in un lasso di tempo relativamente breve, tra la caduta del fascismo e la prematura morte. In questa breve introduzione mi limito a sottolineare la ricchezza e la varietà degli interventi parlamentari raccolte nel volume dei “Discorsi”. Il volume ci restituisce l’integralità dell’azione parlamentare di Guido Cortese, che si svolse dal 1946 al 1964, con una interruzione nel periodo della prima legislatura repubblicana, dal 1948 al 1953, nella quale Cortese non fu eletto. Anni intensi, in cui Cortese assunse anche cariche di governo, quella di Sottosegretario alle finanze nel Governo Scelba (1954-1955) e poi quella di Ministro dell’industria nel Governo Segni (1955-1957) Le tematiche oggetto dei discorsi sono numerose e varie. Se all’Assemblea

costituente Cortese intervenne soprattutto su grandi questioni di fondo, dall’articolo 1 del progetto di Costituzione alle tematiche dei rapporti economico-sociali, nella seconda e terza legislatura la sua azione parlamentare spaziò su un ventaglio estremamente ampio di temi e questioni. Basti ricordare i suoi interventi sulla questione di Trieste; quelli – assai numerosi – su specifiche questioni economiche e sui bilanci; quelli sui problemi di Napoli e del Mezzogiorno e sulla politica energetica; fino al suo ultimo intervento in Assemblea, nel quale Cortese rievocò l’anniversario della presa di Roma con una schietta professione dei valori liberali e risorgimentali. Già questa sommaria enunciazione dei temi trattati da Cortese rende ragione della pubblicazione di questo volume all’interno della collana dei “Discorsi parlamentari”, che è la più antica collana editoriale della Camera e che - come spesso torno a sottolineare - valorizza singole figure e momenti della storia parlamentare italiana non sulla base di un principio di appartenenza politica, ma a partire da una riflessione istituzionale che si propone come fine quello di offrire agli studiosi ed ai cittadini testi preziosi per la comprensione delle vicende politiche e istituzionali dell'Italia. La finalità ultima della collana, e di questa pubblicazione in particolare, non è dunque meramente rievocativa e celebrativa, e tanto meno appiattita su

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Guido Cortese

contingenti motivazioni politiche. Si tratta invece di riannodare i fili del rapporto tra la nostra storia parlamentare e i problemi politici e sociali del presente, contribuendo a superare la perdita di memoria che, per varie ragioni che non posso qui approfondire, sembra spesso caratterizzare la fase storica che viviamo e lo stesso discorso pubblico. Da ciò deriva l’attenzione che la Camera, sede della rappresentanza nazionale in tutte le sue complesse articolazioni, riserva alla valorizzazione di tutte le culture politiche, anche elettoralmente minoritarie, che hanno fornito un contributo importante alla costruzione, prima, dello Stato unitario e poi della democrazia repubblicana, giungendo fino alle soglie dell’attualità. Proprio la limpida e elegante figura di Guido Cortese, come per altri versi quelle di Aldo Bozzi, Luigi Preti e Roberto Tremelloni, di cui pure sono stati recentemente pubblicati i “Discorsi”, dimostra il ruolo decisivo assunto, soprattutto nelle prime legislature repubblicane, da partiti politici relativamente piccoli, ma culturalmente e politicamente ricchi e significativi, come quello repubblicano, quello socialdemocratico o, in questo caso, quello liberale. Sotto questo punto di vista, direi anzi che la vicenda di Cortese è particolarmente emblematica. Cortese apparteneva a una forza politica piccola che, nei primi della repubblica, conobbe grandi travagli interni e alterne fortune elettorali ma che diede un contributo culturale e politico ricchissimo, quasi sublimando gli storici ideali liberali nella costruzione di una democrazia avanzata, una democrazia dei diritti e delle libertà ormai non limitate a una ristretta e nobile élite ma diffuse e garantite dalla Costituzione. Di questa stagione, Cortese fu uno dei maggiori protagonisti e ne espresse tutta la ricchezza e l’articolazione. Fortemente legato all’ambiente del liberalismo napoletano, che trovava in Croce la sua

guida, pur riflettendo un più ampio ventaglio di posizioni, Cortese seppe far evolvere il suo genuino liberalismo e il suo meridionalismo in direzione di un riformismo che si apriva al riconoscimento della necessità di strategie di programmazione economiche. E’ questo, a mio parere, uno dei più significativi contributi di una vita politica che Cortese intese, nel solco della più alta tradizione liberale, in termini di servizio al Paese e visse con una partecipe attenzione alla realtà sociale dell’Italia e della sua città. Antonio Patuelli

Ringrazio l’Onorevole Fontanelli, la Camera dei Deputati e la Biblioteca per questa iniziativa che penso abbia prima di tutto un significato morale: a 51 anni, perché tanti sono, mezzo secolo, dalla scomparsa di Guido Cortese appare il volume che raccoglie i suoi discorsi parlamentari. Quindi non è né frutto di emozione, né frutto di spinta di forza politica; è frutto, invece, di un’energia intellettuale e morale che colma una lacuna in questa bellissima collana di formazione civica e civile che la Camera dei Deputati prepara per il passato, ma soprattutto per il presente e per l’avvenire. Io non ho conosciuto Guido Cortese per ragioni anagrafiche: sono del ’51. Ne ho sentito sempre parlare, ho conosciuto molto bene e rivolgo un saluto affettuoso e devoto ad Amelia, un ricordo affettuoso a Roberto, mio coetaneo; abbiamo avuto tanti momenti di incontro e in chi aveva conosciuto Guido Cortese mi è sempre stato raccontato di tante somiglianze intellettuali e caratteriali che lo avvicinava al padre. Avendo fatto, quindi, una piena immersione nei discorsi parlamentari di Guido Cortese, penso che il primo elemento di attualità sia la grande ispirazione ideale e morale che gli veniva dalla frequentazione in anni difficili della dittatura e della guerra, la frequentazione

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Antonio Patuelli

di casa Croce e di don Benedetto. Questo è l’elemento alto, ovverosia innanzitutto la cultura e il metodo. Questi discorsi parlamentari, e soprattutto quelli dell’assemblea costituente di Guido Cortese si incrociano molto bene con i carteggi e gli appunti di lavoro di Benedetto Croce da cui si vede che l’ispirazione culturale e morale non era di un eremita, ma di qualcuno che cercava di suscitare il metodo della libertà chiamandolo anche con un titolo che oggi useremmo con molta più parsimonia, quello di religione della libertà. Nella religione della libertà Guido Cortese è cresciuto e si è affacciato negli anni finali della guerra e nei primi anni della liberazione da un lato alla professione dall’altro soprattutto al giornalismo attivo come tribuna di pensiero e di comunicazione per la creazione di una nuova Italia. L’impegno politico parlamentare è stato conseguente, non l’inverso, prima il pensiero e poi l’azione e di conseguenza la convergenza in una concentrazione che era quella dell’unione democratica nazionale che era di ampio respiro di carattere liberaldemocratico, metteva insieme i mostri sacri per i fascisti innanzitutto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi di uno spettro molto ampio che non era solamente il filone classico postgiolittiano, ma che cercava di rappresentare una spinta occidentale al di fuori delle forze dei nuovi partiti cosiddetti modernamente organizzati. Io penso che l’assemblea costituente sia in questa fase della repubblica e dello spirito della nostra Italia un luogo dove andare a recuperare i germi della forza

morale della ripresa dell’Italia dopo 7 anni di grave e lunga crisi. E ho trovato nei discorsi di Cortese e nella sua storia del biennio della costituente degli elementi attualissimi anche per le vicende di natura economica. Innanzitutto il contesto: allora era paradossalmente l’opposto di quello attuale. In sostanza, la piazza nel ’46 sollecitava il cambio della moneta, esattamente in antitesi con quello che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, dove il cambio della moneta è stato demonizzato da molti in termini preconcetti, non criticato per come è stato realizzato. Giovanni Malagodi, che fu innanzitutto il braccio destro di Raffaele Mattioli in quella che lui definiva la prima vita, mi ha insegnato “Antonio, stai attento che quando viene cambiata la moneta normalmente vi è immediatamente un impatto negativo che vi è dal cambio iniziale, poi lo sviluppo successivo può anche essere diverso. Ebbene, Einaudi, che se ne intendeva di moneta e che era il governatore della Banca d’Italia dal gennaio del ’45, un governatore che veniva dall’esilio svizzero, da dove nel dicembre del ’44 era stato prelevato con un aereo facendo una lunga circumnavigazione dalla Svizzera per arrivare a Roma passando dalla Francia, ebbene Einaudi, che era stato voluto dal governo di cui ministro del Tesoro era Marcello Soleri, ovverosia il discendente morale diretto più immediato e anche conterraneo di Giovanni Giolitti, Einaudi evitò quel cambio di moneta e fu protagonista, da governatore in carica della Banca d’Italia, perché era governatore che aveva lasciato gran parte delle sue

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Guido Cortese

funzioni al direttore generale della Banca d’Italia Menichella che gli sarebbe successo al governatorato solamente dopo aprile del ’48, dopo l’elezione di Einaudi stesso alla presidenza della Repubblica. Ebbene, il governatore Einaudi è il mattatore delle discussioni economiche e monetarie alla costituente. E uno degli interlocutori di Einaudi è proprio Guido Cortese, che apparteneva a una tradizione crociana napoletana che la vulgata descrive in maniera diversa da come si è sviluppata. La vulgata prevede un conflitto fra Einaudi e Croce quasi di incomunicabilità. Quello, invece, non era un conflitto ma la sublimazione di un dibattito di alta qualità. Basta leggere i taccuini di Croce, i carteggi tra Croce e Giovanni Laterza per vedere com’era l’emozione di Croce e a casa Croce quando il senatore Einaudi arrivava loro ospite e come era la quotidianità intensa del confronto intellettuale, morale, civile e anche politico tra Einaudi e Croce in quei momenti che non erano certo saltuari. In questa cornice i dibattiti della costituente e ve n’è uno oggi di particolare interesse, che è stato quello relativo alla formulazione di quello che è attualmente, tuttora l’articolo 47 della Costituzione, che dispone che la Repubblica tutela il risparmio. Ebbene, Guido Cortese, a integrazione della parte iniziale di quell’articolo nella sua formulazione originaria, fece aggiungere “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”; il che è qualcosa di maggiormente vincolante e da questa parte dell’articolo 47 si è sviluppata, soprattutto nell’ultimo trentennio, tutta la normativa che tutela le forme, prima di allora sconosciute in Italia e oggi invece assolutamente usuali, di risparmio gestito nelle forme che sono consuete nell’Occidente. In quel discorso del medesimo anno 1947 che Cortese fece in occasione della fiducia al quarto governo di Alcide De Gasperi, vi è un’affermazione che si collega proprio a questi principi dell’articolo 47 e che oggi bisognerebbe avere assolutamente

ben chiari dopo 7 mesi dalla nascita dell’unione bancaria europea. Cortese disse “quando il traffico economico deve essere regolato, deve esserlo senza rendere il viandante un automa con prescrizioni che lo meccanicizzino”. Questo esempio del viandante economico è il cittadino, è il risparmiatore, è l’operatore economico, l’operatore bancario che deve avere delle regole, quindi non un liberista estremo, ma un liberal-democratico di grande equilibrio. Però, il viandante economico non deve essere un automa con prescrizione che lo meccanicizzi. Questo esempio mi sarà caro nei prossimi mesi perché stiamo vivendo una fase di normazione da plurime fonti del diritto, soprattutto di natura europea che stanno portando in una situazione di contraddizioni nella crescita dell’unione bancaria e quindi nella ripresa economica e produttiva di tutto un mondo che non può essere limitato a quello che è il far banca esclusivamente. Mi avvicino alla conclusione: c’è qualcuno che meglio di me potrebbe già in questa sala parlare di Guido Cortese ministro. Il ministro Cortese è colui che dal ministero dell’Industria è stato uno dei principali protagonisti di quello che è passato alla storia come il miracolo economico perché vi ha condensato i principi che ha espresso nei dibattiti alla costituente in una prassi di governo che è stata foriera di incoraggiamento verso la ripresa economica e anche foriera di anticipazioni lungimiranti per tutta una serie di politiche sull’energia elettrica e sull’energia nucleare. Se il pensiero di Cortese di metà degli anni ’50 fosse stato mantenuto al livello della memoria anche nei decenni successivi non avremmo avuto tutto un arco quarantennale prima di nazionalizzazione delle leggi elettrica molto costosa per lo Stato e disincentivante per l’impresa privata in Italia e poi, dopo qualche decennio, la privatizzazione della medesima. Nel pensiero e nell’ azione di Cortese ministro vi era già una

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Luigi Compagna

meditazione in questo proposito. Cortese ha avuto un’altra forte esperienza che è quella di congiungere il filone crociano, che è uno degli ultimi segmenti del giolittismo; ma qui Luigi Compagna mi è ulteriormente maestro anche da autore di un interessantissimo libro molto recente di collegare questo filone che tramite Croce andava dal buon governo di Giolitti a uno stato austero e autorevole quale fu quello dell’ultimo governo di Giolitti, quello che cacciò l’eversione dannunziana da Fiume, che minò lo stato unitario e costituzionale e aprì la strada a un’altra marcia non su Fiume, ma su Roma dell’ottobre del ’22. Ebbene, nell’ autunno del ’51 Croce molto anziano, quasi alla vigilia della morte, utilizzò a fondo proprio Guido Cortese alla ricerca di un tentativo che era più intellettuale e culturale prima ancora che politico per ricongiungere questi due filoni dell’ispirazione giolittiana più austera e più riformatrice. E quindi l’incontro con l’erede di Soleri, che era morto nel ’45 molto precocemente, che era Bruno Villabruna, uno degli artefici dell’esperienza del mondo ritrovando tutta questa ragnatela di cultura e moralità elevata e di impegno civile, io mi sono spiegato molto chiaramente perché i nostri vecchi, che non sono più con noi di persona, ma che lo sono di spirito, quando parlavano di Guido Cortese parlavano di qualcuno che mancava loro per valori elevati e per intensità di un impegno civile che non andava disperso e che oggi è ulteriormente condensato in questo bel libro. Complimenti alla Camera dei Deputati, a chi lo ha patrocinato e al direttore della biblioteca Antonio Casu, estremamente meritevole sempre.

felice della vita politica di Guido Cortese avvenne fuori del Parlamento, dopo essere stato membro della Costituente, nel ’48 Guido Cortese non fu eletto, fu però un personaggio di primissima fila nel dibattito politico nazionale come vicesegretario del partito liberale di Villabruna ed era in qualche modo più che una scelta generazionale: Guido Cortese sembrava l’esponente della federazione giovanile quando era entrato alla Costituente nel blocco dell’unione democratica nazionale al fianco dei mostri sacri citati da Patuelli. Come aveva documentato un interessantissimo volume promosso dalla Fondazione Cortese, il contributo di Guido Cortese alla Costituente è di altissimo livello ed è assai più incisivo e propositivo di tutti e quattro i mostri sacri messi assieme. Ci sono proposte che Guido Cortese a un certo punto, per spirito di gruppo, deve ritirare a favore di quelle di Einaudi, e altre che dimostrano come Guido Cortese fosse il maggior cervello politico del partito liberale in via di costituzione, o di ricostituzione. Guido Cortese da questo punto di vista, benché giovanissimo, ha una biografia politica molto originale, ovviamente con il massimo rispetto dei mostri sacri, Guido Cortese è molto al di là di alcune questioni. Non è Cortese che si appoggia alla tradizione crociana, ma è esattamente il contrario. Andate a vedere l’attività politica e giornalistica del Guido Cortese a Napoli nell’immediato dopoguerra: quel momento lì per Croce è il momento del ritorno alla politica. La fase politica precedente Croce, lo ricordava Antonio, l’aveva svolta, “come si presta il servizio militare”, come ministro dell’ultimo governo Giolitti. A cavallo fra la fine della guerra e il dopoguerra, per una serie di circostanze Croce è un personaggio fondamentale Luigi Campagna della ricostituzione politica dell’Italia. Per tutta una serie di ragioni, compreso Raccolgo il testimone della staffetta da il fatto che lui non lo volle queste ultime considerazioni di Antonio esplicitamente, non diverrà capo dello Patuelli. Un periodo straordinariamente Stato, come avrebbero voluto Pietro 42


Guido Cortese

Nenni e Ugo La Malfa, ma questo proprio perché svolge un ruolo decisivo. È il congresso di Bari, presieduto da Croce, che detta le scadenze e le connessioni: Enrico De Nicola capo provvisorio dello Stato, scelta monarchia-repubblica rinviata e, soprattutto, piena accettazione dei partiti politici come elemento di riferimento della legittimità del nuovo stato. è un percorso rovesciato rispetto all’Italia cavouriana, quando nacquero stato e partiti, anzi i partiti maggiori nacquero in qualche misura all’opposizione dello Stato; pensiamo al partito socialista, Genova 1892, ma anche al glorioso partito repubblicano, 1895. Il partito liberale o non nacque mai o nacque addirittura nel ’22, in qualche misura in morte o in agonia dello Stato liberale. E invece a Bari Croce dice: “i partiti sono irrinunciabili”. Croce ha una polemica ideologica di grande profondità, molto dura e aspra con gli azionisti. Tenete presente che tra gli azionisti ci sono i figli di Croce, che non sono intellettuali, ma addirittura la figlia. E allora su scala napoletana di fronte a un attacco terribile che aveva fatto Adolfo Omodeo, braccio destro di Croce sulle pagine della critica sul progetto dell’Istituto Italiano per gli studi storici, poi Omodeo morì e subentrò Chabod, Omodeo nella tensione politica fa un attacco tremendo. Il cosiddetto partito liberale, tutti gli ex fascisti sono andati a dirsi liberali e Croce ha la prudenza e l’intelligenza di non aprire nessuna polemica personale nei confronti di Omodeo e quindi di far rispondere all’unico interlocutore politico che Croce riteneva adatto: Guido Cortese, che risponde a Omodeo con una fermezza per quello che riguarda gli insulti di cui era stato destinatario, ma con una eleganza, considerando la distanza di anni di prestigio che distingueva questo promettentissimo avvocato penalista napoletano da un grande storico. Ma c’è qualcosa di più: quando Cortese sui grandi giornali

napoletani (La Libertà, il Giornale, anche questi sono stati raccolti da Amelia Cortese) deve firmare dei corsivi si firma Barnave, un protagonista moderato della rivoluzione francese, un fogliante, un più che girondino nel costituzionalismo. Da questo punto di vista è straordinario perché una revisione di atteggiamento rispetto al derapage giacobino, una riscoperta di Barnave l’avemmo soltanto 50 anni dopo, quando il povero Cortese era morto quella tristissima estate, forse settembre, a Cortina con François Furet, col revisionismo storiografico; quindi c’era una straordinaria intelligenza politica, una straordinaria cultura politica di questo personaggio, che era assolutamente complementare al mondo della tradizione forense, De Nicola per tutti, ma assai più asciutto, non voglio dire macchiettistico ma meno estemporaneo di don Enrico De Nicola, che non aveva avuto nessuna difficoltà all’elezione del primo capo dello Stato a fare il tifo per Luigi Einaudi contro il candidato frontista delle sinistre, che sarà poi Enrico De Nicola negli ultimi scrutini. Cortese ha una fisionomia di cultura liberale per certi versi di straordinaria modernità e per certi versi di straordinarie radici ottocentesche, cavouriane, giolittiane e quindi questo ruolo che Croce gli assegna, prova tu a riunificare è il famoso manifesto dell’unificazione liberale del ’51 Cortese è una figura di una freschezza e di una novità straordinaria. In questo libro meritorio e meritato si direbbe che non ce n’è traccia perché Cortese, che fu costituente, non partecipò alla prima legislatura, Patuelli lo conosce bene come storico degli atti dei consigli nazionali e dei congressi liberali, nelle legislature qui documentate è già proiettato verso quell’attività di governo, prima sottosegretario alle finanze e poi ministro dell’industria di grande importanza riformatrice e forse qui possiamo ricordare un giovanissimo ministro dell’industria che ci ha lasciato

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Giorgio La Malfa

circa un mese fa, che sarebbe stato con noi oggi, Renato Altissimo: ogni volta che veniva a Napoli da ministro dell’industria aveva l’eleganza per cogliere questi aspetti, si sentiva psicologicamente intimorito dal Guido Cortese ministro e dal Guido Cortese dopo che era stato ministro, semplice parlamentare, animatore del famoso emendamento del 40%. Da questo punto di vista il libro è un atto dovuto verso una grandissima personalità. Antonio diceva liberaldemocratico e certamente così lo si può definire. Guido Cortese ha sempre avuto, anche a Napoli nel periodo in cui c’era qualcuno nel partito liberale che vagheggiava la grande destra, rapporti con tutte le forze democratiche ed è stato sempre, anche in solitudine, avversario tenace del laburismo, del populismo, delle demagogie connesse. Nello stesso tempo, però, Guido Cortese liberaldemocratico certamente, però quando Zaghi per il suo giornale gli propose: io preferirei una linea più democratica e meno liberale, lui gli rispose “forse hai ragione, ma per me liberale è sempre stato un sostantivo. Considerarlo soltanto un aggettivo, mi mancherebbe qualche cosa”. Da questo punto di vista proprio un personaggio come Cortese ha consentito che nel momento nel quale tanti liberali in altre parti sbandassero, i liberali napoletani hanno cercato di sbandare un po’ meno e questo volume ne ricostituisce un po’ la memoria e un po’ dà atto a un personaggio sul quale il meglio era quello nell’antologia curata da Gaetano Pecora, Il Cortese costituente, compresa quella bellissima lettera a quel sacerdote nella quale Cortese accettava con straordinaria ironia, in questo era democratico vero e serio, il dato cronistico di non essere stato rieletto deputato nel ’48. Da questo punto di vista credo anche io che la Camera abbia fatto non bene, ma benissimo a inserire Cortese fra i grandi parlamentari della nostra storia.

Giorgio La Malfa

Sono molto grato dell’invito a presentare questo libro che viene attraverso la cortesia di Antonio Patuelli, perché non avendo conosciuto Cortese, leggere i discorsi parlamentari è stata una cosa di notevole interesse e sono grato per questa occasione. Lascio la parte dei discorsi che riguardano l’assemblea costituente, di cui hanno parlato sia Patuelli che Compagna, dove ci sono effettivamente delle pagine molto belle. C’è un discorso che riguarda l’articolo “la Repubblica è fondata sul lavoro” in cui con molta ironia Cortese discute l’opportunità di mettere questa cosa, però dice “se lo vogliamo scrivere come auspicio, va bene”. Ma poi si sofferma a criticare la seconda parte della proposta, che poi non c’è nella Costituzione, nella quale si diceva “ciascuno però ha il dovere di concorrere secondo i suoi mezzi ai fini della Repubblica” e dice “ma poi chi decide quello che uno fa?”, la preoccupazione di un regime autoritario che nasca dalla Costituzione. Queste sono pagine molto belle. Poi sono andato a leggermi i discorsi più di carattere economico e viene fuori la figura di un liberale moderno, non di un liberale conservatore. Per esempio i discorsi sul Mezzogiorno sono molto importanti. C’è una difesa della politica meridionalista che è fatta con un linguaggio molto moderno. Ci sono delle frasi in cui ricorda a un’Italia che già allora era sbadata sul problema meridionale, che non si potrà parlare di uno sviluppo del Paese se non si riuscirà a coinvolgere in questo processo di sviluppo i venti milioni di abitanti delle zone meridionali e la difesa della necessità dell’intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno. Non c’è da nessuna parte una difesa ideologica dello stato minimo, dell’assenza dell’intervento pubblico, cioè la necessità che questo intervento pubblico sia ben strutturato e c’è la rivendicazione di quella proposta cui ha

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Guido Cortese

fatto cenno Luigi Compagna di aver introdotto l’obbligo per le imprese pubbliche di investire nel territorio di Trieste e nel Mezzogiorno il 40% degli investimenti. E la contestazione che nonostante questo sia stato sancito in legge, secondo una proposta che era stata del gruppo liberale, cioè di Cortese, né l’Iri né ancor meno l’Eni realizzavano questo impegno del 40% dei loro investimenti nel Mezzogiorno. E poi c’è un bellissimo discorso su Napoli: è deputato di Napoli e difende i sostegni pubblici al bilancio contro il dissesto del bilancio comunale di Napoli, ma di fronte alla contestazione che gli viene da molti parlamentari, dall’On Dosi che è un parlamentare democristiano relatore di quel provvedimento, c’è una puntigliosa descrizione del numero di dipendenti del Comune di Napoli, che non è affatto superiore, ma inferiore al numero dei dipendenti del Comune di Milano, oltre che di Roma; della spesa per dipendente del Comune di Napoli che è inferiore alla spesa per dipendente del Comune di Milano e del fatto che se è vero che le tasse pagate dai cittadini napoletani sono un terzo di quelle pagate dai cittadini milanesi, Cortese fa osservare che il reddito pro capite dei cittadini milanesi è tre volte il reddito pro capite dei cittadini di Napoli e che quindi l’incidenza, quella che oggi chiamiamo la pressione fiscale sul cittadino del Mezzogiorno, è maggiore di quella che è l’incidenza fiscale sul cittadino del Nord. Insomma, una difesa non petulante, ma così come deve essere fatta, delle ragioni del Mezzogiorno. Quindi una posizione moderna. E c’è poi un discorso molto interessante al momento della nazionalizzazione dell’energia elettrica, dove peraltro c’è una polemica molto garbata con mio padre: il centrosinistra di Fanfani aveva accettato la richiesta dei socialisti di nazionalizzazione dell’energia elettrica e Cortese mette in contraddizione la nota aggiuntiva che mio padre aveva proposto come base della politica di

programmazione, con la decisione di anticipare. Legge la nota aggiuntiva e dice: ma il ministro dei bilancio dice che al termine dell’esame della preparazione del programma che richiederà alcuni anni, predisposto da una commissione di studiosi, di sindacati e di imprenditori, vi saranno le decisioni operative di politica industriale. E dice: ma allora come facciamo ad anticipare rispetto alle determinazioni che nasceranno dalla politica di programmazione facendo adesso la nazionalizzazione dell’energia elettrica? Ma discute con grande stile e garbo. Quindi viene fuori una figura di liberale; mi diceva Luigi Compagna che in una trasmissione televisiva a un certo punto mio padre si rivolse a Cortese dicendo “lei però è un liberale moderno” e Cortese rispose “no, io sono un liberale” come per rivendicare senza farsi trascinare in questa captatio benevolentia di dire “lei è diverso da Malagodi”, che poi era quella la polemica che veniva mossa. La lettura di tutto questo, a parte l’interesse, mi ha fatto riflettere su quello che diceva anche Luigi su Croce, sul partito d’azione, ma in fondo queste forze laiche, eredi del risorgimento, i liberali, gli azionisti, i repubblicani, trascorsero questi anni fondamentali per la vita della Repubblica senza forse capire fino in fondo che di fronte all’emergere di forze popolari poderose, la democrazia cristiana in primo luogo, i socialisti, i comunisti, probabilmente essi dovevano essere in grado di risolvere le loro differenze e formare qualcosa che fu tentato in molte occasioni, ma di fatto non è mai riuscito, se non in una elezione europea, cioè i monarchici repubblicani, intervento pubblico maggiore, intervento pubblico minore, nazionalizzazione, il non aver saputo superare quelle differenze e formare uno schieramento di forze di origine liberale o risorgimentale in fondo ha lasciato uno spazio troppo grande alla dominazione assoluta nel parlamento del dopoguerra hanno avuto le forze cattoliche e poi le forze socialiste e

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Fulvio Tessitore

comuniste. Forse, se Malagodi e lo stesso Benedetto Croce, il partito d’azione aveva un sogno, che era quello di eleggere come primo presidente della Repubblica Benedetto Croce, questa era l’idea di Tino e di mio padre, e questo non si risolse perché Benedetto Croce a un certo punto rifluì sull’idea monarchica e poi aveva ostilità verso molti esponenti del partito d’azione, Guido Calogero soprattutto e alcuni suoi allievi che si erano spostati, come Omodeo e De Ruggiero sul partito d’azione. Ma se si fosse riusciti a tenere insieme quelle forze liberali e democratiche di origine risorgimentale, forse l’evoluzione della storia italiana sarebbe stata un po’ diversa da quella che è stata. Dalla lettura di questi discorsi viene fuori che questo mondo liberale aveva più elementi in comune degli elementi di differenza. L’ultima cosa che voglio dire è una testimonianza personale: tornando dall’estero dove ho studiato andai a insegnare a Napoli, dove arrivai nel 1966 e la prima persona che incontrai a Napoli fu Francesco Compagna, che andai a trovare a Nord e Sud. Napoli, che era una straordinaria città con la vita culturale vivissima, molto vicina attorno a Nord e Sud e un’altra parte attorno alla rivista del partito comunista, a Giorgio Amendola, la vita culturale che si svolgeva attorno alla libreria di Macchiaroli. Il nome di Cortese era un un nome che aleggiava ancora molto, era scomparso nel ’64, ma era un interlocutore di quel mondo liberale e Francesco Compagna, che era a metà strada tra il mondo liberale, il mondo repubblicano e il mondo socialista, si sentiva ed era l’erede anche di quella cultura liberale. Del resto alle manifestazioni di Compagna qualche volta avemmo anche il piacere di avere la Signora Cortese, che veniva ad ascoltarlo. Insomma era un mondo che metteva più l’accento sulle cose che ci univano che su quelle che ci dividevano. Mi fa piacere essere qui a dare questa testimonianza e a dire queste poche cose

in ricordo di quella stagione molto importante per la vita italiana. Fulvio Tessitore

Sapevo e mi sono ancor più reso conto di essere il più vecchio degli interventori e quindi mi consentirete di iniziare né per vanità né per presunzione con una nota personale: io ho fatto in tempo a conoscere Guido Cortese e dirò come. Quando Guido Cortese è morto ero già, seppur giovanissimo, libero docente di Filosofia del diritto. L’ho visto due volte, ascoltato non in pubblico né leggendo le opere, ma in privato in casa di un altro liberale napoletano, un alto magistrato, Ugo Caristo, del cui primogenito Corrado, purtroppo scomparso prematuramente, sono stato a lungo compagno di banco e amicissimo. Amelia sicuramente già allora, oggi è addirittura accentuata, dominata dalla sua energia volitiva sicuramente non degnava nessuna attenzione a questo poco più che giovanotto che peraltro silenziosamente ascoltava. Per Amelia, ascoltare in silenzio era un atto poco frequente. Io ascoltavo in silenzio perché arrivavo a quelle conoscenze avendo fatto in tempo a leggere fin dagli anni ginnasiali Il Giornale e in questa occasione sono andato a consultare la raccolta corposissima dei miei ritagli e ho trovato molte cose di Guido Cortese ed ero anche lettore del Mondo di Pannunzio, mi considero un fortunato possessore dell’intera collezione, salvo pochi numeri perché li avrei dovuti comperare con i pantaloncini corti. Peraltro erano acquisti personali perché mio padre non era né liberale né repubblicano come me, ma era socialista. Perché ho iniziato con questo ricordo personale? Perché vorrei sottolineare due cose: un profilo personale, che d’altra parte emerge da questi discorsi, e in modo particolare da chi, sia pure fugacemente, lo ha conosciuto e poi ha letto attentamente la monografia che Amelia ha dedicato a

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Guido Cortese

Guido Cortese intitolandola Un liberale moderno e poi per indicare, e andrebbe verificata, una sottile differenza di tono a mio giudizio tra gli interventi giornalistici e anche quelli politicomilitante e i discorsi parlamentari dell’uomo di parlamento e dell’uomo di governo. Poiché, come tutti sanno, sono inguaribilmente professore, mi è venuto in mente, avendo questa sensazione da verificare, una cosa molto importante che vorrei ricordarvi e che sicuramente, anche per le cose che abbiamo sentito, non era estranea alla cultura di Guido Cortese allievo così intrinseco e anche così liberale e libero di Croce, e c’è una frase che mi sembra si adatti bene a queste poche cose che voglio dire del famoso discorso di Trani, gennaio del 1883, l’ultimo discorso di Francesco De Santis. In quel discorso, leggo soltanto poche parole, De Santis dice “io non sono per temperamento uomo di partito, non ho animo partigiano. La mia inclinazione è non di guardare dentro nel partito, ma di guardare al di sopra, lì nel Paese del quale i partiti sono istrumento”. Certamente un’illusione di De Santis. E conclude “i partiti sono tanto più forti quanto meno pensano a sé e più pensano al Paese”. Io credo, e non lo dico per la convenzionalità di essere presentatore di un libro peraltro di un personaggio che oggi merita un’indagine storica non un quadretto retorico, d’altra parte nessuno degli amici lo ha fatto, per loro fierezza intellettuale ma anche perché mi sembra che sia difficile farlo di fronte alle pagine di Compagna. Nel 1948, negli anni della costituente, dice “l’azione liberale è la più idonea a realizzare quella rete di effettiva giustizia sociale che va intesa come un accrescimento continuo di libertà individuale in ogni campo economico, politico, sociale e spirituale”. Vorrei richiamare la vostra attenzione su quest’ultima parola. Nello stesso discorso fa riferimento all’impegno liberale definendolo “una continua attività riformatrice tendente a servire

l’interesse generale del Paese nel rispetto più assoluto del costume democratico e della morale privata”. Compare già qui e non uscirà mai più dalla riflessione di Cortese questo binomio politica e morale, pubblica e privata. Nel 1952 c’è un’altra affermazione secondo me importante: “noi liberali abbiamo fatto una scelta politica che è innanzitutto una scelta morale. Il nostro antitotalitarismo è prima di tutto una posizione morale. Il nostro irriducibile antifascismo, il nostro irriducibile anticomunismo sono una protesta morale. E sul piano morale non ci sono possibilità di compromessi”. E conclude, per dare la dimostrazione che non era uomo di compromessi, “antifascismo per noi è un sistema di vita, una mentalità, una norma morale”. Non si devono leggere in queste affermazioni di così forte valenza, non etica della politica, direi di etica politica, è un’espressione che nella cultura italiana c’è poco ma che invece è un’espressione ragionata nella cultura tedesca. Questo è accompagnato a una grande lucidità politica, come è stato sottolineato dai colleghi e dagli amici, a cui aggiungerei senza timore di smentita, una preveggenza, con una consapevolezza drammatica di quello che poteva succedere, che è la testimonianza di chi aveva una cultura politica non soltanto una prassi politica. Nel ’63, quindi poco prima della morte, dice “noi stiamo perdendo il senso dello Stato, della sua continuità e della sua autonomia, cioè dell’identità statale, che è una debolezza storica del nostro Paese. Così come stiamo perdendo la visione dell’interesse generale, sostituendola con una visione di parte, di classe, di partito, di interessi personali e campanilistici. Il governo non è lo stato e il partito non è il governo; la tessera di partito non conferisce precedenze e privilegi e motivi di discriminazione. L’erario dello Stato è alimentato dal danaro del contribuente, la spesa pubblica non è l’atto di elargizione paternalistica del partito al governo e degli uomini che

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dirigono al centro o alla periferia ai partiti. È tempo di riaffermare questi principi che dovrebbero essere ovvi e di ripristinarne l’osservanza restituendo dignità al costume di questo democratico paese di uomini liberi”. Quale può essere la conclusione di questo discorso? Leggerò soltanto un altro paio di frasi: la conclusione l’hanno detta tutti e anche io, lo ripeto, è quella definizione che rifiutò da La Malfa che in realtà gli si attagliava bene e che poi Amelia gli ha giustamente consacrato: un liberale moderno. Ma era un liberale moderno, a me questo profilo mi interessa qui sottolineare e non altri, anche per non ripetere le cose che sono state dette meglio di me e con maggiore competenza, era tale come credo che emerga da queste frasi che ho letto e da un’altra che ne voglio leggere, era un uomo intero. Questo si capisce dai discorsi e dalla descrizione sempre documentata che ne fa Amelia “un uomo che manteneva, e questo è il senso del rapporto politico e morale, vita pubblica e vita privata in stretto nesso”. C’è un documento che probabilmente emozionerà Amelia nel sentirmelo leggere ma che voglio leggere perché è la testimonianza di questo stretto nesso tra vita privata e vita pubblica, dove non c’era nessuna prevaricazione dell’una sull’altra. È un documento importante perché è una lettera che scrive da ex ministro ma nella sede del ministero, sopra ha messo “ex” accanto a ministro, 21 maggio 1957, è una lettera che scrive ad Amelia: “Gentile Signora, nel momento in cui termina il mio lavoro, desidero rivolgerle il ringraziamento più vivo per l’intensa e preziosa collaborazione che ella mi ha sempre dato, tanto più in questo, Gentile Signora, in quanto io so che senza di lei il mio lavoro che oggi ha fine non avrebbe avuto inizio. Fra poche ore parto e muoio un poco, ma per poco perché la vita riprenderà fervida e bella per merito suo, Gentile Signora, e punterà con fede verso l’avvenire perché

avrò accanto lei, suo devotissimo Guido Cortese”. Questo è sicuramente un nobile documento personale, e io non voglio finire con questo pur nobile documento personale, però mi sembra quello che aiuta a capire anche i motivi che sono stati sottolineati e che sono forti e non lo dico perché io non sono, per lo meno politicamente, liberale, sono forti per una precisa concezione del liberalismo in una società che per tanti versi non è più una società liberale e che emergono a mio giudizio in modo particolare nel Cortese meridionalista, che è un profilo che va sottolineato a mio giudizio fortemente. Anche qui mi limito a una sola citazione, che è molto importante perché come prima abbiamo sentito la consapevolezza di uno Stato che sta perdendo la sua consistenza, perché quelle frasi che ho letto, e ne potrei leggerne altre, significano con piena consapevolezza oltre che politica e storiografica che la debolezza di questo Paese è stata quella di non essere mai riuscito a costituire un sistema di classi, lo dico senza nessuna esitazione anche in termini marxistici che non significa comunistici, dirigenti ma soltanto un sistema di caste. È questo il significato della preoccupazione sulla tenuta dell’autonomia e dell’indipendenza dello Stato e della sua identità. In un discorso meridionalistico mi sembra del ’58 dice “io penso ai 2 milioni di disoccupati, alle centinaia di migliaia di analfabeti, alla povertà dignitosa di tanti strati del nostro ceto medio, alle nuove leve dei giovani che si affacciano alla vita chiedendo lavoro. Io penso al popolo (questo è importante, mi pare Luigi vi ha alluso e appunto testimonia la capacità di non ammettere compromessi) di questa mia città che dai tuguri, dall’angustia dei bassi, dalla vergogna delle baracche corre ad ammirare gli zampilli di una fontana (è la fontana di Piazza San Ferdinando) e le luminarie di Piedigrotta essendo come grande ed enorme sia la responsabilità della classe dirigente quanto cammino si deve ancora percor-

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rere, quanto lavoro c’è ancora da compiere nelle amministrazioni locali, nel parlamento, nel governo. E si rafforza sempre più in me la convinzione che giustizia e libertà, progresso economico ed elevazione morale, ordinamenti democratici e civile costume si realizzano soltanto in un moderno, in un saldo, in un armonioso stato liberale e democratico”. Prima a mio giudizio c’era la consapevolezza del possibile sfaldamento di quello stato che aveva contribuito a configurare come componente dell’assemblea costituente, qui avverte ancora una volta la deficienza di un’azione politica che non ha saputo essere azione culturale e sociale. Allora io credo che gli avrebbe fatto piacere se, avendo iniziato con De Santis, concludo con una frase che questa che ho letto di Cortese mi ha ricordato di un altro grande liberale e meridionalista, Giustino Fortunato. una frase che chiude un piccolissimo libro ma molto pesante, drammatico, scritto nel giugno del ’21 dopo la guerra sovvertitrice dove c’è la consapevolezza di quella che è stata la guerra e la consapevolezza di

quello che dalla guerra sta per venire. La frase è questa: “per la vita su cui l’umanità si è incamminata l’Italia non sarà più felice se non diverrà migliore, se la grande maggioranza dei suoi cittadini non avrà acquistato un sentimento sempre più altro della pubblica e privata moralità”. Oltre all’attualità, mi sembra ci sia una consonanza. Abbiamo parlato di Cortese, potremmo parlare, appunto giusta osservazione, di altri esponenti che stavano collocati politicamente una frase di questo genere l’ho trovata nei discorsi di ugo La Malfa. Nel ’21 Fortuna conclude in questo modo: “come dinanzi alla temuta solennità del mistero dovunque diffuso, colui che scrive piega qui il capo e trepido raccomanda sé e la Patria al Dio ignoto”. Lasciatemi formulare la speranza che il ricordo, e quindi mi associo anch’io alla benemerenza della Camera dei Deputati per questo volume, il ricordo di uomini come Guido Cortese e la lettura di questo libro che mi auguro possa essere fatta, la speranza che questo eviti ai nostri figli di intonare ancora una volta la tragica preghiera di Giustino Fortunato.



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