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TEMPO PRESENTE

N. 416-417 agosto-settembre 2015

euro 7,50

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GIUSEPPE SARAGAT *

PIETRO INGRAO *

a. aghemo g. averardi g. cantarano n. cariglia l. castellina d. de masi m. dogliani l. ferrajoli f. fornaro p.l. gregori t.l. rizzo r. rossanda a.g. sabatini a. tomassini g. zagrebelsky Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


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Angelo G. SABATINI

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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura N. 416-417 agosto-settembre 2015

Ricordo di GIUSEPPE SARAGAT

a 50 anni dalla nomina alla Presidenza della Repubblica SENATO DELLA REPUBBLICA, 15 APRILE 2015 SALA ZUCCARI, PALAZZO GIUSTINIANI SERGIO MATTARELLA, PIETRO GRASSO, ERNESTINA SARAGAT SANTACATTERINA, p. 3 FEDERICO FORNARO, p. 4 ANGELO G. SABATINI, p. 7 GIUSEPPE AVERARDI, p. 10 TITO LUCREZIO RIZZO, p. 14 PIER LUIGI GREGORI, p. 18 ALBERTO TOMASSINI, p. 20 DANILO DE MASI, p. 23 NICOLA CARIGLIA, p. 24 ALBERTO AGHEMO, p. 26

PIETRO INGRAO In onore dei suoi cento anni di vita ROSSANA ROSSANDA, p. 29 GUSTAVO ZAGREBELSKY, p. 32 LUCIANA CASTELLINA, p. 37 MARIO DOGLIANI, p. 41 LUIGI FERRAJOLI, p. 46 GIUSEPPE CANTARANO, p. 54


AL LETTORE

Nonostante le posizioni e le dispute politiche del secolo scorso abbiano acuito la contrapposizione, spesso aspra, tra formazioni politiche diverse, il buon senso della post-ideologia e uno sguardo sereno agli eventi e agli uomini delle diverse fazioni hanno consentito di costruire un pantheon di personaggi che alla politica hanno dato il meglio di sé a favore della realizzazione di una società democratica, quale è stata quella italiana a seguito della caduta del fascismo. Per il suo impegno civile e per l’opera intellettuale Pietro Ingrao è certamente da annoverare tra costoro. Festeggiato da molti suoi estimatori per i suoi cento anni e ricordato da Tempo Presente grazie alla riflessione di alcuni amici, oggi ci ha lasciati orfani di un cavallo di razza della politica. Leader della sinistra interna ad un partito, quello comunista, che non tollerava scissioni, abiure o eresie, egli si distingueva per la capacità a far vivere all’interno del corpus organizzativo e programmatico del partito il valore della partecipazione dei singoli all’affermazione della società dei diritti. Ma non in maniera oppressiva o autoritaria, come del resto il partito richiedeva nella scelta degli anni Venti, di vedere nella rivoluzione sovietica il messaggio e il mezzo operativo per la vittoria della classe operaia e la sconfitta di quella borghese capitalistica. Ingrao ha difeso e utilizzato la libertà culturale entro le maglie della gabbia opprimente del Partito a cui, però, non ha tolto il valore formativo di una coscienza politica richiamandolo al dovere di non opprimere il grumo della libertà individuale, il dubbio come sostanza coibente della soggettività che produce e non distrugge la prassi del fare politica, armonizzandovi le diverse istanze a favore di un progetto teso a superare le contraddizioni che inficiano la forza della classe operaia indirizzandola verso il regno di Utopia di una realtà redenta. Fermo a tale posizione Ingrao gettava nel partito un seme di formale spirito di liberalismo, accompagnandolo in un dibattito che non poteva non diventare aspro in occasione dell’ XI Congresso del PCI allorché il dirigente del partito, contravvenendo ad una regola ferrea di negazione assoluta di ogni deviazione (centralismo democratico), assunse un comportamento di aperto contrasto con la linea dominante chiedendo trasparenza nel dibattito politico dentro e fuori dell’organizzazione. Un atteggiamento questo che si è guadagnato il plauso da parte dei partiti di tradizione socialdemocratica e liberaldemocratica, i quali nell’aspra contesa “comunismo e anticomunismo” hanno riservato a Ingrao, alla sua ricca personalità intellettuale e politica, apprezzamento e a volte lode. Tempo Presente, che nei suoi padri fondatori nel 1955 governava una chiara delusione verso il PCI e negli anni della ripresa della pubblicazione (1980) ha mirato a rompere il dominio intellettuale della cultura comunista e cattolica, nella rivisitazione della storia politico-culturale, svincolata dall’asprezza del tradizionale conflitto ideologico, ha inteso dedicare attenzione a personaggi della storia repubblicana che hanno illuminato con il loro pensiero e con saggia partecipazione il panorama storico del Novecento. E tra costoro ha occupato un posto di rilievo il centenario Pietro Ingrao che nell’anno della sua celebrazione ci viene trasmessa la notizia della sua morte. 27 settembre 2015


Giuseppe Saragat

Il 15 aprile 2015, presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani del Senato della Repubblica, è stata ricordata la figura di Giuseppe Saragat a 50 anni dalla nomina alla Presidenza della Repubblica, con la partecipazione di Alberto Aghemo, Giuseppe Averardi, Nicola Cariglia, Danilo De Masi, Federico Fornaro, Pier Luigi Gregori, Tito Lucrezio Rizzo, Angelo G. Sabatini, Alberto Tomassini. Il Convegno è stato introdotto e condotto da Alberto Aghemo che ha letto i messaggi pervenuti.

Sergio Mattarella - Presidente della Repubblica Il cinquantesimo anniversario dell’elezione di Giuseppe Saragat a Presidente della Repubblica ripropone a tutti noi una personalità di straordinaria vitalità intellettuale e politica con la sua elezione di rigoroso antifascista ed esponente della rinnovata Italia dopo la liberazione. Con la sua militanza nel campo del socialismo democratico, con la sua coerenza in difesa dei principi di giustizia sociale e di tutela dei diritti dei lavoratori, Saragat è stata una figura esemplare nella nostra storia politica ed è stato altresì un interprete attento e sensibile del ruolo della più alta magistratura dello Stato. La forza delle idee e l’instancabile impegno che hanno contraddistinto il suo operato ci hanno consegnato un patrimonio di esperienze e di valori democratici nutriti e maturati anche in ambito europeo ed internazionale che costituiscono un punto di riferimento per la nostra vita civile. Nel rivolgere un pensiero deferente alla memoria di Giuseppe Saragat prego di volermi considerare idealmente presente all’iniziativa, mentre rivolgo a lei, professor Sabatini, e agli altri organizzatori dell’evento un saluto caro caloroso. Pietro Grasso - Presidente del Senato della Repubblica Caro Presidente, La ringrazio del cortese invito al convegno organizzato in occasione del cinquantesimo anniversario della nomina a Presidente della Repubblica di Giuseppe Saragat, che avrà luogo nella Sala Zuccari il 15 aprile prossimo. Concomitante sopraggiunti impegni istituzionali non mi consentono di partecipare, come pure aveva previsto. Desidero comunque unirmi idealmente a voi nel ricordo del grande statista Giuseppe Saragat, che è stato un protagonista della vita politica e istituzionale del nostro Paese. Riformista, atlantista, fondatore della dottrina socialdemocratica italiana, fu assertore convinto degli inscindibili ideali di libertà e giustizia sociale, punto di riferimento fondamentale per la costruzione e lo sviluppo dello Stato democratico. Di straordinaria attualità ancora oggi è la sua visione dell’Europa illustrata nel suo discorso di insediamento al Parlamento in seduta comune: “La costruzione di un’Europa democratica, economicamente e politicamente integrata, è un potente fattore di pace”. Ha interpretato in modo rigoroso e sensibile proprio la più alta magistratura della Repubblica e caratterizzò il settennato per la difesa dei valori dell’Antifascismo della Resistenza, ma soprattutto per lo sforzo di consolidamento delle istituzioni democratiche attraverso l’allargamento della base di consenso in Parlamento e nel Paese e la salvaguardia della funzione parlamentare che definì “salvaguardia della democrazia e condizione prima per lo sviluppo della giustizia sociale”. A lei e a tutti gli intervenuti rivolgo il mio più cordiale saluto, unitamente agli auguri di buon lavoro. Enestina Saragat Santacatterina - Figlia di Giuseppe Saragat Caro Professor Sabatini, cari amici, ho appreso con grande soddisfazione della bella iniziativa volta a ricordare la figura di mio padre in occasione del cinquantesimo anniversario della sua nomina alla Presidenza della Repubblica. Apprezzo molto l’intento di mantenere viva la memoria della testimonianza umana, istituzionale e politica di Giuseppe Saragat; ed è quanto mai lodevole il compito che avete assunto di trasmettere alle nuove generazioni il significato profondo per la sua eredità, un’eredità etica, civile e storica che ritengo ancora pienamente attuale. Sarei stata ben lieta di partecipare al ricordo e di offrire una mia personale testimonianza; me lo impediscono purtroppo motivi di salute. Sono tuttavia idealmente con voi, con il Presidente del Senato, con i relatori, con quanti presenziano alla commemorazione, grata di quanto saprete fare per rendere viva e attuale la figura e l’opera di mio padre. In questo spirito porgo a tutti voi un caro saluto unitamente ai migliori auguri di buon lavoro ed auspico di cuore il migliore esito per la bella iniziativa. 3


Federico Fornaro

Federico Fornaro

Ringrazio tutti voi, la Fondazione Matteotti per l’invito e il suo Presidente Angelo Sabatini; saluto tutti, in particolare il Presidente della Fondazione Saragat Danilo De Masi. Quando mi è stato chiesto di intervenire l’ho fatto con assoluto piacere e ho cercato di mantenermi fedele al titolo “Saragat, il galantuomo democratico” evitando quindi di ripercorre tutta la storia politica istituzionale di Saragat, credo a molti di voi ovviamente già conosciuta. Sul termine galantuomo si potrebbe ragionare, ma soprattutto anche sulla grande differenza tra la politica di ieri e la politica di oggi; e quindi volevo raccontarvi un paio di aneddoti prima di chiudere con una riflessione invece un po’ più di tipo storiografico, che danno l’idea del galantuomo, danno l’idea di una politica d’altri tempi, danno l’idea dell’onestà come un fattore pre-politico, di cui Saragat sicuramente è stato, e quella classe dirigente sicuramente è stata fortemente antesignana. Saragat venne eletto presidente della Costituente, come tutti voi ricorderete, e uno dei primi problemi che si posero era se e quali indennità dare ai costituenti. Saragat confidò a Leo Valiani, anche lui costituente eletto nelle file del Partito d’azione, e gli disse “vi darò una retribuzione di 25.000 lire, non di più, perché gli operai guadagnano da 15 a 20.000 lire”. Successivamente il Comitato di Presidenza della Costituente aderì a questa proposta e aggiunse 1.000 lire per tutti i giorni in cui si riunivano le commissioni in assenza di Aula. Come dire, se pensiamo oggi agli echi sui costi della politica, vediamo quale distanza siderale c’è con quei dati. In qualche modo, però, richiama l’esigenza della sobrietà, l’esigenza dell’onestà, l’esigenza del rispetto e di un rapporto corretto tra costi della politica e costi della democrazia. La seconda è ancora più intima e personale. Saragat ebbe un rapporto

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straordinario con sua moglie Giuseppina Bollani e una delle cose che lo rammaricava di più è averla costretta, soprattutto nella fase dell’esilio, a una vita molto stentata: pensate che dopo il ’35 lui è costretto ad andare nel sud della Francia, poi successivamente, nel 1940, quasi al confine con la Spagna. E in quella fase, soprattutto nella seconda, lui non lavorerà, mentre nella prima sarà direttore di una cooperativa, che tra l’altro si occupa di vini, e di lì la sua conoscenza del vino, quando lui era solito esaltare le etichette, eccetera; questa cosa poi è stata molto strumentalizzata, in qualche modo purtroppo la damnatio memoriae che in parte ha colpito anche Saragat ha forse più contribuito Fortebraccio che tanti altri critici da un punto di vista storico e politico. In quella fase l’unica entrata della famiglia era l’attività di caterinetta, cioè di cucitrice, della moglie. E Saragat ebbe il rammarico di non aver potuto, soprattutto in quella fase. E anche quando tornò a Roma, non aveva un alloggio, o al Plaza; poi successivamente una volta per un breve periodo la famiglia fu ospitata nella foresteria della Camera, quando era nell’assemblea costituente. Successivamente il commissariato alloggi gli trovò un appartamento sul Lungotevere Flaminio. Racconta la signora Saragat: cinque belle stanze con soggiorno, ma senza mobili; ed è molto bella, come la raccontava la signora Saragat: “troppo grande, troppo di lusso per noi che siamo gente modesta. Come faremo ad ammobiliarla?”. E qui andiamo nel 1954: Saragat è vicepresidente del Consiglio, in quel Governo etichettato SS (Scelba-Saragat) - dà l’idea del livello di scontro politico di quell’epoca, siamo all’indomani della Legge truffa del ’53 eccetera - e nel ’54 la camera da pranzo finalmente era completa di tavoli, sedie, buffet e contro buffet e all’amica che gli chiedeva: “adesso finalmente siete riusciti a


Giuseppe Saragat

comprarli questi mobili” e si complimentava per gli acquisti, Giuseppina Bollani rispose: “ma figurati, sono mobili che c’hanno prestato. Io ho detto a Saragat” (e questa è la cosa interessante: lei non si rivolgeva al marito, lo chiamava Saragat) “proviamo: adesso che sei vicepresidente del Consiglio, fai un contratto con un mobiliere”. In buona sostanza conclude dicendo: “ma non c’è un mobiliere che abbia fiducia in questo Governo”. E non gli diedero neanche quello che aveva comprato. È una politica romantica, forse, è certamente la politica a cui fare riferimento. Secondo me per il carattere di sobrietà che deve guidarci in questa fase politica molto complessa, in questa crisi drammatica che stiamo vivendo. Chiudo su un aspetto, non che quelli che abbia detto non siano seri, perché secondo me danno la cifra anche della persona, della personalità, di quel carattere galantuomo che nel titolo è giustamente indicato dagli organizzatori, ed è il tema della scissione di Palazzo Barberini; anche qua c’è in gioco il carattere galantuomo fino alla fine degli anni Settanta. Non solo nella polemica politica ma anche nella storiografia ufficiale, la scissione di Palazzo Barberini era sostanzialmente descritta come il primo vero intervento a gamba tesa dell’imperialismo americano nella politica italiana, il primo atto della guerra fredda e quindi sostanzialmente una scissione non soltanto guidata, ma anche finanziata dai soldi americani con tutti gli aspetti negativi che questo comporta. Questa immagine, che è stata alimentata non soltanto nei cortei, nelle manifestazioni, nel trasformare socialdemocratico, nel dibattito della sinistra quasi un epiteto, eccetera, ha alimentato un rancore, un forte odio anche nei confronti della socialdemocrazia, sia sul versante comunista, ma dobbiamo essere onesti, anche nel versante socialista, perché nello scontro interno di quella che è tra

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virgolette, quattro virgolette non solo due, “guerra civile a sinistra”, questo fu un elemento propagandistico molto usato. Io credo che intanto la storia e anche l’apertura degli archivi degli Stati Uniti e anche di molti servizi segreti dell’Est ci restituiscono la verità: erano anni in cui erano consistenti i flussi di denaro che arrivavano a sostegno del Partito Comunista e del Partito Socialista da Est - e lancio qua un amo a Peppino Averardi - ma se qualcuno avesse voglia poi di riscrivere, come in parte è stato fatto da alcuni, la storia d’Italia presso il tema del finanziamento della politica, forse si accorgerà che c’è qualche ragione per la quale il Partito Socialista ci mette dieci anni, dal Congresso del ’53 al centro sinistra, e uno dei problemi non è soltanto di carattere politico, ma è anche evidentemente di finanziamenti, la sostituzione dei finanziamenti che arrivano da Est e che non arrivavano più. Certamente arrivarono finanziamenti attraverso i sindacati italoamericani, Antonini eccetera, ma soprattutto per parlare di Palazzo Barberini in tutto il 1946 furono finanziamenti che arrivano anche al partito in quanto tale. E anche nel viaggio che Saragat farà subito dopo Palazzo Barberini, anche alla ricerca di finanziamenti, i soldi che arriveranno saranno molto pochi e i problemi finanziari del partito saranno rilevanti. Successivamente arrivarono dei flussi di denaro ma soprattutto in occasione delle campagne elettorali, ma la vita, da un punto di vista economico del partito, fu una vita sostanzialmente stentata, cioè, tutto questo flusso di denaro in realtà non c’era stato, mentre dall’altra parte c’era una azione sistematica che partiva dall’Unione Sovietica che passava, per esempio per quel che riguarda i socialisti, dal Partito Comunista polacco. Quindi il quadro è questo e che restituisce dignità anche da questo punto di vista in qualche modo smentisce questa tesi storiografica, però se


Federico Fornaro

smentiamo questa tesi dobbiamo provare a costruirne un’altra; questa che ho proposto nel mio libro, che è anche discussa in qualche modo, mi spiace non ci sia Donno che non credo sia totalmente d’accordo con questa tesi, cioè che Palazzo Barberini in realtà è un tentativo di competere per la leadership della sinistra italiana. È chiaro che se noi leggiamo Palazzo Barberini con quella che sarà l’evoluzione del partito socialdemocratico - e mi sia consentito, anche la deriva ministeriale che poi c’era negli anni questo appare stridente. Ma riportiamo indietro le lancette al 3 giugno 1946, all’indomani delle elezioni quando il Partito Socialista a sorpresa è il primo partito della sinistra, supera il Partito Comunista; in una direzione drammatica di commento del voto c’è uno stupore sia nella direzione comunista ma anche in quella socialista e in qualche modo questo complesso di inferiorità socialista si manifesta in maniera molto forte, in Basso in particolare ma anche in Nenni e in qualche modo il Partito Socialista nel ’46 rinuncia a svolgere un ruolo di leadership della sinistra italiana come così invece fece in altri Paesi europei. E Saragat a quel punto lancia la sfida, Palazzo Barberini è un tentativo velleitario, visti gli esiti, ma politicamente da difendere, di competizione della sinistra italiana nei confronti dei comunisti. Cosa mancò a Saragat? Sicuramente, la storia non si fa con i se ma un ragionamento credo lo si possa costruire: se nel giugno del ’44, il giorno della liberazione di Roma, Bruno Buozzi non fosse stato ucciso, se fosse rimasto il leader della CGIL, all’epoca sindacato unitario, probabilmente Palazzo Barberini, e quindi la competizione per la leadership, avrebbe potuto avere un esito diverso perché quello che mancò a Saragat fu l’aggancio con le grandi organizzazioni di massa, in qualche modo la sfida di Palazzo Barberini la si perde qualche mese dopo, al primo congresso della

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CGIL quando la corrente socialdemocratica prende pochissimo, e lì si capisce che quello che invece avviene dalle altre parti d’Europa, cioè una battaglia per la leadership in cui i riformisti e la cultura riformista ha nei sindacati, nelle cooperative, nelle grandi organizzazioni di massa, in Italia si direbbe una società di mutuo soccorso, non c’è in Italia; quindi la sconfitta arriva da lì, anche se il risultato del ’48 del 7% è un risultato straordinario se inserito nel contesto di competizione globale, si direbbe oggi, tra i due fronti. Quella fu una sfida per la ??? della sinistra. Saragat, e questo vorrei sottolinearlo, è un leader della sinistra italiana, non è un leader di uno dei tanti partiti laici; il partito socialdemocratico nella sua storia è stato il quarto partito di massa, anche questo tendiamo a dimenticarcelo, è stato un partito di massa radicato sul suo territorio con percentuali significative in molte aree del Paese; se oggi raffrontiamo, in questo caso facendo una fuga in avanti, nell’oggi, il numero di iscritti di alcune federazioni del Partito Democratico che ha il 40%, che governa quasi tutte le realtà e gli enti locali, ha un numero di iscritti che non era tanto differente da quello del Partito socialdemocratico. Per dare un’idea di quello che è stato. Credo che sia stato giusto questo ricordo. Ci sono altre due cose su cui velocissimamente volevo soffermarmi, anche da un punto vista storiografico, chi si occupa di storia della Resistenza sottolinea, e credo sia giusto ricordarlo in questo momento, come sia centrale nella storia, passatemi il bisticcio di parole, delle celebrazioni del 25 aprile, quindi della liberazione, il discorso che Saragat pronuncia a Milano nel 1965. Gli storiografi individuano quello il momento di censura, da quel momento la Resistenza e il 25 aprile diventano parte del sistema di commemorazioni nazionali e in qualche modo la Resistenza si supera la frattura ideologica, che fu molto forte tra il ’45 e


Giuseppe Saragat

il ’65 dove, ricordo, per molti anni si facevano feste distinte, celebrazioni distinte e non c’era non solo la festa nazionale, ma in qualche modo non c’era il riconoscimento. Quello fu il primo Presidente espressione della Resistenza e il discorso del ’65 è un discorso che frattura in positivo. Ultima cosa, e su questo purtroppo invece c’è una parte di storiografia che continua a gabellare una tesi brutta e offensiva nei confronti di Saragat, riferita agli ultimi anni del suo mandato e in qualche modo lo mette a capo di un’area, di un pensiero, di un movimento che attraverso il tema della Repubblica presidenziale vuole in qualche modo virare verso destra i connotati della Repubblica, associando peraltro anche qui al nome di un altro galantuomo, che risponde al nome di Ferri, che nella fase dopo la scissione del ’69 c’è questa proposta, quindi la guida del PSU, lancia questa tesi. Su questo vorrei rispondere con un dato di fatto perché senza interpretazioni quando nel progettato golpe Borghese si parla di Saragat, si parla di Saragat come di una persona da imprigionare e il compito di imprigionarlo viene dato a Licio Gelli. Allora, è evidente che se fosse stato parte di questo disegno, era l’ultima persona da imprigionare, soprattutto farlo imprigionare da Licio Gelli. Questo per dire come, però, ancora in alcuna pubblicistica sugli anni complessi, difficili, a cavallo tra il ’69 e il ’70, anni ribollenti, anni di attacco alle istituzioni, anni in cui si muovono sicuramente nel panorama e nel proscenio italiano interessi non solo nazionali, ma anche internazionali molto forti, io credo che sia da valorizzare il ruolo di Saragat come difensore delle istituzioni, questo è un elemento molto importante. Chiudo ringraziando ancora la Fondazione dell’invito e soprattutto perché è giusto ricordare in Senato, che tra l’altro lo ha visto suo protagonista come senatore a vita dopo la conclusione dell’esperienza presidenziale, ricordare questi cinquant’

anni e ricordare un Presidente galantuomo, un Presidente della Resistenza, un Presidente difensore delle istituzioni. Angelo G. Sabatini

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Vorrei in primo luogo ringraziare gli amici delle altre Fondazioni e Associazioni che hanno con la Fondazione Matteotti organizzato questo incontro. L’intesa nacque un po’ occasionalmente e il merito va a Tomassini e a Pierluigi Gregori per averci sollecitati a organizzare un ricordo di Saragat per evitare che una dimenticanza ci avrebbe privato il dovere di realizzare il ricordo di un Presidente della Repubblica che ha rivestito il pesante incarico in un momento difficile per il Paese. Oggi lo ricordiamo a cinquant’anni dall’elezione a Presidente della Repubblica ma anche come un riformista nella storia del Novecento, come una delle figure più significative della politica italiana del Secondo dopoguerra dominato da un obiettivo perseguito coerentemente e anche appassionatamente in tutte le fasi del suo itinerario politico: promuovere in Italia un grande partito socialdemocratico secondo il modello europeo. Questo riferimento all’impegno di dare vita ad un partito secondo il modello europeo è importante perché ci aiuta a correggere un indirizzo della storiografia italiana che ha guardato all’opera di Saragat e alla sua socialdemocrazia privilegiando il metter in evidenza la esigua incidenza politica della socialdemocrazia italiana e la vita interna del partito segnata da eventi negativi che ne hanno limitato la crescita nell’opinione pubblica e nei risultati elettorali; e, ciò facendo, ha trascurato di riconoscere invece il ruolo particolarmente importante che Saragat, con la scelta di Palazzo Barberini, aveva avuto per la salvaguardia della democrazia in un Paese che rischiava di diventare satellite dell’Unione Sovietica.


Angelo G. Sabatini

Noi questo non lo dobbiamo dimenticare, come ormai lo riconoscono anche coloro che per pura opposizione ideologica hanno faticato a riconoscerlo. Il tempo e lo spegnersi delle dispute ideologiche hanno consentito di cogliere la statura politica e intellettuale di un personaggio della Prima Repubblica che un “destino baro e cinico” non gli ha consentito di vedere realizzato il sogno di una società italiana retta da principi socialdemocratici, grazie all’affermazione di un consistente partito socialdemocratico. L’obiettivo di creare un grande Partito socialdemocratico secondo il modello europeo non è stato realizzato in pieno e Saragat ha dovuto constatarne la scarsa presenza nel panorama elettorale. Il parziale fallimento nella sua azione di leader, non ne riduce la personalità e le qualità politiche intellettuali. La sua presidenza, che oggi ricordiamo, giunta successiva a quella di Segni, fu accompagnata da grandi aspettative; si svolse nel pieno rispetto del compito che la Costituzione gli affidava; e ciò accadeva in un periodo di grave crisi per il sistema politico e per l’intero Paese. Il suo settennato, che cade tra il 1964 e il ’71, è il frutto di una formazione politica mirata a dare all’Italia un partito socialista che fosse erede di quel riformismo che storicamente era stato di Turati, di Treves e di altri artefici e in Matteotti aveva trovato il sigillo di un impegno radicale fino al sacrificio della vita. Non dimentichiamo che l’anno scorso abbiamo celebrato il novantesimo di questo sacrificio e la Fondazione Matteotti ha lavorato molto per far sì che quella memoria potesse ancora essere diffusa, specialmente nei giovani, organizzando un programma di visite alle scuole secondarie della Provincia di Roma con la consegna di un libro riassuntivo di tutti quei temi che possono costituire il fulcro di formazione ed educazione politica per i giovani. La formazione politica di Saragat è stata costruita nella costante attenzione a

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liberare nella complessa vita politica italiana il socialismo da una deriva massimalista e l’attenzione degli storici che vi hanno posto il riflettore ci fornisce ormai un giudizio fondamentalmente positivo. Rispetto alla scelta scissionista del ’47, gli storici, ma gli stessi eredi del Partito comunista, hanno finito col riconoscerne l’importanza. Ma chi era Saragat? L’intervento di Fornaro ci ha illustrato il suo quid più specifico, molto umano. Ciò che ha consentito all’opinione dei più di definirlo un galantuomo. Saragat fece una scelta che diventò l’asse della politica nazionale di quel periodo. Un tema centrale dell’azione politica di Saragat resta appunto quella scissione, uno spaccato della vita di cui già ha parlato Fornaro e credo ne parleranno anche gli altri amici presenti. Spesso la storia corre più delle intenzioni di chi la fa. I critici hanno detto che Saragat accelerando questo processo della scissione ha creato una situazione difficile di recupero delle masse all’ideale socialdemocratico. Perché? I critici l’accusarono di questa frenesia ma Saragat era un uomo molto testardo. C’è la descrizione di Montanelli, che credo vada ricordata. E’ stato osservato che Saragat ha forte carisma. ”E’ un forte oratore ma vola troppo alto, affascina ma non convince, non è un organizzatore, non ama la vita di partito a contatto con la base”, scrive appunto di lui con un linguaggio forte e forse a volte anche sarcastico, come del resto era Montanelli: come capo di partito lasciava alquanto a desiderare, forte del fatto di averlo inventato lui e di schiacciare con la sua personalità quella di tutti gli altri se ne curava poco, salvo per le grandi decisioni esclusivamente sue. Andava di rado e solo per fare grandi sgridate che lasciavano le cose come prima. Di organizzazione, di tessere, di quadri, di giochi di corridoio e di potere Saragat non ha mai voluto sapere. L’unica carica che considerò della sua altezza e per la quale si batté fu


Giuseppe Saragat

la Presidenza della Repubblica. Visse questo desiderio sulla base di due indirizzi, uno perché riteneva di poter trasferire nella funzione costituzionale molto importante quella che era la sua formazione politica e questa idea di un riformismo che deve essere alla base di ogni società civile che voglia progredire nel progresso, non solo politico ma anche economico. Non dobbiamo dimenticare che l’ascesa al Colle fu dura e la designazione arrivò solo alla fine di una delle elezioni più combattute in tutta la storia della Repubblica. Dopo diverse candidature mancanti del numero sufficiente per una elezione, ricordiamo che furono candidati Leone, Terracini, Nenni; i democristiani accettano la soluzione Saragat, che viene eletto anche con i voti dei comunisti, perché i comunisti, che avevano avuto appunto i loro candidati, non riuscivano a raggiungere quel quorum che avrebbe consentito loro… Una aspirazione che certamente il partito della Democrazia Cristiana non poteva accettare, cosicché, usando un’espressione molto familiare, tra i due litiganti il terzo gode, cioè vedono sia i democristiani che i comunisti la possibilità di avere un rappresentante della democrazia che poteva guardare con attenzione sia alle ragioni dell’uno che alle ragioni dell’altro. Non dimentichiamo che per esempio il Partito comunista, in particolare Giorgio Amendola, sperava che l’elezione del vecchio amico e compagno di esilio potesse favorire una riunificazione delle sinistre; inoltre per il Partito comunista era il primo tentativo di poter sperimentare la strategia abbozzata da Togliatti, da poco scomparso, con il memoriale di Yalta. I comunisti per i loro voti vorrebbero una pubblica richiesta da parte di Saragat, alla quale si oppose la DC, ma una dichiarazione del leader socialdemocratico in cui egli si augura che sul suo nome ci possa essere la confluenza di tutti i gruppi democratici e antifascisti, soddisfa il Partito Comunista. In fondo

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si contenta della dichiarazione che Saragat faccia e qualche mese dopo l’elezione, in occasione del ventennale della liberazione, Saragat compie un atto di pacificazione nazionale. Questo va ricordato perché è molto importante; grazierà alcuni partigiani e alcuni neo fascisti condannati per reati politici. Tra i primi c’è Francesco Moranino, ex comandante partigiano comunista condannato nel ’56 all’ergastolo per una serie di omicidi, non tutti politici, graziato negli ultimi mesi della sua esistenza. A destra, ma non solo, si avanzerà il sospetto che la grazia a Moranino sia la contropartita per i voti del Partito Comunista a Saragat. Inizia così, come dice Ugo Indrio, uno dei biografi del settennato, annunciata come la grande presidenza, ma che in realtà era una presidenza, questo lo dobbiamo riconoscere, coerente con le convinzioni politiche del leader socialdemocratico, sostanzialmente equilibrata e costituzionalmente corretta, ma che svoltasi in uno dei più cruciali periodi della storia nazionale, impegnerà attivamente il Presidente Saragat per lasciare una traccia profonda del suo settennato. L’Italia, ricordiamolo, si avvia verso gli anni di piombo e il decennio dell’ offensiva terrorista, di quella stagione iniziata già da tempo con la preparazione ideologica attraverso l’attività nelle università, nelle riviste di sinistra che nascono proprio per creare il clima giustificativo dell’atteggiamento terroristico evoluto a livello nazionale. E’ la contestazione che ebbe grande importanza nell’ambito delle università. Tra i Presidenti della cosiddetta Prima Repubblica, Saragat è quello che più frequentemente si avvale della facoltà della esternazione, anticipando il carattere intenso e innovativo, non inteso però nel senso che avrà dalla Presidenza Pertini in poi (dopo Pertini questo esternare e inviare messaggi diventa una delle consuetudini più efficaci). Non dimentichiamo che è anche il momento in cui la televisione, i mezzi cosiddetti di


Giuseppe Averardi

comunicazione finiscono col dominare la politica, sia come ricerca del consenso e sia come illustrazione delle promesse e delle realizzazioni della politica. Saragat fece molti interventi e credo ne andrebbe ricordato qualcuno perché ne faceva sistematici; particolarmente efficaci saranno gli interventi di Saragat in rapporto alla riunificazione del Partito Socialista e del Partito Socialista dei lavoratori, così come si chiamava il PSDI, ultima occasione per la costruzione di quel grande partito socialdemocratico che, come ho detto, era sempre stato in cima ha i suoi programmi. Con la sua elezione alla Presidenza si erano create le condizioni più favorevoli per la fusione tra i due partiti e avendo egli raggiunto la massima carica dello Stato, il candidato per la leadership in quel momento divenne Pertini. Il rapporto di Saragat con Pertini merita un approfondimento a parte perché molti li chiamarono amici-nemici, si capisce che amici come uomini, nemici come politici; e non sempre l’essere uomo corrisponde con l’essere politico. L’umanità del politico è uno di quei temi che la psicologia politica e la sociologia spesso affrontano, ma senza un risultato. Le sue battaglie Saragat le aveva già combattute, aveva perso quella che gli stava più a cuore per la creazione di una grande forza socialdemocratica; aveva vinto quella per il centrosinistra, che pur con tutte le sue debolezze aveva realizzato l’obiettivo storico dell’ingresso del socialismo e dei socialisti nelle istituzioni. La definizione di Presidente del centrosinistra gli spetta di diritto; è stato detto che egli finisce per svolgere in un contesto affatto diverso un ruolo non dissimile da quello che Einaudi, eletto come garante dell’unità della maggioranza centrista. Negli ultimi due appelli al Paese prima della sua uscita di scena con il messaggio natalizio del 1970 e tre mesi dopo con il discorso per l’inaugurazione della 49ma Fiera di Milano, ripropone il programma della socialdemocrazia.

Certo il suo rapporto con i liberali e con quei partiti che in sostanza tutti insieme rendevano possibile andare avanti e gestire il momento positivo del dopoguerra, fu collaborativo e con essi lavorò per il risorgere dell’economia. Questi partiti svolsero un ruolo molto importante. Con tono appassionato e alla vigilia dell’abbandono del mandato, richiama l’importanza di realizzare un programma politico imperniato su case, ospedali e scuole che non sono uno slogan elettorale, sono l’imperativo morale, politico, sociale di una democrazia che è stata sorpresa da una rapida rivoluzione industriale. Sono sue parole, e chi vi parla vede con soddisfazione che le riforme sollecitate dai più lungimiranti fin dagli inizi di questa nostra rivoluzione industriale e talvolta accolte con sufficienza come riformismo spicciolo, oggi appaiono a tutte le forze politiche e sindacali come fondamentali per l’avvento di una vera giustizia sociale e per il consolidamento delle libertà istituzionali. Era la rivendicazione di un merito che gli spettava, anche se non era riuscito a creare un grande partito socialdemocratico poteva vantare che la sostanza del suo messaggio era entrato ormai a far parte del patrimonio ideale politico del Paese.

Giuseppe Averardi (Su richiesta viene qui riportato un brano del suo volume Togliatti addio. Delirio e retaggio dello stalinismo italiano, Datanews, pagg. 325, in sostituzione dell’intervento orale.)

Quei primi di settembre del 1958 (non ricordo il giorno) varcavamo il portone di Palazzo Wedekind, in piazza Colonna, a trenta metri da Palazzo Chigi e cinquanta dalla Camera dei Deputati. Eravamo attesi nella sede della direzione del partito socialdemocratico. Avevo compiuto da poco i 30 anni e i miei amici, più anziani di me, Michele Pellicani ed Eugenio Reale, rispettivamente 45 e 53 anni.

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Giuseppe Saragat

Contrastanti sentimenti si agitavano nel nostro animo: Michele era il più tranquillo; Eugenio, che era stato un pezzo da novanta del Pci, senatore, membro della Direzione, amico stretto di Palmiro Togliatti, aveva in due anni interiorizzato profondamente le conseguenze del rapporto Kruscev e dei fatti di Ungheria. Eravamo stati invitati da Giuseppe Saragat ad un colloquio per riprendere, appunto, il filo di un discorso sulle conseguenze che quei fatti avevano avuto nel nostro Paese e sulle prospettive future. Saragat era stato presidente della Costituente, uomo di governo e di Stato, fondatore della socialdemocrazia italiana, partito membro dell'Internazionale Socialista. Noi eravamo stati comunisti, sino al dicembre 1956. E stalinisti, come tutti i comunisti di allora. Un incontro ravvicinato tra alieni. O, almeno, così ci era stato propinato. Di quel primo incontro con Saragat ricordo con nettezza il nucleo centrale della conversazione. Il resto si è perduto in quel tempo lontano. Noi siamo nel pieno del dissolvimento della nostra fede e del suo ricomporsi su basi teoriche e politiche ancora indistinte, alla ricerca di una via d'uscita politica e ideologica e, contrariamente alle mie supposizioni, in quell'incontro si parla di tutto, meno di quello che sta succedendo in Italia in quel momento. Tutto, meno che dei fatti politici, in senso stretto. Dopo i primi convenevoli e approcci di rito, Saragat comincia a parlare degli anni del suo esilio in Francia e Reale della sua prigionia in Italia. Ad un certo punto Saragat ha come uno scatto a cui segue una scena inaspettata. Si alza, si avvicina allo scaffale dei libri, ne prende uno, lo sfoglia velocemente, poi si ferma su di una pagina e legge: Togliatti 1932. La socialdemocrazia italiana subisce lo stesso processo di fascistizzazione della socialdemocrazia

internazionale. La tattica del fronte unico deve intendersi nel senso di una lotta per la distruzione della influenza socialdemocratica sulle masse. Togliatti 1933. Giuseppe Saragat è un rigattiere della cultura borghese, un asino, un truffatore, come è stato Turati, come lo sono tutti i capi socialdemocratici i quali si muovono sullo stesso binario ideologico su cui si muove il fascismo. Togliatti 1934. La socialdemocrazia in Germania non poteva battersi contro il nazismo perché essa è penetrata troppo a fondo nelle istituzioni dello Stato capitalistico reazionario, perché si è fusa con esso e con la società borghese, perché è sorella germana del fascismo; perché è diventata socialfascismo. "Non ho finito" dice Saragat rosso in volto e, subito, riprende con un'altra citazione di Togliatti del febbraio 1947, appena dopo la scissione di palazzo Barberini: "Giuseppe Saragat: chi è costui? Un Carneade del movimento operaio italiano". Questa volta Saragat si rivolge a Reale guardandolo in faccia: "lo ero esule in Francia, con Turati e Nenni, dopo l'Austria. l nostri compagni erano in fuga a Parigi, in America. Molti languivano nelle galere fasciste. I nazisti massacravano i socialdemocratici in Germania già prima del 1933. Massacravano i comunisti. Quale pazzia era la vostra? Come avete potuto sostenere tesi così spudorate per compiacere Stalin?". Con la risposta e le repliche successive, il centro di tutto il nostro dialogare diviene subito questo tema. “Supponiamo pure che voi foste del tutto all'oscuro dei cataclismi interni all'Urss. Ma sarebbe bastato quello che è successo nel 1939 per scoraggiare qualunque essere razionale dall'aderire ad un partito come il Pci. O di rimanervi, se c'eravate dentro. Non parlo per chi è molto giovane, caro Eugenio, ma di voi della vecchia generazione. Sapevamo dei grandi processi, della carneficina, della degenerazione progressiva del sistema. Il contributo dato alla

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Giuseppe Averardi

vittoria contro il fascismo e il nazismo non c'entra nulla con tutto questo" . "lo non sapevo nulla" risponde Eugenio. "Per il resto, al mondo venne offerta una scelta fra due diverse realtà: insieme alla stragrande maggioranza di tanti intellettuali di tutto il mondo - non solo italiani - di ogni dove, io scelsi la realtà sbagliata. Ma che fosse sbagliata l'ho saputo solo con il rapporto Kruscev e con l'insurrezione di Ungheria dell' ottobre '56". Subito incalza Saragat: "Non è vero. Dopo la firma del Patto Ribbentrop-Molotov venne la spartizione della Polonia e il secondo Patto, un Trattato tedesco-sovietico sulle frontiere e la loro amicizia. Nel novembre '39 l'annessione dell'Ucraina occidentale. Vuoi che continui? Nel mese seguente l'Urss venne espulsa dalla Società delle Nazioni per la tentata invasione della Finlandia; nel giugno 1940 seguì l'annessione della Moldavia e della Bucovina settentrionale; nell'agosto '40 l'annessione di Lituania, Estonia, Lettonia e l'assassinio di Trockij". Reale reagisce cominciando a perdere la sua flemmatica compostezza: "Voi eravate in Francia e in America. Noi eravamo rimasti in Italia. lo ero in galera. I miei compagni erano esuli in Unione Sovietica. Dilagavano il nazismo e il fascismo. La guerra era alle porte. Dimmi tu: c'era una buona ragione per non credere a Stalin? Per non credere nel primo Stato socialista nel mondo che sì preparava ad affrontare il mostro nazista? Dovevamo credere al mondo capitalistico che predicava la distruzione dell'Unione Sovietica o, dovevamo sperare nel Vaticano che aveva firmato il Concordato con Mussolini, che taceva sugli orrori del razzismo in Germania; che ignorava i pogrom sugli ebrei tedeschi e polacchi? D'altronde tu, nel 1936, firmasti il Patto d'unità d'azione. O sbaglio?". Confesso a me stesso di non capire se questo duello ad armi pari è una finzione di due antichi e addestrati duellanti che si misurano per provare le mosse successive o un incontro per dirsi addio.

La nostra abilità, mia e di Pellicani, nel tenerci a galla in quella disputa tra vecchi campioni dell'antifascismo, è scarsa. Una volta, nell'ambiente comunista, Saragat e i suoi compagni venivano chiamati social-fascisti. Ora erano disprezzati. Non solo loro, anche i poliziotti, anche i vigili urbani qualche volta vengono insultati. Il leader socialdemocratico questa memoria se la porta nella carne. Comunque Saragat sferra un colpo di grazia che non ammette repliche credibili, o così almeno apparve a me e Michele: “Ho conservato l'Espresso del 6 gennaio '57 con la tua intervista ‘Fine di una menzogna’. Per me è una reliquia. Lasciami dire. Dopo la guerra tu hai viaggiato molto nei paesi dell'Est. La tua intervista è una confessione. Tu sapevi, perché confessi che nei tuoi frequenti viaggi in Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Polonia, avevi seguito da vicino l'involuzione di quei governi in regimi di polizia, il fallimento delle loro economie, la pauperizzazione e la miseria che si diffondeva fra le masse, lo spegnersi di ogni libertà. Sono le tue parole. “Nell'intervista, ad un certo punto, confessi che ne hai tratto la conclusione di una situazione non più compatibile, del crollo oramai prossimo di quelle dittature sanguinarie che niente e nessuno avrebbe potuto salvare. Sono le tue parole: rilevi la gravità di quello che avevi visto con i tuoi occhi; dici che ne avevi parlato a tempo debito con decine di compagni; che non avevi nascosto la verità al partito. Ma se così stanno le cose perché sei rimasto ancora tanti anni nel partito, dopo la guerra? Tu avevi conosciuto l'ungherese Laszlò Rayk, il ceco Slansky, Traicio Kostov, tutti capi comunisti dell'est europeo processati e assassinati per ordine di Stalin. Hai detto che non hai mai creduto al loro tradimento. Non mi interrompere, scusami, lasciami finire, perché tutto questo è incredibile. Sei stato nel dopoguerra ambasciatore a Varsavia. Gomulka era tuo amico. Perché hai taciuto per tanto tempo, perché? Perché? Dopo il

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Giuseppe Saragat

Kominform - al quale hai partecipato anche Tito diventa un "bandito fascista al servizio degli americani". Tutte queste cose non erano segrete. Sono accadute negli ultimi dieci anni sotto gli occhi del inondo. Nei paesi nei quali siete andati al potere nel dopoguerra avete calpestato la dignità umana, si sono ripetuti, come nelle maschere del teatro, i processi di Mosca; avete asservito popoli civilissimi nel cuore dell'Europa. Il socialismo è stata una parola priva di senso”. Era un fiume in piena che non potevamo contenere. lo ero sbalordito e certamente pensai che quell'incontro fosse stato un azzardo da parte nostra, od una provocazione di Giuseppe Saragat. Non ricordo le ultime battute. Ci alzammo lentamente, freddamente, per salutarci. Saragat ci accompagnò all' ascensore insieme a un compagno alto quasi due metri, responsabile degli archivi del partito che, molto tempo dopo, conoscemmo come Enzo Cavarono, compagno di Saragat a Parigi. Tutto si era svolto senza testimoni, nella più assoluta riservatezza. Qui avvenne il colpo di scena. Contrariamente a tutto quello che io pensavo di quell'incontro e delle sue conclusioni, vidi i "due leoni" accostarsi improvvisamente, stringersi con le braccia, a lungo, come due compagni di lìceo, che si ritrovano, non certo come due avversari. Si salutavano così come due vecchi amici e, invece, non si erano mai conosciuti direttamente, se non di nome, per le alte cariche politiche che avevano ricoperto: Saragat, presidente della Costituente; Reale, ambasciatore a Varsavia e sottosegretario agli Esteri. Fui colpito dalla scena, singolare, che seguiva all'altra, di pochi minuti. Mi resi conto che i due uomini venivano da un mondo in larga misura a me sconosciuto, difficile da interpretare. Si erano formati nel clima dell'antifascismo militante, della lotta, della guerra e del dopoguerra. C'era in loro come una sottile complicità. C'era tutto quello che

si erano detti e molto di più. A distanza di due anni da quel colloquio saremmo entrati nel Psdi di Giuseppe Saragat, insieme a tanti altri compagni che ci avevano seguito dopo la diaspora del Pci. Eugenio Reale - venticinque anni dopo, nell'ultima sua intervista rilasciata ad Ignazio Contu per “La Domenica del Corriere7, prima dell'abbandono definitivo della vita politica - dirà cose che quella mattina non disse a Giuseppe Saragat ma che a rileggerle suonano come la sua risposta più vera a quelle domande angoscianti.

L’ultima intervista di Eugenio Reale

"Sono stato un militante e un dirigente dal 1929 al 1956. Sono uscito dal Pci subito dopo i fatti d'Ungheria, ma ero su posizioni critiche nei confronti della linea togliattiana già da diversi anni. I primi sospetti sulla reale natura del potere comunista mi vennero proprio quando ero ambasciatore d'Italia a Varsavia e potei essere testimone dei sistemi con cui in quel Paese l'Unione Sovietica e il partito comunista riuscirono ad eliminare ogni avversario, soffocando qualsiasi tentativo di mantenere in vita un sistema democratico. Ma pensavo che si trattasse di una lotta necessaria in quel momento; non immaginavo che fosse una regola. Poi incominciai a rendermene conto, e tuttavia per anni ho continuato ad avere fiducia nel comunismo. Il mio distacco è stato graduale. lncominciai a parlarne nel partito. I miei dubbi incontravano sempre gelide accoglienze. Furono i fatti di Budapest a farmi accentuare una posizione critica che io rifiutai di ritrattare". Fu un dramma? domanda l'intervistatore. "Qualcosa di ancora più angoscioso: ero diventato comunista perché allora chi era antifascista sceglieva quasi sempre di militare nel PC. Ero stato condannato a dieci anni di carcere dal Tribunale Speciale; ero stato in esilio. Per me allora era la definitiva ragione di vita.

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Tito Lucrezio Rizzo

Uscirne significava riconoscere di aver sbagliato tutto. Sono scelte che pesano, che fanno male. E poi mi rendevo conto che avrei perso quasi tutti i miei amici, compagni di galera, di esilio, dì passione. Per vent'anni Terracini, che abitava nel mio stesso palazzo, dopo il '56, ogni volta che mi incontrava faceva finta di non vedermi". Perché è così difficile lasciare il Pci? "Soprattutto per due ragioni: perché pochi hanno il coraggio di confessare a sé stessi dì essersi sbagliati, di aver sprecato tutta la propria esistenza. E poi perché il partito è come una chiesa: abbandonarla significa, per molti, restare completamente isolati, indifesi. Ci vuole molta forza d'animo per affrontare il 'dopo'. Ma c'è anche un'altra ragione, forse più nobile, anche se io non l'accetto. Credere che per un vero comunista sia più giusto sbagliare con il partito che avere ragione da solo". Lei non è un vero comunista! "No e penso di non esserlo mai stato. Sono un uomo di sinistra che crede nel socialismo democratico, vuole una società socialista, ma la vuole nella libertà". Tito Lucrezio Rizzo

Giuseppe Saragat (1898-1988) partecipò al primo conflitto mondiale da ufficiale volontario di artiglieria e venne decorato con una Croce di guerra. Laureatosi in Scienze economiche e commerciali, nel 1922, anno dell’ascesa del Fascismo, entrò a far parte del PSU, non per avere letto Marx, bensì – sono parole sue – per “aver visto nelle piazze di Torino i figli di papà bastonare la povera gente”. Al Convegno nazionale di quel partito nel marzo 1925 osservò: “In Italia le caratteristiche fondamentali della psicologia politica ondeggiano tra l’assenza del senso statale e l’assenza del senso di libertà. E il fascismo ondeggia tra l’illegalità anarchica delle squadre

armate e la statolatria, che giunge fino al crimine di Stato… La realtà è che bisogna essere liberali, perché la libertà è la presenza necessaria per qualunque sviluppo della vita politica italiana”. Durante l’esilio a Vienna e Parigi, maturò il convincimento che non bisognava rivolgersi solo alle classi operaie, in quanto il concetto stesso di “lavoratori” era necessariamente comprensivo di tutti i ceti produttivi indistintamente, vuoi che operassero nelle professioni, che nei mestieri, onde la borghesia ne faceva parte a pieno titolo. Ciò comportava - tra l’altro - il ripudio della lotta di classe e l’accettazione incondizionata del metodo democratico per l’affermazione dei diritti del proletariato, l’impegno ad un approccio meno demagogico e più scientifico al problema della produzione e della distribuzione del reddito, attraverso lo studio della finanza e dell’economia. Nel periodo dei “Fronti popolari” (1934-38), Saragat approvò il patto di unità di azione tra socialisti e comunisti; ma dopo il criminale patto Molotov-Von Ribbentrop per la spartizione della Polonia, nel 1939 Saragat scrisse all’amico Nenni che quel patto era la fine della Terza Internazionale ed era il principio di un nuovo movimento socialista, a cui dovevano affluire i militanti comunisti stomacati e delusi. Rientrato in patria nel 1943, dovette acconsentire a sottoscrivere un nuovo patto di azione comune con i comunisti, ma solo per l’emergenza del momento. Arrestato lo stesso anno con Pertini e trasferito nel famigerato III Braccio di Regina Coeli, riuscì ad evadere con lui, grazie all’amico Vassalli nel gennaio 1944. Fondatore con Nenni e Basso del Partito socialista di Unità proletaria, venne eletto nel ’46 Presidente dell’Assemblea costituente, ma poco dopo si realizzò l’ennesima frattura in casa socialista, con Nenni fautore di una sempre più intensa sinergia con i comunisti, e Saragat che, viceversa, guardava al modello delle grandi

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Giuseppe Saragat

democrazie scandinave. Pertanto con la scissione di Palazzo Barberini nel gennaio 1947 fondò il Partito socialista dei Lavoratori italiani (dal 1951 PSDI), allineandolo alle posizioni dell’Internazionale socialista. Nel dramma umano e politico che intimamente avvertiva, rivolse un appello a quelli che sarebbero stati amici separati: “Voi, fratelli lavoratori di altre fedi – esclamò – che non decifrate questa pagina di oggi, tuttavia non laceratela. Verrà il momento in cui la intenderete, e sarà il gran giorno dell’ unità di tutte le forze del lavoro”. Subito dopo la scissione, nel momento in cui non si sentì più espressivo del fronte comune che lo aveva eletto, avvertì il dovere morale di lasciare la Presidenza della Costituente, onde gli subentrò la degnissima persona del comunista Terracini. Da semplice membro della Costituente, Saragat sottolineò che la nuova Carta era doverosamente attenta alla voce delle minoranze e che la sua maggiore novità sarebbe stata data, accanto alla recezione dei diritti inalienabili della persona calpestati dal fascismo, dall’introduzione dei “diritti sociali”; nonché dalla centralità accordata al fattore “lavoro”, quale prima fonte di produzione della ricchezza, in luogo della “proprietà”, anch’essa comunque oggetto di apposita guarentigia. Il 18 aprile 1948 il blocco moderato facente capo alla DC, ottenne il 48,8% dei voti, incluso il 7% dei socialdemocratici; mentre il Fronte democraticopopolare dei social-comunisti ne ebbe il 32%: è facile comprendere quanto pesò sulla bilancia della scelta occidentale, l’apporto dei seguaci di Saragat, che in ragione di ciò subì le peggiori accuse dagli ex compagni, quali l’essere un social-fascista ed un traditore del movimento operaio. Eletto ininterrottamente Deputato dal 1948 al 1962, più volte Ministro e vice Presidente del Consiglio, svolse memorabili interventi in occasioni storiche. Dopo l’invasione dell’Ungheria (1956), scrisse: «Il nostro partito ha precorso di

10 anni quella consapevole valutazione della mostruosità della dittatura imperialistica totalitaria, di cui cominciano ad essere edotti anche i compagni del partito socialista. E’ proprio nell’interesse degli operai ingannati dal comunismo, che noi siamo irriducibili avversari della dittatura comunista. Questo è il nostro ‘anticomunismo’». Dopo una lunga tormentata trattativa fra le forze presenti in Parlamento, fu eletto nel 1964 al Quirinale, dove esordì sottolineando che tre erano i grandi doveri cui la democrazia era chiamata ad ottemperare: la difesa della pace e della sicurezza; il consolidamento delle libere Istituzioni; l’avvento di un sistema sociale in cui l’iniziativa individuale si saldasse con quella della collettività. Il consolidamento delle Istituzioni doveva partire dalla centralità del Parlamento; nel campo sociale l’attuazione del dettato costituzionale imponeva come priorità: la casa ai lavoratori, la sanità pubblica e la scuola, la qual ultima doveva premiare la capacità e le attitudini degli allievi. Il suo mandato coincise con la fine del boom economico e non fu un periodo facile in quanto, per la prima volta, si delineò il fenomeno del terrorismo (strage di piazza Fontana), dilagò la contestazione giovanile studentesca e crebbero gli scioperi nel mondo del lavoro. Appena salito al Quirinale, il nuovo Capo dello Stato fece bonificare il Palazzo dalle numerose microspie che erano state posizionate durante il mandato Segni e diffidò il proprio segretario particolare dall’avere qualsivoglia rapporto con i Servizi segreti, nei cui riguardi aveva delle motivate riserve. Infatti aveva scoperto dall’inchiesta sul Sifar, di essere stato spiato, lui ed i suoi collaboratori, e che ben 150.000 italiani erano stati schedati con notizie anche inventate di sana pianta: “Non ho lottato – disse – perché producessimo tanta porcheria, quella contenuta nei fascicoli del Sifar che sono un’autentica vergogna per la nostra democrazia. E non posso

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Tito Lucrezio Rizzo

tollerare che sotto la mia presidenza avvengano queste cose. Chi ha sbagliato deve pagare subito, costi quel che costi. Un Servizio segreto che raccoglie solo porcherie – soggiunse - è meglio scioglierlo. Non serve ad alcuno, ad eccezione dei mascalzoni che se ne servono per ricattare i propri avversari. Se vogliamo essere un Paese civile, bisogna che vincano le idee, non le porcherie del Sifar”. Il relativo scioglimento avvenne nel 1965, con decreto del Presidente della Repubblica. La popolarità del Presidente coinvolgeva indistintamente persone di ogni ceto, cui volentieri inviava telegrammi augurali in occasione di eventi lieti e meno lieti. Le principali linee-guida che orientarono i suoi interventi, possono già evincersi dai discorsi di fine anno indirizzati agli italiani, nei quali non mancò mai di evocare la Resistenza, né l’economia, che non fu da lui mai considerata come una variabile indipendente nel sistema Paese, né come causa marxisticamente determinante in ogni campo dell’agire umano, bensì come parametro ineludibile nelle relazioni internazionali, come ed ancor più nella stabilità interna, ma nel contesto di un solido ancoraggio all’etica, connotato essenziale - essa sì - della dignità dell’ Uomo, elemento centrale del socialismo democratico e riformista. All’aumento dei consumi, elemento di progresso economico, aveva contribuito la spesa del settore pubblico, in merito alla quale non mancò di far sentire alto e forte il suo richiamo sulla doverosa selettività degli impieghi del pubblico denaro, che dovevano seguire obiettivi mirati in un preciso ordine di priorità. Anno cruciale per tutti gli appartenenti alla grande famiglia socialista, fu il 1968: era la volta della repressione della Primavera di Praga, che il 20 agosto vide la fine del coraggioso esperimento per una transizione dal comunismo liberticida al socialismo democratico.

Questo fu il commento del Presidente italiano: “La reazione che tali fatti violenti e luttuosi hanno provocato e provocano in tutti i Paesi, ha assunto un’intensità senza precedenti nella storia del mondo. Una vastità tale da lasciare sperare nell’avvento di una più alta e operante coscienza universale”. Altro anno drammatico fu il 1969, caratterizzato da un’organizzata “conflittualità permanente” con scioperi a catena, e tafferugli come quello di Battipaglia, in seguito al quale la Sinistra più accesa chiese il disarmo delle Forze dell’Ordine. Disordini accaddero anche nelle Università, a partire dalla Sapienza di Roma, sino a quelli nella Statale di Milano, nei cui pressi il 19 novembre fu assassinato nel suo autoblindo il giovane agente di PS Antonio Annarumma, durante gli scontri con dei facinorosi di area marxista: le forze dell’ordine erano sì armate, ma con la consegna di non difendersi con le armi che avevano in dotazione. Il Capo dello Stato scrisse di suo pugno, accantonando le prudenze istituzionali del Segretario generale Picella, un telegramma che testualmente recitava: “Questo odioso crimine deve ammonire tutti a isolare e mettere in condizione di non nuocere, i delinquenti, il cui scopo è la distruzione della vita, e deve risvegliare non soltanto negli atti dello Stato e del Governo, ma soprattutto nella coscienza dei cittadini, la solidarietà per coloro che difendono la legge e le comuni libertà”. Nel luglio il Presidente avvertì una profondissima amarezza sul piano personale, in quanto proprio sul tema del disarmo delle forze di polizia, si ebbe l’ennesimo strappo della tela del socialismo italiano, che appena tre anni prima era stata faticosamente ricucita da Saragat e Nenni con la nascita del PSU. Un’altra emergenza colpì profondamente la sua sensibilità personale ed istituzionale: i moti di Reggio Calabria, che avevano sconvolto tra il luglio del 1969 ed il febbraio del 1970 quella città, privata dello status di capoluogo regionale.

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Giuseppe Saragat

Di quei moti aveva egli compreso che le reali motivazioni erano tutt’altro che “fasciste”, come erano state sbrigativamente etichettate per l’appoggio giunto dal MSI, bensì derivanti da “un’inquietudine antica in una città in cui – queste le parole di Saragat – ci sono ancora le baracche del terremoto del 1908. Anzi - soggiunse - debbo dire che i reggini ed i calabresi sono stati troppo pazienti finora”. Nel pianeta “giustizia, dichiarò di essere assolutamente contrario al ricorso da parte dei giudici allo strumento dello sciopero, data la specialità del loro status di titolari di una funzione sovrana, come quella giudiziaria, nell’ambito di uno Stato che volle definire “strumento possente di vita morale”. In questa concezione quasi “sacerdotale” della funzione giudiziaria, non poteva concepirne connotazioni ideologiche, per cui quando in seno al CSM nel 1968 si costituì la corrente di “Magistratura democratica”, il Presidente disse: “Che tragedia! In Italia c’è una Magistratura borbonica e ce n’è un’altra maoista”. Nel merito più in generale del rapporto tra politica e giustizia, Saragat soleva dire che “Dove entra la politica, la giustizia scappa dalla finestra”. Per quanto concerne le visite di Capi di Stato e di Governo al Quirinale, impartì rigorose disposizioni affinché i Servizi Segreti si guardassero dall’istallare microspie negli appartamenti riservati agli ospiti, in ossequio al principio di civiltà della sacralità degli stessi. Per converso non consentì al Presidente della Repubblica sovietica, né a quello americano, di approntare all’interno dello storico Palazzo alcun tipo di attrezzatura. La democrazia all’interno non poteva prescindere da solide alleanze all’esterno, per cui sin dal primo discorso augurale di fine anno agli italiani, Saragat focalizzò l’attenzione sul tema dell’ unificazione dell’Europa “legata prima che a nazioni geografiche, alla matrice greco-latina, germanica e cristiana dei

nostri popoli, che postula come ideale un uomo forgiato dal diritto romano, dal Cristianesimo, dal Rinascimento, dall’ Illuminismo e dalle rivoluzioni politiche e sociali di questi ultimi tre secoli: di un Uomo che anela alla libertà, alla verità e alla giustizia, che rifiuta l’oppressione”. Andò via dal Quirinale alla scadenza del mandato, il 29 dicembre 1971, lasciando il segno di un esercizio della funzione esemplare per equilibrio e correttezza. Nel 1978, profondamente colpito dall’assassinio dell’on. Moro, in favore della cui salvezza aveva sposato l’opzione umanitaria sostenuta da Craxi e da Leone, osservò nel profetico suo dolore: “Accanto al suo cadavere, c’è anche il cadavere della prima Repubblica”. Al momento del decesso, il 16 giugno 1988, teneva sul comodino le sue ultime letture: Dante, Leopardi e Manzoni, giganti non solo della letteratura, ma anche nella capacità di introspezione nei recessi dell’anima. I funerali religiosi ebbero luogo alla chiesa di S. Chiara a piazza dei Giochi Delfici, alla Camilluccia. Pier Luigi Gregori

Roma, scuola media Alessandro Manzoni, anno 1967, 1° anno sez L, sono convocato in presidenza d'urgenza un bel giorno di primavera. Un po' di imbarazzo ma sicuro di me stesso non penso a provvedimenti negativi nei miei confronti. Entro nella stanza del preside con un’accoglienza fuori dal normale quasi col tappeto rosso. Mi annunciano con grande gentilezza il recapito di una lettera dalla Presidenza della Repubblica. Un po' stordito quasi quasi mi viene da sorridere. Cosa c'entro io con il Quirinale? O meglio con il Capo dello Stato? Dopo qualche minuto mi ricordo che una settimana prima avevo scritto su un foglio di quaderno con tanto di bandiera

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Pier Luigi Gregori

nazionale e spedito la richiesta al Presidente Saragat di visitare il palazzo presidenziale. Il Presidente aveva accolto il mio desiderio e metteva a disposizione la Sede presidenziale per una visita completa. Mi commossi e dì lì a poco mi comunicarono le modalità per andare a Palazzo. Piccole gioie sì ma grandi soddisfazioni per un dodicenne degli anni 60 che riceve una risposta dal Capo dello Stato. Ecco il primo ricordo che ho di Giuseppe Saragat un Presidente amato dagli italiani ritenuto intelligente, abile, simpatico, lungimirante, semplice nei tratti del carattere, schivo del superfluo e sensibile alle sofferenze del popolo che governava oltre che alle tensioni e aspirazioni delle giovani generazioni. Rividi diversi anni dopo in veste di giornalista il Presidente Saragat ad una conferenza stampa di Tribuna Politica in RAI nella quale in quel tempo, terminato il settennato, ricopriva l'incarico di presidente del PSDI, partito che contribuì a rilanciare. Fu un rivederci altrettanto commovente tanto più quando dopo essermi presentato come corrispondente di un agenzia di stampa genovese Saragat replicò con tenerezza di un nonno ad un nipote che il papà era stato un mio collega perché anche lui giornalista da Genova. Ma anche un momento divertente e simpatico come era lui sì piemontese riservato ma aperto alla battuta e promotore della cordialità e dell'amicizia fra tutti. Ecco il mio ricordo di un uomo buono e autorevole, autentico e sincero, al quale tutti, avversari politici compresi, hanno riconosciuto la lealtà e fedeltà alle Istituzioni e soprattutto l'onesta nella vita quotidiana e sociale. Talvolta noi giornalisti dedichiamo grande attenzione, giustamente, alle figure dei capi di governo ma spesso dimentichiamo la storia istituzionale e politica di uomini giusti, buoni e dotati di notevole discernimento politico come i Presidenti della Repubblica. Forse è la disattenzione ai poteri, non sottovalutabili, che la Costituzione conferisce loro.

Ripercorrere la vita di Giuseppe Saragat non è mio compito ma in questa occasione mi piace ricordare quanto altri Presidenti della Repubblica succedutigli hanno dichiarato sulla sua figura istituzionale ed umana fin dagli anni della sofferenza della guerra e della prigionia. Oscar Luigi Scalfaro citava spesso Saragat come modello di onestà e coerenza politica avulso da ogni calcolo strumentale, esaltandone le doti di grande difensore della libertà e della democrazia. Non per nulla Saragat, anche se talvolta gli storici prediligono il settennato presidenziale, può essere considerato uno dei padri dell'Italia risorta dalle macerie della guerra e del fascismo con la fulgida esperienza dell' Assemblea Costituente che presiedette per un certo periodo. Erano gli anni di militanza antifascista con un altro grande della storia italiana Sandro Pertini accanto al quale divise sempre fino alla scomparsa una particolare fratellanza. Giovanni Leone ne sottolineò i carismi di difensore della famiglia e dei sentimenti di concreta vicinanza a chi soffre nella vita mentre altri esponenti politici non solo socialisti o socialdemocratici ma di tutte le idealità ricordano ancora una prerogativa essenziale di Saragat, quella del suo impegno di difesa del lavoro ma soprattutto dei lavoratori. E' stato il primo Presidente della Repubblica ad andare tra i lavoratori, fisicamente a recarsi nelle fabbriche appena eletto al Quirinale (1964/1965) recependo le istanze e i disagi degli operai ma anche di tutti coloro che lavorano nell'impresa, nella pubblica amministrazione, nelle realtà del territorio, nel mondo della scuola. La strenua difesa delle Istituzioni lo vide sempre in prima linea anche e soprattutto nei momenti cruciali e difficili della Repubblica quando ad esempio forze oscure intendevano prendersi gioco della democrazia imponendo comportamenti vessatori e

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Giuseppe Saragat

violenti contro le libere Istituzioni nate dalla lotta al fascismo. Era il tempo del cosiddetto post-boom economico allorché le Istituzioni centrali e locali risultavano vittime di sbandamenti amministrativi con i fenomeni corruttivi che in seguito avrebbero purtroppo prosperato in un orrendo silenzio fino ad oggi. Giuseppe Saragat ha sempre combattuto i fenomeni degenerativi della Pubblica amministrazione a partire dal suo impegno giovanile con il PALI, poi con il PSU e con il PSDI portandone avanti lo sviluppo con il suo stimolo a ben operare da Presidente della Repubblica. Il suo impegno a contrastare la povertà si ritrova nei discorsi di sostegno alle iniziative legislative per le famiglie più bisognose, per gli studenti in cerca di lavoro. Fu il grande sostenitore delle politiche dei redditi e delle riforme, della concertazione (non sempre da denigrare!) e del dialogo per affermare i diritti dei lavoratori, della disponibilità al confronto fra le Istituzioni finalizzato sempre al bene dell'Italia. Attento all'Europa e ben amato da tutti i capi di stato del Continente seppe costruire ponti d'oro con la vicina Francia (famosa l'inaugurazione della Galleria del Monte Bianco con il Presidente De Gaulle) ma anche eccellenti rapporti con il Regno Unito e con la Germania oltre che con il mondo dell'Est europeo. Fu coraggioso, pur fedele all'Alleanza Atlantica, nello strigliare gli USA per una chiusura definitiva alla guerra in Vietnam confermando le sue notevoli doti di amante e cooperatore per la pace mondiale. La costante attenzione e preoccupazione per i problemi della sanità, della scuola e della casa distinsero Saragat come un autentico democratico e difensore dei più bisognosi. Molti interventi rispettosi sempre delle competenze fra i Poteri dello Stato hanno caratterizzato la sua opera presidenziale. Basti pensare ai diversi richiami al Parlamento per alcune legislazioni sociali. Ma non vanno dimenticate le equilibrate prese di posizione del Presidente durante i

difficili anni del '68 e delle relative turbolenze giovanili verso i malesseri della società civile mentre altrettanto impegnativi nel risolvere con il dialogo e il pacifico confronto i suoi discorsi nei cosiddetti anni di piombo e dell'autunno caldo con i rinnovi dei contratti collettivi in fabbrica. Molti i viaggi all'estero come quelli memorabili in America latina nei quali portò l'immagine di un’Italia attiva, onesta e sincera, professionale e seria ma anche simpatica e familiare, genuinamente umana e solidale. La sua spinta ideale era stata anche la sua Giuseppina, consorte scomparsa troppo presto dalla quale attingeva anche quella energia spirituale di cui sempre si è alimentato soprattutto nei momenti più scuri della Repubblica. Si ritrovò più potente e limpida questa forza dello spirito negli ultimi anni della sua esistenza terrena quando un dolce e delicato impulso alla fede cristiana lo avvolse proprio nel ricordo della sua adorata Giuseppina. Quel grande amore diventato Amore sintetizzò tutta la sua vita fatta della ricerca della giustizia e della verità. Il gesuita Padre Virginio Rotondi gli stette vicino nelle ultime ore sigillando quei sentimenti verso la famiglia e la Patria. La vita di Giuseppe Saragat fra i tanti valori e principi portanti della nostra storia italiana costituisce essa stessa un valore come testimonianza della libertà e della difesa di una autentica democrazia che col tempo si è profondamente ammalata. Da Costituente ritroviamo nella sua esperienza politica e istituzionale l'amore per la pace, per una nuova Italia e per un avvenire di solidarietà umana, in quella familiare la dedizione ai sentimenti più profondi dell'animo umano. E' un modello ancora oggi per i nostri giovani i quali, nonostante le apparenze, sono molto sensibili alle istanze del buon vivere civile della giustizia e della democrazia. Dobbiamo iniziare ad ascoltarli con pazienza e amore come ha fatto

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Alberto Tomassini

Giuseppe Saragat che ha sempre creduto nei giovani. E' un esempio per tutti certo ma in particolare per coloro che ricoprono cariche istituzionali dal piccolo Comune alla più alta carica del Colle. Oggi ce n'è tanto bisogno. Alberto Tomassini

L’Associazione “Democrazia Futura“, che ho l’onore di presiedere e rappresentare, opera senza fini di lucro e con spirito di libero volontariato, e riunisce cittadini che intendono recuperare e far vivere la tradizione culturale, storica ed ideale del socialismo democratico occidentale ed italiano. Il naturale riferimento di tale pensiero politico trova in Giuseppe Saragat l’espressione fondativa ed innovativa del percorso avviato dal riformismo turatiano e da Giacomo Matteotti. Democrazia Futura, ben lungi da voler assumere un atteggiamento associativo del tipo combattenti e reduci, che comunque rispettiamo, e di carattere meramente celebrativo, intende riaffermare la validità perenne dei valori di libertà e giustizia sociale, nel benessere e nella pace, con la piena tolleranza e la parità tra i sessi, eliminando tutte le discriminazioni, e con la garanzia della libertà religiosa da esplicarsi nel pieno rispetto delle leggi dello stato, nell’ambito del principio della separazione delle funzioni e poteri tra stato e chiese. Il pensiero della democrazia sociale e qualsiasi altro che si ispiri alla realizzazione di libertà e giustizia sociale nell’ ambito di istituzioni democratiche, per definizione non può vivere se non c’è la democrazia e l’Italia ha bisogno di quest’ area politico-culturale e di conseguenza serve che la sua democrazia sia solida e sostanziale, non soltanto declamata. Essi sono chiaramente alternativi non solo alle posizioni estreme storiche sintetizzate nel comunismo e nel fascismo, ma anche e soprattutto al prorompente populismo che percorre da

troppo tempo la vita politica italiana, o forse meglio rimasto sempre presente, sotto traccia, nella nostra società. Pertanto, il legame tra libertà e giustizia sociale è indissolubile ed è condizione e fine ultimo per una società dove ciascuno possa offrire il proprio contributo di lavoro, intelligenza e iniziativa, ricevere garanzie di pari opportunità nella tutela del soddisfacimento dei bisogni fondamentali e del progetto di vita che ognuno ritiene a sé più congeniale, e dove il merito abbia un ruolo significativo e consenta di esplicarsi in pieno all’ascensore sociale per una sempre migliore qualità della vita. L’impressionante esplosione demografica del pianeta obbliga a perseguire, in via prioritaria, l’obiettivo dello sviluppo possibile compatibile con la salvaguardia delle risorse naturali, in particolare quelle idriche, collegata ad una rigorosa tutela del territorio ed alla evoluzione delle condizioni climatiche, al fine di poter garantire una piena vivibilità. Ne discende che considerando l’affermazione di Zygmunt Bauman (sociologo e filosofo) che recita «Una caratteristica della modernità è la produzione di “persone superflue”: individui tagliati fuori dal processo produttivo che perdono la propria fonte di sussitenza. Il progresso economico consiste nel produrre la stessa quantità di cose che producevamo ieri con una minore quantità di lavoro e a un costo più basso. Chi rimane tagliato fuori diventa una persona superflua. E alle persone superflue non resta che andarsene, cercando un altrove dove ricostruirsi una vita» rappresenta una constatazione che si inserisce perfettamente nel contesto del pensiero di Giuseppe Saragat che punta all’inclusione e non all’esclusione, quindi riconfermandone l’attuale piena validità. Quali sono stati, quindi, i cardini su cui si è poggiata una militanza nel pensiero socialdemocratico, oltre ai casi come il mio di una crescita in un’ambiente familiare di tradizione socialista ed attiva partecipe alla fondazione del movimento

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Giuseppe Saragat

socialdemocratico a Venezia (prima PSLI e poi PSDI) che aveva visto presente sul territorio il figlio del martire socialista Giacomo Matteotti, mi riferisco a Gianmatteo Matteotti? Essenzialmente il coraggio e la passione con cui Saragat enunciava le proprie idee dimostrando di anteporre le proprie convinzioni politiche rispetto alle opportunità personali di collocazione istituzionale (vedi le dimissioni da presidente dell’Assemblea Costituente per poter condurre la battaglia ideale a sostegno del socialismo democratico) argomento molto di attualità sotto il profilo etico nell’attuale contesto politico. Così pure la scelta di anteporre sempre gli interessi generali a quelli di parte, ivi compresi quelli del proprio partito, è stato l’esempio di cultura politica su cui sono poggiate e rimangono perennemente vigenti le azioni del pensiero socialdemocratico saragatiano. Altre questioni di piena attualità sono: a) il richiamo permanente all’integrale applicazioni degli articoli della Costituzione (49 ed altri) riguardanti le forme associative (Partiti e Sindacati) mediante regolamentazione dell’attività associativa. b) La cogestione quale strumento di governo delle imprese d’intesa tra proprietà e lavoratori per garantire un moderno approccio di tutela reciproca dei soggetti partecipanti al lavoro che fu introdotta nel programma della socialdemocrazia tedesca a Bad Godesberg nel 1959 e che Saragat enunciò fin da prima di tale congresso. c) Il lavoro in forma cooperativa sulla scorta del pensiero dei fondatori Giuseppe Massarenti e Camillo Prampolini e dell’attivismo di Giacomo Matteotti nell’organizzare in Polesine tale forma associativa che hanno rappresentato la cultura di riferimento del riformismo socialista della Val Padana. Forma cooperativa la cui identità non può essere ricondotta a quella rappresentata dalle grandi imprese private, ma significare un impegno per la crescita civile e sociale di tutti coloro che

convintamene partecipano. A tal proposito non potrò mai dimenticare la mia prima partecipazione ad un comizio di Giuseppe Saragat tenutosi a Venezia (Campo Santo Stefano che è lo spazio più importante dopo Piazza San Marco) dove sul palco accanto a Saragat svettavano i vessilli dei cooperatori di Molinella (BO) e contemporaneamente dal fondo della Piazza in prossimità del Ponte dell’ Accademia si levavano i cori e gli insulti (socialfascisti e tanto altro) dei militanti del PCI (campagna elettorale 1953). d) la tutela sanitaria pubblica generalizzata, unita al diritto allo studio ed ad una casa non necessariamente in proprietà, con un welfare scandinavo complessivo di riferimento; e) la battaglia contro il giustizialismo con le sue “tricoteuses” figlie del populismo, che non fanno parte della cultura politica declamata da Giuseppe Saragat ancorata al rigore etico nel rispetto dei fondamenti del pensiero di Cesare Beccaria. f) il sostegno ad un sistema pensionistico universale con una forbice da stabilire tra livello minimo e massimo di corresponsione limitando contemporaneamente il prelievo retributivo fino ad un valore pari al raggiungimento massimo consentito dalla legge. Ogni cittadino dovrà essere libero di costituirsi ulteriori rendite pensionistiche a carattere privato con diritti intoccabili. Analogamente dovrà essere perseguita la forbice salariale entro cui garantire lo sviluppo retributivo sia in campo pubblico che privato nel mondo del lavoro dipendente. Ecco le ragioni per cui “Democrazia Futura” è qui oggi a ricordare tale figura fondamentale di garanzia e consolidamento della democrazia in Italia, ribadendo, inoltre, il fondamentale rispetto, in via generale, del principio della non retroattività delle leggi, in particolare su tutto il versante dei diritti sociali e delle regole e leggi di convivenza civile e di rapporto stato-cittadino, ma

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Danilo De Masi

riconfermando il principio della gradualità riformista che va garantito il cambiamento e l’innovazione. Si tratta ovviamente di non confondere “diritti” con “privilegi” che vanno superati. Chi ha militato in Italia in questo percorso politico ha dovuto affrontare tante amarezze e tante difficoltà pagando prezzi pesanti, ma ha avuto l’orgoglio di aver avuto ragione con tanti anni di anticipo rispetto a coloro che sono giunti a conclusioni quasi analoghe dopo un cinquantennio. A chi leader del più grande partito della sinistra italiana, non molto tempo fa, ha affermato che la parola socialdemocrazia era nel suo paese, meglio nel suo comune, ricordata “quasi una brutta parola“ rammento che pessima era la parola comunismo sotto le cui bandiere ha svolto la sua attività politica. Come pure a chi durante il 1968 militava in Potere Operaio e capofila nelle contestazioni più dure nelle università contro chi praticava il riformismo e che oggi nel ruolo di filosofo politologo declama nei talk-show che “la socialdemocrazia“ è un’idea valida, ma superata, e che cambiare idea a volte significa essere più intelligenti di quelli che confermando le proprie convinzioni possono essere considerati dei “cretini“, rispondiamo che la socialdemocrazia negli altri paesi democratici europei ha avuto ed ha ancora un ruolo fondamentale e che solo in Italia, guarda caso, non ha avuto la possibilità di esprimersi adeguatamente e ciò non solo per la inadeguatezza dei suoi rappresentanti. La socialdemocrazia ieri, oggi e domani è quella che si rifà ai ricordati “principi sempre attuali” e che nel futuro dovrà essere con le caratteristiche indicate pregevolmente da Colin Crouch nella sua recente pubblicazione Quanto capitalismo può sopportare la società dove la socialdemocrazia deve passare dal difensivismo all’assertività. Ecco le ragioni della presenza di “Democrazia Futura” ad onorare lo statista e politico Giuseppe Saragat e per

il ricordo del quale ha realizzato ed inaugurato due monumenti alla memoria dal 2011 ad oggi, uno donato al Comune di Venezia e l’altro nel Comune di Castel Sant’Elia (VT) che vede la presenza in sala del suo Sindaco Rodolfo Mazzolini, sindaco della storica roccaforte dei socialdemocratici saragatiani. Danilo De Masi

“Il tempo si è fatto breve”, citando dalla Bibbia. Credo che sia importante aver realizzato questo ricordo di Giuseppe Saragat e ringrazio l’amico Sabatini per aver avuto il coraggio di prenderne l’iniziativa. Oltre a portarvi il saluto degli altri due componenti del direttivo della Fondazione Saragat, l’avvocato Angelo Scavone, che è impegnato in un’udienza, e Gianni Manzolini che non è potuto venire, vorrei dedicare i pochissimi minuti che mi prendo a qualche riflessione che ho fatto in questi anni, cioè dal dopo la fine del PSDI, dopo la fine dell’impegno politico, dopo che avevo comunque maturato la convinzione che non ci fosse più possibilità in Italia di avere un vero partito laburista socialdemocratico, ma che - tutt’al più - si potesse lavorare per contribuire in termini di diffusione dell’idea. Devo ricordare il Saragat che ho conosciuto in un periodo anche non breve in cui io ero segretario nazionale dei giovani e quindi sedevo in direzione: Saragat era il Presidente. Agli inizi la direzione del PSDI era una cosa seria, cominciò con 11 membri per andare poi a, credo, 17 o 18, mentre nella fase finale avevamo organismi di centinaia di persone. C’erano anche le occasioni per parlarsi; c’erano anche occasioni in cui qualche volta era lui a convocare e altre in cui eravamo noi a chiederlo. Anche se devo dire, per integrare questi tre ricordi che vi trasmetto, che se io chiedevo udienza a Saragat per chiedergli lumi su un problema concreto, mi rispondeva con

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Giuseppe Saragat

quello che aveva in mente lui, non quello che io volevo sapere. Capivo dopo che voleva darmi un indirizzo, prescindendendo completamente dal problema che volevo porre io. In queste occasioni, comprese quelle in cui era lui a chiamarci per discutere su problemi da noi posti, per esempio il fatto del marxismo, esprimeva con fermezza la sua convinzione. Ricordo benissimo un convegno della nostra federazione giovanile in cui molti avevano usato parole di fuoco contro il marxismo in senso lato; mi disse “guarda che siamo marxisti anche noi, non possiamo dirlo perché la gente considera marxisti solo quelli del PCI, che peraltro Marx non lo hanno letto, quindi parlano di cose che non conoscono; però non possiamo rinnegare l’appartenenza al marxismo”. Questo è uno dei fatti di cui non si parla mai; Saragat è ricordato solo, e questo mi duole, per la scissione di Palazzo Barberini e non per quello che era il suo punto di vista in quella scissione, che, tra l’altro, non era neanche una scissione anticomunista. Se si legge quello che lui ha detto e i suoi articoli successivi, come diceva il nostro Settembrini nell’ultimo convegno fatto su Saragat, gli si riconosceva una posizione più simile alle sue idee in Ingrao (chi diceva Craxi, chi diceva Longo). Questo ve lo dico perché temo che su quasi tutti gli argomenti Saragat sia ricordato in un’interpretazione che non è quella veritiera; è chiaro che lui con la scissione di Palazzo Barberini ha salvato l’Italia da una deriva sovietica, su questo non ci piove: l’ultima cosa che aveva in mente era uno spostamento a destra degli equilibri: poi le cose sono andate come sono andate. Probabilmente dal punto di vista storico rimane vero il valore che viene attribuito alla sua posizione, nel bene o nel male, e cioè quello di aver salvato l’Italia dalla deriva sovietica. Questo credo di sì, anche se probabilmente se non l’avesse fatto avremmo avuto quello che, più o meno

giustamente, gli americani hanno fatto, cioè un colpo di stato preventivo, tipo quello che (questo è il mio punto di vista) gli americani avevano incaricato Segni di fare - se ce ne fosse stato bisogno. Le dichiarazioni ufficiali di Saragat sono di stima verso sé, ma nella realtà no. Saragat era stato avvisato dagli inglesi di cosa c’era in atto; prese Segni per il colletto e l’ictus glielo ha fatto venire lui. Questa è la verità storica, Saragat era durissimo con gli americani, che li accusava di essere gli ispiratori dell’ operazione di Segni. Il povero generale De Lorenzo era semplicemente un fedele: lo chiama il Capo dello Stato che gli dice di farlo, lui comunque prepara le carte. Questo lo aggiungo anche per arrivare a dire e concludere che Saragat era un soggetto strano anche dal punto di vista dell’approccio con il suo impegno pubblico. Non ha mai creduto molto sulle risorse ideali di questo Paese, ha ripetuto un sacco di volte, compreso subito dopo la sua elezione all’Assemblea costituente: “Questo è un Paese che non ha il senso dello Stato, teniamo presente che gli italiani non hanno il senso dello Stato”. Questa è anche un’altra delle cose che ricordo di avergli sentito dire: che sostanzialmente l’Italia rimane un Paese proletario e fascista, che può essere fascista rosso o fascista nero, ma sostanzialmente gli italiani sono un Paese proletario fascista. Queste sue considerazioni, allora non palesate, ma dette magari in salotto di casa sua, sono la dimostrazione che l’Italia purtroppo è così. Saragat è uno che si è impegnato molto, paradossalmente, non avendo fiducia nelle prospettive di questo Paese, ma rispondendo a una istanza di cui parlava in privato: era il suo motto “fai quello che devi, accada ciò che può”, cioè non sappiamo se quello che facciamo servirà, però abbiamo il dovere di farlo e lo facciamo. Poi può darsi anche che ciò che degrada e muore possa generare il nuovo. Citava spesso la Bibbia sul fatto

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Nicola Cariglia

del seme, che se muore e marcisce può comunque generare una nuova pianta. L’ho sempre considerato come uno che vedeva chiaramente le cose avendone un personale distacco, che non gli impediva, comunque, di fare tutto quello che andava fatto. Probabilmente del grande lavoro di Saragat sarà rimasta traccia nelle menti e negli animi migliori di questo Paese, che pur non potendosi dire socialdemocratici o laburisti sicuramente hanno contribuito ad avere oggi un Paese che non è né quello comunista che ha rischiato di essere, ma neanche quello dell’integralismo cattolico che altrettanto rischiava di essere. Quindi non è che non sia servito a nulla. Vorrei chiudere con una voce di speranza: non possiamo avere in Italia un partito laburista perché l’Italia non è un Paese a tendenza laburista e neanche liberale, ma è un Paese sostanzialmente fascista, che può essere fascista rosso o fascista nero, ma sostanzialmente un Paese fascista dove però le intelligenze libere, se non altro, oggi sono moderatamente al sicuro di poter dare il proprio contributo mentre fino a un passato anche relativamente recente non lo erano. La libertà è un bene che non si acquisisce mai in via definitiva, ma bisogna riconquistarsela quotidiana-mente. Nicola Cariglia

Saragat (già nella Storia) rappresentava per i giovani non il passato ma il futuro. Per quelli della mia generazione che lo hanno conosciuto in età adolescenziale e subito lo hanno seguito, e per sempre, Giuseppe Saragat suscitava un sentimento che oggi forse non è più riscontrabile. Perché quell’uomo dall’aspetto severo e autorevole, nato sul finire del secolo precedente al nostro, esule di un regime già sepolto e combattente di una lotta di resistenza che già appariva lontana ed era sui libri di storia, rappresentava, per noi ancora così giovani, non il passato ma il futuro.

Incarnava la speranza di una democrazia e di uno stato quali non conoscevamo in Italia. Sul modello dei paesi nord europei, soprattutto scandinavi. Una democrazia che garantiva al massimo l’esercizio delle libertà e fra queste, in primo luogo, la libertà dal bisogno. Fummo segnati per sempre dal modello di società che era il fine dell’azione politica di Giuseppe Saragat: la società del benessere, che attenuava le distanze fra le classi sociali, garantendo alle donne e agli uomini tutti la medesima dignità di cittadini. E l’uomo che leggeva Goethe nella lingua originale e non mancava mai di inserire citazioni dei classici nei suoi discorsi, dimostrava una straordinaria capacità di essere vicino alla gente declinando la società del benessere con parole semplici: case, scuole, ospedali, prendersi cura degli anziani e dei bambini. Ma anche parole come Democrazia, Libertà, Giustizia (inscindibili fra loro), che hanno caratterizzato e accompagnato le grandi scelte di Saragat, dalla lotta al Fascismo al legame indissolubile con le grandi democrazie dell’occidente, suonavano non retoriche e drammaticamente attuali e significative in un mondo attraversato dalla cortina di ferro e in un’Italia nella quale la ricostruzione produceva grandi ricchezze non equamente divise. Le grandi scelte di Saragat: niente c’è da aggiungere a quanto già è stato ricordato. Sono il suo grande merito, quelle che gli garantiscono un posto nella storia a dispetto del linciaggio di cui fu vittima per decenni e della damnatio memoriae con cui ancora oggi lo si vorrebbe tenere nell’oblio. “Perché – ebbe a dire Marco Pannella subito dopo la morte del fondatore della socialdemocrazia italiana – chiunque a sinistra abbia avuto ragione per la libertà, la democrazia, la Repubblica al livello della storia, è stato linciato in vita”. Anche quando divenne Presidente della Repubblica ci fu chi tentò di denigrarlo pretestuosamente, facendosi cieco e sordo per non riconoscere il grande ruolo svolto in questo magistero da

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Giuseppe Saragat

Saragat per fare sentire ai cittadini tutta la forza dello Stato in una Italia percorsa da grandi fremiti sociali e già alle prese con l’attacco cruento portato dagli opposti estremismi. Una denuncia, quella degli opposti estremismi, che gli attirò ancora una volta accuse da parte di chi già lo aveva accusato di tradimento per le scelte giuste e coraggiose compiute con la scissione socialista del 1947. Per la presidenza Saragat, basti quanto scrisse Indro Montanelli, uomo certo non privo di severità nei suoi giudizi. “fu un capo di Stato esemplare per equilibrio, correttezza e pulizia. Saragat è morto povero o quasi: l’unico beneficio tratto dalla sua più che quarantennale milizia politica fu una casa con giardino nei quartieri alti di Roma”. C’è infine un altro aspetto di Saragat (oltre al Saragat leader socialdemocratico e Presidente della Repubblica) di cui a torto poco si parla e che oggi si rivela di grande attualità: la grandissima importanza sempre attribuita alle radici cristiane. Saragat era in questo completamente d’accordo con Croce del “Perché non possiamo non dirci cristiani” e credo sia stato uno dei pochissimi leader, se non l’unico, della sinistra italiana a fare questa ammissione. La sua visione della libertà discende da lì, come del resto da lì discende tutta la visione della libertà dell’occidente. Oggi, a mio avviso, il tema è di grande importanza e attualità. Un laicismo malamente inteso porta la società a rinnegare le proprie radici cristiane che invece sono il fondamento ideale di tutta la civiltà occidentale. Questo sfocia in un nichilismo che lascia l’occidente completamente disarmato, dal punto di vista ideale, nei confronti dell’islamismo. Riaffermare le proprie radici non significa non essere laici o addirittura non aver rispetto per altre religioni; significa riaffermare i nostri valori e la nostra storia, riconoscersi in questi e riaffermarne la validità. Dire come si comporterebbe oggi Saragat sarebbe certo arbitrario. Ma è verità ricordare che

da vivo si è sempre battuto perché l’Europa riconoscesse esplicitamente il proprio debito nei confronti del cristianesimo. La maggior parte di noi che siamo qui per il 50° anniversario della sua presidenza sappiamo e ci rammarichiamo che a Saragat non sono tributati i riconoscimenti che il suo coraggio e la sua visione meriterebbero. Non saremmo suoi discepoli se a questo non dedicassimo una riflessione e su questo non ci interrogassimo. Antonio Casanova riporta al riguardo, nel suo libro Saragat, ciò che egli stesso disse in una intervista a “La Stampa” il 30 ottobre 1986. E’ una delle sue ultime esternazioni pubbliche e verso la fine dell’intervista (così riporta Casanova nel libro) Saragat dice: “So che l’opinione socialdemocratica si allarga e che il mio partito non è cresciuto come vorrei. Ma non ho rimpianti: anche il Vangelo dice che, se il chicco di grano non muore, non produce frutti”. Noi che ancora siamo vivi vediamo ogni giorno come il nostro Paese si trova di fronte altre sfide rispetto a quelle dei tempi di Saragat. Abbiamo fiducia che sapremo superarle per la fiducia che proprio Saragat ci ha insegnato ad avere nelle risorse della democrazia. E merito nel superare quelle sfide dovrà essere riconosciuto anche a Saragat e a quel chicco di grano. Alberto Aghemo

La mia sarà una testimonianza “per interposta persona”. Perché se c’è qualcuno, nella Fondazione Matteotti, titolato a parlare di Giuseppe Saragat oltre al presidente Sabatini, che ha aperto il lavori di questo “Ricordo” quello è Antonio Glauco Casanova, che della Fondazione è, da molti anni, vicepresidente. Antonio “Tonino” Casanova è stato molte cose: intellettuale, curioso della vita, erudito, sempre animato da una

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Alberto Aghemo

robusta e partecipata fede nel socialismo riformista. Casanova ha vissuto anche un’esperienza importante come civil servant perché, in virtù anche del suo rapporto di amicizia e fiducia con Luigi Preti, è stato Capo di Gabinetto in importanti dicasteri, quali le Finanze e il Commercio estero. E’ anche giornalista: io l’ho conosciuto nella sua veste di direttore de “l’Umanità” e, anzi, sono diventato giornalista proprio grazie a lui e per questo motivo lo chiamo ancora scherzosamente “maestro”. Ma Tonino Casanova è soprattutto uno storico: uno storico con un interesse ed una passione particolari, in quanto autorevole e profondo studioso del pensiero socialista riformista. A lui si devono opere fondamentali, concepite tra gli anni Sessanta, Settanta ed Ottanta del secolo scorso dedicate a Matteotti, a Turati, a Treves, a Modigliani: a completare questa sorta di Pantheon del pensiero socialista riformista arriva nel 1991 la vasta monografia Saragat, un testo ponderoso e molto importante. Il saggio nasce in un periodo significativo: Saragat era morto da poco e c’era il piacere e la necessità di evocare la figura e valorizzare l’opera di un grande del socialismo democratico. Ma vale ricordare che in quel periodo molte cose stavano accadendo nel mondo: era crollato il muro di Berlino, si stava sfaldando l’impero sovietico, in Italia stava venendo meno il fattore K, era in moto un processo di evoluzione estremamente accelerato e quindi dietro l’idea di Casanova, e di Antonio Cariglia - che di questo libro firma una bella e profonda prefazione, tutta politica c’era anche l’idea che di lì a breve l’idea del socialismo riformista avrebbe trovato nuove e forse più forti modalità di espressione e di affermazione. Era, appunto il ’91, ed era allora difficile immaginare che, viceversa, l’anno successivo sarebbe successo di tutto in Italia: sarebbe iniziato quel processo che inesorabilmente avrebbe portato alla fine la Prima Repubblica, espressione

abusata ma efficace, spazzata dal vento di Tangentopoli. Talché non soltanto non si celebrarono i fasti di un nuovo socialismo, ma nel 1992 non fu nemmeno celebrato il centenario della fondazione del Partito socialista italiano. A parlare del suo libro e di tutte queste cose avevo invitato l’amico Tonino: lui però si è schermito più volte, un poco per naturale ritrosia, un poco richiamando le ragioni dell’età avanzata. L’ultima volta l’ho sentito telefonicamente pochi giorni orsono e Antonio Casanova mi ha detto: “Guarda, davvero, non ce la faccio, verrei con enorme piacere, sono con voi. Se avrete la bontà di ricordare il mio libro, la mia opera, la mia passione per la figura di Saragat e del socialismo democratico ve ne sono grato. Ma sai, ho 95 anni e 4 mesi e a questa età è tutto così difficile… Io non sto male, ma ho un solo problema: ho 95 anni e 4 mesi...”. Questa osservazione sull’età mi ha fatto una grande tenerezza perché formulata con simpatia, con commozione e anche con un briciolo di civetteria. Ovviamente, mi ha fatto riflettere sul fatto che quando si contano non soltanto gli anni, ma anche i mesi, o si è nella primissima infanzia oppure si porta il peso di un’età estremamente avanzata. E’ dunque per questo motivo che ho assunto su di me il compito di citare l’amico, presente con noi in spirito, Antonio Glauco Casanova nel ricordare oggi Giuseppe Saragat, a cinquant’anni dalla sua nomina alla Presidenza della Repubblica. Consentitemi allora poche parole soltanto sul merito e una citazione; dopodiché ci lasceremo con immagini filmate che saranno poi suggello di questo incontro. La monografia su Saragat chiude, come dicevo, il Pantheon delle grandi figure del socialismo democratico italiano tratteggiata mirabilmente da Antonio Casanova. È bello questo libro perché tra l’altro ricorda Saragat senza falsa commozione: non è un’agiografia, non è un santino, resiste con determinazione

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Giuseppe Saragat

alla tentazione di una ricostruzione eroica; però è un libro vasto, solido, documentato, scritto in maniera puntigliosa e che pure si offre a una lettura avvincente. Si impone, in questo saggio, una storia lunga che comincia alla fine dell’ Ottocento e termina novanta anni più tardi. Una storia nella quale c’è di tutto: c’è la formazione politica in una Torino di inizio secolo estremamente ricca di talenti intellettuali, c’è l’esperienza bellica, c’è l’incontro con Matteotti, c’è l’iscrizione al PSU, c’è l’immagine di questo giovane che fa la sua scelta ideologica e dice “vedevo proprio nella mia città, Torino, i figli dei borghesi bastonare i figli degli operai e io non potevo che stare dalla loro parte”. Una piccola annotazione: l’iconografia ufficiale ci mostra un Giuseppe Saragat Presidente della Repubblica ormai anziano, composto, con una figura estremamente dignitosa e autorevole. Saragat giovane ha una faccia da “bravo figliolo”, come si suol dire, alto, con la faccia pulita, serena, sorridente, garbata, di buona famiglia - il padre era avvocato di idee socialiste; insomma, una persona di grande delicatezza umana. Leggere sotto questa immagine di bravo ragazzo la scritta “pericoloso sovversivo”, come risulta dagli archivi della polizia, fa un po’ sorridere. Eppure Saragat non è stato incarcerato solo a Regina Coeli, come ci ha ricordato il filmato che ha rievocato i drammatici eventi del 1944: è stato in galera diverse volte negli anni ’20, finché poi nel ’26 con Treves attraversò il confine verso la Svizzera, per approdare poi al lungo esilio in Francia. Ma arriviamo a noi: il culmine di questa vicenda umana e politica dopo la Presidenza della Costituente, dopo la scissione di Palazzo Barberini, dopo Pralognan, ovvero l’incontro del 1956 con Nenni che crea i presupposti per l’unificazione socialista, è sicuramente questo settennato, iniziato alla fine del 1964, al vertice del Quirinale. È un settennato difficile per il

Quirinale non meno che per il Paese. Forse andando indietro nella memoria, di settennati facili nella storia della Repubblica italiana non ce ne sono mai stati, però quello iniziò sotto il segno di quanto documentavano i bollettini della Banca d’Italia. L’Italia, vi si leggeva, “attraversa una congiuntura economica non favorevole”. Quel termine ‘congiuntura’ diventerà poi il marchio di una situazione che negli anni si è protratta e si è fatta sempre più drammatica, sempre più pesante, prefigurando la parola crisi, mentre la locomotiva italiana aveva rallentato la sua corsa e il boom era terminato: sembravano anni, in realtà solo pochi mesi erano trascorsi da quando alla lira veniva assegnato l’Oscar delle monete. Si annunciavano tempi difficili e sempre più difficili saranno nel volgere finale del settennato; basti pensare all’autunno caldo del ’69, ma soprattutto a Piazza Fontana, all’inizio dell’era delle bombe di Stato, dello stragismo e di tutti gli orrori che ci hanno in seguito accompagnato fino ai successivi, cupi “anni di piombo”. Eppure, anche in questo difficile contesto, ci sono, proprio grazie a Giuseppe Saragat, dei momenti forti dal punto di vista politico: abbiamo ricordato un nuovo rapporto con il mondo del lavoro e la classe operaia, merita sottolineare una rivalutazione forte della Resistenza, e poi l’atteso evento della riunificazione socialista. E a questo proposito vorrei fare una piccola annotazione perché ci richiama quanto è stato già osservato in precedenza. Ricostruendo quel momento, quello che accade il 30 ottobre del ’66, quando l’unificazione viene ratificata dai vertici dei due partiti, Casanova ricorda non tanto ciò che fece e disse Saragat, quanto quello che scrisse sul suo diario Pietro Nenni. Cito testualmente: “unificazione socialista. E stato il trionfo della socialdemocrazia”. E poi ancora, l’anziano leader socialista annota: “certo tutto questo si deve al fattore Saragat, al fatto cioè che

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Alberto Aghemo

egli sia al Quirinale e a come ci sta”. Si potrebbero dire mille altre cose ma è tardi… Termino questa testimonianza con un’ultima frase, una citazione. Come preannunciato, faccio parlare l’amico Casanova che succintamente ma in maniera estremanete efficace traccia, nel suo libro, un bilancio della stagione di Saragat al Quirinale e scrive: “Saragat lascia il Quirinale a testa alta al punto da poter riprendere subito il suo posto nel partito, certo di poter far valere il prestigio acquisito durante il settennato. Si può dire di lui, infatti, che è stato lo scrupoloso difensore della Carta Costituzionale, il garante dei principi su cui essa è stata costruita, l’interprete fedele delle sue basi storiche, etiche e politiche, il rivendicatore della sua origine antifascista. Con lui al Quirinale, la Repubblica democratica ha avuto il suo vigile protettore nei confronti di eventuali conati autoritari. Per questa ragione non ha avuto il favore della parte conservatrice e reazionaria del Paese. E’

stato il Presidente di tutti ma non per tutti, al di sopra delle parti, ma tenendo sempre presente la necessità, in un Paese come l’Italia, di additare e ricordare l’insuperabile confine storico e morale tra la libertà riconquistata dal dopoguerra e il passato fascista”. E con queste parole vi ringrazio tutti, anche a nome di Tonino Casanova.

NOTA Nel corso dell’evento sono stati proiettati alcuni documentari e registrazioni di programmi dedicati alla figura e all’opera di Giuseppe Saragat realizzati dalla RAI che ne ha autorizzato la riproduzione.

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Pietro Ingrao

Il 30 marzo 2015 Pietro Ingrao ha raggiunto la bella età dei cento anni. Gli auguri ad uno dei rappresentanti più significativi del movimento operaio gli sono stati indirizzati attraverso interventi di autorevoli relatori in incontri realizzati presso la Camera dei deputati. Tempo Presente, in un momento di spento dibattito ideologico, ha ritenuto di essere partecipe al riconoscimento del suo contributo all’affermazione della democrazia in Italia, selezionando alcune delle riflessioni che hanno arricchito il dibattito: ; Rossana Rossanda e Gustavo Zagrebelsky (31 Marzo 2015, Nuova Sala dei Gruppi parlamentari della Camera dei deputati, I cento anni di Ingrao - Perché la politica); Luciana Castellina e Mario Dogliani (9 aprile 2015, Sala Aldo Moro della Camera dei deputati, Un secolo di passioni. Pietro Ingrao, lezioni per la sinistra). L’intervento che Luigi Ferrajoli ha premesso al volume di Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, che qui si riproduce, ci aiuta a comprendere il progetto riformatore di Ingrao. Giuseppe Cantarano, stretto collaboratore dell’esponente del PCI, gli rende omaggio sollecitando la lettura di alcuni suoi scritti.

Rossana Rossanda (letto da Maria Luisa Boccia)

Nel centesimo anniversario di Pietro Ingrao non posso che ringraziare per essere stata invitata a partecipare. Ingrao è rimasto, nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte, il punto di riferimento nella mia parabola di comunista. Sono stata considerata un’ingraiana, benché egli abbia sempre rifiutato la definizione di leader di una corrente. Questo non per una sacrificale disciplina, ma credo per una non piccola ambizione che prende corpo quando, alla fine degli anni ’30, decide di sé: avrebbe lavorato in una comunità militante, internazionalista. Questo era il Partito Comunista Italiano, nulla di facile, ma neppure nulla di meno di questo. Non era una visione facile dello stare insieme, ognuno vi prendeva parte con una sua storia, teso però ad un obiettivo comune dal quale la propria storia prendeva senso, acquisiva un orizzonte così grande che non si sarebbe potuto coglierlo per schegge e frammenti. Oggi non si sa neppure cosa potesse essere e non perché siamo diventati meno ingenui, più intelligenti. Siamo piuttosto refluiti nei nostri personali confini. Gli altri sono tornati altri, così diversi da non poter entrare in contatto senza ferire o essere feriti, quasi che non si possa neppure immaginare l’altro se non come radicale differenza e

totale autonomia. E un partito, allora, non può che ridurre tutti e tutte al minimo comun denominatore. È come se all’interno di quel corpo vivente non si possa darsi regole condivise, affidando una parte di sé al tutto, sentendosene rafforzati per affrontare il conflitto politico e sociale. Non era una nave di matti, ma un moltiplicatore di forze il PCI. Avvertimmo il partito come limite impaccio dopo l’invasione di Praga da parte dell’URSS nel 1956 e tuttavia, finché la percezione dell’errore non ne mise in causa il fine, l’errore non ci parve irrimediabile. A quelli di noi che scalpitavano, Ingrao raccomandava anzitutto di non farla troppo semplice. È lo stesso rimprovero che rivolse a se stesso, quando dovette cambiare parere sulla rivolta ungherese, rifiutando il giudizio di Togliatti, lieto, lui, che fosse finita bene. Ingrao ha sempre evitato giudizi sbrigativi sia sull’URSS sia sulla storia del PCI ma non cercò di approfondire il tema, enorme, dei rapporti con l’URSS, che del resto non venne mai affrontato collettivamente. Poco prima di morire tentò di farlo Togliatti, ma gli mancò il tempo. Restano solo i cenni nel memoriale di Yalta, ma neppure su quel memoriale il PCI, come collettivo, lavorò. Dove non si sentiva sufficientemente

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Rossana Rossanda

certo, Ingrao preferiva interrogare e riservarsi il giudizio. Un metodo poco diffuso nel partito, che ce lo rendeva caro. In ogni modo, la prima differenza, per me che lavoravo nella più grande federazione del Nord a Milano, fu quella fra chi, come Ingrao, prestava attenzione ai mutamenti del capitalismo in fabbrica e nella società, e chi, viceversa, temeva che anche solo a notarli fosse un modo di arrendersi ad essi. Questi ultimi insistevano sul permanere di un supersfruttamento mentre i primi avvertivano che una parte del lavoro, anche per merito delle lotte operaie, sfuggiva ormai a questa definizione. I vertici del partito ci parevano divisi fra quelli che venivano da prima della guerra e quelli che venivano dal presente. Senza storia e senza gloria, questi, più vicini, però, alla condizione di chi sentiva passare sulla propria pelle il cambiamento. A Milano, a Torino, a Genova, il triangolo industriale, eravamo un gruppo di sindacalisti politici ed economisti che si riconosceva in questa seconda ottica contro un certo immobilismo del centro, più interessato all’annotazione del Sud che a noi settentrionali, fatta eccezione per Giorgio Amendola, al quale non sfuggiva nulla del partito e temeva che il Nord producesse una fronda modernista ed estremista, affascinata dal neocapitalismo in atto, la riteneva portata ad illudersi sulle reali tendenze del capitalismo italiano, da lui ritenuto irriducibilmente tentato da avventure autoritarie. Non posso dire che Ingrao, del quale amavamo il parlare senza enfasi e riscoprire in pace un Nord infreddolito che aveva conosciuto in guerra, fosse allora particolarmente interessato a noi ma ci incoraggiava a studiare e ci ascoltava senza diffidenza alcuna. Interessato era invece Luigi Longo, ma quello che a noi premeva era il terreno di lavoro di Amendola, il quale invece diffidava grandemente di noi, intrisi di sociologismo settentrionale.

Né Ingrao né Longo parlano nel 1962 al convegno dell’Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo italiano dove, appunto, l’incrinatura si rivelò più seria del previsto. Lucio Magri, Rodolfo Banfi, Ruggero Spesso e Ruggero Cominotti avanzarono riserve sulla posizione di Amendola e ricevettero da lui le prime sberle. Il gruppo dirigente del PCI si era certo scontrato altre volte, ma quella al convegno del Gramsci fu la prima discussione pubblica sulla linea politica. E non si chiuse allora. Erano gli anni del centrosinistra che ad ogni curva del suo modesto percorso avrebbe riaperto il tema, un tema che restò acceso a lungo. Nel PCI dopo il convegno del ’62 la discussione si riaprì ad opera di Ingrao e di Reichlin. Vi prendemmo parte in diversi, ma Togliatti la chiuse, dandoci torto. Nel 1964 Togliatti morì d’improvviso e dopo un ovvio interim di Longo si pose la questione bruciante della successione. Un giorno Amendola mi chiese di colpo cosa ne pensavo; “beh, o tu o Ingrao” risposi. Subito mi obiettò: “No, divideremmo il partito; occorre qualcuno che unisca” e fece il nome, per me inatteso, di Berlinguer. Non so come fu presa la decisione, ma è certo che nel partito si pensava che la scelta sarebbe stata tra quei due nomi. E di certo fu deciso in qualche sede che Ingrao non era affidabile. Ne trovo conferma in quanto avvenne poche settimane dopo la morte di Togliatti: Amendola propose la riunificazione fra il partito comunista e il partito socialista, suscitando una reazione stupefatta e negativa nel partito, ma nel silenzio degli organismi dirigenti. Soltanto Ingrao intervenne sulla proposta riconoscendo che certi mutamenti della società suggerivano una modifica del partito; egli però proponeva, all’opposto di Amendola, che si unissero tutte le diverse sinistre: socialista, comunista, cattolica – si era nel vivo del Vaticano II – ma anche quella sindacale, con quel che vi affluiva

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Pietro Ingrao

della sinistra sociale e la sinistra studentesca appoggiata dal Psiup. Credo che Amendola considerasse la proposta di Ingrao una provocazione. La sua proposta, quella di Amendola, non fu assunta ufficialmente dal partito, ma non fu certo censurata; era quella di Ingrao, invece, che andava esplicitamente condannata e la condanna maturò e divenne pubblica un anno dopo, all’XI Congresso del partito. Dopo averci raccomandato di non fare i matti e di limitarci a parlare del nostro lavoro, Ingrao accettò una prova sul cui meccanismo niente poteva sfuggirgli: fece un intervento di verità; alla linea di benevola opposizione al centro-sinistra contrappose un diverso realmente alternativo modello di sviluppo, ma soprattutto evocò il diritto a dissentire. Fu accolto con un’ovazione finché, però, la platea non si accorse dell’accoglienza glaciale da parte della presidenza. E infatti negli interventi successivi Ingrao fu criticato senza indulgenza alcuna e il Congresso si concluse affidandogli soltanto la responsabilità del gruppo parlamentare, che allora era considerato un compito assai limitato. Ma Ingrao lo accettò, ci parve, volentieri. Come ha ricordato più volte, infatti, il lavoro della Camera per

molti aspetti lo interessava e gli corrispondeva più di quello a Botteghe Oscure. Da Presidente della Camera, è intervenuto autorevolmente e liberamente in varie situazioni pubbliche non istituzionali ed è sempre stato accolto calorosamente. Ed egli era grato, assieme, di esserci in quella veste istituzionale e di poter portare il suo accento senza creare scontri espliciti. Quello della Camera è stato per lui un periodo importante anche per la sua riflessione e scrittura. Ingrao non intervenne sulla politica di Berlinguer, in particolare sul compromesso storico, in modo esplicito. Il dissenso tornò, invece, esplicito col partito sulla questione dirimente della guerra anni dopo. Poco prima aveva animato la mozione congressuale del no alla svolta di Achille Occhetto, che segnava la fine del PCI. Quando al Congresso di Rimini una parte dell’opposizione si orientò per la rottura, una scelta che sembrava intrinseca al suo argomentare, Ingrao in un intervento teso e drammatico gli affermò la sua fedeltà uscendo solitariamente due anni dopo. (trascrizione dell’intervento)

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Gustavo Zagrebelsky

Gustavo Zagrebelsky

Signor Presidente della Repubblica, Signor Presidente emerito della Repubblica, Signora Presidente della Camera, Signori e Signore “Il voto da solo non basta”. Sono parole di Pietro Ingrao che non sono né un’interrogazione né un dubbio; questa volta sono un’affermazione. E in questa breve frase può essere racchiuso tutto il senso della sua lunga riflessione sulla democrazia, sulla rappresentanza, sul sistema parlamentare. Le considerazioni che seguono sono un commento a queste poche parole, un commento che ha sullo sfondo, e non potrebbe essere diversamente, le condizioni attuali della democrazia nel nostro Paese. Prendo lo spunto da un carteggio tra lo stesso Ingrao e Norberto Bobbio a margine di un convegno torinese svoltosi nell’autunno del 1985. Le lettere sono, la prima, di Bobbio del 12 novembre e l’ultima di Ingrao del 30 gennaio ’86. In quel dialogo si discute nientedimeno di vera e falsa democrazia. Ingrao aveva da poco avanzato la sua proposta di governo costituente, dopo il cosiddetto fallimento della “politica dei due tavoli” e della Commissione Bozzi per la riforma della Costituzione, Commissione che si era ispirata a quell’idea del governo costituente, legata alla politica dei due tavoli. Sono a confronto due posizioni: Bobbio ripropone quella che egli stesso definiva “la definizione minima di democrazia”. Questa definizione a Ingrao appariva insufficiente, anzi, nelle condizioni economiche e sociali date gli appariva vuota e ingannevole. In sostanza, la copertura di interessi di oligarchie nazionali e sovranazionali contrastanti con i diritti delle masse lavoratrici e con l’urgenza della loro emancipazione. La riflessione e la terminologia di Ingrao vengono da lontano. Masse e potere è il titolo di una raccolta di scritti, il primo è del 1964, pubblicata nel 1977, c

che ebbe allora notevole successo e ispirò in quegli anni il pensiero e l’azione di parte della sinistra. Rileggendo quei testi si è colti da una duplice e apparentemente contraddittoria sensazione: parlano di un mondo che ci appare lontano ma sollevano problemi vicini, anzi problemi che sono drammaticamente di oggi e riguardano il nostro futuro. I concetti chiave di Ingrao sono, come tutti sappiamo, questi tre: masse (Masse e potere), unità ed egemonia. Ed è su questi tre concetti che si rivolge la critica di Bobbio, partendo dalla definizione minima di democrazia. Bobbio era un minimalista, le sue definizioni sono tutte legate all’esigenza di cogliere l’essenza e tutto il resto che non riguarda l’essenza è superfluo e può indurre a confusioni, può indurre a fraintendimenti. Per Bobbio la definizione minima di democrazia si riduceva sostanzialmente al voto. La democrazia è il regime che riconosce a tutti i cittadini il diritto di voto libero ed uguale ed è il regime nel quale le decisioni collettive si prendono a maggioranza, cioè di nuovo votando. Definizione minima che secondo Bobbio avrebbe dovuto e deve consentire un confronto sulla vera e falsa democrazia. Da questo punto di vista la critica di Bobbio a questi tre concetti ingraiani era particolarmente precisa, sempreché, come precisa Bobbio stesso, non si tratti prevalentemente di questioni di parole. Contro l’idea della massa Bobbio fa valere il principio della democrazia liberale secondo la quale il sovrano non è il gruppo indifferenziato, non è la folla, ma è il singolo individuo sovrano, che agisce secondo conoscenza e coscienza. Dice Bobbio che l’idea di massa appartiene piuttosto a regimi di tipo populista, di destra o di sinistra non importa. Per quel che riguarda il principio di unità, la parola unità era a quell’epoca una delle parole più ripetute nella

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Pietro Ingrao

terminologia politica del partito comunista, e Bobbio contrappone l’idea anch’essa della democrazia liberale secondo la quale la democrazia è il regime del confronto, se non dello scontro tra posizioni diverse. Anzi, usa una formula che ci impressiona, quasi provocatoria, dice “la democrazia è il regime della discordia”, espressione che un po’ ci fa rabbrividire, naturalmente aggiungendo “della discordia regolata”, entro un quadro di compatibilità minime, il quadro della Costituzione, la discordia non come la stasis greca, cioè la premessa della guerra civile, ma il confronto, anche duro, tra posizioni differenziate che però devono essere mantenute nel quadro del reciproco rispetto. Per quel che riguarda l’egemonia Bobbio mette le mani avanti, dice “questo è un concetto sul quale non mi trovo tanto a mio agio”. È un concetto che viene da una tradizione che non era la sua, ma chiede a Ingrao “come si misura l’egemonia”, se non prendendo atto dei risultati elettorali? La Democrazia Cristiana ha esercitato per tanti anni l’egemonia nel nostro Paese perché aveva il consenso elettorale e riusciva a stabilire collegamenti con forze vicine. Ma dal punto di vista della teoria della democrazia l’egemonia si riduce alla vittoria elettorale, ancora una volta il voto. Ho preso come punto di riferimento le affermazioni di Bobbio per confrontarle con le repliche di queste lettere di Ingrao, perché mi sembra sia il modo per rendere più evidente la differenza e poi vedremo anche il modo di avvicinare le differenze, se non di conciliarle. Insomma, per Bobbio egemonia, massa, unità non apparterrebbero al sistema concettuale del pensiero liberaldemocratico, possono ascriversi a tradizioni politiche diverse, di destra o di sinistra, ma non è questo il punto. A meno che, ed è la conclusione di Bobbio, non si tratti soltanto di modi di dire con altre parole cose che appartengono a un

patrimonio comune, anche a un partito come il partito comunista, che ha contribuito alla democrazia delineata dalla Costituzione. È quindi una tradizione condivisa da Ingrao stesso. Quello di Bobbio era stato un tentativo di riportare le posizioni di Ingrao sui binari della sua concezione minima per la quale la democrazia è il voto, ma Ingrao, ho detto, non ci sta, dice una cosa diversa: “il voto da solo non basta”. In sintesi, può dirsi che, mentre la posizione di Bobbio si giustifica sul piano della teoria, la posizione di Ingrao si radica nella realtà politica e sociale del suo tempo quale a lui appare nelle approfondite analisi. A quei tempi ogni discorso di istituzioni, ogni discorso sovrastrutturale potremmo dire, presupponeva un’analisi strutturale, si partiva sempre dalle condizioni concrete della vita del nostro Paese; analisi che spaziano dall’organizzazione del lavoro e dalle conseguenze sulla classe operaia, all’urbanesimo, alla mondializzazione dei mercati e alla finanziarizzazione dell’ economia, sono tutte cose dette già allora, con una anteveggenza che Reichlin ha ricordato. Ai rapporti di potenza militare tra i blocchi, allo sfruttamento privatistico delle risorse comuni, alle concentrazioni di potere nel campo dell’informazione conseguenti alle innovazioni tecnologiche, fino all’evaporazione della sovranità degli stati nazionali. Ci sono pagine risalenti ormai a trent’anni fa che colgono con precisione il segno di quello che sarebbe diventato evidente solo più tardi. Le riflessioni istituzionali di Ingrao prendono origine sempre da analisi realistiche. A differenza di quello che sarebbe successo in tempi a noi più vicini, le regole del gioco non sono da lui considerate in astratto, ma sempre in relazione ai contenuti della politica, la politica di emancipazione delle classi subalterne. L’aspetto sostanziale è sempre presente, si tratta di promuovere

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Gustavo Zagrebelsky

realizzazioni e contrastare tendenze avendo come obiettivo i princìpi di libertà, di giustizia e di emancipazione sociale scritti nella Costituzione, in particolare nell’articolo 3, secondo comma, richiamato in ogni possibile occasione. Nessuna riforma delle regole è indifferente rispetto alla sostanza, per rimanere nell’immagine, alla sostanza del gioco che si vuole giocare. Due esempi: il primo riguarda la pace e la guerra, la militarizzazione del mondo, un tema che è al centro dei timori, anzi delle angosce di Ingrao, sul quale egli è ritornato nel 2003 in un bellissimo dialogo con Alex Zanotelli. Cito: “è possibile - si chiede - ragionare di revisione o di aggiornamento o sviluppo della Costituzione (il riferimento era ai lavori della Commissione Bozzi) senza muovere da quei processi e identificarne la natura e le conseguenze? E’ indubbio che la dimensione e la qualità raggiunta oggi dall’armamento nucleare, i suoi sviluppi nelle strategie militari intercontinentali mettono in “discussione” (adopero questo termine cauto) il significato, la validità, l’interpretazione degli articoli 11, 78 e 80 della Costituzione; sono articoli che concernono poteri vitali, sono norme che definiscono il volto della Repubblica, anzi, per stare al termine della Costituzione, il volto dell’Italia, cioè di un’entità che va oltre lo statoorganizzazione e riguarda il nostro essere comunità e popolo e nazione, se vogliamo adoperare termini più semplici. Si può discutere quale risposta dare a questi problemi, ma mi sembra davvero difficile – è sempre Ingrao che parla – non assumere quel problema come essenziale e ragionare oggi sulla Carta costituzionale senza metterla al centro della ricerca e della proposta conclusiva”. Ancora cito: “Si trova scritto nelle pagine dei giornali, nei documenti degli specialisti o delle organizzazioni interessate o delle istanze di governo e parlamentari che siamo a un passaggio d’epoca e dinanzi a una

soglia sinora mai sperimentata nella nostra esperienza. Per cui lo sviluppo dell’industria e dell’innovazione industriale, questi veri e propri simboli del mondo moderno almeno per un periodo prevedibile, lungi dal determinare crescita dell’occupazione, minacciano di portare a una riduzione degli occupati. Conoscete le cifre impressionanti già sull’oggi”, più di 30 anni fa. “Come possono o devono essere gestiti questi processi del tutto inediti e gravidi di conseguenze? Con quali possibili innovazioni nei soggetti, nelle procedure, nella distribuzione dei poteri? La Costituzione non è affatto indifferente a questi temi, anzi li indica come fondamentali, altrimenti non si capirebbero l’articolo 3 e tutto il titolo terzo dei rapporti economici della Costituzione”. Quanto alle osservazioni puntuali di Bobbio, a proposito del concetto di democrazia di massa Ingrao chiarisce che non si tratta della folla informe che cede alle tentazioni irrazionali, diremmo oggi dell’antipolitica, ma che vuole rifarsi alla trama dei partiti, alla rete dei sindacati, allo sviluppo dei movimenti sociali nettamente diversi anche dai partiti e dai sindacati. I movimenti ecologisti, delle donne, dei pacifisti, dei giovani, alla rete di associazioni che pur non danno luogo a rivendicazioni generali e sono perfino espressioni di natura corporativa e lobbistica; si può ignorare questa realtà, che contiene elementi anche contraddittori, ma che comunque rappresentano la trama sociale di massa su cui operano le moderne democrazie? Si può pensare a una democrazia solo di individui, a una democrazia come un elenco di elettori? La realtà è quella di molti individui organizzati che pensano insieme e insieme agiscono secondo programmi comuni duraturi, iniziative comuni, vincoli reciproci che si prolungano prima e dopo il voto. Certo, queste forme di associazionismo possono portare a cristallizzazioni burocratiche e partitocratiche che soffocano l’autono-

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Pietro Ingrao

mia individuale. Ma allora, perché non dovremmo parlare di società di massa, al di là del significato valutativo, che era quello che dava Bobbio, che si voglia dare a questa espressione? Quanto all’egemonia, no, Ingrao non è d’accordo con Bobbio, il quale la riduce alla semplice acquisizione del consenso elettorale. È qualcosa di diverso, un consenso attivo che riguarda l’intera lettura di uno stato di cose. L’egemonia è una forza culturale che muove i singoli, le loro organizzazioni e le relative espressioni politiche capaci di promuovere un’idea generale della vita sociale. È una questione di contenuti di pensiero uniti all’azione che non possono non esistere in qualunque società organizzata. Storicamente questi contenuti sono quelli fissati nella Costituzione, a partire ancora una volta dal citato articolo 3, secondo comma, della Costituzione. Il fattore egemonico nel senso detto introduce naturalmente una distinzione tra le strutture della società di massa, tra quelle capaci di egemonia e quelle puramente parassitarie e corporative di cui ho detto. Infine, l’ossessione unitaria: unità è certo una parola ricorrente nel vocabolario politico dei comunisti italiani, concede Ingrao, ma non deve essere intesa in senso organicistico e totalizzante. L’unità è la principale risorsa del potere che vuole innovare, necessaria per incidere sulle strutture del potere in atto, però in un quadro conflittuale, date le condizioni sociali e politiche e sfavorevoli in cui opera il movimento operaio. In fondo, aggiunge Ingrao, non facciamo che imparare dai borghesi che hanno saputo creare un blocco sociale capace di egemonia non solo sommando voti, ma esercitando una funzione dirigente nazionale. L’unità di cui parla Ingrao è, cito, “unità in funzione di una lotta”. In questo quadro si pongono le proposte di Ingrao a proposito del governo costituente e delle riforme istituzionali. Fermissimo nella difesa dei valori portanti della Costituzione, Ingrao

considera la macchina dello Stato insufficiente a raggiungere gli obiettivi di una politica funzionale alla loro traduzione in prassi sociali. Sotto certi aspetti le sue proposte si avvicinano a quelle che ancora oggi hanno corso: riforma delle legge elettorale, unicameralismo (il bicameralismo, dice, non sta più in piedi) e rafforzamento delle azioni di governo. Ma le singole proposte devono essere viste in un quadro d’insieme. Ciascuna riforma deve considerarsi in relazione alle altre, la riforma elettorale è legata al tipo di parlamento che si vuole, il tipo di parlamento al rapporto con l’esecutivo, la democrazia rappresentativa al rapporto con la democrazia diretta, l’insieme degli interventi su questi punti finisce poi per investire il sistema dei partiti. Già allora si parlava dell’affanno della democrazia, anzi di blocco della democrazia e già allora si immaginava una democrazia dell’alternanza che aprisse le vie a strategie alternative. La preoccupazione fondamentale era lo svuotamento della politica e la necessità di un suo rilancio in senso grande a fronte dei processi di concentrazione oligarchica del potere e di occultamento dei suoi attori e delle sue procedure. Ingrao qui usa l’espressione “stato duale” per alludere alla repubblica dei misteri. Il senso complessivo della proposta di Ingrao, insieme alla contraddizione alle aspirazioni che erano consegnate alla cosiddetta “grande riforma” ambita dall’allora partito socialista e da altre forze collaterali, è colto immediatamente da Bobbio: “tu ti sei sempre battuto per la centralità del parlamento; i riformatori, invece, si sono posti il problema della riforma costituzionale allo scopo di rafforzare l’esecutivo. In effetti, il pomo della discordia era ed è la sede del cosiddetto potere di indirizzo politico; una cosa è se quella sede è nel parlamento, altra se è nel governo, o almeno se è il frutto di un confronto tra

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Gustavo Zagrebelsky

parlamento e governo. A sua volta, una cosa è il sistema elettorale che vale come selezione e investitura di una forte rappresentanza parlamentare capace di elaborazione politica autonoma, un’altra quando mira a un regime di investitura, per quanto indiretta, del governo e del suo capo come portatori di una legittimazione indipendente soverchiante su quella parlamentare. La democrazia parlamentare di cui Ingrao è stato sempre tenace difensore deve fare attenzione a che il baricentro della politica non si rovesci e dal raccordo tra la base di massa con il parlamento tramite i partiti non si passi al rapporto diretto degli elettori con l’esecutivo che emargini il parlamento. I reali processi politico-sociali, i rapporti di forza, le culture concrete che sono sempre al centro dei discorsi di Ingrao sono profondamente influenzati a seconda che si imbocchi una strada o l’altra. Proposte di riforma a prima vista simili devono perciò essere tenute distinte in conseguenza del quadro in cui li si colloca. Ad esempio, il superamento del bicameralismo o, radicalmente, l’abolizione del Senato possono fare della Camera dei Deputati il luogo della massima espressione della rappresentanza e rafforzare la democrazia parlamentare, ipotesi di Ingrao, ma possono anche valere, al contrario, l’indebolimento della funzione parlamentare di fronte a un governo legittimato da un idoneo sistema elettorale che esige rapide ed efficienti ratifiche del suo indirizzo politico e dei provvedimenti conseguenti. Al di là delle questioni di parole, parole della politica spesso cariche di ambiguità e sottintesi, le questioni sulle quali le precisazioni aiutano a uscire dai malintesi, ciò che si può dire conclusivamente dal carteggio da cui ho preso spunto è forse che il contrasto tra Bobbio e Ingrao è più apparente che

reale. Questa conclusione non è dettata dall’amore per il compromesso o dal desiderio di finire comunque in gloria. Ciò di cui parla Bobbio ha bisogno di ciò di cui parla Ingrao, il loro discorso si svolge su piani diversi che non si scontrano, ma si completano: Bobbio parla della democrazia rispetto alle sue leggi di cornice entro la quale la lotta politica deve contenersi; Ingrao della democrazia come lotta politica. L’uno della democrazia come forma che presuppone una sostanza; l’altro della sostanza che implica una forma. Bobbio parla delle condizioni della democrazia, ma le possibilità non bastano se non ci sono forze che sappiano che cosa farsi della democrazia, che ne abbiano bisogno per i propri progetti e che traggano la democrazia dal regno delle possibilità al regno della realtà. Se queste forze mancano, le forme da sole non sono capaci di suscitarle e la democrazia è destinata a essere solo il titolo di un capitolo nei libri di diritto costituzionale. Del resto, che la forma non sia sufficiente, che essa sia destinata a diventare un guscio vuoto e perfino a risultare una formula mendace, occultatrice di realtà antidemocratiche, alla fine ripudiate dai cittadini è Bobbio stesso a riconoscerlo. Cito “io non posso separare la democrazia formale dalla democrazia sostanziale. Ho il presentimento che dove c’è solo la prima un regime democratico non è destinato a durare”. Una conclusione perfettamente conforme alle preoccupazioni di Ingrao, che credo giusto rammentare nel momento in cui di lui festeggiamo riconoscenti il contributo alla vita della Repubblica, ricordando cosa dette più di 30 anni fa, ma forse meritevoli di riflessione.

(trascrizione dell’intervento)

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Pietro Ingrao

Luciana Castellina L’Italia ripudia la guerra. Ingrao e l’idea di pace

L’espressione “a ciascuno secondo i suoi bisogni” sembra molto estremista ma è la pratica delle famiglie. Basterebbe estenderla a tutta la Repubblica. Posso fare un’osservazione prima di comin-ciare? Ingrao è l’uomo del dubbio e certamente avere dubbi è una grande qualità, però non mi piace quando si pensa di Ingrao e si ricorda solo come l’uomo del dissenso perché attraverso questa storia si è finito per passare l’idea che la cosa più importante che ha fatto Ingrao sia stato di dissentire. In qualche modo questo ha offuscato la sostanza del dissenso, la ragione per cui dissentì nell’XI Congresso è finita per passare nella cenere della storia e non si dice più cos’è. Ingrao non era un eretico e sono molto contenta di avere trovato in quello che ha scritto l’intervista di un libro su Ingrao, la stessa interrogazione. Ingrao temeva il peccato della superbia, l’abbiamo temuto tutti, siamo diventati comunisti per questo perché il ‘noi’ è più importante dell’io e la superbia di dire ‘io dissento’ è qualche cosa che non fa parte. Ingrao era l’uomo di questa memoria, di questa storia, della mia e di tanti che sono anche in questa sala. Infatti non ruppe mai, non ruppe con Cesi, non ruppe nel ’69-’70 con noi, non ruppe neppure al momento dello scioglimento del PCI, quando disse “voglio stare al governo”. Non ruppe quando se ne andò, fu un triste abbandono ma non fu più neppure quella una rottura. La sola rottura che Pietro ha fatto è sulla pace; quella fu una vera rottura, e quando il PCI era ancora vivo. Lo fece pochi mesi prima del congresso di Rimini, quando già era stata esplicitata la nuova linea di quello che sarebbe stato poi il DS, il PD e tutte le altre cose che sono state, perché era evidente che si trattava di sostanza e di linea e non di nome. Era l’agosto del 1990, alla vigilia

della prima guerra dell’Iraq e il governo italiano aveva concesso la base di Sigonella per la spedizione preventiva americana, e i socialisti, come è noto, erano i più ardenti interventisti. E il PCI si apprestava a dire che era giusto così, c’era stata una drammatica direzione, ecc., salto tutti questi precedenti, e il 23 di agosto ci fu la discussione in Aula alla Camera e, intervenendo a nome del partito, Napolitano disse “il PCI non è pregiudizialmente contro le posizioni del governo” e aggiunse “l’iniziativa di Bush di far partire i marines è stata indispensabile”. Ingrao con molto turbamento fece una sua dichiarazione di voto in dissonanza con la posizione del partito dicendo “Onorevoli colleghi, tante volte nella mia vita ho sentito usare questo argomento, e cioè della guerra preventiva, credevo ormai di aver imparato che nell’epoca aspra e terribile delle armi atomiche nessuno sa e può calcolare se e quando le flotte, gli aerei, i cannoni possono veramente fermarsi”. Nel ’95 peraltro Dossetti riprese in una riflessione proprio questo discorso di Ingrao per farne una riflessione sulla questione della pace. Ingrao, al termine della sua dichiarazione, esce dall’aula, è seguito da 26 dei 35 deputati che avevano firmato la mozione numero due, quella del no. E il PCI, per mediazione di Occhetto, rispetto Napolitano, diamo atto, si astenne invece di votare a favore, almeno quella volta. Ingrao era pacifista, ma se pacifista vuol dire combattente contro la guerra certamente sì; ma il termine, come sapete tutti bene, ha storicamente un altro significato. Negli anni ’80 il movimento contro i missili si chiamò pacifista anche in Italia, ma si chiama così per via degli anglosassoni, che ebbero allora un ruolo molto importante; fra l’altro furono loro

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che ci avvertirono che c’era una base a Comiso; non lo sapevamo, non lo sapeva neanche il sindaco di Comiso, che andammo ad avvertire. Era un sindaco socialista, forse ci imbrogliò e lo sapeva, ma fatto sta che furono loro. Noi eravamo molto ossequiosi nei confronti degli anglosassoni, ma il pacifismo aveva una connotazione etico-religiosa più che politica, era obiezione alle armi e come sappiamo nella prima guerra mondiale gli obiettori di coscienza inglesi furono fucilati a decine. Da noi, per via della tradizione comunista che aveva formato anche una larga parte di quelli che parteciparono al movimento pacifista, il termine pacifista era sempre stato accompagnato da un tratto derogativo, sembrava accompagnarsi al termine altrettanto aborrito di neutralismo che voleva dire non schierarsi, ma ci si può non schierare? Ieri alla commemorazione di Giovanni Berlinguer mi sono ricordata, perché purtroppo non si è parlato dei primi quindici anni di vita di Giovanni, quand’era Presidente dell’Unione Internazionale degli studenti, le tremende battaglie che facemmo per cacciare dall’Unione Internazionale Studenti quelli che si chiamavano neutralisti, c’era pure Olof Palme fra questi. Poi, però, il PCI e i comunisti fecero grandi lotte per la pace, nessuno parla più dei partigiani della pace, che non è vero che furono movimento ossequiente a Mosca, fu forse il primo intervento di massa nella politica internazionale di masse di popolo e che prese coscienza del significato delle armi nucleari, cosa che Hiroshima non aveva fatto. E fu Togliatti negli anni ’50 che disse “oggi con queste armi ogni guerra è ingiusta perché mette a rischio l’intera umanità” superando così l’antica storia delle guerre giuste e delle guerre ingiuste. Rileggendo quel discorso di Ingrao alla Camera del 1990 io ritrovo, in rottura con il PCI, esattamente l’espressione togliattiana – e per questo sono molto

d’accordo che Ingrao era molto togliattiano – e Ingrao dice infatti “non credo che nell’era atomica armandosi si salva la pace”. Perché dunque Ingrao è stato avvertito, però, anche dal Movimento stesso come pacifista mentre altri dirigenti del Partito Comunista non lo furono, non tanto per la sostanza delle sue posizioni, che non si scostarono dalle posizioni ufficiali del Partito Comunista, che erano quelle del disarmo bilanciato da tutte e due le parti, non atti unilaterali in cui Ingrao stesso diceva che gli atti unilaterali possono essere pericolosi. E noi come movimento irridevamo dicendo il “bilancino, stiamo lì a vedere se dieci missili li togli te, dieci missili li toglie quell’altro”. Fu solo successivamente che Berlinguer a un certo punto assunse anche una posizione e disse “anche atti unilaterali di disarmo”, posizione che del resto era la posizione ufficiale del partito laburista inglese di Michael Foot e di non pochi dirigenti socialdemocratici. Ingrao dunque riafferma nella sostanza la posizione del PCI e tuttavia viene sentito più vicino dal movimento pacifista perché ascoltava - come sapete questa è la qualità principale di Ingrao e ascoltando intese che quel movimento si chiamava pacifista ma non era solo morale o religioso, individuale come nella tradizione, ma c’era dentro un impegno a diffondere la coscienza di chi voleva e decideva la guerra e del perché la voleva. Ingrao introdusse elementi importantissimi di politicità nella lotta per la pace. “Il pacifismo - scrisse con anche una certa durezza di linguaggio non è una strategia delle mani pulite, è un soggetto politico-sociale capace di intervenire nei punti di crisi contro la pratica della violenza e per la costruzione di vie pacifiche”. A Firenze nel 2002 al Forum Sociale Europeo in un’Assemblea affollatissima e applauditissimo in modo da essere consonante disse anche una cosa più seria: “Il pacifismo è un fare per la pace, non una passività da calabrate” e poi

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disse “Attenti, adesso andate a fare la manifestazione ma, badate bene, non basta che la manifestazione sia bella, la politica chiede potere e deve saper intervenire sul potere, deve incidere sul potere politico”. L’assemblea lo applaudì moltissimo sebbene quella fosse un’epoca nelle quali il movimento in generale era molto influenzato da alcune disinvolte interpretazioni del chiapas in cui si disse che si poteva fare la rivoluzione senza prendere il potere. E Ingrao giustamente dice “No, badate, la questione è se il potere è una cosa che non si può allegramente risolvere in questi termini”. Il movimento capì e mischiò molta politica alle pratiche pacifiste che pure furono innovative e diverse. La stessa linea politica Ingrao la prende anche nel dibattito un poco successivo che ci fu nel 2004 sulla questione della non violenza, dibattito aperto su Liberazione e su Il Manifesto: è aperto, secondo me, da un assai confuso e confondente saggio di Bertinotti, che provocò molta confusione ulteriore, in cui si diceva “siamo più forti quando siamo deboli”; penso che si è più forti quando si è forti, non quando si è deboli, si tratta di intenderso su cosa si vuole dire con la forza, se è forza politica, forza militare, ecc. Con questo Bertinotti certamente poteva segnare una rottura con la tradizione comunista, vinta dalla rivoluzione, la violenza levatrice nella storia, ecc. Ingrao interviene in quel dibattito in modo puntuale, non ho il tempo di citarvi tutto, voglio dire solo che Ingrao avverte “state attenti, leggete meglio Lenin perché quando si parla di violenza e come si parla in quel tempo è perché ci sono delle situazioni obbligate dalla storia che sono diverse da quelle nostre di oggi in cui abbiamo conquistato degli spazi democratici che rendono la violenza, a parte la violenza fredda del mercato, ma la violenza di Bava Beccaris non c’è più nei termini in cui ci fu”. Ingrao è stato molto attento a dire tutto

questo e ritorna invece sempre sul tema che gli interessa, il tema del soggetto politico, delle masse come protagoniste e questo è, anche nel pacifismo, nella lotta per la pace, il soggetto. C’è un interessante lungo saggio che è la sua relazione a un convegno sulla guerra organizzato dall’Istituto Gramsci di Padova con Severino e Miglio, sicuramente organizzato da Cacciari perché Severino e Miglio erano chiaramente lì per via di Massimo Cacciari, che si interroga sulla posizione di Carl Schmitt se è vero che la guerra sia interinsecamente presente nell’azione politica e se la politica non sia integralmente riducibile alla guerra. Ingrao naturalmente dice no, si oppone all’idea che la guerra sia la sola via di cambiamento: la guerra e la violenza, dice, talvolta sono necessarie ma fanno perdere di qualità alla rivoluzione che ne segue e non si può sviluppare con la violenza e con la guerra una democrazia di popolo, il protagonismo delle masse, un’esperienza di autogestione e di autogoverno. Sul piano dei conflitti internazionali Ingrao dice “non abolizione degli eserciti, come dice il pacifismo, ma movimenti internazionalisti, crescita della democrazia di massa; non idilliaca rinuncia al conflitto, ma lotta in cui le masse modificano i rapporti di forza”. Questa è una parola che mi fa sempre impressione perché non la sento più dire, rapporti di forza, eppure forse sarà necessario, invece, riprendere una qualche analisi dei rapporti di forza che vanno modificati, cambiati, non accettati, ma comunque fanno parte della politica. Ingrao insiste, non come utopica rimozione del momento di forza, ma come politiche che facciano crescere il protagonismo delle masse. Fra questa via e la via della politica come guerra c’è una differenza totale: la politica per me non è guerra o violenza, la politica per me è “io e altri insieme”. Ritornano qui soggetti politici collettivi non precostituiti, ma cresciuti nel conflitto. Poi dice “fuori di ciò io non

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saprei fare politica”, di pace, ritornano, utopica e così via. Non cancellazione del momento dalla forza ma come mondo in cui cresce e possa crescere il protagonismo, il peso, il potere di grandi masse; qui sta la garanzia di una lotta contro la riduzione della politica guerra. A me pare che questi concetti, del resto, siano stati il filo conduttore di tutte le riflessioni di Ingrao da quando scrisse Masse e potere, vecchissimo libro degli anni ’60 e che questo sia più interessante francamente del dibattito su violenza o non violenza. Più tardi, nell’85, in tempi già più pericolosi fra l’altro, a convegni che annualmente si tenevano in Jugoslavia che avevano il merito di mettere insieme cinesi, sovietici, comunisti ortodossi, eretici e così via, con una lunga riflessione Ingrao torna su queste cose e dice “Fra le iniziative di trasformazione che dobbiamo fare, la più importante è la lotta per conquistare il potere di influenzare le decisioni connesse agli armamenti nucleari”. E dice “Può solo servire un movimento di massa internazionale” e mette di nuovo l’accento sul movimento, il potere delle

masse, la soggettività dei popoli; e poi parla della necessità di costruire una sinistra europea, un soggetto collettivo, un partito, dice subito avvertendo che la cosa però non è facile, quindi con tutta una serie di altri suggerimenti. Io ho voluto sottolineare la specificità del pensiero ingraiano nel calderone chiamato genericamente pacifista perché in ogni sua posizione in merito si ripropone costantemente la sua idea che la politica è centrale e che politica è protagonismo di massa. Ingrao difende a denti stretti l’articolo 11 della Costituzione, rifiuto della guerra, ma lo collega sempre all’articolo 49, vale a dire al diritto di contribuire a decidere e a deliberare, e per farlo la necessità, dunque, del soggetto collettivo consapevole. È un tema che è stato ricordato molto anche nel suo centenario ed è il tema anche attuale della nostra discussione all’interno della sinistra; per la pace vuol dire tante cose, insomma, in fondo le sappiamo tutti. (trascrizione dell’intervento)

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Mario Dogliani Sinistra e riforma dello Stato secondo Ingrao

Vorrete scusarmi se questa mia breve relazione avrà un andamento un po’ circolare, perché penso che attraversiamo tutti momenti di grande incertezza, di grandi dubbi, di ricerca di qualche punto fermo; allora mi sono messo da questo punto di vista innanzitutto: le differenze politiche che ci sono state tra Togliatti, Ingrao, ecc., tutti gli scontri e tutte le vicende che sono state magistralmente accennate, adesso io le metto sullo sfondo perché penso che siamo in un momento in cui abbiamo bisogno di cercare dei fili, di annodare dei fili e di trovare delle continuità. In questo noto innanzitutto che le riflessioni sull’opera di Ingrao che è stata condotta in preparazione o in occasione di questi festeggiamenti, non sono certo state di carattere storico, analitico, filologico, in qualche modo erudito, volte cioè ad evidenziare tutte le differenze che sono intercorse tra la situazione in cui lui rifletteva la situazione attuale. Non hanno avuto affatto questo tono: il pensiero di Ingrao certo si è sviluppato a fronte di una situazione politica radicalmente diversa dall’attuale, ma nella quale erano presenti tutti i germi delle trasformazioni che hanno investito le società capitalistiche e che oggi sembrano maturare e definirsi compiutamente. Un pensiero, quindi, che aveva lucidamente e realisticamente tra i primi compreso le trasformazioni in atto nel loro primo manifestarsi e che dunque aveva saputo porre domande cruciali che restano tuttora senza risposta a fronte dell’attuale passaggio. Questo è il punto: quelle domande che lui ha posto sono ancora lì. Nel convegno che si è tenuto qui alla Camera in omaggio di Ingrao c’è stata una relazione di Gustavo Zagrebelsky che è partita con questa considerazione, ricordando un’icastica frase di Ingrao “il

voto non basta”, cioè, perché ci sia democrazia il voto non basta. Questo è effettivamente il nocciolo della questione, ciò che ci stiamo accorgendo che forse sta accadendo; invece si sta affacciando un’idea di democrazia, non a caso definita democratura, in cui sembra che il voto sia tutto, che il voto basti. È vero che ripercorrendo il suo serrato confronto con Bobbio, sia Zagrebelsky che Ferrajoli nel recente articoloprefazione che hanno scritto a questo volume concludono dicendo che le due posizioni, quella del teorico di Massa e potere e quella del teorico della democrazia formale non sono affatto contraddittorie ma solo esprimono punti di vista diversi e addirittura complementari o, comunque, integrabili. Questo è un punto importante perché si potrebbe anche dire che sono punti di vista contrari, però tenendo presente che contrario non è contraddittorio, che altro è la contrapposizione vero-falso, termini contraddittori, altro la contrapposizione dolce-amaro o bianco-nero che son termini contrari, ma che ammettono un’infinità di sfumature. Quindi, mettiamola così, le posizioni della democrazia formale, riassunte e ribadite, secondo alcuni anche, con un po’ di supponenza, da Bobbio e le posizioni di Ingrao non sono contraddittorie, sono integrabili. Ritengo questa conclusione un punto da tenere fermo perché tengono aperte, anzi ripropongono come attualissime, le diversità tra le due forme di pensiero perché è esattamente sui termini di queste contrapposizioni oggi ci interroghiamo. Partendo da questo punto di vista si possono far risaltare le buone ragioni di Ingrao contro quello che possiamo chiamare il minimalismo democratico, insomma formale, di Bobbio. È chiaro che Ingrao sostiene un assetto discorsivo della democrazia, cioè

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fondato sulla qualità del voto e cioè sulla qualità delle sue motivazioni individuali, sulla qualità delle sue aggregazioni, sulla qualità della cultura politica di elettori e partiti e dunque sulla capacità dell’ insieme di tali culture di costruire il consenso, la mediazione finale. L’assetto non discorsivo significa invece un assetto della democrazia fondata sul mero numero e dunque sulla forza del numero che divide, essa sola forza, come nei sistemi maggioritari, le forze politiche, con l’ulteriore differenza che le motivazioni individuali non sono più pensate come connesse a una cultura politica e alla sottostante condizione materiale, ma sono pensate come opzioni essenzialmente irrazionali; questa è la grande differenza. La democrazia, nella quale basta il numero, non considera la qualità delle culture politiche, la loro disponibilità a costruire consenso e non attribuiscono valore al nesso tra voto e cultura politica, e quindi considerano le scelte come irrazionali. In che cosa consiste esattamente la differenza tra l’una e l’altra forma di democrazia, secondo la posizione di Ingrao? Qui vorrei fare una prima precisazione, per sottolineare fortemente il collegamento tra il pensiero di Togliatti e quello di Ingrao; come dicevo prima, sappiamo che ci sono state tantissime differenze, ma il fondo del fondo è lo stesso. Nel dibattito su Nuovi argomenti, Rinascita del ’54 e ’55, le posizioni di Togliatti sulla democrazia possono essere definite. Togliatti afferma testualmente quest’idea: “L’idea di libertà va tradotta nel concetto di sviluppo e riconoscimento di una più elevata dignità e di piena personalità a sempre nuovi gruppi e masse di uomini”, testuale. E conclude Togliatti, dopo aver affermato questo punto, che cos’è libertà, dice: “Se questi obiettivi, quelli che noi vogliamo raggiungere, si raggiungeranno mantenendo un regime di divisione dei poteri e se le forme del regime rappresentativo rimarranno tali o

cambieranno, è una questione subordinata”. Questa è chiarissima come indicazione dello scenario. Quello che serve nella pratica è difendere la libertà concreta e con concreta azione. Questo scritto di Togliatti vede ricorrere numerosissime volte le seguenti espressioni: l’entrata in scena, sono state spinte sulla scena della storia, cioè sulla scena di un movimento reale e poi un movimento consapevole, nuove masse di esseri umani; parla di storia di nuove masse, parla dello sviluppo e riconoscimento di una più elevata dignità e personalità per sempre nuovi gruppi e masse, parla di sviluppo della personalità di tutti gli uomini che vivono in società, e così via. Queste citazioni che sono incentrate alcune volte sulla parola ‘masse’, alcune volte sulla parola ‘personalità’, alcune volte sulla parola ‘dignità’ formano evidentemente un tutt’uno e non possono rinviare a testi della nostra Costituzione, che hanno esattamente ripreso questo pensiero. Le buone ragioni di Ingrao nel non accontentarsi della definizione formale di democrazia può essere riassunta in questo: la democrazia ha un senso solo se, conformemente al significato letterale della parola e alla differenza storica, più volte sottolineata insistentemente da Ingrao stesso sulla scorta di Togliatti, consente alla maggioranza degli uomini viventi di lavoro di avere essa pure una nuova esistenza, di conquistarsi una nuova personalità e una nuova dignità, perché questo è il senso oggettivo del suo avvento storico, della democrazia. Quindi, la democrazia ha un senso se ha questo fine e per esistere deve avere questo fine. I profili di differenziazione, almeno per quel che ne so, poi può darsi che ce ne siano altri anche più importanti, tra le posizioni di Ingrao e quelle di Togliatti; dico profili di differenziazione solo da un punto di vista analitico perché evidentemente sono stati formulati in periodi storici, ma da un punto di vista

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analitico bisogna rilevare che la declinazione della richiesta di riconoscimento di una più elevata dignità e di piena personalità di tali masse, sempre determinata - qui son parole di Ingrao dalla irruzione, dalle conseguenti lotte, rivoluzione, sconfitta del fascismo, ferimento del colonialismo, ecc., in Ingrao vengono anche tradotte in termini di diritti civili, di nuove espressioni dell’individualità, nuove autonomie per il singolo, per l’individuo; aspetti, questi, che nella posizione togliattiana erano meno evidenti. Ingrao dà per avvenuta l’intervenuta trasformazione dello Stato, chiamato a destra, dice lui, dopo l’impasse in cui sono giunte le tecniche keynesiane, il centro di regolazione di quel processo di accumulazione, di quel rapporto risparmio-investimenti che gli strumenti normali del mercato capitalistico non riescono più a controllare, quindi la compenetrazione tra Stato e sistema economico in Ingrao è molto sottolineata. Per quanto riguarda le posizioni più tarde, anche se alcune di queste cose vengono dagli scritti anche degli anni ’80, a me pare che si possano definire in questo modo: le posizioni di Ingrao dopo che Craxi lanciò nel ’79 la grande riforma, innanzitutto tiene ferma la missione finale, le masse da elevare alla direzione politica del Paese; cioè, a questo punto non lo mette in dubbio. Insiste, e qui anche non so tanto bene perché usi la parola designazione, parla di designazione forte del Parlamento nella Costituzione; si potrebbe dire disegno, collocazione, configurazione e sottolinea questo, che la sua teoria questo è un po’ curioso pensare come si sviluppa il dibattito italiano - della centralità del Parlamento non è un approdo di dottrina, come dice, dopo le vicende del compromesso storico, cioè fu sostanzialmente rilevato, accusato che “questa idea della centralità del Parlamento quand’è che spunta?”, dopo che si tentò la strategia del compromesso storico, con la necessità di valorizzare il

ruolo dell’Assemblea come luogo di incontro. Questo non è vero e Ingrao più volte sottolinea che invece sono le vicende del ’46 e ’47 che portarono alla scrittura della Costituzione alla base dell’idea della centralità del Parlamento, perché giustamente Ingrao sottolinea come la rappresentanza moderna, il sovrano moderno derivi dall’insieme delle rappresentazioni parziali dei partiti che nel Parlamento, con la loro disponibilità alla mediazione reciproca, rappresentano il nuovo sovrano. Quindi nega queste interpretazioni un po’ superficiali, che però ebbero largo seguito. Terzo punto: ammette, riconosce la difficoltà del Parlamento, la cui centralità è stata offuscata o viene negata e parla della necessità di una fase costituente. I tre punti, i tre fronti d’attacco sono da un lato una forte sottolineatura della nuova qualità degli scenari mondiali, parla di militarizzazione della politica, di ristrutturazione finanziaria internazionale, della preminenza delle multinazionali (usa ancora questa espressione che adesso non si usa più, si parla di globalizzazione) per quanto riguarda l’innovazione tecnologica, per quanto riguarda addirittura la formazione di un intelletto scientifico globale, il sistema dell’informazione; parla della crisi degli strumenti classici dello Stato-nazione a causa dei protagonismi sovranazionali e multinazionali, di nuovo; parla del ruolo che ha la produzione di cultura del fantastico, che forma il senso comune di interi popoli (le sue pagine sull’ospite televisivo sono bellissime) e parla dell’ offensiva conservatrice contro lo Stato sociale e le politiche neo-corporativiste. Lui dice: “la Commissione Bozzi non ha tenuto conto in nulla di tutto ciò, ha un respiro angusto”. Primo punto d’attacco. Secondo: la marginalizzazione del Parlamento: qui la critica è molto ruvida; abbiamo tutti presenti le sue pagine contro il bicameralismo, che sono veramente nette, ma poi l’inflazione dei decreti legge, la reiterazione, le questione di fiducia, l’umiliazione del Parlamento,

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anche elementi di cattiva organizzazione interna, ruolo dei gruppi, ecc. Infine, mi pare il terzo gruppo d’attacco di questa sua nuova posizione sono le contraddizioni tra le trasformazioni globali prima richiamate, il proposito di grande riforma craxiana e la miseria dell’empiria della politica quotidiana. Qui ha parole molto dure per dire che le grandi scelte sono sfuggite allo Stato, le piccole scelte a valle sono gestite in ristretti incontri di notabili, formalizzate da un debole Governo e il Parlamento è ridotto a metter timbri. E richiama vigorosamente il disastro che può conseguire da questa umiliazione del Parlamento chiamato a metter timbri. Come si saldano questi tre fronti nella sua proposta politica di revisione costituzionale? Non è facile rispondere a questa domanda. Io abbozzo queste due spiegazioni: secondo me, quello che Ingrao in quegli anni voleva è soprattutto una Costituzione che fosse più consapevole dei processi in corso, più consapevole delle sfide che lo Stato e la politica dovevano affrontare. Primo punto. Quindi, in qualche modo una riscrittura culturale della Costituzione, una riscrittura delle sue norme di principio, o delle sue norme programmatiche. Secondo, più che di un quadro politico concreto, sul quale chiamare le forze politiche a pronunciarsi. Qui Ingrao pone una richiesta, quasi una specie di urlo, una richiesta fortissima alla politica di dar forma a quei problemi e dunque renderli visibili, calarli in un discorso, renderli oggetto di critica razionale. Cosa che assolutamente non vedeva, è come se dicesse “le masse che hanno fatto irruzione sullo Stato non possono sbandarsi e disperdersi aggirandosi a vuoto nelle stanze del palazzo; quindi chiede una più energica rappresentanza, che però assolutamente non vuole concentrare nel Governo, imbrigliando, come volevano fare i riformatori dell’ epoca, il Parlamento e sottraendo, sottolinea, al confronto con l’opposi-

zione. Ingrao punta a un contemporaneo rafforzamento di governo e Parlamento dando un’indicazione esattamente contraria a quella che poi è risultata vincitrice. Per cui, sull’esempio della Francia, si identificano le due cose: rafforzamento del Governo = umiliazione del Parlamento. Il cuore della proposta ingraiana è l’invocazione al ceto politico di un discorso che dovrebbe essersi adeguato alle trasformazioni in corso, che lui aveva lucidamente e precocemente diagnosticato. Quel che chiede è una rinnovata rappresentanza forte, è giusto quello che è stato detto del sovrano forte, lamenta questa debolezza, ma è vero che ci sono anche degli scivolamenti. Cito questo passo solo per dimostrare la drammaticità delle alternative, un passo in cui critica la Commissione Bozzi perché non prevede un’elezione diretta, un’investitura diretta del Governo e nemmeno prevede meccanismi maggioritari di selezione del ceto politico. La frase che ritengo più significativa del suo stato d’animo e del suo desiderio di fondo è questa: “perché dovrei pensare che processi, così profondi come quelli che prima ho richiamato e sconvolgenti, non pongano questioni di riforme, di aggiornamento della Costituzione? E perché dovrei credere che tali questioni siano indifferenti, e qui il cuore, a forze politiche che sono diverse, sì, da me, ma che sono chiamate a misurarsi con le domande del Paese, con i traumi e gli sconvolgimenti di questa così assillante mutazione di fase? Io non sono molto generoso nel giudizio verso le forze politiche che vedo sulla scena, ma non posso pensarle inerti di fronte a mutazioni che hanno questa portata. Devo, voglio scommettere sulla loro capacità di reazione; altrimenti, se dovessi vederli solo come rami secchi o gruppi chiusi in un gioco partitocratico al di fuori e al di sopra delle vicende della nazione, dovrei giungere a conclusioni assai più drastiche”.

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Questo, secondo me, è il cuore della sua posizione soggettiva. Come si è detto prima, è una domanda, non è assolutamente una benedizione delle iniziative che allora erano in corso, ma è un desiderio di prendere per la giacca gli interlocutori, scuoterli e dire “non potete tirarvi indietro di fronte a quei problemi”. Chiudo dicendo che la sua costruzione della centralità del Parlamento, che è la costruzione classica della democrazia pluralistica della rappresentanza politica e quindi della configurazione del nuovo sovrano va riattualizzata in tutta la sua drammaticità. Questa è la domanda che lui oggi ci pone: perché la società dei due terzi è diventata la società delle diseguaglianze crescenti e della marginalizzazione di

quote ben maggiori di quelle del terzo, la mancanza di beni pubblici è sempre più grave e drammatica? Concluderei così: la frase che tutti vorremmo scrivere sulle bandiere è “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”, se questa deve restare la stella polare io penso che questo deve essere il motto di un rinnovato Stato. Ho molta poca fiducia che si riesca a mettere le mani sui meccanismi internazionali attuali, ma invece sullo Stato dobbiamo farcela a mettere le mani e a far sì che questo motto, certo una correzione, “da ciascuno secondo le sue possibilità a ciascuno i suoi bisogni nella Repubblica, attraverso l’azione politica pubblica”. (trascrizione dell’intervento)

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Luigi Ferrajoli Il progetto riformatore di Pietro Ingrao

1. L'aspetto più impressionante dei saggi di Pietro Ingrao qui pubblicati - risalenti tutti al biennio 1985-1986 - è la distanza abissale che essi consentono di misurare tra l'Italia di allora e l'Italia di oggi e, al tempo stesso, la loro straordinaria attualità. Distanza dall'Italia odierna e attualità di questi scritti dipendono dal fatto che i fattori di crisi delle istituzioni rappresentative in essi analizzati erano infinitamente meno gravi di quelli che stanno oggi svuotando e demolendo la nostra democrazia. E tuttavia essi sono tutti, in questi scritti di trenta anni fa, lucidamente avvertiti e denunciati, con incredibile lungimiranza. Allora, a metà degli anni Ottanta, Ingrao - che da pochi anni aveva cessato le funzioni di presidente della Camera dei deputati e dirigeva il Centro di studi e iniziative per la Riforma dello Stato - rifletteva sui primi segni di crisi del Parlamento. Nell'analisi da lui proposta nel primo saggio, Crisi e riforma del Parlamento che apre questa raccolta, la crisi veniva identificata nella divaricazione tra il modello costituzionale della nostra democrazia rappresentativa, basato sulla centralità del Parlamento, e la realtà effettuale, fatta di distorsioni e disfunzioni, del concreto funzionamento delle istituzioni parlamentari. Quella centralità voluta dai costituenti risiedeva nella titolarità della funzione legislativa, deformata già allora dal declino della legge generale ed astratta e dal proliferare, come riflesso della crisi della stessa uguaglianza formale, di leggiprovvedimento dettate da interessi settoriali e corporativi. Ma essa consisteva soprattutto, secondo Ingrao, nella funzione di indirizzo politico assegnata al Parlamento da svariati istituti previsti dalla Costituzione: dal rapporto di fiducia espresso dalla mozione motivata con la quale, dice l'art. 94, ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia; dalla

conseguente responsabilità politica di fronte al Parlamento, prevista dall'art. 95, del presidente del Consiglio e dei ministri; dal ruolo di tramite, conferito alle Camere attraverso i gruppi parlamentari espressi dai partiti, del concorso dei cittadini a determinare, come dice l'art. 49, la politica nazionale; dai numerosi poteri di coordinamento, di ispezione e controllo, infine, attribuiti alle commissioni parlamentari. Fu questo, scrive Ingrao, il «governo parlamentare» disegnato dai costituenti: un'opzione forte, dettata dalla necessità, dopo le catastrofi del fascismo e della guerra, di rifondare tramite i grandi partiti di massa il rapporto tra istituzioni pubbliche e società e, inoltre, di «ricostruire una dimensione nazionale» e un nuovo «tessuto connettivo» che dessero sostanza e fondamento alla proclamata sovranità popolare e al progetto costituzionale dell'uguaglianza materiale stipulato nel capoverso dell'art. 3. Questo «ruolo forte del Parlamento» quale garanzia reciproca tra le grandi forze antifasciste, ricorda Ingrao, ha caratterizzato tutta la storia della Repubblica, dalla Costituente fino agli armi Settanta. Furono gli anni delle grandi battaglie parlamentari in sintonia con le grandi mobilitazioni di massa: sul Patto Atlantico, sulla collocazione internazionale dell'Italia, sulla riforma agraria, sulle prime forme di governo dell'economia - dal Piano del lavoro della CGIL al Piano Vanoni -, sul ruolo delle partecipazioni statali e poi, nella stagione del primo centro-sinistra, sulla programmazione economica e sul progetto di un governo pianificato dell'economia, in attuazione degli articoli 41-43 della Costituzione. Il Parlamento fu allora, davvero, la «sede di un confronto alto» tra le forze politiche. E lo fu perché le battaglie parlamentari erano tutte sorrette da grandi mobilitazioni popo-

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lari, quali espressioni politiche di altrettante lotte sociali. Memorabile, in particolare, la battaglia sulla legge truffa. Una legge incomparabilmente meno truffaldina del 'porcellum' di questi anni e delle sue attuali riedizioni, ma della quale si ebbe subito la consapevolezza che, con la forzatura in senso maggioritario da essa impressa al sistema politico, veniva a rompersi, scrive Ingrao, il «quadro pattizio» che nella rappresentanza parlamentare, basata sul sistema proporzionale, aveva trovato «la sua espressione più definita». La centralità del Parlamento, grazie al nesso tra dialettica politica e battaglie civili e sociali, resta peraltro il tratto caratteristico del nostro sistema politico fino a tutti gli anni Settanta. Segnando quella che è stata la stagione più feconda del nostro riformismo: la nascita delle Regioni; la legge istitutiva del referendum popolare; lo Statuto dei diritti dei lavoratori; l'introduzione del divorzio; la riforma del diritto di famiglia; la depenalizzazione dell'aborto; la riforma dell'ordinamento penitenziario; la soppressione dei manicomi; la legge sul processo del lavoro; l'istituzione del servizio sanitario nazionale; la mozione programmatica del luglio 1977, proprio durante la presidenza Ingrao, diretta a dare concreta attuazione al ruolo di indirizzo politico del Parlamento. Poi, negli anni Ottanta, la centralità del Parlamento entra in crisi, anche a causa del fallimento, per responsabilità dei governi, del tentativo di garantirla tramite la programmazione dei suoi lavori prevista dalla riforma del regolamento parlamentare del 1971. La crisi assume le forme di un'involuzione surrettizia. Mentre il Partito socialista di Bettino Craxi parlava di 'grande riforma' e di mutamenti della Costituzione in senso presidenziale, la vera grande riforma avveniva di fatto, con una lunga serie di fenomeni, tutti estranei alla sfera della politica e al Parlamento: la crisi dello Stato-nazione; i mutamenti

intervenuti nella finanza e nel mondo dell'informazione; lo spostamento del dibattito politico e delle decisioni dal Parlamento ai vertici ristretti dei capi della maggioranza; le sempre più frequenti soluzioni extraparlamentari delle crisi di governo, la sostituzione della diretta negoziazione sociale tra sindacati e governo alla dialettica parlamentare; l'involuzione verticistica e burocratica di partiti e sindacati; la fuga in sedi extra o sovrastatali dei centri decisionali in materia di spese militari e di finanza; lo sviluppo del doppio Stato parallelo e occulto; il ruolo eversivo dei servizi segreti, la strategia della tensione e le congiure piduistiche. Prende avvio in quegli anni, con questi fenomeni, la subalternità all'esecutivo del Parlamento, ridotto a un ruolo di ratifica dell'operato del governo dagli innumerevoli decreti legge, dalla pratica abnorme delle loro molteplici reiterazioni, dalla loro trasformazione in contenitori omnibus, dall'abuso della richiesta della fiducia e dall'introduzione, sulla questione della fiducia, del voto palese. E comincia, al tempo stesso, la crisi della rappresentanza, unitamente alla crisi dei partiti e allo svuotamento del loro ruolo costituzionale di strumenti della partecipazione dei cittadini alla vita politica. Fu per avere ignorato tutti questi aspetti della crisi, spiega Ingrao in un'intervista del luglio 1985, che il primo tentativo di riforma istituzionale, quello messo in atto dalla Commissione Bozzi, fallì miseramente: per l'angustia del suo progetto riformatore e per l'assenza di qualunque analisi delle trasformazioni avvenute e degli enormi problemi sui quali qualunque riforma degna di questo nome avrebbe dovuto misurarsi: dai problemi della pace e degli armamenti nucleari a quelli dell'occupazione, dai processi di integrazione europea al contemporaneo sviluppo delle autonomie regionali, dalla mondializzazione dell'economia fino alla crescente potenza dei nuovi mezzi televisivi di comunicazione di massa. L'unico

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obbiettivo di quel mediocre tentativo sembrava infatti una miniriforma su misura degli interessi contingenti delle forze di governo: la riduzione dei poteri del Parlamento, le corsie preferenziali per le iniziative di legge governative, la restrizione degli spazi dell'opposizione. Che è stato poi, in forme assai più gravi, il vizio sul quale sono naufragati tutti i successivi tentativi di riforma, accomunati dal prevalere volta a volta degli interessi congiunturali e di parte delle diverse maggioranze.

2. La divaricazione denunciata da Ingrao trent'anni fa tra il modello della democrazia parlamentare disegnato dalla nostra Costituzione e la progressiva esautorazione del Parlamento in favore da un lato del governo e dall'altro delle sedi mediatiche del dibattito politico è oggi diventata abissale. Pari soltanto al divario tra la gravità della crisi che sta travolgendo la nostra democrazia e la povertà delle riforme, sia elettorali che costituzionali, sempre di segno antiparlamentare e anti-rappresentativo, in questi anni attuate o tentate. Ciò che accomuna l'intero riformismo istituzionale dell'ultimo ventennio è infatti la volontà di ridurre i limiti e i controlli parlamentari sull'azione di governo e di trasformare la democrazia in onnipotenza della maggioranza e le elezioni in investitura popolare di un capo: il tentativo, in breve, di rispondere alla complessità delle trasformazioni avvenute, non già con un più complesso sistema di garanzie, bensì con la semplificazione, la personalizzazione e la verticalizzazione del sistema politico onde renderlo ancor più impermeabile alla società. Di segno opposto era il progetto riformatore di lngrao, frutto di una riflessione severa sui mutamenti intervenuti nei processi economici, nei rapporti di lavoro, nelle forme della comunicazione politica, nei rapporti tra partiti e società. Nonché sugli enormi

problemi, nazionali e sovranazionali, già allora non affrontati e oggi esplosi per l'assoluta incapacità di governo della politica: la globalizzazione dell'economia e della fmanza; il declino dell'Europa legato alla perdita delle sovranità nazionali in favore dei mercati; la ristrutturazione del sistema dei poteri sia pubblici che privati; la degenerazione oligarchica dei partiti, sempre più incapaci di interpretare bisogni e domande sociali e di disegnare programmi e prospettive future; il nuovo, arrogante assolutismo delle imprese; la crescita della disoccupazione e della sottoccupazione precaria; la rottura del compromesso democratico tra capitale e lavoro su cui era stato edificato lo Stato sociale; la crescita della criminalità organizzata e lo sviluppo della corruzione nella vita pubblica; le prime tensioni tra poteri politici e magistratura; le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione; il rischio, infine, di una svolta reazionaria, poi puntualmente avvenuta con la lunga e non ancora esaurita stagione berlusconiana. Erano questi processi e questi problemi che rendevano necessaria e urgente, a parere di Ingrao, una riforma della macchina dello Stato e delle sue strutture ottocentesche. «Se tardiamo ancora», egli affermava, «rischia di passare una riforma di destra, una Seconda Repubblica reazionaria. Oppure si va ad un lento sfascio che è rovinoso per il paese». Sono avvenute entrambe le cose: la seconda Repubblica reazionaria e il lento sfascio delle istituzioni politiche. Di qui l'idea di un 'governo costituente' il quale, ovviamente, dice Ingrao nel suo dialogo in forma di carteggio con Norberto Bobbio, è una formula politica che allude alla necessità di governare i mutamenti intervenuti e di rispondere alle nuove sfide con istituzioni alla loro altezza. «Quando mi ostino a porre il tema della riforma istituzionale, io guardo a questo presente di crisi. Cerco di immaginare le strutture, le regole, i

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metodi con cui fronteggiare le trasformazioni di scala mondiale che stanno scardinando prerogative e recinti sacri degli Stati nazionali e omologando - esse sì - intere fasce del mondo». Strutture, regole e metodi immaginati da Ingrao, in effetti, puntano tutti, in alternativa alle controriforme 'striscianti' che in loro assenza stavano già allora sviluppandosi, a una democratizzazione delle istituzioni. La necessità di una razionalizzazione del Parlamento e della sua efficienza decisionale, attraverso il superamento dell'odierno bicameralismo perfetto, con i suoi andirivieni tra le due Camere nei quali più facilmente si inseriscono gli interessi clientelari; l'adozione del sistema monocamerale e la riduzione del numero dei parlamentari; il rafforzamento qualitativo dei poteri del Parlamento attraverso l'espansione delle sue funzioni ispettive e di controllo e l'aumento dei suoi strumenti di indagine su tutte le questioni affrontate; la necessità di un maggior collegamento di quelle istituzioni parlamentari con le istituzioni europee e con quelle regionali; il problema del rapporto tra sindacati e istituzioni statali e la preoccupazione che la rappresentanza degli interessi da parte dei primi possa sostituire la rappresentanza politica all'insegna di un nuovo corporativismo; l'inadeguatezza dei partiti e la necessità che si sviluppino nuove forme di soggettività politica in grado di interpretare e rappresentare le istanze dei movimenti. Infine quello che per Ingrao è il problema più importante: come restituire al Parlamento il ruolo ad esso affidato dai costituenti di rappresentare, quale sede del potere popolare, l'unità e insieme la complessità della comunità nazionale. Certamente è facile rilevare, soprattutto con il senno di poi, che le proposte di Ingrao, come allora gli obiettò Norberto Bobbio nel corso del dialogo già ricordato, si muovevano in direzione esattamente opposta alla logica della governabilità che già cominciava a

informare il dibattito politico: il presidenzialismo, proposto dai socialisti contro la centralità del Parlamento, e il rafforzamento del potere esecutivo in danno del potere legislativo. Soprattutto, dice Bobbio - e questa è indubbiamente la sua critica più severa - la proposta di una riforma costituzionale, soprattutto se rimane inattuata, ha il solo effetto di indebolire e delegittimare la Costituzione vigente. E in effetti dobbiamo oggi riconoscere che fu proprio l'avvio a sinistra del dibattito sulle riforme costituzionali a infrangere il tabù, per così dire, dell'intangibilità della Costituzione, offrendo alla destra, fino ad allora emarginata dal sistema politico, la legittimazione delle successive e avventurose operazioni di manomissione del nostro sistema costituzionale. Ma non si può negare che i problemi sollevati da Ingrao erano tutti reali, e sono oggi esplosi per non essere mai stati affrontati da una politica ridotta a governo dell'esistente, o peggio a malaffare.

3. Ma il dialogo tra Bobbio e Ingrao è interessante soprattutto per un'altra ragione. Si confrontano, in questo loro carteggio, non soltanto due diverse culture politiche, quella liberal-socialista e quella comunista, quanto soprattutto due diversi approcci di carattere teorico alla riflessione sulla democrazia: quello giuridico e formale e quello sociologico e sostanziale. Questa diversità di approcci si rivela nella maniera più trasparente nella discussione su tre categorie ricorrenti nella riflessione di Ingrao e tutte contestate da Bobbio: il valore dell'unità (perduta) - nazionale, del movimento operaio, del partito - al quale si appella ripetutamente Ingrao, e che Bobbio considera non soltanto «irraggiungibile» ma anche non auspicabile, essendo il pluralismo e il conflitto, egli dice, «il sale della democrazia»; il concetto di egemonia, che secondo Bobbio non può significare

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altro, in democrazia, che il «consenso ottenuto attraverso la capacità di convincere anziché di costringere» e verificato dalla «capacità di ottenere il maggior numero di voti»; infine il concetto di massa, a parere di Bobbio «incompatibile» con quello di democrazia, dato che «fa pensare a un corpo collettivo insieme amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo che nella sua essenza o sostanza personale si distingue da tutti gli altri». Ingrao oppone a queste critiche la tesi che «la moderna democrazia di massa» vuol dire, ben al di là dei singoli individui, la sua organizzazione, cioè «la trama dei partiti, la rete dei sindacati, lo sviluppo di movimenti sociali nettamente diversi anche da partiti e sindacati». Gli stessi partiti, egli aggiunge, non sono «solo una somma di individui: altrimenti sarebbero solo un elenco di elettori»; mentre la loro identità, non meno di quella dei sindacati e dei movimenti, dipende dalla loro soggettività politica, assicurata da «ideologie e progetti comuni» e perciò da un qualche grado di unità realizzata, grazie al consenso e alla condivisione collettiva, nel «momento associativo e aggregante». Ripensando a distanza di trent'anni ai termini di questo dibattito, e alle differenze e alle incomprensioni tra le due culture da essi segnalate, si ha l'impressione che il dissenso, sul quale si divise in passato la sinistra, sia dovuto in gran parte alla parzialità dei due approcci. Sia Bobbio che Ingrao hanno infatti entrambi ragione. Sul piano giuridico o formale ha certamente ragione Bobbio: l'egemonia non è altro che il consenso elettorale della maggioranza degli elettori e consiste nel grado di consenso misurabile con i voti. Quanto alla massa, questa espressione è in effetti infelice quale termine di una teoria della democrazia, dato che ha di solito un significato spregiativo, alludendo a una moltitudine indistinta, esposta alla manipolazione e incline

all'adesione passiva e plaudente. Ma sul piano sociologico ha ragione Ingrao: la democrazia, egli dice, non è riducibile «alla semplice acquisizione del consenso degli elettori attraverso il voto», ma richiede quel di più che è espresso appunto dall'egemonia: la quale, egli scrive, «suppone un consenso attivo che può andare anche oltre l'immediatezza del programma: un agire oltre il voto, un agire con gli altri e verso gli altri per ottenere l'adesione dell'intera lettura di uno stato di cose. E suppone anche che chi ha l'egemonia si presenti come fautore di interessi generali, che vanno oltre i singoli e i gruppi, e che molto spesso ambiscono a un sistema di valori». Del resto, il dissenso tra Bobbio e Ingrao è venuto riducendosi nel corso del dibattito, a riprova del fatto che i loro diversi approcci non solo non si escludono, ma si suppongono a vicenda. Sulle precisazioni di Ingrao intorno al significato delle parole, Bobbio concorda, e finisce per registrare il carattere «soltanto verbale» del dissenso: se 'massa' non equivale al 'demos' inteso come un tutto organico, egli dice, se non evoca «l'immagine della piazza», ma solo quella dell'organizzazione, allora la cosiddetta democrazia di massa altro non è che quella che «si suole ormai chiamare democrazia pluralistica, ovvero quella forma di democrazia reale (non idealizzata) in cui i soggetti principali dell'azione politica sono i gruppi, organizzati e non» e dove l'associarsi si basa evidentemente sul «consenso» di milioni di cittadini «che vogliono stare insieme per raggiungere in modo coordinato il fine comune di prendere decisioni collettive vincolanti, ovvero decisioni che vincolano tutta la collettività». Analogamente Ingrao, che parimenti riduce il dissenso su 'massa' e su 'egemonia' a un dissenso di parole: «non conta il nome. Conta il processo che esso indica: il fatto che nel nostro tempo l'individuo, per essere individuo, e persino per contare come elettore ha

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dovuto costituirsi in associazione, ed è perplessità e le critiche di Bobbio sono attraverso questo associarsi che ha potuto sotto questo aspetto fondate. Ciò che affermare la sua individualità politica». conta, tuttavia, è ciò che Ingrao intende con queste parole nel leggere con esse la 4. crisi italiana, che è crisi di egemonia nel È su questa questione di fondo che duplice senso sopra chiarito: dall'alto, proprio la distanza dell'Italia di oggi quale autorevolezza e capacità di oriendall'Italia di trent'anni fa consente di tamento e credibilità dei ceti dirigenti; misurare l'attualità del pensiero di dal basso, quale coinvolgimento delle Ingrao. La crisi in atto della nostra persone nelle scelte politiche, fiducia e democrazia sta mostrando l'enorme riconoscimento dei dirigenti come rilevanza che, al di là delle regole e delle propri rappresentanti, solidarietà con categorie formali, ovviamente essenziali, quanti sono avvertiti come partecipi della ha la dimensione collettiva della politica medesima soggettività politica, energia e ai fini dell'effettività delle democrazie. passione nell'impegno politico conseguenti Siamo oggi in grado, confrontando il all'identità collettiva da tutti condivisa. presente con il passato, di misurare la In entrambi questi sensi l’‘egemonia’ è qualità del consenso espresso con il oggi radicalmente in crisi, dall'alto e dal voto, che può essere massima o minima basso. È letteralmente crollata la credibio peggio nulla, e con essa la qualità della lità dei partiti ed è simultaneamente democrazia. C'è differenza, infatti, tra il scomparsa la militanza e la passione che voto dato a una lista turandosi il naso e animavano la vita interna dei partiti, e quello dato con convinzione o addirit- con esse la partecipazione e il coinvolgitura con passione; tra il voto, assai mento diretto dei cittadini nella vita spesso incerto, per il 'meno peggio' e il politica. Oggi la popolarità dei partiti è voto militante nel quale si esprime crollata al quattro per cento. E il voto, a l'impegno civile e politico dell'elettore. destra e a sinistra, è espressione, ben più Ce ne rendiamo conto amaramente che del consenso, del dissenso o peggio oggi, di fronte all'attuale crisi della del disprezzo per le formazioni politica e al trionfo dell'anti-politica. avversarie. Muta dunque e si abbassa, Giacché oggi la crisi della democrazia è con la qualità del voto, la qualità della crisi, anzitutto, di quel consenso che nel democrazia. Ma la democrazia muta lessico gramsciano di Ingrao è anche con il venir meno delle sue basi di l"egemonia” dei partiti e dei loro gruppi 'massa': parola che può non piacere ma dirigenti nei rapporti con quelle che egli che allude, come lo stesso Bobbio chiama 'masse'. Qualcosa dunque di ben ammette, all'organizzazione dei cosidpiù impegnativo e responsabilizzante del detti partiti di massa: un'organizzazione consenso elettorale, consistendo, dal che non è mai soltanto disciplina ed 'basso, in un qualche grado di convin- etero-organizzazione ma è anche, in zione, di adesione e partecipazione alla democrazia, auto-organizzazione, autoformulazione di un progetto politico determinazione e coinvolgimento milicomune e, dall'alto, nell'ascolto delle tante nell'azione politica collettiva. istanze di base e nella loro assunzione Oggi la nostra democrazia è in crisi come orientamenti direttivi da parte dei perché la società è politicamente passiva dirigenti; in breve, nel riconoscimento e non è, e comunque non si sente, in reciproco di dirigenti e iscritti e degli nessun senso rappresentata. iscritti tra loro come appartenenti a una Domandiamoci allora: da che cosa medesima organizzazione. dipende questa diversa qualità del voto, Certo 'egemonia' e 'masse' sono termini che fa dire a Ingrao che «il voto, da solo, discutibili, se non altro per il loro non basta»? Da che cosa consegue carattere equivoco e polisenso. Le questo crollo della qualità del consenso 51


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elettorale che sta minando alla radice la qualità e la sopravvivenza stessa della nostra democrazia? Dipende, risponde Ingrao con le parole di trent'anni fa, dal venir meno di quell'«associarsi politico collettivo» che, «dove avviene in modo democratico e non autoritario, io lo chiamo 'democrazia di massa', a sottolineare l'espansione enorme - non solo come quantità, ma come qualità dell'iniziativa che sollecita - che ha avuto questo tipo di aggregazione sociale». Dipende, diremo, dal venir meno, a livello sociale e conseguentemente a livello istituzionale, della soggettività politica, che è sempre una soggettività collettiva e che ha la sua insostituibile forma organizzata nei partiti politici. Oggi, in Italia, l'intero sistema dei vecchi partiti che componeva quello che chiamavamo l’‘arco costituzionale’ dalla Democrazia cristiana ai partiti satelliti, socialdemocratico, liberale e repubblicano, dal Partito socialista al Partito comunista - è stato ereditato interamente dal Partito democratico e da qualche formazione minore. In tutto non più di un terzo dell'elettorato, deluso e sfiduciato, mentre gli altri due terzi, senza contare gli astensionisti, si riconoscono nel partito-azienda di Berlusconi e nel partito-marchio di Grillo formati entrambi da cortigiani plaudenti e fedeli. È crollato, simultaneamente, il senso civico e lo spirito pubblico. Sfiducia nei partiti e nelle istituzioni, diffidenza, rancori e pessimismo e, per altro verso, l'aggressività generalizzata e indiscriminata, i razzismi, le angosce, le paure, il primato degli interessi privati e personali, il disinteresse e l'indifferenza per i pubblici interessi, la svalutazione della sfera pubblica e dei valori civili dell'uguaglianza e della solidarietà sono oggi i sentimenti tristi che hanno sostituito la passione politica. Alla loro base c'è la crescita esponenziale della disuguaglianza, la mortificazione della dignità della persona, la riduzione dei diritti sociali e del lavoro. Parole come

'classe operaia' e 'movimento operaio' sono non a caso fuori uso, essendo in gran parte venute meno - con la precarietà dei rapporti di lavoro, con la moltiplicazione delle loro forme contrattuali, con la rivalità tra lavoratori nei loro rapporti diretti con i datori di lavoro - la vecchia solidarietà di classe e la stessa unità e soggettività politica del mondo del lavoro, fondate entrambe sull'uguaglianza nei diritti e perciò sull'auto-rappresentazione del lavoratore come appartenente a una comunità di uguali. Ma sono venuti meno, con la crescita del qualunquismo, dell'antipolitica e degli egoismi antisociali, anche i legami di solidarietà e condivisione sui quali si fondano sia la soggettività collettiva e la rappresentanza che la stessa azione politica, la quale è sempre, per sua natura, animata dalla passione per gli interessi generali. Se tutto questo è vero, l'insegnamento che ci viene oggi dalle pagine di Ingrao è che qualunque battaglia in difesa della democrazia richiede la riabilitazione della politica come azione collettiva e la rifondazione della qualità della rappresentanza sulla base di una ricostruzione dei legami e dei tessuti sociali. A tal fine non bastano le riforme elettorali né quelle istituzionali. Il vero problema, pregiudiziale a qualunque altra riforma, è oggi la riforma dei partiti, senza i quali la democrazia non può funzionare. Certamente non sono le leggi che possono restaurare il nesso dissolto tra rappresentanti e rappresentati, tra istituzioni e società nel quale Ingrao vede giustamente l'essenza della democrazia politica. E tuttavia anche il diritto può servire a crearne i presupposti: imponendo per legge ai partiti, a garanzia della partecipazione degli iscritti e dei loro diritti, primo tra tutti il diritto al dissenso, uno statuto democratico quale condizione del loro accesso alle elezioni; restituendo i partiti al loro ruolo di organi della società anziché dello Stato, e

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perciò prescrivendo la separazione tra cariche di partito e funzioni pubbliche elettive a garanzia, tra l'altro, del ricambio dei gruppi dirigenti, dell'esclusione delle auto-candidature e delle cooptazioni e, soprattutto, dell' alterità dei rappresentanti rispetto ai rappresentati e perciò della mediazione rappresentativa e della responsabilità degli eletti; promuovendo infine forme di cittadinanza attiva e di democrazia partecipativa basate sul diretto intervento dei cittadini nei processi decisionali, attraverso consultazioni, assemblee e inchieste promosse dai partiti o dalle amministrazioni pubbliche. Non dimentichiamo che la forza, il prestigio e il ruolo dei partiti quali tramiti fra società e pubbliche istituzioni sono stati il frutto della loro spontanea auto-regolazione soltanto grazie ai momenti più felici della loro storia: quando nacquero come partiti operai e poi, dopo la Liberazione, quando i loro dirigenti venivano dall'esilio, o dalle

prigioni fasciste o dalla lotta partigiana, ed era perciò impensabile che fossero animati da interessi personali. Oggi, di fronte alla loro trasformazione in costose caste di privilegiati, la riabilitazione dei partiti non può più essere affidata alla loro autonomia, ma richiede l'eteronomia della legge, a garanzia dei diritti politici dei cittadini dei quali devono rendersi strumenti. È perciò la rifondazione in nuove forme e con nuove garanzie della. 'democrazia di massa', basata su un rinnovato rapporto dei partiti da un lato con la società e dall'altro con le istituzioni, la prima, urgente riforma istituzionale che proprio il progetto di Pietro Ingrao di trenta anni fa ci indica come il necessario presupposto di tutte le altre. (Ingrao P., Crisi e riforma del Parlamento, con un Dialogo epistolare sulle istituzioni con Norberto Bobbio e un saggio di Luigi Ferrajoli, Il progetto riformatore di Pietro Ingrao, Ediesse, Roma 2014)

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Giuseppe Cantarano Se è vero che

Giuseppe Cantarano

Se è vero che - nella storia - ai vincitori spetta la gloria, è altrettanto vero che i vinti hanno le loro ragioni. Che i vincitori devono - dovrebbero - saper riconoscere. Ce lo ha insegnato Virgilio. Raccontandoci il dramma di Didone. La leggendaria regina fenicia. E della sua amata Cartagine. Distrutta da Roma, nel corso delle Guerre puniche. Non si tratta solo della pietas, che i vincitori dovrebbero saper mostrare verso gli sconfitti. La storia - è stato detto - la scrivono sempre i vincitori. Ma nella storia che raccontano devono - dovrebbero - riservare una pagina in cui possa trapelare quantomeno un dubbio. Circa la loro vittoria. Un rigo, almeno. In cui possa profilarsi uno sforzo. Per provare perlomeno a vedere se - in una sola pagina, in un solo rigo del grande libro della storia - qualche indicibile ragione dei vinti possa essere sottratta all’oblio della storia. E diventare utile. Non solo per loro, che hanno vinto. Ma anche per la politica. E perché no, persino per la sinistra. Pietro Ingrao - inutile girarci attorno appartiene alla schiera degli sconfitti. Lo ha ammesso tante volte. Nei suoi scritti. Nelle interviste. Nelle tante conversazioni che abbiamo avuto nel corso degli anni. Lo ha confessato nelle sue due autobiografie. In quella con Nicola Tranfaglia del 1990, Le cose impossibili (Editori Riuniti). E in quella più recente, Volevo la luna (Einaudi 2006). Lo ha verseggiato nelle sue liriche. Nelle quali risuona quell’inconfondibile timbro ermetico del suo amato Ungaretti. Quel timbro che, nel corso degli anni, è diventato sempre più rarefatto: “L’indicibile dei vinti. Il dubbio dei vincitori”. Così suona il distico che apre la sua raccolta del 1986, che ha per titolo Il dubbio dei vincitori (Mondadori). Non so se Matteo Renzi abbia conosciuto Ingrao. Non so se abbia letto qualcosa, di lui. In ogni caso, lo inviterei ora a leggere - o rileggere, magari - due

suoi libri. Appena ripubblicati dagli Editori Riuniti in un unico volume: Masse e potere e Crisi e terza via (pp. 354, euro 23,50). Usciti rispettivamente nel 1977 e nel 1978. Preistoria, per i tempi accelerati - e convulsi - della politica odierna. Italiana e internazionale. Libri inattuali, dunque. Perché le idee, le analisi, le proposte che in quelle pagine si addensavano, sono state sconfitte. Dalla storia. E dalla politica. Ma allora, perché Renzi dovrebbe leggerli - o rileggerli - questi due libri? In genere, quando un’idea politica è sconfitta dalla storia, viene confinata nel celestiale regno delle utopie. Delle illusioni. E non c’è alcun dubbio - come scrive nell’introduzione Guido Liguori - che nei decenni successivi a quei due libri, “ha vinto una diversa egemonia, un diverso blocco storico, fatto di interessi e ideali opposti rispetto a quelli per i quali ha lottato per tutta la vita Ingrao”. E tuttavia, se le sue idee sono state sconfitte, perché non provare, magari, a vedere se le ragioni che le hanno animate resistono ancora all’urto dei tempi? Non si tratta - beninteso - di trarre ingenuamente lezioni dalla storia. Che non insegna un bel niente. Figuriamoci da una storia - quella politica di Ingrao sconfitta. E allora - lo ripeto - perché Renzi dovrebbe leggerli - o rileggerli questi due libri? Perché nelle loro pagine, febbrile è l’assillo della ricerca: non è forse questo lo stesso febbrile assillo di Renzi? Poiché “ricercare” vuol dire cercare di nuovo. Cercare ancora. Cercate ancora, era il titolo dell’ultimo libro del grande economista Claudio Napoleoni, ricordate? E cosa è necessario cercare ancora? Cercare - ad esempio - di riformare finalmente lo Stato. Di renderlo meno burocratico e più efficiente. Meno feudalmente corporativo e più moderno. Non ostile, ma amico - diciamo così - dei cittadini. Uno Stato che avvicini le istituzioni alla società. E che ampli la

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partecipazione delle “masse”, per usare un vocabolo a cui Ingrao è affezionato. Uno Stato che immetta sempre più dosi di democrazia nella politica. Nella società. E nell’economia. Quando escono per la prima volta Masse e potere e Crisi e terza via, Ingrao è presidente della Camera dei deputati. Ma il suo delicato incarico istituzionale non gli impedisce di continuare a dialogare con le donne, con gli operai, con gli studenti, con gli intellettuali. Con le masse, insomma. Con coloro che volevano cercare di trasformare migliorandola - la società. Egli vuole capire. Vuole cercare insieme a loro. E continuerà a farlo, dopo aver rinunciato - nel 1979 - ad un secondo mandato alla presidenza della Camera. Tornando a lavorare - a cercare ancora - al Centro per la riforma dello Stato. Di cui era stato presidente dal 1975. E continuerà a presiederlo ininterrottamente fino al 1993. Quando verrà sostituito da Pietro Barcellona. Eppure, c’è chi si ostina a definire Ingrao un utopista. E’ forse un’utopia cercare di riformare lo Stato? Ma allora, anche Renzi è un utopista, non vi pare? Sentite cosa scrive, in un passaggio di Masse e potere: “La domanda è se non debbano oggi dilatarsi l’oggetto e le forme della politica … proprio perché c’è stato un processo reale di liberazione di forze, e sono avanzati nuovi protagonisti su scala nazionale e mondiale, gli organismi politici devono unificare esperienze e tradizioni più complesse e diversificate. Perciò sembra sciocco il discorso che pretende di decidere sull’economia prescindendo dallo Stato … perché se non si riesce ad abbracciare nella sua interezza questo orizzonte, è difficile produrre innovazioni (cioè la dilatazione delle forze produttive), che consentano di risolvere in avanti le contraddizioni degli interessi, le stratificazioni dei ruoli, le resistenze corporative, municipali, nazionalistiche”. Vi sembra un’utopia, tutto questo? Ma allora, utopistico è anche il disegno

riformista di Renzi. Altro passaggio di Masse e potere: “Per fare entrare nel gioco, nel calcolo nazionale uomini e risorse sinora emarginati, lo Stato deve porsi il compito esplicito di favorire l’aggregazione e la capacità produttiva di nuovi soggetti sociali … Perciò la riforma dello Stato è il vero banco di prova: è forse la principale riforma economica da realizzare”. Non è forse la stessa scommessa politica anche di Matteo Renzi? Se questa - in Italia - è un’utopia, allora siamo davvero alla frutta, come si dice. E’ un’utopia interrogarsi - cercare ancora, esprimere qualche dubbio sull’attuale modello produttivo? Non facciamo altro - nella odierna crisi che ci attanaglia, più o meno tutti - che parlare di produttività. Auspicando la sua crescita: “Ma quale produttività? - si chiede Ingrao in un passo di Crisi e terza via - Tutti ne vediamo dinanzi a noi una: quella collegata al modello in atto, che porta, o meglio riproduce, l’emarginazione di milioni di giovani e di donne dal lavoro produttivo, che riduce le zone interne ad aree assistite, e perpetua in forme nuove lo squilibrio lacerante tra nord e sud; ed ha comportato e comporta il dissesto selvaggio del territorio”. Non sono forse queste, le stesse preoccupazioni - oggi - di Matteo Renzi? Non ci troviamo - forse ancora oggi - di fronte a possenti e irresistibili accelerazioni tecnologiche, che riducono inesorabilmente il peso della manodopera? Estesi fenomeni di “decentramento produttivo; allargamento dell’area del lavoro non contrattato o poco contrattato. Mi sembrano evidenti - osserva Ingrao in Crisi e terza via - le conseguenze che ne derivano: blocco di quella capacità dell’industria di produrre nuovi posti di lavoro, che era stata così forte agli inizi del boom; fenomeni di accresciuta divaricazione fra ristrette fasce di lavoro ancora più qualificate e tutta un’area in cui lavoratori dotati di nuova cultura polivalente svolgono mansioni assai dequalificate; espansione

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del lavoro nero”. Non è forse contro questa intollerabile, iniqua distorsione della modernità, che Matteo Renzi ha deciso coraggiosamente di impegnarsi? Ecco perché dovrebbe leggerli - o rileggerli - questi due vecchi libri, Matteo Renzi. Politicamente preistorici. Politicamente inattuali. Libri dove circolano idee che sono state sconfitte. E scritti da uno sconfitto. Ma l’intelligenza e la passione della ricerca - le ragioni dei vinti, che si respirano nelle loro pagine non può essere sconfitta. Non deve essere sconfitta. Deve invece continuare. Su altri sentieri, certo. Con altri strumenti, evidentemente. Ma non si può - non si deve - arrestare. Per una

semplicissima ragione. Che Max Weber uno che le utopie invitava ad andare a vederle al cinema - espresse poco prima di morire. In una conferenza rivolta agli studenti, tenuta all’Università di Monaco nel 1919. Nella Germania da poco uscita dalla catastrofe della Prima guerra mondiale. E impaludata nella fragilissima e precaria repubblica di Weimar: “La politica - ricorda ai quei giovani studenti il realista Weber - consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento. E’ perfettamente esatto e confermato da tutta l’esperienza storica che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile”.

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