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TEMPO PRESENTE

N. 418-419 ottobre-novembre 2015

euro 7,50

PACE SINISTRA-DESTRA RESISTENZA MIGRANTI BORGHESIA E DEMOCRAZIA UMANITA’ OFFESA CITTADINANZA DIGITALE CENTRO-SINISTRA ZANOTTI-BIANCO QUADERNI NERI GAUGUIN PASOLINI VENTOTENE

d. amicucci a.s. angeloni g. cantarano a. casu r. catanoso g. cotroneo d. fantasia s. garofalo f. grassi orsini g. jannuzzi d.a. limone r. pace v. pavoncello j. rastrelli a.g. sabatini Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett.B, art.2 legge 23 dicembre 1996, numero 662, Filiale di ROMA


DIRETTORE RESPONSABILE

Angelo G. SABATINI

COMITATO EDITORIALE

Alberto AGhEMO - Angelo AIRAGhI - Giuseppe CANTARANO Antonio CASu - Girolamo COTRONEO - Elio D’AuRIA - Teresa EMANuELE Alessandro FERRARA - Gaetano PECORA - Luciano PELLICANI Angelo G. SABATINI - Attilio SCARPELLINI - Sergio VENDITTI CONSIGLIO DEI GARANTI

hans ALBERT - Alain BESANçON - Enzo BETTIzA Karl Dietrich BRAChER - Natalino IRTI - Bryan MAGEE Pedrag MATVEjEVIC - Giovanni SARTORI REDAzIONE

Coordinamento: Salvatore NASTI Angelo ANGELONI - Rossella PACE - Marco SABATINI Guido TRAVERSA - Andrea TORNESE COORDINAMENTO GRAFICO ED EDITORIALE

Salvatore NASTI

PROPRIETà: Tempo presente s.r.l. - Casella postale 394 - 00187 Roma Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 17891 del 27 novembre 1979 La collaborazione alla Rivista, in qualunque forma, è a titolo gratuito. Direzione, redazione e amministrazione: Via A. Caroncini, 19 - 00197 Roma tel. 06/8078113 - fax 06/94379578 Stampa: Pittini Digital Print Viale Ippocrate, 65 - 00161 Roma (RM)

Prezzo dei fascicoli: Italia € 5,00; doppio € 7,50 - Estero € 6,50; doppio € 10,00 Arretrati dell’anno precedente: il doppio Abbonamento annuo: Italia € 25,00 - Estero € 44,00 Abbonamento sostenitore € 100,00 L’abbonamento non disdetto entro il 30 novembre dell’anno a cui si riferisce si intende tacitamente rinnovato. Spedizione in abbonamento postale: comma 20, lett. B, art. 2, legge 23 dicembre 1996, n. 662, Filiale di Roma Chiuso in redazione il 30 novembre 2015


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TEMPO PRESENTE

Rivista mensile di cultura N. 418-419 ottobre-novembre 2015 COMMENTO GIUSEPPE CANTARANO, Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes, p. 3 ROSARIA CATANOSO, Il monito di Ernst Jünger, p. 11 GIROLAMO COTRONEO, Liberalismo di sinistra o socialismo di destra?, p. 17 OSSERVATORIO GIOVANNI JANNUZZI, Argentina, è vero default?, p. 21 ROSSELLA PACE, La Resistenza perfetta, p. 23 JACQUELINE RASTRELLI, La globalizzazione del dramma migranti, p. 26

MARGINALIA ANTONIO CASU, L’eclisse della borghesia e il futuro della democrazia, p. 28 FRAMMENTI ANGELO G. SABATINI, Frammenti di una umanità offesa, p. 29

MINIMA MORALIA DONATO A. LIMONE, Semplificazione amministrativa e cittadinanza digitale, p. 30

UOMINI E IDEE FABIO GRASSI ORSINI, I socialisti democratici italiani e il centro-sinistra, p. 34 DOMENICO AMICUCCI, Il mondo cattolico nella Resistenza, p. 37 SARA GAROFALO, Umberto Zanotti-Bianco. Patriota, educatore, meridionalista, p. 40 DISCUSSIONE DAVIDE FANTASIA, Sul “caso Heidegger”, p. 43

LE MASCHERE DELL’ARTE ANTONIO PAVONCELLO, Paul Gauguin, Ceci n’est pas une vie, p. 48

LETTURE di ANGELO ANGELONI, p. 54 Frocio e basta di C. Benedetti - G. Giovanetti Il cielo dentro di noi. Conversazioni sui Diritti Umani di R. Fantini L’Europa e l’isola - Genesi del Manifesto di Ventotene di C.M. Pulvirenti Il capo sulla neve - Liriche della Resistenza di A. Gatto Doveva essere un moto rivoluzionario - Scritti sulla Resistenza e la Costituente di C. Cremaschi


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COMMENTO

Giuseppe Cantarano

Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes

PASSATO «Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes» (Non c’è salvezza nella guerra: o pace, tutti ti invochiamo): è la celebre sentenza che compare nel discorso con cui Drance polemizza con Turno. Nell’undicesimo canto dell’Eneide (v. 362). Sentenza che – pochi versi dopo (v. 399) - Turno a sua volta riprenderà. Nella sua aspra, violenta replica a Drance. Pace e guerra: due termini che denotano concetti simmetricamente opposti. In quanto l’uno è il rovescio dell’altro. E che Virgilio colloca, quasi accostandoli – a separarli sono solo due punti – nello stesso verso. Due sostantivi che evocano due realtà, due fenomeni polarmente antitetici. Giacché, dove c’è l’uno non può esserci l’altro. E viceversa. Se c’è la guerra non può esserci la pace. Se c’è la pace non può esserci la guerra. L’una esclude l’altra. In via di principio (de jure). E in termini fattuali (de facto). E tuttavia i due termini, sebbene antitetici, risultano correlati. “Pace” – eirene (greco), pax (latino), peace (inglese), Friede (tedesco), paix (francese), slam (arabo) – è infatti un termine che, in genere, si dà in coppia con “guerra” (polemos, bellum, war, guerre, Hrb). Al quale frontalmente si contrappone. Possiede, tuttavia, un’altra caratteristica. La definizione del suo concetto si ottiene per negazione. Per sottrazione. Pace non è altro che il rovescio semantico della guerra. Pace è la “non guerra”. L’assenza di guerra. Mentre del concetto di guerra – che denota, diciamo così un “male” – abbiamo una definizione positiva, il concetto di pace – che denota un “bene” – si ricava per opposizione. Per contrasto. Per negazione. Pax, infatti, ha lo stesso etimo di pactum. Entrambi i termini derivano dal verbo latino pango,

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che vuol dire stabilire, stipulare. Ma anche dal verbo paciscor, che vuol dire fare un accordo, pattuire. La pace, pertanto, è quella particolare condizione che viene stabilita, pattuita dopo un conflitto. Dopo una guerra. E’, in altri termini, un principio di ordine che subentra ad un precedente disordine. Solitamente noi diciamo che la pace è la cessazione, la fine, la conclusione della guerra. Siamo in pace quando non siamo in guerra. Mentre non siamo soliti affermare che la guerra sia la non pace. La cessazione, la conclusione della pace. A rifletterci attentamente, è come se la condizione “normale”, “fisiologica” delle relazioni umane fosse contrassegnata positivamente da una negazione, da un “male”. Dalla guerra, appunto. Mentre la condizione “anormale”, “patologica” fosse contrassegnata negativamente da una realtà positiva, da un “bene”. Cioè dalla pace. In quanto sospensione, intervallo della regolarità, del continuum della guerra. E’ Cicerone (106-43 a. C.), in epoca romana, a ribadire il reciproco rapporto di coessenzialità tra guerra e pace, affermando – nella Settima Filippica – che «Si pace frui volumus, bellum gerendum est (Se vogliamo godere della pace, dobbiamo fare la guerra)». Frase che è stata poi contratta nel più celebre motto: si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra). Il concetto di pace – correlato a quello di guerra – denota pertanto un’assenza, una mancanza, un vuoto. La pace non è altro – come dice Clausewitz (17801831) che l’esclusione, la mancanza, l’assenza di quell’«atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà» (Della guerra). Ed è esattamente questo “atto di forza” che definisce, nella sostanza, il


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concetto di guerra. Anche se, sotto il profilo dell’odierno diritto internazionale, non c’è una definizione giuridicamente univoca del concetto. In generale possiamo, in ogni modo, affermare che la guerra è quel fenomeno contrassegnato dal confronto armato fra due o più soggetti collettivi. Un fenomeno che ha, a suo modo, scandito l’intera storia della nostra civiltà. Non è un caso, infatti, che sin dall’antica Grecia, l’intera realtà viene addirittura identificata con la guerra: «Polemos (guerra) è padre di tutte le cose, di tutte re» , afferma il filosofo Eraclito (550 ca – 480 ca a. C.). Mentre la pace è solo un nome, rincara Platone (427-347 a. C. ): «Quella che la maggior parte degli uomini chiamano “pace” non è altro che un nome, ma nella realtà delle cose, per forza di natura, c’è sempre una guerra, seppur non dichiarata, di tutti gli Stati contro tutti». E nella stessa direzione procede il pensiero di Machiavelli (14691527). Che al tema della guerra dedica un intero libro (Dell’arte della guerra, 1516-1520). Così scrive il Segretario fiorentino nel XIV capitolo – Quod principem deceat circa militiam - del Principe: «Debbe dunque uno principe non avere altro obietto né altro pensiero, né prendere cosa alcuna per sua arte, fuora della guerra et ordini e disciplina di essa; perché quella è sola arte che si spetta a chi comanda (Un principe non deve avere altro obiettivo, altro pensiero e altro fondamentale dovere se non quello di prepararsi alla guerra e a tutto ciò che essa comporta. Questa infatti è la sola prerogativa che ci si aspetta da chi comanda)». Pochi decenni dopo, il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) procede ancora oltre. Egli ritiene che la condizione ordinaria, fisiologica, “naturale” delle relazioni umane – prima della costituzione del Leviatano, cioè dello Stato - sia caratterizzata dal bellum omnium contra omnes, cioè da una guerra di tutti contro tutti. Per arrivare infine al secolo scorso. Quando, in un saggio del 1932 su “Il concetto di politico”, riflettendo

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sulla celebre definizione di Clausewitz, secondo cui «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi», il filosofo tedesco del diritto e dello Stato, Carl Schmitt (1888-1985), scrive: «La guerra non è scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto, sempre presente come possibilità reale». Non dobbiamo, pertanto, sorprenderci più di tanto se il termine politica (politiké) e il termine città (polis) ruotino entrambi attorno allo stesso, evidente asse semantico attorno al quale ruota polemos. E’ per questo tratto inconfondibilmente bellico, conflittuale della condizione umana che, perlomeno in Occidente, si è codificato un “pensiero della guerra”. Mentre solo a partire dal XVIII secolo, grazie al celebre scritto di Kant Per la pace perpetua (1795) si comincia a parlare di una “filosofia della pace”. In quest’opera – nella quale riprende alcuni concetti anticipati in un saggio comparso nel 1784, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico – il grande filosofo tedesco propugna una vera e propria istituzione internazionale. Che ha il compito di promuovere “giuridicamente” la pace. Perfettamente consapevole che «la guerra è il male peggiore che affligge la società umana ed è fonte di ogni male e di ogni corruzione morale», Kant ritiene – realisticamente – che al flagello della guerra, tuttavia, «non è possibile fornire una cura assoluta e immediata». Ciò nonostante, la guerra deve essere scongiurata. Espulsa dalle relazioni tra gli Stati. Per conseguire tale scopo, l’organismo mondiale auspicato da Kant deve far leva soprattutto su tre articoli fondamentali: 1. Per quanto riguarda il diritto pubblico interno, tale organismo deve operare in maniera tale che in ciascuno Stato membro la costituzione deve essere di tipo repubblicano; 2. Per quanto riguarda il diritto internazionale, tale organismo deve fare in modo che tale diritto sia l’espressione di un federalismo di Stati liberi;


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Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes

3. Per quanto riguarda, infine, il diritto che Kant definisce “cosmopolitico” (jus cosmopoliticum), quest’ultimo deve ispirarsi alle condizioni dell’ospitalità universale. L’introduzione di questo nuovo genere di diritto è – e diventerà successivamente nella storia – molto importante. Poiché, secondo Kant, il diritto cosmopolitico prende in considerazione – oltre al rapporto tra uno Stato e i suoi cittadini (diritto interno) e il rapporto tra uno Stato e gli altri Stati (diritto esterno) – anche i rapporti tra ciascuno Stato e i cittadini di tutti gli altri Stati. Viene, insomma, prefigurato il diritto, per ogni cittadino, a non essere trattato con ostilità in uno Stato nel quale, indipendentemente dalle circostanze, si trova a vivere – anche provvisoriamente – in un dato momento. E, di conseguenza, il dovere di ospitalità dello Stato verso quel cittadino. Si tratta di un diritto che riguarda tutti gli individui. Per la semplice ragione, precisa Kant, del comune diritto al possesso della superficie della terra. Poiché quest’ultima è di forma sferica, gli individui non possono allontanarsi e separarsi all’infinito gli uni dagli altri. Pertanto devono – che lo vogliano o meno – accettare non solo di stabilire tra di loro delle relazioni. Ma di coesistere pacificamente. In tal senso, il diritto cosmopolitico teorizzato da Kant – che consiste dunque nel rapporto di reciprocità tra il dovere dello Stato visitato e il diritto dell’individuo visitante in esso ospitato – anticipa un altro fondamentale diritto. Il diritto, cioè, di ogni individuo ad essere considerato cittadino non soltanto del proprio Stato. Ma del mondo intero. Ma se è vero che con l’illuminista Kant fa ingresso nella storia una “filosofia della pace”, è altrettanto vero che è l’avvento del Cristianesimo a segnare una svolta radicale rispetto ad un nuovo modo di concepire la pace e di giudicare la guerra. La pace, nel Cristianesimo, viene personificata, incarnata nella stessa persona di

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Cristo: «Egli è la nostra pace» (Ef. 2,14), scrive Paolo. Che aggiunge: «Poiché Cristo è la nostra pace, egli ha fatto dei due (giudei e gentili) un solo corpo» (Ef. 2, 14). Abbattendo, così, il muro dell’inimicizia, dell’ostilità che li teneva separati. E immediatamente dopo la sua Resurrezione, il primo saluto che Gesù rivolge agli apostoli è: «Pax vobiscum (la pace sia con voi)» (Lc. 24,36). E’ nel Vangelo di Marco, tuttavia, che la pace viene affermata come “valore” in sé: «Avete inteso che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siete figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?») (Mt. 5, 43-47). E ancora: «Avete inteso che fu detto: occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due» (Mt. 5, 38-41). Le Beatidudini, infine, riassumono l’intero insegnamento di Gesù sulla pace e il perdono: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli» (Mt. 5, 9-10). Nonostante ciò, la guerra resta tuttavia una realtà storica. Con cui fare realisticamente i conti. E’ così che nel Cristianesimo nasce la dottrina della cosiddetta “guerra giusta” (bellum justum). Formulata soprattutto da Agostino (354430) e Tommaso (1225-1274). Fermo restando che il disegno di Dio per l’umanità è quello di riunirla nell’amore e nella pace, ciò non toglie che la guerra si opponga a questo disegno divino.


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Giuseppe Cantarano

Poiché la guerra contraddistingue la vita della città terrena. Dove regna il desiderio incontenibile per il potere e la volontà, altrettanto incontenibile, di dominio. Desiderio e volontà che generano divisioni, violenze e guerre: «La pace – scrive Agostino – deve essere nella volontà e la guerra solo nella necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace. Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace. Anche facendo la guerra, dunque, sia ispirato dalla pace in modo che vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi» (Le Lettere, III, 189, 6). Per considerare una guerra moralmente giusta, si devono verificare – secondo il Padre della Chiesa – le seguenti condizioni: 1. una violazione del diritto da parte del nemico; 2. una necessità inevitabile di intraprendere una guerra; 3. una volontà tesa sempre verso il bene della pace; 4. una dichiarazione effettuata dall’ autorità legittima. Tommaso riprende sostanzialmente le argomentazioni di Agostino, in merito alla guerra giusta. Che può contemplarsi a patto che sia l’autorità del principe a dichiararla, non un qualsiasi privato cittadino. E a patto che vi sia, evidentemente, una “causa giusta”. Ovvero, una colpa da parte di coloro contro i quali si fa guerra. Infine, per considerare giusta una guerra, deve esserci – secondo Tommaso – una “retta intenzione” nel farla. Insomma, la guerra deve essere combattuta soltanto per promuovere il bene. E per ristabilire la giustizia violata. Dopo la crisi dell’impero cristiano, tramontato nella tragedia della guerra seicentesca dei Trent’anni e delle guerre di Religione europee, è il filosofo ebreo Spinoza (1632-1677) a riconsiderare la pace non solo come valore. Ma a correlarla con la giustizia: «La pace – scrive nel Trattato teologico-politico – non è assenza di guerra. E’ una virtù, uno stato

d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia». La pace, insomma, non può prescindere dalla giustizia. Anzi, la presuppone. Almeno in via tendenziale. La pace reca con sé – perlomeno in latenza – tale aspirazione. Essa resta un valore. Una virtù, come dice Spinoza. Ma se manca la giustizia, può essere revocata in dubbio. Se la pace non è in vista del “Bene comune”, a certe condizioni può venir violata. Quando forze inique di guerra e di aggressione ne minacciano la stessa possibilità di esistenza, il ricorso alla guerra può essere in questo caso giusto. E’ la dottrina agostiniana e tomistica del bellum justum. Che si ripresenterà, nel dibattito internazionale, con lo scoppio della Guerra del Golfo nel 1990. E nel 1999 con l’intervento della Nato nel Kossovo.

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PRESENTE “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”: così recita l’articolo 11 della Costituzione italiana. Un articolo fondamentale. Approvato dall’Assemblea Costituente quasi all’unanimità: 556 voti a favore e solo due contrari. Un’ampia e convinta convergenza. Che si spiega – al di là delle diverse e contrapposte culture politiche dei costituenti che pur si fronteggiavano apertamente – non solo con l’immane e dolente tragedia, da poco consumatasi, del conflitto mondiale. Le cui ferite risultavano ancora ben visibili – a soli due anni di distanza dalla fine della Seconda guerra mondiale – nella carne e nello spirito di tutti gli italiani. Ma anche con l’avvento della guerra atomica. Che aveva fatto irruzione per la prima volta –


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nella storia della nostra civiltà – il 6 agosto del 1945. Alle 8:16 di quella mattina, gli Stati Uniti sganciarono sulla città giapponese di Hiroshima il primo ordigno nucleare della storia, “Little Boy”. Tre giorni dopo, su un’altra città giapponese, Nagasaki, venne lanciata – sempre dagli Stati Uniti – una successiva bomba atomica, “Fat Man”. Il calcolo delle vittime dirette – quasi tutte civili – è stabilito approssimativamente tra l’ordine delle 100.000 e 200.000 unità. Mentre quelle indirette – per i devastanti effetti radioattivi – forse devono continuare ad essere computate ancora oggi. E chissà per quanto tempo ancora: «La liberazione della potenza dell’atomo – ha scritto Albert Einstein (1879-1955) – ha cambiato tutto tranne il nostro modo di pensare; e così andiamo alla deriva verso una catastrofe senza precedenti». E’ anche alla luce della nuova, spaventosa e inquietante epoca atomica prefigurata dal grande fisico – cupamente inaugurata con queste due bombe nucleari – che i costituenti, al verbo “rifiutare”, hanno preferito invece un altro verbo: “ripudiare”. Dentro cui risuona non solo l’intransigente e perentorio rifiuto politico della guerra. Ma anche la condanna etica di qualsiasi ideologia che ne giustifichi strumentalmente il ricorso. O che ne esalti retoricamente le presunte ragioni. Giacché, in una eventuale guerra atomica mondiale – diversamente da quanto accadeva nelle guerre tradizionali, combattute con armi convenzionali – non solo non ci saranno sicuramente né vinti né vincitori. Ma è la vita stessa del nostro pianeta ad essere messa a repentaglio: «Non so – affermò sempre Einstein – con quali armi verrà combattuta la Terza guerra mondiale, ma la Quarta verrà combattuta con clave e pietre». C’era, probabilmente, anche questa cruda, aspra consapevolezza – evocata con la celebre frase di Einstein – a fare da sfondo al solidarismo internazionale,

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sancito nell’articolo 11 dai nostri costituenti. Nell’età dell’interdipendenza atomica, infatti, la pace non può essere garantita dalle singole nazioni. Ma dalle organizzazioni internazionali. Alle quali la nostra Costituzione affida questo delicato e importante compito. Nel pieno riconoscimento dei diritti universali di libertà e uguaglianza dei popoli. Per cui, viene condannata la guerra di conquista e di aggressione. Mentre le relazioni internazionali devono essere improntate ad una sempre più stretta collaborazione. Nella prospettiva di promuovere la pace e la sicurezza nel mondo. Tra le organizzazioni internazionali alle quali viene affidato questo importante e delicatissimo compito spiccano, evidentemente, le Nazioni Unite (United Nations). Fondate il 24 giugno 1945 con sede a New York. Oltre a lavorare per il conseguimento della cooperazione internazionale in ambito economico e in quello sociale e culturale, le Nazioni Unite hanno come obiettivo primario quello di garantire la sicurezza internazionale. Ovvero la pace. E per conseguire tale scopo non viene escluso, in via di principio, il possibile ricorso a misure di prevenzione e repressione. Nel Preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite, adottato il 26 giugno 1945 a San Francisco, a conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Organizzazione internazionale, troviamo scritto: «Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole, creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altri fonti del diritto


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internazionale possano essere mantenuti». Mentre nell’articolo 1 del Capitolo I – Fini e principi – leggiamo: «I fini delle Nazioni Unite sono: 1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace» (Charter of the United Nations). Ma in maniera ancora più esplicita, il “ripudio” della guerra sancito dall’ articolo 11 della Costituzione italiana – che è, come abbiamo visto, un principio fondamentale nel diritto internazionale – si richiama all’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite. Dove si afferma che i membri delle Nazioni Unite «devono astenersi, nelle loro relazioni internazionali, dalla minaccia o dall’uso della forza». Essi, insomma, sono “obbligati” a risolvere eventuali controversie che insorgono nei loro rapporti in maniera pacifica. Il ricorso alle armi è consentito – in via del tutto eccezionale – solo in presenza di una legittima difesa. Nel caso in cui, cioè, ha luogo un attacco armato, un’aggressione militare contro un membro dell’Onu. E tuttavia, tale ricorso alle armi è consentito solo in vista della cessazione del conflitto tra gli Stati belligeranti – in vista di un “bene”, dunque. Come nella “guerra giusta” teorizzata da Agostino e Tommaso, per intenderci. O in vista della risoluzione del conflitto interno ad uno Stato. Oppure è consentito per fronteggiare una emergenza umanitaria (peace keeping). E’ ciò che accade nel 1990, ad esempio. Quando l’Onu – e precisamente il Consiglio di sicurezza – autorizzò gli stati membri ad usare ogni mezzo necessario per ottenere il ritiro dell’Irak

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dal Kuwait che aveva militarmente occupato. Il “diritto alla pace” viene ribadito nella Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace. Che riprende, in particolare, l’articolo 28 della Dichiarazione Universale dei diritti umani. Documento sui diritti individuali promosso dall’Onu e firmato a Parigi il 10 dicembre del 1948. Un Documento di importanza storica straordinaria. In quanto sancisce universalmente – in ogni parte del mondo e in ogni epoca storica – per la prima volta i diritti inalienabili che spettano ad ogni essere umano. L’articolo 28 infatti recita: «Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati». Approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 12 novembre 1984, la Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace ribadisce che la missione principale dell’Onu è quella di mantenere la pace e la sicurezza internazionale. In virtù di una verità incontestabile. Vale a dire che tutti i popoli della terra desiderano vivere in un mondo di pace. E vogliono che la guerra venga definitivamente cancellata dai loro vocabolari e dalla vita dell’umanità. Poiché solo la pace – e non la guerra – può garantire ai popoli l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà fondamentali proclamate dall’Onu. Questo è tanto più vero soprattutto in presenza della minaccia della guerra nucleare. Che pregiudica irreversibilmente le sorti della nostra civiltà e della stessa sopravvivenza dell’umanità e del pianeta. Considerato che ogni Stato ha il “sacro dovere” di garantire al suo popolo un’esistenza pacifica, la Dichiarazione sul diritto dei popoli alla pace «Proclama solennemente che i popoli della Terra hanno un sacro diritto alla pace; Dichiara solennemente che la salvaguardia del diritto dei popoli alla pace e la promozione di questo diritto costituiscono un obbligo fondamentale per ogni Stato;


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Nulla salus bello: pacem te poscimus omnes

Sottolinea che, per garantire l’esercizio del diritto dei popoli alla pace, è indispensabile che la politica degli stati tenda alla eliminazione delle minacce di guerra, soprattutto di quella nucleare, all’abbandono del ricorso alla forza nelle relazioni internazionali e alla composi-zione pacifica delle controversie inter-nazionali sulla base dello Statuto delle nazioni Unite; Lancia un appello a tutti gli Stati e a tutte le organizzazioni internazionali a contribuire con ogni mezzo a garantire l’esercizio dei popoli alla pace tramite l’adozione di misure appropriate a livello nazionale e internazionale». Un altro documento che, in questo contesto, merita senz’altro di essere ricordato è la Dichiarazione sulla Cultura della Pace. Adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 settembre 1999. Sottolineando che le guerre hanno origine prima di tutto nella mente degli uomini e che pertanto è nella mente degli uomini che vanno cancellate, estirpate per far posto alla pace, la Dichiarazione sancisce il «Rispetto dei principi di libertà, giustizia, democrazia, tolleranza, solidarietà, cooperazione, pluralismo, diversità culturale, dialogo e la comprensione a tutti i livelli della società e fra le nazioni, favorita da un ambiente nazionale e internazionale che conduca alla pace» (articolo 1, i).

FUTURO Se la pace è ormai per tutti divenuta – radicandosi stabilmente nella coscienza comune – una virtù, un valore in sé, è anche vero, tuttavia, che essa non può essere disgiunta dalla giustizia, come abbiamo visto. Pace e giustizia, dunque. Una aspirazione che attraversa la nostra storia. E che la tragedia della Seconda guerra mondiale, le minacce atomiche sempre possibili e l’odierna globalizzazione iniqua rendono di nuovo attuale più che mai. Come necessaria aspirazione razionale di tutti i popoli. Non a caso, la Carta dell’Onu – che recepisce il pacifismo giuridico di un grande teorico

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kantiano del diritto, Hans Kelsen (18811973) – allude esattamente a questo. Allude, cioè, ad una concezione razionale della pace. Fondata sui diritti universali dell’uomo. Ovvero, su una giustizia cosmopolitica. L’idea-guida della Carta delle Nazioni Unite è, infatti, contrassegnata dall’indissolubile nesso pace-diritti dell’uomo. Nesso che è alla base della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, del Documento conclusivo della Conferenza di Helsinki per i diritti umani del 1975 e di altri importanti documenti internazionali. Il riconoscimento della «dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana – troviamo scritto nella Dichiarazione universale – e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Dopo il terribile secolo delle Guerre mondiali, della Shoah, dei totalitarismi, dei lager e dei gulag. Dopo il terribile secolo della “guerra fredda”, delle guerre civili ed etniche che sono di nuovo divampate anche nel cuore dell’Europa. Nel secolo del nuovo millennio, che si è aperto con l’attacco terroristico alle Twin Towers. E nel quale ancora risuona il lugubre rumore delle armi che si fronteggiano in tanti conflitti sparsi un po’ ovunque nel mondo, siamo ormai tutti consapevoli che soltanto una condizione di pace è effettivamente in grado di garantire il pieno rispetto dei diritti dell’uomo. Anche se da sola – lo abbiamo visto – la pace non basta a risolvere i problemi che affliggono oggi l’umanità. E’ certo un valore irrinunciabile. Una virtù necessaria. Ma non sufficiente. Giacché deve rappresentare la condizione preliminare per garantire una ordinata convivenza umana. All’insegna della democrazia, della libertà e della giustizia tra i popoli. Dovrà essere sempre di più la ragionevolezza del diritto – non l’ottusa forza delle armi – a costituire lo strumento privilegiato della pace. Ma il diritto potrà essere strumento privilegiato di pace


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Giuseppe Cantarano

solo nel contesto di una comune, condivisa legislazione internazionale. La sola che potrà nel futuro garantire a tutti i popoli della terra una sua applicazione effettiva. Nella consapevolezza che, affinché vi sia tale effettiva applicazione, sarà necessario che l’ordinamento normativo giuridico internazionale venga dotato di un potere coattivo. Di un potere, cioè, che possa far ricorso all’uso legittimo della forza per ottenere l’osservanza delle norme pattuite nell’ordinamento. Saranno sempre di più le Nazioni Unite a svolgere nel futuro questa imprescindibile funzione di pace. Facendo anche ricorso – come del resto già sta avvenendo in questi ultimi anni – all’uso legittimo della forza. Come già è avvenuto con la costituzione della Commissione di Peacebuilding. Istituita a New York dall’Onu nel settembre del 2005, per individuare le strategie di intervento nei Paesi che si trovano in una situazione immediatamente successiva ad un conflitto. Come è avvenuto con l’istituzione, il 21 febbraio del 1992, della United Nations Protections Force (UNPROFOR). Creata per fronteggiare la crisi jugoslava. E che ha il compito di aiutare i popoli colpiti dalla guerra e ristabilire condizioni di pace (peacekeeping). O per fronteggiare conflitti civili o etnici (peacemaking). E come è avvenuto con le operazioni di peace enforcement in Serbia, Irak, Afghanistan. Dove la pace è stata e viene tuttora “imposta” facendo ricorso direttamente ed esplicitamente alla forza. Poiché la pace, nell’odierna complessità del mondo globalizzato, sarà sempre di

più intrecciata alla sicurezza internazionale. Che va al di là della semplice e sola assenza di conflitti armati. Anche lo sviluppo – come del resto recita la stessa Carta dell’Onu –, il rispetto dei diritti dell’uomo, la protezione dell’ambiente costituiscono – e costituiranno sempre di più nel futuro – invalicabili presupposti per garantire la sicurezza e la pace nel mondo.

BIBLIOGRAFIA

AA.VV, Dei diritti dell’uomo. Testi raccolti dall’Unesco, intr. di J. Maritain, Ed. di Comunità, Milano 1952; R. ARON, Pace e guerra tra le nazioni, Ed. di Comunità, Milano 1970; A. CASSESE, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 1988; K. VON CLAUSEWITZ, Della guerra, Mondadori, Milano 1970; I. KANT, Per la pace perpetua, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino 1965 (pp. 283-335); N. BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979; ID., “Pace” e “Pacifismo”, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di Politica, Utet, Torino 1976; U. CURI, Pensare la guerra. Per una cultura della pace, Dedalo, Bari 1985; D. M. TUROLDO, Salmodia della speranza, Istituto di Propaganda Libraria, Milano 1995; J. GALTUNG, Storia dell’idea di pace, Satyagraha, Torino 1995; T. TERZANI, Lettere contro la guerra, TEA, Milano 2004.

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Rosaria Catanoso

Il monito di Ernst Jünger Il mondo, con i suoi uomini, giungerà mai ad una condizione di pace? Tale interrogativo balza fulmineo al pensiero che sono trascorsi, ormai, cento anni dalle “tempeste d’acciaio” della prima guerra mondiale. Cento anni che ci impongono di non dimenticare le volte in cui l’umanità è finita in guerra1. Gli accadimenti del primo conflitto mondiale schiudono una dimensione epocale, proprio perché sono stati in grado di stravolgere gli equilibri autopercettivi della cultura occidentale2. Le riflessioni che seguiranno vogliono delineare come, non sono per l’Europa ma per il mondo, sia difficile mantenere una condizione di pace tra i popoli e le nazioni. Il problema non è tanto scongiurare la guerra. Ma imparare a convivere con gli altri. L’individualismo, così forte nella cultura occidentale, ci rende difficile pronunziare la parola “noi”. Il processo di globalizzazione, livellando i modi di vivere, di pensare e di produrre rende problematica la coabitazione tra diversi. Gettiamo uno sguardo in dietro per riflettere sull’ora. Sull’hic et nunc. Sul senso sconosciuto e tremendo che si nasconde dietro gli eventi di ieri e di oggi, che non saranno mai abbastanza definiti. Mai del tutto delineati. Pur essendo trascorso tanto tempo, è proprio vero che ogni osservazione richiede la giusta distanza. Spaziale. Temporale. E spirituale. L’uomo è molto solo in questo grande paesaggio sul quale soffia l’alito della rovina. La guerra è una grande disgrazia per me, per te, per tutto il mondo. Il fatto che si possa combattere per un’idea con tutti i mezzi a disposizione compresi i gas, le attuali armi nucleari e i droni, non lo capiremmo mai. Questo è il monito che emerge dalla lettura del libro

La battaglia come esperienza interiore di Ernst Jünger3. Autore controverso, e molto discusso in particolare per esser stato a lungo corteggiato dai gerarchi nazisti, Jünger ci propone uno spaccato dell’esperienza psicologica del soldato al fronte4. Se Nelle tempeste d’acciaio5, scritto precedentemente, l’attenzione si è concentrata sugli avvenimenti puri e semplici, in questo altro libro l’intento è descrivere cosa abbia rappresentato la battaglia per il soldato. La visione del mondo di Jünger si sostiene unicamente con il senso emerso dal primo conflitto militare totale della storia. Nel 1914 parte volontario per il fronte. E’ stata un’esperienza quasi mistica, affascinato dalla vita in camerata con i compagni e dal pericolo incombente6. Jünger ha registrato dal vivo quanto di essenziale si stava annunciando nelle trincee, per il destino del mondo. Vita e morte sono totalmente confuse nelle trincee della Somme7. Allo scoppio del conflitto, tutti sono stati strappati dalla propria tranquilla quotidianità. Nessuno ricorda più chi abbia attaccato. E ciò conta poco, ormai. Il fatto è che tutti sono stati aggrediti. Cosa è stata la guerra? E cosa siamo stati noi per lei? Già Eraclito ne decantava l’energia interna nascosta, allorché, in un frammento, affermava che la guerra è madre di tutte le cose. E l’uomo, educato alla sua scuola rimarrà un combattente per tutta la vita. La guerra è il più potente scambio tra i popoli. Essa ha svolto storicamente un ruolo “costituente” decidendo i confini dello spazio politico, sia in termini geografici (pensiamo ai moderni stati-nazione), sia in termini di “inclusione” nella comunità politica, distinguendo tra cittadini e stranieri. Strumento adoperato persino

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Rosaria Catanoso

dalle grandi religioni, per imporre il proprio ideale di bene sul mondo intero. Durante ogni conflitto le razze valorose si sono distinte, riducendo in schiavitù innumerevoli uomini liberi. La lotta è sempre qualcosa di sacro: solo combattendo si può giungere a possedere qualcosa. La battaglia è la ragione ultima.

Nessuna lotta è volta solo a distruggere. Ma anche a ri-creare. Chi fa la guerra non combatte per nulla. Lo scopo è modellare un nuovo avvenire. Le vere fonti della guerra sgorgano dal profondo del cuore umano. Ci si spinge fino agli estremi delle proprie capacità, al fine di dar una nuova forma alla realtà. La guerra, pur essendo la più alta incarnazione della vita, rimane solo divorante morte. Nelle sue memorie, allora, oltre ai singoli episodi di guerra, emerge la descrizione di una metafisica negativa più che mai inedita ed inquietante per la civiltà del progresso. Tutto parla di caducità e di disperazione8. In guerra si scorge la venuta del nulla, che con la tecnica, affliggendo la terra e devastandola, riconosce la propria mondanità9. Il nulla della modernità si svela quando la morte si massifica e divampa la carneficina10. Il mondo piomba in un inferno di acciaio, in cui le macchine dominano il campo di battaglia e l’eroismo s’inscrive nel lavoro anonimo del soldato di trincea11. La guerra, annunciando l’inizio di una nuova epoca, svela ciò che covava nella modernità: la potenza devastante e perturbante della tecnica. Sul campo di battaglia presenta il proprio volto una nuova

era, circonfusa da acciaio e sangue12. Il soldato diviene un manovale della morte. L’eroe di questa guerra non è una figura eccezionale. Ma un mero impiegato della tecnica13. Il processo barbarico di scarnificazione dell’avversario viene alimentato dall’immane potenza delle armi tecnologiche, scompaginando qualsiasi regola del combattimento, individuando per l’uomo un ruolo bestiale. Ogni mezzo risulterà lecito, per giungere ad eliminare il nemico. La guerra verrà giustificata in termini assoluti, oltre ogni calcolo costibenefici. Giungendo a non riconoscere all’avversario alcuna dignità14. Contro l’hostis, nota Cacciari, l’unica pace consiste nel distruggerlo15. Orrore, paura, bramosia, lussuria sono i sentimenti che scuotono il petto del guerriero. Entusiasmo e sete di sangue si mischiano, in un’antitesi indissolubile. Muoiono studenti, allievi ufficiali, figli di contadini, che avrebbero potuto rendere più bella la terra. Ogni soldato procede silenzioso in fila, irretito nel turbinio dei propri pensieri. Un grigiore ampio e austero circonda l’aria. In qualunque momento può arrivare un colpo sparato da pochi metri. Gemiti e grida squarciano l’oscurità degli animi, annichiliti in trincea. La mente è assalita

dall’idea di quanto possa essere terribile uccidere persone mai viste prima. Si deve avere un motivo personale per uccidere. Ed è proprio questo che manca. E ancora si reitera il bellum omnia contra omnes di hobbesiana memoria; al punto che pur riconoscendoci tutti esseri umani, verrà prima o poi il momento in cui ci salteremo addosso. Finché esiste-

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ranno differenti individualità ci saranno lotte. Le occasioni e gli strumenti della battaglia cambieranno. Ma la violenza, permarrà. Quando a far da padrone è la violenza, brilla l’aspetto più animale della vita. La vita, nonostante tutto, rimane ricchissima di piaceri che dal dolore s’imparano ad apprezzare. Il coraggio, caratteristica del soldato, è l’impegno della singola persona fino alle più estreme conseguenze. Sentimento carico d’orgoglio, il coraggio consente di portare avanti la propria missione. Similitudine più rappresentativa non sussiste: un soldato senza coraggio è come un Cristo senza fede16. Ogni tempo richiede coraggio. Ancor più, urge quando tutto si fa incerto e terribile. Possedere coraggio significa essere all’altezza di qualsiasi destino. Tanti sacrifici per raggiungere un ideale, la cui disfatta decreterebbe l’insensatezza di tante morti. Una civiltà si è trovata a condurre la guerra con l’entusiasmo di chi è disposto a rinverdire l’epica con gesta eroiche. Ed ancora oggi molti sono coloro che ripetono a se stessi il verso declamato da Owen: dulce et decorum est, morire per la patria. Parole altisonanti, come quelle sul morire felici per l’onore e la gloria, suonano vuote. Tuttavia, mai come ora, per molti tali espressioni sono colme di smalto e forza. Morire per le proprie convinzioni è quanto di più alto per il soldato di ogni tempo. Quanti giovani kamikaze considerano un onore il fatto di essere in prima fila e sacrificarsi per l’Islam. E così tremiamo innanzi all’ idea che altro sangue sgorga, che ancora non abbiamo imparato a convivere.

Quando finiranno le guerre? I trattati di pace hanno posto fine alla prima e alla seconda guerra mondiale. Eppure nessuna guerra è stata mai, fino ad ora, l’ultima. La definitiva. A cosa servono le ricorrenze? Perché commemoriamo? Ricordare l’orrore, il lutto, la devastazione ha solo un senso: lottare affinché nessuna vita umana sia più calpestata e annientata. Con toni accorati,

Papa Francesco ha ricordato le vittime della prima guerra mondiale, nel Sacrario militare di Redipuglia, lo scorso settembre. Ha affermato Bergoglio che si può parlare di una terza guerra mondiale combattuta “a pezzi”, dislocata ovunque. Alla violenza, che ammanta le missioni di pace, il Papa risponde in modo netto e deciso: può essere necessario intervenire per fermare l’ingiusto aggressore, ma non con la guerra. Non può esservi una “guerra giusta”. Con tali parole cambia radicalmente lo sguardo della chiesa cattolica. A tal proposito Cacciari nota come sia la prima volta che un pontefice abbandona l’idea cattolica di “guerra giusta”. Il filosofo non ha dubbi. Bergoglio, parlando con i giornalisti nel viaggio di ritorno dalla Corea, si è espresso in termini assolutamente laici, nel momento in cui ha evocato un possibile intervento in Iraq deciso dalle Nazioni Unite. Ragiona, cioè, in termini realistici e non “assoluti”. Il Papa ormai confluisce sulle posizioni del diritto positivo proprie dei laici. Nota Cacciari che: «In sostanza Francesco dice che non possiamo rimanere impotenti di fronte a queste stragi quotidiane. Ma lo fa con termini non dissimili da quelli che usava Bobbio. Ed è anche il grande realismo di un papa gesuita che percepisce il tramonto dell’Occidente»17. Contro la logica delle guerre giuste, Bergoglio invita Israele e Palestina a piantare insieme un albero d’ulivo. Ma un tale gesto nasconde solo retorica, se tra le loro terre permane la tensione. La pace è un bene fragilissimo, destinato a spezzarsi al primo urto. Gli uomini, invece, si crogiolano nell’illusione che la pace perduri in eterno. Al contrario, la guerra non cessa mai di sorprenderci con la sua irruenza. E innanzi alla guerra rimaniamo attoniti, fino a quando non siamo travolti dalla sua burrascosa veemenza. L’Europa dopo due guerre mondiali è riuscita ad affermare la democrazia contro i totalitarismi18. Se dovessimo computare le guerre dovremmo annove-

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rare, persino, la guerra fredda. Una guerra che, in realtà, non siamo ancora riusciti a lasciarci del tutto alle spalle. La guerra fredda, non combattuta e mai vinta, ha traghettato il mondo nella nuova era globale19. Quel che abbiamo sotto gli occhi non è la “fine della storia”, profetizzata da Fukuyama20. Non siamo giunti in un tempo di prosperità, di pace e di diritti garantiti dalla democrazia e dal capitalismo. Invece ci troviamo innanzi ad un assottigliamento dei confini tra Occidente e resto del mondo. Dovremmo riflettere, per evitare la guerra civile mondiale, già profetizzata da Carl Schmitt21. Bisogna pensare a un modello diverso da quello delle superpotenze, che amministrano la giustizia in nome del diritto internazionale umanitario22. Sarebbe più opportuno attuare una sorta di pluralismo di grandi spazi confederati, ricordando il sogno cosmopolitico di Kant, pluralistico nella sua articolazione culturale e politica.

Diversità in conflitto Le guerre globali avvengono in un contesto di erosione dell’autonomia dello stato, messa in crisi da povertà, da rivendicazioni etniche e nazionaliste23. La crisi della democrazia si misura nel momento in cui un paese, parzialmente

libero, scivola tra i paesi non liberi. In questo modo le democrazie perdono vigore, snaturando se stesse. La crisi economica concede spazio alle economie informali e queste ai traffici criminali. E intanto le mobilitazioni nazionaliste rendono più aspro il conflitto, come è accaduto nei Balcani negli anni Novanta. Dietro le quinte di ogni

conflitto si annidato interessi, piani geopolitici, avidità, denaro, potere e le industrie delle armi. Le guerre rappresentano, mai come oggi, una fonte di ricchezza, non solo per il commercio di armi, ma anche per il mercato della ricostruzione. Il business della guerra è oggi trainato dalle nuove tecnologie. Ed ha proprio ragione Alessandro Dal Lago

nel sostenere che: ‹‹capitalismo e guerra sono isomorfi … perché si basano sulla distruzione creatrice. Entrambi devono distruggere, eliminare, sostituire quello che hanno appena creato24». Certamente la relazione tra guerra e democrazia è complessa e merita riflessioni molto più approfondite. Ma da quanto brevemente detto emerge come il quadro della politica globale sia composto da sofferenze, torture, mancanza di diritti. E in questo nostro tempo permangono, in punti sempre più prossimi all’Europa, ostacoli insormontabili per giungere a processi di democratizzazione. Pensiamo al “conflitto congelato” in Ucraina, che desta forti preoccupazioni. Per non parlare del focolaio mai spento in Medio Oriente. Le stragi della “quarta guerra di Gaza” hanno rinfocolato il conflitto tra Israele e Palestina. La Libia è nel caos. La Siria è il simbolo di come la violenza sistematica fagocita le aspirazioni democratiche. Le potenze regionali e quelle occidentali hanno condotto una guerra per procura, schierandosi pro o contro al-Asad. E al contempo in modo sotteso finanziavano i diversi gruppi terroristici, salvo poi temere di averne perso il controllo. In questo modo Cina e Russia si sono schierate con la Siria del regime.

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L’America, opponendosi ad al-Asad, diviene l’unica alternativa in questo clima caotico. Anche Israele ha nutrito interesse ad osteggiare i progetti nucleari di Teheran. L’Iran, a maggioranza sciita, ha sostenuto l’élite sciita della famiglia Asad al potere in Siria. In questo contesto, il fronte sunnita sostenuto dal gigante petrolifero saudita, che ha nutrito i vari gruppi terroristici, sembra sin qui aver avuto la meglio. E ancora l’Arabia Saudita tenta di rafforzare il proprio controllo sulla regione, con il proposito di voler impedire un ramificarsi di ondate rivoluzionarie come avvenuto durante le rivolte della Primavera araba. Ma l’intento principale rimane quello di evitare un riavvicinamento tra Iran e Usa. E non è finita qui. La Turchia si fa interprete di un riformismo democratico dall’alto, proponendo per l’intera regione un modello di democrazia a bassa intensità. La Tunisia e il Marocco, nella loro diversità, sembrano essere i soli paesi scampati all’ondata controrivoluzionaria. Assistiamo al permanere della rivalità tra Iran-Arabia con la “demonizzazione” della repubblica teocratica iraniana. E sempre più forte è la presenza di gruppi terroristici25. Lo scontro interno al mondo musulmano non condurrà l’Islam ad un progresso politico. Testimonianza di ciò è il terrore angosciante promosso dall’Is. Tremiamo nell’apprendere le persecuzioni subite dalla minoranza irakena degli Yazidi e dalle minoranze cristiane in tutta la zona. I vuoti di statualità irakeni e siriani sono stati colmati dal gruppo terrorista più violento e determinato presente nell’ area26. Da tutte queste recenti crisi politiche emerge come non sia stata fuorviante la tesi preconizzata già nel 1996 da Samuel P. Huntington, nel suo celebre scritto Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale27. Nel testo s’ipotizzava il possibile futuro sconto fra civiltà definite attraverso il loro retroterra religioso-culturale. Un conflitto che è in atto: cristiano-occidentali versus musul-

Lo stato di pace tra gli

uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale, il quale è

piuttosto uno stato di guerra.

Immanuel Kant

mani. Purtroppo sono le minoranze ancora molto ristrette e non collegate tra loro a portare avanti la tesi “dell’ inevitabile scontro di civiltà”. Eppure la nostra Europa e l’Islam affondano le loro radici profonde nel messaggio religioso dei monoteismi abramitici e nell’eredità ellenistica. Sono culture profondamente complementari, quasi facies differenti di un’unica tradizione. Ciò che va debellato è il pregiudizio nei riguardi dell’altro. L’importante è promuovere e valorizzare il dialogo e la conoscenza reciproca. Lo sviluppo di una coscienza identitaria europea, che sia il risultato esplicito del mantenimento delle diversità etniche, culturali e religiose, può garantire il senso di comune appartenenza e la salvaguardi delle specificità. Oggi i confini tra i vari stati non sono trincee da difendere. Ma varchi da aprire, attraverso i quali entriamo in comunicazione con coloro che, in altre parti del mondo, sono afflitti. Il nostro Occidente, che reca fin nel nome il segno del “tramonto” deve avere attenzione di fronte a coloro che bussano alle nostre porte. Lo snodo cruciale è far riuscire a convivere democrazia e pace, dentro e fuori dai confini degli stati. Per far ciò bisogna impedire che i metodi del terrorismo

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riescano a “inquinare i nostri standard democratici, per poi potercelo rinfacciare … Non la guerra, non l’odio, non la demonizzazione, ma la non violenza, la sopportazione la comprensione, in una parola: la democrazia”28. Dobbiamo, dunque, rincorrere la pace, che pure sembra bandita dal mondo (pure) sembra il suo destino, nel senso di qualcosa di molto lontano, ma non impossibile. Rimuovere le barriere del pensiero che impediscono l’unificazione dell’umanità – qualcosa come una politica senza guerra – è un bel compito (per tutti noi)29. Non bisogna mai stancarsi di costruire la pace, di rafforzarne le fondamenta, di ripararne i cedimenti e i guasti. Tutte le inutili stragi che costellano il pianeta sono motivate dalla cupidigia, dall’intolleranza, dall’ ambizione, dal potere. Non possiamo rimanere passivi di fronte a tanta sofferenza. La vera battaglia, che richiede ardimento, è quella contro il predominio dell’economia capitalistica, colpevole di produre soggettivismo, autoreferenzialità, supremazia discriminazione e smania di possesso.

NOTE 1 Si considerino tra i tanti lavori quelli di J. WINTER, Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Il Mulino, Bologna 1998 e S. AUDOIN-ROUZRAU e A. BECKER, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande Guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002. 2 L. CANFORA, 1914, Sellerio, Palermo 2014. 3 E. JÜNGER, La battaglia come esperienza interiore, Edizioni Piano B, 2014. 4 E. JÜNGER, Prefazione (Nelle tempeste di acciaio), in Scritti politici e di guerra. 1919-1925, vol. I, LEG, Gorizia 2003, pp.17-18: «non voglio descrivere come sarebbe potuta essere (la guerra), piuttosto come fu». 5 E. JÜNGER, Nelle tempeste d’acciaio, Guanda, Parma 1995. 6 P. AMATO, Menzogna e verità della guerra, in P. AMATO e S. GORGONE (a cura di), Tecnica lavoro e resistenza. Studi su E. Jünger, Mimesis, Milano 2008, pp. 13-31. 7 E. J. LEED, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1985.

8 S. GIVONE, Peritura regna. Guardare la fine, in I. DIONIGI, (a cura di) Barbarie. La nostra civiltà al tramonto?, BUR, Milano 2013, p. 70: ‹‹Non solo però il nulla che risulta dall’esperienza, e che ci è dato di constatare ovunque la dissoluzione imponga la sua legge, ma il nulla che viene prima dell’esperienza, perché viene dall’aldilà del tempo, viene da prima che il tempo sia e ne dice il contenuto e il significato››. 9 C. RESTA, Sull’estremo limite del nulla, in L. BONESIO E C. RESTA, Passaggio al bosco. E. Jünger nell’era dei titani, Mimesis, Milano 2000, p. 15. 10 P. AMATO, Lo sguardo sul nulla. Ernst Jünger e la questione del nichilismo, Mimesis, Milano 2001. 11 E. JÜNGER, Scritti politici e di guerra. 1929-1933, vol. III, LEG, Gorizia 2005, p. 205: ‹‹si svela il carattere di una generazione meccanizzata e la tecnica festeggia un trionfo di sangue››. 12 E. JÜNGER, La tecnica nel combattimento futuro, in Scritti politici e di guerra. 1919-1925, vol. I, LEG, Gorizia 2003, p. 31. 13 D. CONTE, “Tipo” contro “Individuo” nell’Arbeiter di Ernst Jünger, in D. CONTE e E. MAZZARELLA (a cura di), Il concetto di tipo tra Ottocento e Novecento. Letteratura, filosofia, scienze umane, Liguori, Napoli 2001. 14 M. CACCIARI, Il barbaro che verrà, in I. DIONIGI, (a cura di) Barbarie. La nostra civiltà al tramonto?, cit. p. 17. 15 IVI p. 17. 16 E. JÜNGER, La battaglia come esperienza interiore, cit., p. 72. 17 S. FIORI, Intervista a Massimo Cacciari, “Le parole del Papa su guerra e pace? Una svolta radicale per la Chiesa cattolica”, la Repubblica, 20 agosto 2014, p. 9. 18 M. REVELLI, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie, le insidie del lavoro, Torino, Einaudi 2001. 19 M. KALDOR, Le nuove guerre, Carocci, Roma 2007. 20 F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992. 21 C. SCHMITT, Il nomos della terra, Adelphi, Milano 1991. 22 E. JÜNGER, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione, Guanda, Parma 1980. 23 C. GALLI, Guerre globali, Laterza, Roma-Bari 2002. 24 A. DAL LAGO, Le nostre guerre, Roma 2010, p. 107. 25 M. CAMPANINI, Il folle “califfato” di Al Baghdadi che i musulmani non possono accettare, Reset, 21 luglio 2014. 26 M. CAMPANINI, Ideologia e politica nell’Islam, Il Mulino, Bologna 2008. 27 S. P. HUNTINGTON, Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997. 28 L. BONANATE, Il terrorismo in prospettiva simbolica, Aragno, Torino 2006, p. 108. 29 A. DAL LAGO, Le nostre guerre, Roma 2010, p. 44.

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Girolamo Cotroneo

Liberalismo di sinistra o socialismo di destra?

Nel 1986 veniva pubblicata a Parigi un’opera in due volumi, curata da Pierre Manent, uno studioso preveniente dalla “scuola” di Raymond Aron, autorevole filosofo liberale francese del XX secolo. L’opera aveva per titolo Les liberaux, i liberali: e nell’ “Avvertenza” iniziale il curatore scriveva: «On ne s’étonnera pas que la plus part des auteurs soient anglais ou français: c’est dans ces deux pays que les fondations doctrinales du libéralisme ont d’abord été posées, et avec le plis d’ampleur». Fedele a questa premessa, il lavoro di Manent si apriva proponendo le idee politiche di un poeta inglese, John Milton, noto, oltre che per il suo famoso Paradiso perduto, per la sua battaglia in favore della tolleranza, e si concludeva con uno scrittore francese noto, ma non notissimo, Bertrand de Jouvenel. Accanto ai “grandi”, e meno “grandi”, praticamente tutti presenti, del liberalismo francese e inglese – Locke, Voltaire, Montesquieu, Smith, Tocqueville, Stuart Mill, e molti altri ancora – si incontrano fuori dei confini fissati da Manent, solamente l’olandese Baruch Spinoza, il tedesco Immanuel Kant e gli austriaci Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek. Nonostante le ragioni addotte da Pierre Manent, appare piuttosto difficile non stupirsi dell’assenza di tutti i rappresentanti del liberalismo italiano: perché, a parte il fatto che l’Ottocento italiano ha visto nascere e svilupparsi il cattolicesimo liberale, fenomeno non del tutto secondario nella storia del liberalismo europeo, il Novecento è stato il secolo di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi, i quali nella storia del liberalismo del XX secolo hanno lasciato un’impronta piuttosto molto profonda. E ad essi, nella seconda metà del Novecento, si sono aggiunti in Italia altri autorevoli

pensatori che al dibattito sul liberalismo hanno dato un contribuito notevole, soprattutto nell’inevitabile confronto tra di esso e le nuove esigenze sociali e politiche apparse con il diffondersi del socialismo, specialmente nella sua veste socialdemocratica. Proprio a questi pensatori è dedicato un volume di Paolo Bonetti, da poco apparso a Macerata per l’editrice “Liberilibri”, con il titolo Breve storia del liberalismo di sinistra. Al testo di Bonetti segue una post-fazione scritta da uno studioso genovese, Dino Cofrancesco, il quale, sia pure con grande rispetto, e pur convenendo con molti degli argomenti di Bonetti, muove – cosa inconsueta in una post-fazione – a quest’ultimo diverse osservazioni critiche, non direi proprio infondate, di qualcuna delle quali avrò occasione di dire in seguito. Tornando al “primo detto”, il libro di Bonetti è la storia, ricostruita attraverso il pensiero dei suoi rappresentanti più autorevoli – Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Carlo Rosselli, Guido Calogero, Aldo Capitini, Norberto Bobbio, Mario Pannunzio e il settimanale “Il Mondo” – ad ognuno dei quali è dedicato un breve, ma rigoroso, esauriente, capitolo che ne ricorda il pensiero e l’azione. Una storia che segnala la presenza in Italia di un liberalismo, per così dire, “postcrociano”, ma anche, e forse più, “antieinaudiano”. Perché se Croce definiva il liberalismo come “metapolitico”, dichiarandolo compatibile con qualsiasi assetto economico, per Einaudi il liberalismo poteva vivere soltanto se accompagnato dal liberismo economico, dall’economia di mercato: visione che gli fece una volta scrivere, andando peraltro al di là delle idee di Croce, le quali non coniugarono mai il liberalismo con il comunismo

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Girolamo Controneo

marxista, che «il liberalismo non può, nemmeno per figura rettorica, assistere concettualmente all’avvento di un assetto economico comunistico, come pare ammetta Croce. Esso vi ripugna per incompatibilità assoluta». Come prima dicevo, la cultura liberale nel secondo dopoguerra si era trovata di fronte il socialismo nella duplice veste della socialdemocrazia e del comunismo marxistico: e si sentì più vicina a Croce, che non a Einaudi e al suo liberismo radicale. Tutti i pensatori qui riproposti da Paolo Bonetti, si sono quindi mossi all’interno di un liberalismo, appunto “di sinistra”, che cercava di coniugare le istanze di libertà con quelle sociali. E tutti, o quasi, coloro che lo rappresentavano si muovevano nell’area del Partito d’Azione, il cui referente ideologico era un martire dell’antifascismo, Carlo Rosselli, a cui si deve l’espressione “socialismo liberale”, espressione che aveva dato come titolo al suo libro più noto. Quando nel secondo dopoguerra il Partito d’Azione presentò il suo programma politico, Croce replicò con un articolo dal titolo “Nota a un programma politico”, dove sosteneva che quel partito, «annunciando un programma liberale ne impone invece uno socialistico, di quel socialismo che con le sue contraddizioni e le sue inconcludenze fu non ultima cagione della crisi accaduta in Italia». A questo aggiungeva che «parlare, come si fa ora di liberali conservatori e liberali progressisti, è ripigliare un vieux jeu di radicali e massoni di un tempo, ed è per giunta puerile, perché i liberali non possono dividersi in destra e sinistra, in conservatori e progressisti, in moderati e arrischiati, ecc., se prima di tutto non convengono tra loro per stabilire di rispettare e fare rispettare la libertà». Questa dura presa di posizione di Croce era la diretta conseguenza della sua notissima idea del liberalismo come “metapolitica”, in quanto esso «supera la teoria formale della politica e, in certo

senso, anche quella formale dell’etica, e coincide con una concezione totale del mondo e della realtà», secondo scriveva negli Anni Trenta del Novecento nel capitolo degli Elementi di politica, dal titolo “La concezione liberale come concezione della vita”. Una posizione, questa, con la quale prendeva le distanze da se stesso, da quanto aveva scritto nella Storia d’Europa nel secolo decimonono, dove si legge non solo che «il liberalismo non coincide col cosiddetto liberismo economico», ma anche che «non può rifiutare in principio la socializzazione o statificazione di questi o quei mezzi di produzione, né l’ha poi sempre rifiutata nel fatto, che anzi ha compiuto non poche opere di tal sorta»; concetto riproposto più volte nei suoi scritti. Ma nel primo capitolo del libro, dove Bonetti indica i nomi dei “maestri” del liberalismo italiano, accanto a quelli scontati di Croce e Einaudi troviamo quello di Gaetano Salvemini, del quale occorre chiedesi se sia stato veramente un pensatore liberale. Vorrei qui ricordare che, a parte tanti altri motivi e occasioni di polemica tra di loro, Salvemini nel 1946 scriveva un saggio dal titolo sprezzante: Libertà e niente altro nel pensiero di Benedetto Croce: una indicazione che potrebbe anche avere avuto qualche influenza sul liberalismo di sinistra. Tutto ciò mi porta a dire che quello di Salvemini e di alcuni altri pensatori qui riproposti da Bonetti, appare più una sorta – mi si consenta il termine – di “socialismo di destra”, che non un “liberalismo di sinistra”. Non a caso Bonetti inaugura il suo lavoro scrivendo che le persone, i movimenti da lui presi in considerazione, «per determinati effetti potrebbero e dovrebbero essere definiti in altro modo», che non come liberali di sinistra, anche se alla resa dei conti essi «rientrano a buon diritto nel grande filone della tradizione liberale riformatrice che si è venuta configurando nella cultura e nella prassi politica europea e americana del Novecento».

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Liberalismo di sinistra o socialismo di destra?

Che il liberalismo abbia mutato il suo modo di essere, lo dimostrano proprio i pensatori studiati da Bonetti. Comunque sia, è un fatto incontrovertibile che la cultura non cattolica né marxista, quella che pretendeva di collocarsi come “terza forza” tra queste due era soprattutto orientata, come dicevo, verso un “socialismo di destra” più che verso un “liberalismo di sinistra”; ed era questo privilegio accordato al “problema sociale che induceva Croce – il quale negli anni della polemica contro il Partito d’Azione scriveva una nota dal titolo “La libertà innanzi e sopra tutto” – a prendere le distanze da quest’ultimo. Nel 1981 è apparso nel nostro paese un volume dal titolo Socialismo liberale e liberalismo sociale, che conteneva gli Atti di un importante Convegno tenutosi a Milano due anni prima, dove i termini “liberalismo” e “socialismo” venivano congiunti in diade indissolubile; un volume dove si legge anche un intervento di Paolo Bonetti, Liberalismo e socialismo riformista nell’ultimo Croce, dove l’autore di questa Breve storia del liberalismo di sinistra, cercava, anche se con una certa cautela, di attenuare la distanza tra il pensiero di Croce e il programma del Partito d’Azione, che vedeva Croce diffidente verso quest’ultimo, non tanto per i contenuti, ma, scriveva allora Bonetti, per «la mancanza di gradualismo, la tendenza a volere imporre in un sol colpo riforme sociali assai vaste e complesse»; cosa senz’altro vera, anche se non va dimenticato che nelle già citate Note a un programma politico, Croce, a quanto prima ho ricordato, aggiungeva che «dire che la libertà dev’essere in funzione di una riforma economica, è ripiombare nel materialismo storico e dare ragione al comunismo marxistico che fa dipendere la morale e la politica dall’economia». E qui ritengo abbia la sua parte di ragione Dino Cofrancesco quando, nella ricordata post-fazione, replica che se quanto Bonetti ha scritto «fosse del tutto vero, per quale ragione Croce non avrebbe dovuto riconoscersi

se non in un partito, almeno nella corrente di quel partito, in cui militava il collaboratore della “Critica” a lui carissimo, Adolfo Omodeo?». Forse a nessuno dei partiti politici nati o rinati dopo la caduta del fascismo, Croce riservò il trattamento riservato al Partito d’Azione. Ricordo per tutto, quanto Croce scrisse nel suo diario il primo luglio del 1947, quando quel partito venne sciolto: «E’ stato pubblicato lo scioglimento del Partito d’Azione, del quale io per primo diagnosticai la torbidezza e la vacuità e l’inevitabile fallimento. Con tutto ciò, ha fatto molto male alla vita pubblica italiana». In ogni modo, l’attenzione che Bonetti, peraltro attento studioso di Croce, in questa suo ultimo libro rivolge al liberalismo di sinistra, porta inevitabilmente a chiedersi quale fosse allora ritenuto liberalismo di destra. E la risposta è una sola: era proprio il Partito Liberale Italiano, spesso, ricorda Bonetti, bersaglio polemico dei liberali di sinistra, e soprattutto il suo leader indiscusso, Giovanni Malagodi. Il quale però, venne indicato come il più autorevole rappresentante del liberalismo italiano da uno studioso e uomo politico olandese, Frits Bolkestein, curatore del volume Modern Liberalism. Conversations with Liberal Politicians, apparso in Olanda nel 1982, dove si può leggere una lunga intervista a Malagodi sui temi del liberalismo contemporaneo. A questo si potrebbe aggiungere che a tenere viva la fiaccola del liberalismo nel nostro paese sono stati molto di più gli studiosi dichiaratamente “crociani”, da Alfredo Parente a Raffaello Franchini, a Nicola Matteucci a Vittorio de Caprariis, che non quella sinistra liberale al cui interno non mancarono profonde contraddizioni, anche se, tranne qualche caso, nessuno di loro “poteva non dirsi crociano”. Ma questi sono soltanto dettagli. Il vero problema è che questo liberalismo – che Bonetti, per le ragioni che dirò tra poco, ha molto opportunamente riproposto alla nostra attenzione – non ha

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avuto praticamente incidenza nella vita politica italiana dopo la caduta del fascismo; e questo sembra confermare quanto detto una volta da un filosofo calabrese di buona fama, Felice Battaglia, secondo il quale l’Italia poteva certamente diventare un paese democratico, ma difficilmente un paese liberale. Tesi praticamente confermata da Bonetti quando scrive «che la minoranza liberale, che poteva contare su un suffragio elettorale molto ristretto per consolidare la sua egemonia politica, non è mai riuscita a far penetrare nella mentalità e nelle abitudini delle masse popolari la sua concezione della vita e della società». Direi che questo riguarda la cultura e vita morale dell’Italia dall’Unità in avanti, dove il liberalismo non ha mai avuto radici profonde, nonostante la presenza di Croce e Einaudi. Ma, per tornare al nostro tema, le (poche) riserve opposte alle tesi Bonetti, non intendono certo rigettare il pensiero e l’opera di pensatori come Gobetti, Calogero, Bobbio e altri ancora già nominati: bene dunque ha fatto Bonetti a riproporre “quel” liberalismo: anche perché, come Croce ci ha insegnato, la storia non è mai “giustiziera”, ma sempre “giustificatrice”, e quanto è accaduto ha avuto certamente la sua ragion d’essere. Se non altro per questo, Bonetti ha fatto opera meritoria cercando di dare ragione della presenza in Italia di una scuola di pensiero che si ispirava alla immagine, proposta da Adolfo Omodeo, della “libertà liberatrice”, sarebbe a dire «una concezione della libertà che non si chiude mai nella difesa delle istituzioni liberali così come si presentano in un determinato momento storico, ma mira a rinnovarle sotto la spinta di nuovi bisogni sociali e di nuove forme di vita comunitaria». Il liberalismo di sinistra, infatti, dice ancora Bonetti, era un movimento, forse più che un partito, che «non si [accontentava] di un formalismo liberale che [giudicava] sostanzialmente conservatore, ma [cercava] di dare sempre nuova linfa alle istituzioni liberali attraverso l’allargamento progressivo

della base sociale che [doveva] con il suo consenso, sorreggere queste istituzioni». Si potrebbe forse dire che “questo” liberalismo era mosso, più o meno consapevolmente, da una sorta di insofferenza nei confronti sia di Croce e della sua visione “metapolitica” del liberalismo, che di Einaudi, che aveva visto nel liberismo la sola organizzazione economica compatibile con il liberalismo: il quale, adesso, nel secondo dopoguerra, aveva, di fronte al dilagare dell’integralismo cattolico e di quello comunista, responsabilità pratiche, doveva operare sul terreno della politica attiva, della realtà concreta, che richiede accordi, vicinanze, e talora persino compromessi; e che vide in certi assunti del socialismo democratico quell’arricchimento del liberalismo, che poteva rendere possibile una sua più forte presenza nella vita politica del paese. Non starò qui a indicare ragioni più o meno valide circa il fallimento pressoché totale di quella esperienza: vorrei concludere invece ricordando con le parole dello stesso Bonetti, le ragioni per cui potrebbe essere utile «riprendere lo studio del filone autenticamente riformatore della nostra tradizione liberale». Ma non per riproporre le idee che esso aveva (inutilmente) avanzato, in un mondo che è ormai a siderale distanza da quello in cui quel liberalismo si è manifestato, quanto invece per ricordare ai rudi conservatori dell’ordine costituito e a coloro che vorrebbero, sostiene Bonetti, «rovesciare radicalmente un sistema economico in crisi, ma che non ha ancora esaurito le sue capacità di ripresa e le sue possibilità di sviluppo», l’importanza di un pensiero riformista liberale e democratico. Dopo la dissoluzione dei due integralismi – cattolico e comunista – che avevano dominato l’Italia nel secondo dopoguerra, non è difficile vedere quanto il nostro paese, la cui politica è guidata soprattutto da un mediocre pragmatismo, soffra per la mancanza di una visione politica forte e sicura, che non sia solo dottrina, ma anche impegno operativo, come voleva essere il “liberalismo di sinistra”.

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OSSERVATORIO

Giovanni Jannuzzi

Argentina, è vero default?

L’Argentina è nuovamente in default? Vediamo di capire come stanno le cose. Quando il Paese cessò i pagamenti, nel gennaio del 2002, il suo debito pubblico era diventato impagabile, i mercati e il FMI avendo chiuso ogni fonte di credito. Poi, nel 2005 il Presidente Kirchner impose la sostituzione dei vecchi buoni con nuovi titoli, per un valore tra il 25 e il 30% di quelli originari, con scadenza trentennale. L’offerta fu riaperta nel 2010 e complessivamente circa il 93% dei creditori l’accettò. Rimasero fuori piccoli gruppi di risparmiatori riuniti in varie “task force” e disposti a dar battaglia, ma la parte maggiore finì in mano di fondi americani che in Argentina è di moda chiamare “avvoltoi”. Sono fondi che comprano a bassissimo prezzo titoli di paesi in difficoltà, o già in cessazione di pagamento, agendo poi in via giudiziaria per recuperare l’intero ammontare. Se ci riescono, il guadagno può essere favoloso. Alcuni di questi fondi hanno iniziato sei anni fa un’azione giudiziaria contro l’Argentina, reclamando il valore di un miliardo e duecentomila dollari arrivati oggi, con gli interessi accumulatisi, a più di un miliardo e mezzo. L’hanno fatto davanti a un tribunale di New York, perché tutti i contratti di emissione di buoni da parte del Governo di Buenos Aires riconoscono quella giurisdizione (altrimenti ben pochi stranieri avrebbero sottoscritto le emissioni argentine). La causa è andata avanti per sei anni davanti a un giudice newyorkese, Thomas Griesa. Finalmente, il giudice ha emesso una sentenza con la quale si impone all’Argentina di pagare il 100% del credito vantato dai fondi. La Corte di Appello di New York ha confermato questa sentenza e la Corte Suprema degli Stati Uniti l’ha avallata, rifiutandosi di discutere il ricorso presentato dall’Argentina. Il dato di fatto è dunque chiaro:

una sentenza definitiva, di un foro giudiziario liberamente accettato, obbliga il Paese a pagare. La logica discutere il ricorso presentato dall’Argentina. Il dato di fatto è dunque chiaro: una sentenza definitiva, di un foro giudiziario liberamente accettato, obbliga il Paese a pagare. La logica vorrebbe dunque che si negoziassero forme e tempi di esecuzione, come suole accadere tra creditori e debitori di buona fede. Ma vi sono due complicazioni. La prima, di ordine legale, è che presso i tribunali di New York pendono altre cause di creditori dell’Argentina, per un totale di circa 15 miliardi di dollari. Accettare di eseguire la sentenza vuole dire aprire la strada all’accettazione di altre decisioni giudiziarie. Ma vi è una causa di preoccupazione anche maggiore: i regolamenti del 2005 e 2010 comprendono la c.d. “clausola Rufo” (Rights upon future offers) in base alla quale, se il Governo argentino in qualsiasi momento migliorasse le condizioni fatte ai creditori che avevano accettato il regolamento, questi avrebbero il diritto a chiedere le stesse condizioni. Si riaprirebbe, in sostanza, un’operazione che coinvolge più di 100 miliardi di dollari. In realtà, esperti legali mettono in dubbio questo argomento, già che l’accettazione di un ordine giudiziario non equivale ad una offerta volontaria di condizioni migliori, ma il rischio esiste e non va preso alla leggera. Tuttavia, la clausola Rufo scade il 31 dicembre di quest’anno. Dopo, il Governo resta libero di negoziare come crede. Vi era dunque una ragionevole attesa che l’azione argentina si concentrasse sulla maniera di ottenere, dal giudice o dai fondi creditori, una sospensione dell’esecuzione della sentenza fino a quella data. Non avrebbe dovuto essere impossibile. Pare che i fondi avrebbero accettato una

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Giovanni Jannuzzi

dilazione in cambio del versamento argentino di una garanzia argentina di 250 milioni di dollari. Qui, però, entra in gioco la seconda e più grave difficoltà, quella politico-ideologica. Lungo tutta la vicenda, il Governo Kirchner ha duramente attaccato l’azione degli “avvoltoi” e del giudice Griesa considerato loro complice, definendola estorsiva e dichiarando che non vi avrebbe ceduto mai. Negli ultimi mesi, ha anche cercato di mobilitare l’appoggio di Paesi amici contro il sistema finanziario internazionale. Lasciamo stare Griesa, che ha semplicemente applicato le leggi americane. Ma i fondi speculativi (utili solo per evitare che certi buoni “spazzatura” perdano del tutto il loro valore) sono l’espressione del capitalismo finanziario più spietato e parassitario, quello che ha portato più volte l’economia all’orlo del collasso. Purtroppo però in questo caso hanno dalla loro parte una sentenza ferma, contro cui la retorica può far poco. Ma, tornando alla questione di partenza, perché default? L’Argentina, dal 2005 ha puntualmente pagato le quote del debito e aveva già depositato quella del primo semestre 2014, 450 milioni di dollari, al Bank of New York, suo agente di pagamenti. Ma Griesa ha ordinato al Banco di non pagarli finché l’Argentina non regoli il debito con i fondi creditori titolari della sentenza. Questa decisione si può criticare in astratto, ma in concreto esiste. Il termine per il pagamento scadeva il 30 luglio scorso. Le somme, per questa disposizione giudiziaria, non sono state pagate, per cui l’Argentina è entrata formalmente in default. Un default di tipo molto speciale, di cui il Governo nega con veemente indignazione l’esistenza. Il ragionamento non è inconsistente: abbiamo pagato, i soldi ci sono, sono già in possesso del Banco, la colpa non è nostra. Non c’è difficoltà di pagamento, ma di riscossione da parte dei creditori. Non dice però che la causa di questo blocco sta nel rifiuto a eseguire una sentenza. Comunque, la percezione esterna è diversa. Mercati e qualificatrici di rischio mostrano di

considerare che, almeno tecnicamente, il default esista e si preparano ad agire in conseguenza. Quali i risultati? Ovviamente, nulla di paragonabile alla crisi del 2002. Ma l’Argentina ha accumulato nel tempo un deficit fiscale e di bilancia dei pagamenti. Il primo è stato coperto con l’emissione di carta moneta, che ha alimentato un’inflazione giunta al 30% annuale. Il secondo è stato affrontato attingendo alle riserve della Banca Centrale e imponendo un forte controllo dei cambi e delle importazioni e alti tassi d’interesse. Questi rimedi hanno avuto come conseguenze (certo indesiderate ma prevedibili) stagnazione dell’economia, corsa al dollaro nel mercato parallelo con forte caduta del Peso, e conflittività sindacale. Negli ultimi mesi, tuttavia, il Governo – se non altro per attraversare senza troppi traumi i dieci mesi che gli restano – aveva mostrato l’intenzione di tornare a una linea meno eterodossa, finanziandosi sui mercati del credito (oggi i tassi d’interesse nel mondo sono bassi e il rapporto debito pubblicoPIL argentino è molto contenuto). Aveva perciò regolato le pendenze con la spagnola Repsol e con il Club di Parigi (tra cui l’Italia) e cominciato a pagare alcune sentenze arbitrali avverse. Questa apertura era stata accolta con favore, tra l’altro dal Governo italiano. Ora, la possibilità di ricorrere ai mercati pare al momento preclusa. Il Governo dovrà continuare a emettere moneta e a prendere soldi dalla Banca Centrale, ma queste risorse sono limitate nel tempo e di esse non dispongono per finanziarsi né le imprese private né le Province, quasi tutte in gravi difficoltà finanziarie. La speranza è che qualche porta negoziale si riapra nel prossimo futuro, con un po’ di ragionevolezza delle due parti. L’una dovrebbe rassegnarsi al fatto che le sentenze si eseguono, o se ne pagano le conseguenze; l’altra dovrebbe accettare di essere meno avida. Ogni vero amico dell’Argentina dovrebbe dare una mano in questa direzione.

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3 agosto 2014

©Futuro Europa®


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Rossella Pace

Un Castello, una Villa, un Diario In una recente conversazione avuta con Alessandro Tessari sulla Resistenza, l’accento è caduto sull’armistizio, l’8 settembre, e sulla conseguente difficile scelta imposta a quanti, a vario titolo, si trovarono implicati nell’affaire della seconda guerra mondiale. Tessari mi ha raccontato di un suo zio il quale, proprio in quei giorni di settembre, chiamando in adunata tutti i suoi commilitoni, li pose - avendo ben presente lo sbandamento del Paese, ed in primis dell’esercito - di fronte ad una scelta che per i più avrebbe segnato la loro stessa sorte: “seguire il duce a Salò, rientrare mestamente alle proprie abitazioni superando le difficoltà date dai collegamenti o andare in montagna e farsi partigiano”. I primi gruppi di patrioti furono formati, infatti, proprio da militari con i propri ufficiali, ai quali si unirono poi ex prigionieri di guerra, fuoriusciti ed ex condannati politici, uomini e tante donne – troppo spesso ritenute figure minoritarie - di tutte le età e di tutte le opinioni, tanto che in brevissimo tempo fu possibile organizzare in tutta Italia numerosissime bande che non lasciarono nessun margine di mobilità all’invasore tedesco, combattendolo strenuamente e ostacolandolo in ogni sua mossa con azioni di guerriglia avendo ben presenti gli elementi di tattica partigiana. “In quelle ore, in quelle giornate di disperazione viene fuori infatti un’altra Italia, non disposta a sottomettersi a chi la vuole ancora succube della sopraffazione nazista né a rinunciare alle sue capacità di stare in armi per i propri valori. […] Vi sono italiani pronti a battersi per dare dignità alla propria divisa, a sfidare la morte per l’onore della bandiera, e, subito dopo ad

operare clandestinamente nelle campagne come nei centri urbani, vuol dire che una crisi di coscienza scuote l’intimo di milioni di persone spinte, malgrado atteggiamenti contrastanti, a scegliere individualmente in assenza, per i militari, di ordini precisi, e, per i civili, di riferimenti credibili” [Vallauri C., Soldati, Utet, Torino 2003, p.VIII]. Sul territorio nazionale, in Piemonte più che altrove, proprio per la presenza della 4° Armata, importante fu l’aspetto che la Resistenza assunse. Molti militari, proprio in quelle famose “montagne” che prima citavamo, familiari ai più di loro, trovarono rifugio e organizzarono le prime bande partigiane al comando di ufficiali e sottoufficiali, nei cui cuori era vivo ed imperante lo spirito militare. Proprio sul Monte Bracco, presso Barge, il Tenente Pompeo Colajanni [Barbato], ufficiale di complemento di cavalleria di un gruppo di militari e con antifascisti torinesi, dette avvio alle formazioni garibaldine del Piemonte e al famoso “modello Barge”: il Piemonte diventò – cosi – un’immensa riserva di soldati specializzati, gli Alpini, addestrati alla guerra di montagna, con accanto meridionali estranei all’ambiente montano. Sono proprio, quindi, l’8 settembre e la conseguente scelta della montagna e tutto ciò che da essa scaturì, a costituire l’antefatto dal quale prende le mosse il libro di Giovanni De Luna, La Resistenza perfetta, Feltrinelli, Roma 2015, pp. 254. “La guerra alla macchia non possiede archivi”, il partigiano Mario Argenton lo ha spesso sottolineato, e De Luna – in questo sta la forza del suo libro - è stato in grado di ricostruire mirabilmente, proprio attraverso la testimonianza della prova scritta, servendosi di alcuni stralci

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Rossella Pace

del diario di Leletta d’Isola, [Il diario di Leletta. Lettera a Barbato e cronache partigiane dal 1943 al 1945, FrancoAngeli, 1993] figlia del barone Vittorio Oreglia e di Caterina Malingri di Bagnolo, nel quale sono narrati quei venti mesi di dure lotte, di violenze perpetrate dai nazifascisti, di coraggio partigiano, a prescindere dal colore politico, avendo dinnanzi l’immagine di un Paese ormai alla deriva, sconvolto dagli esiti della guerra. Restituendoci, proprio grazie a quelle mirabili pagine, una Resistenza armata, che ai suoi esordi fu un movimento di carattere unitario espresso nell’appello del Cln di Milano del 7 ottobre del 1943, [ci unisca il grido dei nostri padri: fuori i tedeschi], che solo successivamente, per i processi che noi tutti conosciamo, si politicizzò. Ad essa e l’autore ne disegna un quadro lucido aderirono tutti gli strati sociali e tutti collaboravano in ogni azione, dando vita ad una prova collettiva di grande carattere e di amore verso una patria invasa, animando una coalizione spontanea ed autonoma che Pavone ha descritto come: “una esperienza di disobbedienza di massa” [Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991]. “Il crollo dell’impalcatura burocraticomilitare dello Stato italiano – osserva De Luna – appare come un palcoscenico sul quale gli attori si muovono con ruoli e tempi diversi”. Sul palcoscenico del Palas, Barbato farà il suo ingresso in scena per la prima volta il 23 dicembre del 1943, immortalato cosi da Leletta: “Vediamo dalla finestra uno strano spettacolo: il Barone e Aimaro con un piccolo meridionale, armato di mitra Beretta; da lì in poi la dimora dei Malingri cambierà pelle e a roccaforte cattolica, destinata per secoli a combattere l’eresia delle vicine valli valdesi, aprì senza riserve le sue porte agli “eretici” del Novecento”. Assieme a Barbato fecero il loro ingresso numerosissimi altri personaggi: Mirco, Martelli che insegnò ad Aimaro e

Leletta ad usare il parabellum, Pietro, Lampo, Zama che fece in quelle valli la prima vittima nazista (per lui motivo di grande vanto), Balestrieri l’unico, stando al dire della nostra, “che faceva la guerra con passione, per amore della giustizia”, e tanti altri, che animarono le conversazioni serali del Palas dove, oltre che di strategie, di scioperi, di come amministrare la giustizia partigiana e di guerriglia, si discuteva anche di politica, cultura e fede. Leletta: “Studio e leggo comunismo e ne ho la testa piena. Vorrei farmi eremita e non sentir parlare più dell’umana società. […] Stasera i nostri cari comunisti, sono scoppiati in un fuoco d’artificio di ideali compressi. […] Ho paura che saranno dei martiri e degli incompresi.” Ella stessa aderì fedelmente alla Resistenza; ma a sedurla non sarà l’ideologia ma l’impegno generoso e gratuito con cui i partigiani rossi vivevano la lotta contro i nazifascisti. Non diventerà mai comunista, anzi, come vedremo, la sua scelta andrà in tutt’altra direzione, anche se conserverà per sempre la stella rossa donatagli da Barbato. Questo idillio sarà spazzato via ben presto dall’arrivo dei camerati e tutti al castello si troveranno braccati e oggetto di attenzione da parte della polizia fascista (e poi dai tedeschi) dopo che gli uomini della Brigata nera di Novena avevano teso un’imboscata ai partigiani impegnati a Torre San Giorgio per prelevare un carico di grano. In quell’imboscata lo stesso Martelli restò ferito. Pochi mesi dopo il Palas verrà nuovamente rastrellato e Lampo, catturato in montagna, portato ed esposto insieme ad altri come bottino di guerra. Si voleva indurlo a confessare le relazioni dei partigiani con il barone e la sua famiglia, ma il partigiano con grande eroismo negò sempre di essere stato al castello. Pochi giorni dopo si compirà la sua triste sorte, colpito al volto da una “noccoliera” e gli occhi estratti dalle orbite, per mano di quello stesso

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Un Castello, una Villa, un Diario

Novena autore di 195 omicidi, a suo dire, che armando la mano del figlio tredicenne gli disse: “vai, dilettati anche tu!” Una nota a parte merita il capitolo V, “Uomini e donne”. Dal Diario si nota che l’alta presenza maschile cominciava ad essere soffocante: “Ho provato una vera gioia, dopo una fantasmagoria di uomini, di vedere finalmente una cara amica così femminile!”. La presenza femminile spicca fortemente al Palas; accanto alla Barona e alla zia Barbara si trovano ovviamente le partigiane, ammirate da Leletta: “Viaggiano talvolta imbottite di stampa clandestina e qualche volta, di pistole”; per loro, oltre alla causa comune, c’era spazio anche per discussioni riguardanti il futuro dell’Italia, le varie opzioni politiche, il ruolo della donna nella società, la sua posizione nella famiglia, e la difficoltà di conciliare i suoi doveri di madre con quelli di cittadina. Emerge soprattutto, e il carteggio tra Anna e Barbato lo testimonia, la difficoltà di essere donna in un mondo prettamente maschile; non sempre i partigiani maschi furono in grado di riconoscere la forza interiore, la doppia rottura (la loro era anche una guerra di liberazione di se stesse) che segnava il vissuto delle loro compagne. La Resistenza, in quanto lotta armata, fu vissuta essenzialmente come una questione maschile. Le donne che vi parteciparono, sono molto più di quante siano state riconosciute partigiane, e il loro ruolo è stato taciuto per molto, forse, troppo tempo. [Carrone I., Le Donne della Resistenza, Infinito, Monocalzati (AV) 2014]. Tornando al racconto, gli ultimi mesi di guerra, prima della conquista della rossa primavera, furono sicuramente i più difficili; tra le fila partigiane andò diffondendosi la psicosi del tradimento dei compagni, del collaborazionismo con il nemico. Vittime di tutto ciò furono due ragazze Lucia Beltramo e Caterina Re, ammazzate per ordine di Moretta proprio per sospetto collaborazionismo. Ciò, però, non

impedì e non arrestò “l’ondata impetuosa di un movimento partigiano che proprio allora usciva dal letargo invernale per affrontare l’ultima e più esaltante fase della sua lotta, in una primavera che fu subito vigilia di insurrezione”. Tutto quello che avvenne dopo è storia nota; il dopoguerra vedrà il lento sfaldarsi di quella rete familiare intessuta al castello in quei venti mesi di Resistenza e ancora una volta il Diario è quanto mai esplicativo: “la conversazione languiva un po’ [si riferisce a Mirco, tornato al Palas con i gradi sulla giacca in maggio], bisognerebbe chiamarlo l’avvocato Guaita, […] dopo tanti mesi in cui una comunità di ideali e di pericoli ci aveva tanto avvicinati, ora si sente che c’è qualcosa che ci separa”. La fine della guerra segna, dunque, l’epilogo anche della Resistenza Perfetta. Proprio in essa Leletta aveva guardato agli uomini e alle idee più che ai loro schieramenti politici, “aveva pensato che la politica potesse essere impegno e dedizione, ora scopriva che, con i partiti, quelle idee rischiavano di diventare mura di esclusione, fratture e lacerazioni sconosciute alla comunità della banda partigiana. Certo, come si sarebbe espresso il suo maestro Bobbio, quello era il tempo in cui le volpi stavano per prendere il posto dei leoni”. Tutti ritornarono alla normalità: Martelli ritornò ad essere Raimondo Luraghi, Pietro divenne nuovamente Gustavo Comollo e i nostri due protagonisti Pompeo Colajanni, Barbato all’epoca dei fatti, si avvicinò alla carriera politica che lo vide ricoprire numerosissime cariche pubbliche per il Pci, mentre per la nostra Leletta si aprirono le porte del convento nel 1947. Nel 1985 scrisse a Barbato un’ultima lettera dove ricorderà così il periodo vissuto insieme: “quel periodo tragico di guerra fu per noi, ancora nell’incoscienza della prima gioventù, una gloriosa epopea. La lotta per la libertà, per quella libertà che sotto il fascismo, non

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Jacqueline Rastrelli

avevamo conosciuta, l’incontro con adulti maturati nella persecuzione, le discussioni ideologiche sincere e vivaci, l’eroismo di alcuni e la semplicità di tutti, furono davvero irripetibili e scuola di vita. […] Di fronte ad essa [si riferisce alla morte], gli ideali politici – l’anti-fascismo che affratellava persone cosi diverse –, l’amicizia, la ricerca, la stessa povertà acquistavano un rilievo del tutto speciale”. Il libro di De Luna va oltre la visione di una Resistenza espressa sotto forma di romanzo, ci restituisce un quadro perfettamente veritiero di un preciso periodo storico, durante il quale tutte le forze impegnate nella lotta contro il nazifascismo sono giustamente rappresentate, nella scia di un restyling storiografico. La resistenza armata, nacque, come abbiamo visto - e dal libro ben si intuisce -, come una coalizione spontanea ed autonoma contro un comune nemico. All’indomani della vittoria il fronte resistenziale si spaccò, perché nell’ideologia di alcuni le conseguenze che da questa vittoria sul campo di battaglia dovevano derivare, erano giudicate diversamente da quelle di altri. Alcuni furono attratti dal richiamo della sirena sovietica, altri da quella cristiana e democratica e di quello che poi diventerà il blocco occidentale. Centinai di giovani, per i quali all’inizio della lotta l’ideologia

sovietica era pressoché sconosciuta, finirono per credere di aver combattuto per quelle ideologie, dimenticando il fatto che all’inizio tutti i partecipanti furono spinti non certo dall’appartenenza a questa o quella corrente di pensiero ma soltanto per amore di libertà e di appartenenza al Paese. Quegli stessi sentimenti che spinsero la nobildonna o il barone a nascondere il partigiano nella propria casa, le donne a trasportare armi e a far sì che le notizie importanti arrivassero a chi di dovere, percorrendo chilometri di strade in bicicletta o a piedi aggirando i pericolosissimi posti di blocco, il contadino a dare rifugio nella sua casa con il rischio, qualora fosse stato scoperto, di vederla bruciare e lui stesso fucilato. Nel settantesimo anniversario questo volume mitiga le critiche incessanti dell’ultimo periodo nelle interpretazioni storiografiche spesso appannaggio esclusivo di determinate correnti politiche. La speranza è che si possa, avendo come punto di partenza proprio La Resistenza perfetta di De Luna, dare voce finalmente a quei partigiani che fecero la stessa scelta di Barbato e compagni, di stare, cioè, al di là di quella linea tracciata in terra, che la storiografia accreditata ha relegato nell’oblio di quella che potremmo definire una Resistenza dimenticata.

Jacqueline Rastrelli

Asia e Mediterraneo, la globalizzazione del dramma migranti

La simultaneità delle due crisi migratorie, nel Mediterraneo e nel Sud Est asiatico, dimostra che il fenomeno è globale e soprattutto che le reti di nuovi trafficanti di esseri umani rendono come vere multinazionali. Famiglie devastate a bordo di imbarcazioni in balia di scafisti senza scrupoli,

frontiere che si chiudono alla stessa velocità alla quale cresce l’intolleranza, Governi imbarazzati per i morti per annegamento davanti alla loro porta di casa. Non è il quadro della “nostra” crisi, quella che ogni giorno ci fornisce drammatici bollettini dalle acque del Mediterraneo, ma si tratta di un’altra tragedia di

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Asia e Mediterraneo, la globalizzazione del dramma migranti

boat people, quella dei migranti dell’Asia e soprattutto dei rifugiati Rohingyas di Birmania, che fuggono le persecuzioni e dei quali nessuno vuol sapere. La simultaneità delle due crisi, quella del Mediterraneo e quella che vive il Sud Est Asiatico, mostrano quanto il fenomeno sia paragonabile ad una vera “internazionale” che coinvolge tanto i Paesi del “Sud” del Mondo che quelli cosiddetti del “Nord” e che le reti di trafficanti d’uomini sono vere e proprie multina-zionali, con una giro d’affari che si conta in miliardi di dollari e nelle quali gli scafisti vengono considerati gentaglia pronta ad immolarsi per i grandi capi che agiscono impunemente riuscendo a commettere qualsiasi tipo di sopruso. Da noi, come in quei mari lontani si è visto che le soluzioni non possono essere semplicemente militari, né esclusivamente nazionali. La sorte dei Rohingyas ricorda anche che l’odio può materializzarsi ovunque, anche nelle vesti di un monaco buddista birmano, che porta avanti la campagna xenofoba contro questa minoranza musulmana che viene a volte sopran-nominata “i Rom di Estremo Oriente”. In Birmania, i Rohingyas non possono accedere all’istruzione, agli ospedali, al mercato del lavoro e vengono privati delle cittadinanza, sottomessi a discriminazioni e vessazioni continue, spingendo migliaia di loro alla fuga e all’esilio. Tutto questo nell’indifferenza generale, compresa quella del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, il cui silenzio è diventato di piombo in questa transizione “democratica”. Qualcuno spiega questo comportamento per l’avvicinarsi delle elezioni politiche, previste per la fine del 2015, e il tentativo di gestire con molta cura i rapporti con l’opinione pubblica birmana pervasa da una potente corrente nazionalista buddista e anti musulmana. Il capo spirituale tibetano in esilio dal 2008 le ha chiesto di prendere la parola su questo drammatico caso, precisando di averla già pregata personalmente due volte di agire in modo incisivo da quando le violenze omicide antimusulmane sono riprese nel 2012. La risposta di Aung San Suu Kyi è stata sempre la stessa: “le cose non sono semplici e per me è molto difficile affrontare questo

problema”. Parole che stridono dette da una donna che ha fatto del coraggio lo stendardo della sua vita. Con tutti i suoi limiti, il parallelismo tra le due crisi colpisce anche la reazione collettiva dei Paesi della Regione. Laddove l’Europa appare disorientata e ha perso una grande occasione per mostrarsi esemplare agli occhi dei suo cittadini disincantati, il Sud Est asiatico non appare per niente più coerente. Si è dovuto arrivare alla scoperta delle fosse comuni straripanti di uomini, donne e bambini morti in cattività sul territorio tailandese e le immagini di imbarcazioni affollate di fantasmi perché i Governi finalmente si muovessero. I Paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud Est asiatico (Asean) hanno appena tenuto una riunione d’urgenza a Bangkok, ma, al di là delle belle parole, la cosa più sconvolgente è che la parola “rohingya” non è apparsa neanche nel comunicato finale, per non mettere in imbarazzo la Birmania, la cui politica di esclusione è tuttavia all’origine della crisi… E se le marine nazionali hanno cominciato a salvare i migranti naufraghi, non si sa che cosa ne sarà di loro. In Asia come nel Mediterraneo - e potremmo inserire la frontiera tra Stati Uniti e Messico, la situazione degli “stranieri africani” in Sudafrica, dove c’è appena stato un ritorno di fiamma xenofobo - nulla dissuade un giovane, uomo o donna che sia, di partire alla ricerca di una vita più fortunata. Né i muri che nascono come funghi lungo le frontiere, né il rischio della morte lungo una strada sconosciuta e piena di insidie nascoste, fermano la ricerca di un altrove migliore, spesso miticizzato. Quanta disillusione in quegli occhi davanti alla realtà. In questo Mondo dalla governance deficitaria, dove le Nazioni Unite sono sempre più imbrigliate e impotenti, non sembra esistere alcun luogo per la gestione collettiva di tali sfide. Cosa ancora più triste, nessuno può assicurare a un Rohingya o a un Eritreo sottomesso che può sperare in un futuro migliore rimanendo a casa sua. Nell’attesa, la marea di boat people continua a tentare la fortuna altrove. 15 giugno 2015

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MARGINALIA

di Antonio Casu

L’eclisse della borghesia e il futuro della democrazia

La nuova fase del terrorismo internazionale determina diffusa incertezza nell'opinione pubblica, e preoccupazioni sul futuro della democrazia. Alcuni ritengono che il futuro della democrazia sarà conseguenza del complesso di interventi necessari per fronteggiare la minaccia. Ma è la lettura giusta? Proviamo a seguire un itinerario diverso. All'origine della sua affermazione politica, la borghesia era l'espressione dei nuovi ceti sociali produttivi che rivendicavano maggiori spazi di libertà per le loro iniziative economiche. La rivendicazione sul piano economico era accompagnata da una corrispondente rivendicazione di rappresentanza sul piano politico e giuridico, che garantisse adeguata tutela ai nuovi diritti. La borghesia si afferma dunque su due pilastri inscindibili: un sistema economico basato sulla libertà di iniziativa economica e sull'innovazione: il capitalismo; e un sistema politico fondato sulla divisione dei poteri, la tutela dei diritti e la rappresentanza degli interessi: la democrazia. Cambiano così i fondamenti di legittimità del potere, con la sostituzione del diritto divino e dinastico con un fondamento pattizio, secolarizzato, in ultima analisi con il consenso. Il monopolio della forza viene consegnato in via esclusiva ad un nuovo soggetto pubblico, lo Stato, nel quale gli antichi detentori della forza hanno dovuto condividere questo temibile strumento con i nuovi attori della società e della politica. Per raggiungere questo risultato, e in seguito per consolidarlo, la borghesia è stata capace di rendersi interprete degli interessi e delle aspettative del maggior numero possibile di persone, e soprattutto di quelle che producevano ricchezza. La borghesia, in definitiva, è diventata egemone quando è riuscita ad imporsi come classe generale, come interprete delle istanze dei più. In questo cammino, ha necessariamente contrapposto un modello decentrato e capillarizzato al modello accentrato e verticistico proprio del modello aristocratico, dell'ancien régime. Interprete dei bisogni e delle speranze della maggior parte della popolazione, la borghesia ha gradualmente espanso la sua influenza, la sua capacità di penetrazione sociale ed economica, finendo per imporre il suo sistema di valori. Il punto più

alto dell'espansione del modello di organizzazione sociale della borghesia è stato, nel secondo dopoguerra, lo Stato sociale, che non solo perseguiva, ma anche teorizzava, un equilibrio tra libertà e benessere che era oggettivamente fondato sulla tutela e il consolidamento della borghesia e dei ceti medi produttivi. Ma due fenomeni di portata epocale hanno interrotto questo processo. Il primo è la fine della Guerra fredda, dovuta all’implosione del modello sovietico. Una delle conseguenze è stata la graduale perdita di interesse strategico a devolvere ingenti stanziamenti per sostenere un modello sociale sufficientemente attrattivo per ceti medi e classe operaia dell’Ovest. Questi fondi, in sostanza, hanno preso un’altra direzione. Il secondo è l’avvento della globalizzazione, nella quale la concorrenza di sistemi non fondati sui diritti politici e sociali ha messo in seria crisi il modello sociale europeo ed occidentale, costringendolo a ristrutturarsi, anche a costo della riduzione delle tutele della classe media, il cui tenore di vita si è contratto progressivamente. La conduzione politica di questa difficile transizione, dagli esiti incerti, ha riproposto un modello più accentrato rispetto a quello precedente. Ma con l’assottigliamento della borghesia, con l’affievolimento della sua influenza economica e culturale, la ricchezza si va concentrando sempre più, e per giunta all’interno di fasce sociali sempre più ristrette. La teoria della separazione dei poteri cede il passo ad una nuova versione del principio dell’unità del potere, non più politico-ideologico, come al tempo del diritto sovietico, ma tecnocratico. Il principio del consenso è ritenuto da molti un problema più che un presupposto. Il complesso dei valori universalistici della borghesia, mutuati dalla tradizione cristiana, sembra dissolversi di fronte ad una nuova ideologia, i cui chierici non indossano più né l’abito talare né il berretto frigio, ma un discreto abito grigio. Così stando le cose, le analisi sul futuro della democrazia sembrano doversi orientare su differenti percorsi di riflessione.

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(5 - continua)


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FRAMMENTI di una umanità offesa

Lo scenario della società tecnologicamente avanzata ridonda di promesse che non sempre hanno dato, e continuano a non dare, i frutti sperati. Tra quelli che maggiormente alimentano le attese dei più ottimistici fedeli del dio del benessere e della conseguente eliminazione della povertà primeggia la convinzione che c’è un tempo dell’ avvento della società dell’opulenza grazie al propulsore della ricerca scientifica che, nel dominare la natura, spazza via dal mondo la miseria e i mali naturali e fisici e, perché no, anche quelli morali. La vecchia malattia del positivismo stenta a morire. Del resto essi argomentano: l’avanzata della scienza è ricchezza di conoscenza, esplorazione dell’agire umano e dominio degli impulsi primordiali, anelito del regno della ragione. Progresso è razionalità e razionalità è ragionevolezza, fondamento dell’agire morale. La configurazione di questo modo di essere è possesso di sé e apertura verso l’altro; del resto la società trova il suo fondamento nell’aprirsi ed espandersi di sé relazionandosi col mondo. Un possesso che nel processo di esplicitazione della propria sostanza creatrice necessita dell’«altro», per sostanziarsi di crescita, di progettualità e di produttività onde superare quella tentazione di autoriproduzione sterile che rigetta nell’inesistenza il volto e l’animo del proprio compagno di viaggio. E così facendo smista il proprio destino nelle sembianze di un solerte donatore di sé producendo il relais della interrelazione amicale. Così il viaggio è dono, concessione di un bene edificante che rigetta il male e i suoi derivati comportamentali oltre il muro della diffidenza e semina pacificazione assorbendo l’humus della gioia che è frutto della correlazione del dare e del ricevere, dono di una ascesa verso la vetta della felicità, conquista di una sommità posta a capo di un percorso scosceso reso lieve da un cammino di fratellanza e di reciproco sostegno. Ma la mappa dell’esistenza è costellazione di luce e ombra che rende critico il percorso del progetto utopico di un abbraccio universale; e il viaggio incontra ostacoli che la natura umana dissemina facendo spazio ad impulsi irrefrenabili, terreno di pessima semina che al grano della sapienza contrappone il loglio dell’irrazionale: all’amore del bene affianca, e a volte contrappone, il male. Non tutti i viaggi sono governati da compagni operosi di fratellanza e di pietas: o perché, prigionieri della notte, amano le tenebre, la dissolvenza del volto amico, o perché, guidati dalla contingenza degli eventi, seguono il richiamo dell’amor sui privando il

di Angelo G. Sabatini

proprio simile del conforto di una parola negandogli persino il diritto di far parte di un mondo migliore. Il nemico della societas è la diffidenza, madre del sonno della ragione, principio della distinzione come opposizione, quindi focolaio della violenza che nessun calcolo scientifico riesce a riassorbire nell’unità degli intenti progettuali. Il collante del viaggiare per sintonia si scioglie nel fuoco della differenza, nella forza dominante del distacco e dell’indifferenza verso la richiesta di un soccorso che viene dalla sofferenza dell’altro. Il viaggio si fa ostile, nega il diritto dell’altro e rafforza il proprio sconfinando nella violenza e negando la pacificazione a favore di un conflitto che travolge tutti in una guerra di dominio nel cui ingranaggio il progresso si impoverisce e si fa alimento di odio, di sguardo nebuloso, di ira e di desiderio di devastazione. Al desiderio della pace subentra lo spirito della guerra. Si dimentica che gli altri siamo noi, negati in noi per essere rigenerati alla vita della fraternità nel nome di una accoglienza che toglie all’altro il vestito dello straniero per assumere quello dell’ospite assiso al desco del padrone di casa. Sulla consumazione del cibo aleggia lo spirito del dono e il vento della riconoscenza: la povertà, che domina l’altro nella diversità e lo destina alla “peggiore forma della violenza” (Gandhi), evapora nel saluto conciliatore dell’ospitalità che si dona del diritto di ricevere attenzione e benefici avanzando la motivazione dello straniero che, come sentenzia Immanuel Kant “arrivando sul territorio altrui avanza il diritto di non essere trattato ostilmente“. Questo diritto avanza ancor più la sua affermazione allorché i tempi, quelli che noi viviamo, sono segnati da guerre, conflitti etnici e violenze, la cui identità richiede l’attuazione di quei diritti fondamentali che proteggono non solo la vita di ogni essere umano, togliendolo dalla furia dei massacri etnici e dalla violenza razziale, ma non rimane insensibile di fronte allo sguardo nutrito di mistero di quei ragazzi e ragazze del continente africano dominati dalla povertà e dalla violenza di guerrieri indifferenti al richiamo del rispetto dei principi fondamentali della Convenzione sui diritti dell’ infanzia e dell’adolescenza, sancita dall’ONU, violentando i bambini inviandoli in guerra e le bambine con lo sfruttamento sessuale. Un frammento di umanità offesa di fronte a cui la società è ricca di riflessioni e promesse di trasformazioni limitandosi a legiferare in attesa che il divario tra ricchezza e povertà, tra intervento umanitario e violenza, si annulli in una pacificazione del mondo.

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MINIMA MORALIA

Donato A. Limone

Semplificazione amministrativa e cittadinanza digitale LA ROTTAMAZIONE DELLE MACCHINE BUROCRATICHE

Il Governo ha la responsabilità politica, istituzionale, sociale ed economica di avere avviato una riforma e di realizzarla con decreti legislativi sensati La riforma della Pubblica Amministrazione (legge 124/2015) ha come finalità principale la “riorganizzazione”. Riorganizzare significa intervenire sulla situazione attuale per fare cosa: un tagliando o la rottamazione delle “macchine burocratiche”?

1. Tagliando o rottamazione? Il tagliando sarebbe inutile perché le“macchine” sono datate (vetuste; più di 30 anni). Allora, resta la “rottamazione”. I modelli organizzativi attuali non hanno supportato le riforme degli anni ’90: non sono mai stati “progettati” e realizzati modelli nuovi ed innovativi e sostanzialmente (sotto terminologie ap-parentemente moderne) le “macchine” vivono di modelli degli anni ‘70/80. La delega deve essere esercitata verso la rottamazione: il cambio di passo deve essere forte e significativo. L’ostacolo principale? Il consolidato esistere delle amministrazioni nei loro tempi, modi, riti, regole.

2. Riformare: come? Il Governo ha la responsabilità politica, istituzionale, sociale ed economica di avere avviato una riforma e quindi di realizzarla attraverso lo strumento di decreti legislativi“sensati”: ha una delega forte e non può (e non deve) sbagliare. Grande responsabilità, alto rischio. Come procedere? Ci permettiamo di

dare qualche suggerimento. Ripartendo da dove ci eravamo lasciati: dal Rapporto Giannini (1979). Con due accorgimenti precisi e chiari: a) adottando il criterio “elementare” (semplice, per questo difficile) della sequenzialità degli interventi (non puoi passare allo step successivo se non hai sistemato le cose dello step precedente!); b) usare lo strumento legislativo/normativo abbandonando la tecnica del legiferare per “toppe”.

3. La progressione logica degli interventi Le nostre macchine burocratiche sono complesse, complicate, costose, piene di adempimenti inutili, regolate per funzionare apparentemente. Il punto di forza di una moderna riforma (lo prevede infatti la legge di riforma, ma era stabilito da 25 anni) è l’applicazione del principio della semplificazione amministrativa e delle regole. Non si può pensare che con la semplice introduzione di un codice dell’amministrazione digitale (2005) in organizzazioni non rivisitate (dal 1980) si razionalizzino strutture, servizi e comportamenti amministrativi in modalità spontanea. Se non si procede ad una radicale semplificazione delle procedure, dei processi, dei procedimenti, della documentazione, della modulistica, della modalità di presentare istanze e richiedere servizi e della erogazione degli stessi, tutto il resto si ferma ai principi e alle norme. In questi 25 anni (dalla legge 241/90, legge di semplificazione dei rapporti tra buro-

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Semplificazione amministrativa e cittadinanza digitale

crazia e cittadino) chi ha semplificato veramente e quanto? La risposta (con onestà istituzionale, intellettuale e scientifica) è: quasi nessuna delle amministrazioni e poco! Prima si semplifica e poi si digitalizza (art. 15 del CAD): se questa sequenza salta, salta la riforma e l’ammodernamento dell’amministrazione. Non ci sono altre strade; non ci sono soluzioni di mezzo, provvisorie, miste.

4. La tecnica di normazione: abbandono della legislazione per “strati” normativi E’ necessario abbandonare un metodo di normazione caro ad una certa scuola politico-amministrativa: la normazione per strati (detto brutalmente: per … toppe). Le toppe normative che vengono montate e rimontate nel tempo facendo saltare il valore funzionale di una norma, per es. della legge 241/90 (diventata un colabrodo) o come il Codice dei contratti pubblici (ma l’elenco delle leggi modificate, integrate, rattoppate è lunghissimo). La normazione per toppe non porta a riforme vere ma a complicazioni che costano al contribuente senza effetti positivi. Il Governo ha l’occasione di delegificare in modo intelligente (smontare e ripulire norme principali di riferimento riportandole alla situazione originaria: legiferare per “principi” e definire con strumenti normativi agili le regole organizzative e tecniche).

5. Il centro di gravità permanente: il cittadino Una riforma vera e concreta non può partire dallo Stato inteso come una entità a se stante contrapposta al cittadino; né può funzionare nella logica di una amministrazione che si parla e riparla addosso. Il centro della riforma (di ogni riforma) è il cittadino: il soggetto che legittima l’esistenza stessa della burocrazia oltre che dello stato. E allora la riforma ha lo scopo primario di semplificare i rapporti tra cittadino e burocrazia, di creare un’amministrazione digitalizzata ed accessibile che opera nella società dell’informazione, di contribuire ad attuare l’art. 3 della nostra Costituzione. La riforma delle macchine burocratiche acquista allora un senso, una direzione, una nuova dimensione. Chi scriverà i decreti legislativi dovrà tenere conto di questo paradigma istituzionale, politico e sociale. In questo contesto perché non stabilire il metodo della consultazione telematica non tanto e non solo sui testi dei decreti legislativi scritti (le bozze) ma prima ancora sullo schema dei decreti: cosa si vuole normare e come? Comprenderemo tutti le logiche normative sottostanti: la riforma e la delega non è questione che interessa soltanto il Parlamento ed il Governo.

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Donato A. Limone

CAMPANIA FELIX! LA REGIONE IN UN CLICK, C’È LA LEGGE

Sul Bollettino Ufficiale regionale della Regione Campania n. 60 del 14 ottobre 2015 è stata pubblicata la legge regionale n.11/2015 “Misure urgenti per semplificare, razionalizzare e rendere più efficiente l’apparato amministrativo, migliorare i servizi ai cittadini e favorire l’attività di impresa. Legge annuale di semplificazione 2015”. Il titolo è “classico” i contenuti sono innovativi con una portata “storica” che permette ai decisori politici, alla dirigenza pubblica, ai cittadini, alle imprese di operare in una rete di rapporti nuova, tutta da sperimentare, impegnativa ma con una forte incidenza sul sistema istituzionale, socioeconomico, amministrativo. Non ci occuperemo delle disposizioni della legge in materia di semplificazione normativa che pure presentano aspetti rilevanti. Prenderemo in considerazione invece le norme relative all’amministrazione digitale, ad un nuovo modello di organizzazione pubblica, ai servizi in rete. La finalità di questa legge (art. 1) è quella di promuovere la semplificazione normativa e amministrativa, razionalizzando i procedimenti e le azioni di competenza della Regione Campania e rendendo più semplice e diretto il rapporto tra amministrazione, cittadino, impresa. 1. La Regione intesa come una rete di enti che operano in rete La prima considerazione è che questa legge si applica a tutto il sistema amministrativo regionale: Regione ed enti dipendenti dalla stessa; enti del servizio sanitario regionale; enti locali per le funzioni amministrative conferite dalla Regione; enti, consorzi, società comunque denominati e sottoposti a vigilanza e controllo della Regione. Tutto questo sistema dovrà applicare questa legge e avviare concretamente i processi di semplificazione e

digitalizzazione (art.15 del Codice dell’ Amministrazione Digitale). E’ un impegno molto forte per tutto il sistema pubblico regionale: è anche una scommessa politica. Tutti sono chiamati a scommettere! Politici, amministratori, cittadini, imprese.

2. Campania felix digitale La legge regionale (art. 2, comma 2) precisa come procedere ad integrare i processi di semplificazione e digitalizzazione con una serie di interventi tra loro fortemente correlati:

I siti web per informare ed erogare servizi “a) Rendere i siti web sempre più trasparenti, accessibili, utilizzabili sia per la fruizione delle informazioni (cosiddetta open data) sia per la erogazione dei servizi nel rispetto di quanto stabilito dal decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni) e dall’articolo 50 del decreto legislativo 82/2005”. In questa legge i siti web non sono considerati semplici “contenitori” di dati ma soprattutto strumento di accesso telematico e “civico” ai dati e documenti di interesse generale e ai servizi in rete; rispetto al sistema in rete delle amministrazioni pubbliche regionale ciò significa che da qualsiasi punto della rete regionale sarà possibile accedere tramite i siti di tutte le amministrazioni a tutti i servizi di tutti i livelli istituzionali. Istanze digitali valide “b) Permettere a cittadini ed imprese la presentazione di dichiarazioni ed istanze digitali ai sensi degli articoli 64 e 65 del decreto legislativo 82/2005”: che significa permettere la creazione di una amministrazione che opera in rete e non costringe i cittadini a recarsi di persona

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Semplificazione amministrativa e cittadinanza digitale

presso gli uffici pubblici per le proprie richieste superando la dicotomia (nella società dell’informazione) per cui i privati operano in rete (eCommerce; banda digitale; assicurazioni in rete; turismo digitale; ecc.) e le pubbliche amministrazioni operano con modelli operativi ed amministrativi degli anni 70.

Condivisione dei dati c) Assicurare l’accesso alle banche dati di interesse pubblico per lo scambio di dati e per la verifica di dati e documenti; condivisione dei dati per la verifica dei dati e dei documenti (applicazione reale e concreta del Dpr 445/2000).

Eliminazione di ridondanze d) eliminare ridondanze di dati, documenti, processi, modulistica al fine di ridurre sensibilmente gli oneri amministrativi diretti ed indiretti; le ridondanze costano a livello nazionale 20 miliardi di euro; le ridondanze comportano una responsabilità erariale che interessa la dirigenza pubblica che opera con il sistema misto digitale/analogico con costi come quelli prima citati.

Il repertorio informatico dei procedimenti “e) costituire il repertorio informatico completo dei procedimenti amministrativi regionali, che è̀ pubblicato sul sito dell’amministrazione, con la indicazione certa della denominazione, dell’ iter, dei tempi, dei responsabili, delle istanze, delle norme di riferimento”.

Monitoraggio continuo dei processi e dei bisogni di semplificazione amministrativa “f) monitorare sistematicamente nel tempo i bisogni di semplificazione amministrativa”: questa funzione spesso manca nell’azione amministrativa e nella governance ma è una funzione fondamentale e necessaria.

3. La Regione in un click e la Carta della cittadinanza digitale campana L’art. 12 della legge definisce un programma concreto per attuare la stessa legge: 1. La Regione in un click: accessibilità telematica e totale alle informazioni, ai dati, ai documenti pubblici 2. L’accessibilità diretta alla normativa vigente per supportare i procedimenti amministrativi 3. Adozione della Carta della cittadinanza digitale campana (anticipazione della Carta come indicata all’art. 1 della legge 124/2015, Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche). 4. Attivazione nel portale della Regione della sezione “Come fare per” al fine di attivare i procedimenti in modalità digitale e semplificata. 5. Individuazione dei responsabili dei processi di semplificazione e digitalizzazione.

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UOMINI E IDEE

Fabio Grassi Orsini

I socialisti democratici italiani e il centro-sinistra

E’ recentemente uscito un libro di Michele Donno, I socialisti democratici italiani e il centro-sinistra. Dall'incontro di Pralognan alla riunificazione con il PSI (1956-1968), (pp. 238, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014). Il merito del giovane docente dell’Università di Bari è quello di aver coltivato un filone di studi quasi del tutto trascurato dalla storiografia, ovvero quello che riguarda le vicende del Partito socialista democratico italiano alle quali lo studioso ha dedicato, prima di questo, numerosi saggi ed alcune importanti monografie (fra le quali: Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1952), Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 542; Italia e Francia: una pace difficile. L’ambasciatore Giuseppe Saragat e la diplomazia internazionale (19451946), Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2011, pp. 201). Questa lacuna, nei riguardi della storia di un cosiddetto partito minore, è stata di frequente motivata con l’irrilevanza di questo partito e del suo stesso leader, Giuseppe Saragat, nella vicenda politica italiana del secondo dopoguerra. Saragat, invece, è stato un influente protagonista della Resistenza, della fondazione della Repubblica (alla Costituente Saragat ricoprì il delicato incarico di Presidente dell’Assemblea) ed ebbe importanti incarichi diplomatici (ambasciatore a Parigi), di governo (ministro degli Esteri e poi Presidente della Repubblica) e di partito. Sotto la sua guida, il PSDI ebbe, infatti, un ruolo non indifferente, prima, nel consolidare la svolta centrista, fornendo nel 1948 i voti necessari a rendere più confortevole la maggioranza degasperiana, resa possibile dai voti del PLI. Nella fase del centrismo, il partito saragatiano condizionò a sinistra la DC, ma si oppose con successo al PCI, favorì

a partire dal 1956 l’evoluzione autonomista del PSI ed infine fornì un valido ancoraggio alla politica atlantica ed europeista dei governi di coalizione centrista, controbilanciando le spinte neutraliste della sinistra democristiana. Ma, facendo questo, accentuò la rivalità con i liberali, che finì per determinare la crisi della coalizione. A quel punto il PSDI divenne un “partito cerniera”, che ebbe una parte decisiva nel facilitare l’operazione dell’apertura a sinistra e della formazione del governo di centrosinistra organico presieduto da Aldo Moro (il quale ha insieme a Saragat e Nenni un posto centrale non solo nella storia di questa formula di governo ma anche, logicamente, nella narrazione in cui Donno non poteva non privilegiare il punto di vista del leader socialista democratico). Nel libro di cui si parla, le figure di Saragat e Tremelloni assumono una posizione di giusto rilievo nei rapporti con Nenni, da una parte, e con Moro, dall’altra. Questo processo ebbe una lunga incubazione, a partire dal 1956, dopo i fatti d’Ungheria, quando era oramai evidente il declino del centrismo e si stava parallelamente operando il distacco del PSI dal PCI, quest’ultimo costretto ad affrontare la crisi aperta dal manifesto dei 101, che non ebbe tuttavia grandi conseguenze sul piano della forza elettorale ma che dava ragione alla polemica anticomunista del PSDI. La strada dell’ingresso del PSI nel governo, tuttavia, fu lunga ed accidentata e le aspettative aperte dall’incontro di Pralognan poterono realizzarsi solo molti anni dopo. È in questa fase che Saragat fornì un appoggio a Nenni, il quale era impegnato nel difficile compito di ottenere il consenso del suo partito alla

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I socialisti democratici italiani e il centro-sinistra

svolta autonomista e ad entrare, prima, nell’area di governo con il IV governo Fanfani. Di questo governo (come dei successivi), che ottenne l’appoggio esterno del PSI, faceva parte Tremelloni, in qualità di ministro del Tesoro, il quale fu, insieme con Saragat e Moro, artefice della formazione del primo esecutivo di centro-sinistra organico: esecutivo che fu, dopo un’iniziale incertezza, duramente avversato dal PCI. I comunisti si opposero alla “svolta a sinistra”, commettendo un errore, che li avrebbe condannati all’isolamento, anche se permise loro di detenere il monopolio dell’opposizione: una posizione difficile, ma in fondo comoda, sino al fugace esperimento del compromesso storico e della solidarietà nazionale. Una delle novità del libro di Donno è senz’altro l’approfondimento sulla figura di Tremelloni. Si tratta di un uomo “di frontiera”, perché seppe conciliare nella sua politica di governo la difesa dell’economia di mercato e dell’iniziativa privata di ispirazione einaudiana ed il riformismo aperto nei confronti di ipotesi di programmazione. Egli aveva aderito al PSU di Matteotti e Turati e, durante l’esilio svizzero, aveva approfondito i suoi studi di economia che lo avrebbero in seguito portato alla fondazione del Ciriec, un ente di ricerca specializzato nello studio della congiuntura economica. Nel Ciriec sono custodite le carte della lunga attività politica ed intellettuale di Tremelloni, e Donno, avendole consultate, offre molti spunti al chiarimento delle posizioni dell’esponente socialista democratico, in qualche caso più avanzate rispetto alla piattaforma programmatica del PSDI. Tremelloni era confluito nel PSIUP, da cui era uscito, seguendo Saragat al momento della scissione di palazzo Barberini. Fu ministro delle Finanze nel gabinetto Scelba, ma sono i provvedimenti di carattere fiscale, da lui presi nei governi Moro, a presentare notevole importanza opportunamente valorizzata

da Donno. Infatti, insieme a quelli di Vanoni, molti provvedimenti di Tremelloni avrebbero costituito i fondamenti del sistema tributario della prima Repubblica. Non ci si può meravigliare di questa dimenticanza, perché la storiografia prevalente ha privilegiato la storia dei grandi partiti, sacrificando (con le dovute eccezioni) la storia dei piccoli partiti ed in particolare dei liberali e dei socialdemocratici. La storiografia registrò spesso acriticamente la propaganda del PCI e il partito di Togliatti prese come suo primo bersaglio i “piselli” (come furono definiti i saragatiani), bollati come partito di destra, antioperaio e al soldo degli americani. In realtà il PSDI aveva nel suo dna l’anticomunismo ed era stato, sin dalla sua fondazione, intransigentemente filoatlantico ed europeista, in questo distinguendosi dal neutralismo socialista e dall’esitante ed ambigua posizione della stessa sinistra democristiana. Il PSDI non aveva condiviso i progetti di economia pianificata avanzati dai comunisti né le riforme di struttura patrocinate dalla sinistra socialista di Lombardi, ma si era battuto per la programmazione che, nella fase centrista, fu avversata dai liberali, timorosi di una deriva statalista. Già il IV governo Fanfani, con l’appoggio esterno dei socialisti, realizzò alcune riforme, che furono avversate dai liberali, quali la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la riforma delle pensioni e la costituzione di una commissione per la programmazione, provvedimenti che portavano la firma di Tremelloni. Spettò a Tremelloni il compito di condurre per conto del PSDI le trattative per la parte economica del programma del governo Moro. Nel corso di questo negoziato, si realizzò un’intesa con Antonio Giolitti sul “Progetto di programmazione economica” e si trovò un accordo sulle proposte del ministro socialista democratico riguardanti la lotta all’evasione (e la necessità di aumentare gli

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Fabio Grassi Orsini

stanziamenti di bilancio per rendere più efficace l’accertamento), la riduzione delle esenzioni, l’introduzione di una cedolare secca sui titoli azionari ed una riforma democratica delle società per azioni. Strategia di politica economica, che avrebbe riscosso l’aperta approvazione statunitense, espressa dalle parole del sottosegretario americano al Tesoro, Robert Roosa, in un’intervista a “L’Espresso” del marzo 1964: «Noi siamo stati assai favorevolmente impressionati nel vedere che di fronte a forti perdite nella bilancia dei pagamenti l’Italia non è ritornata sui suoi passi sospendendo la riduzione dei dazi doganali ed imponendo altre limitazioni ai più liberi scambi introdotti dal Mercato comune, ma ha invece cercato di mettere a disposizione degli esportatori maggiori beni per i mercati stranieri ed ha cercato i capitali sia per finanziare questo aumento nelle esportazioni che per intensificare gli investimenti nelle aziende allo scopo di elevare la produttività del lavoro. Quel che l’Italia è in grado di ottenere in questo momento senza abbandonare il principio di sempre più liberi scambi è importante non soltanto per il benessere collettivo delle nazioni libere e per la parte che l’Italia ha fra di esse, ma anche per l’esempio che essa dà agli altri paesi nell’affrontare e risolvere problemi che prima o poi anch’essi dovranno affrontare. Questo è una specie di secondo “Einaudi round”, il secondo esempio di come sagge misure prese tempestivamente possono produrre senza gravi crisi quegli adattamenti che sono richiesti dai problemi creati in periodi di rapido sviluppo industriale» (pp. 112113). E niente più di questa approvazione americana poteva evidenziare il forte rapporto di “filiazione” intellettuale e politica di Tremelloni dal suo maestro Einaudi. Per quanto riguardava la parte politica, si realizzò un consenso tra DC, PRI e PSDI, da una parte, ed il PSI, dall’altra, sulla chiusura della maggioranza nei

riguardi del PCI. Di grande interesse sono i capitoli dedicati al funzionamento del centro-sinistra e alle ragioni dell’ esaurimento della sua azione riformatrice ed infine l’esame delle iniziative che Saragat, come capo della diplomazia, prese nel campo della politica estera: si pensi, ad esempio, alla proposta di un piano per l’unificazione politica europea. Ma, evidentemente, quando il leader socialista democratico passò dalla Farnesina al Quirinale, anche il PSDI vide appannarsi la sua immagine ed anche il suo peso. Lo avrebbe sottolineato lo stesso Tremelloni, oramai lontano dal governo. Dopo l’ascesa al Colle di Saragat ed il fallimento dell’ unificazione socialista, nel PSDI prevalsero – come scrisse Tremelloni – «i capi locali dei gruppetti formatisi nell’apparato, piccoli uomini attaccati ai posti e agli intrighi. E, infatti, cominciò il degrado del partito che progressivamente, negli anni Settanta e Ottanta perdette voti, allontanò i migliori, si preoccupò solo delle lottizzazioni» (pp.183-184). In un appunto scritto dopo l’ascesa di Craxi alla segreteria del PSI – ritrovato da Michele Donno nelle carte del Ciriec – Tremelloni si domandava perché Saragat rimanesse in quel «baraccone», qual era divenuto il PSDI, destinato all’esaurimento una volta che il PSI aveva oramai imboccato la via riformista. Il PSDI sopravviverà fin quando non verrà travolto, con tutti gli altri partiti del pentapartito, dal ciclone di “Mani Pulite”. Sono consapevole di aver trattato solo poche questioni relative alla storia dei socialdemocratici italiani. Il libro di Donno ne affronta molte altre: ad esempio ricostruisce puntualmente il ruolo del PSDI all’interno dell’evoluzione del sistema politico italiano e soprattutto all’interno del centro-sinistra, rappresentandone la componente riformista, mitigandone le fughe in avanti dei socialisti e controbilanciando le resistenze della Destra democristiana e, tuttavia, non riuscendo ad evitare il

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fallimento di questa esperienza di coalizione. Di grande interesse, poi, per i cultori della politica estera risulta in particolare il terzo capitolo “Dal mondo bipolare al policentrismo”, in cui si ricostruisce il ruolo di Saragat come ministro degli Esteri (che completa il discorso su Saragat “diplomatico”). Non si può non sottolineare l’innegabile capacità di tenere insieme politica interna e politica estera, che non sempre riesce agli storici, i quali rimangono spesso prigionieri delle loro specialità.

Per questa ragione il libro di Michele Donno è un libro utile, direi necessario, non tanto per comprendere le vicende di un piccolo partito, di cui riesce a riscattare l’immagine fortemente negativa che ne ha dato la storiografia prevalente, attenta quasi esclusivamente alla storia dei partiti di massa, ma soprattutto perché viene dato un contributo importante ai fini della ricostruzione degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, un’età che si aprì con tante speranze e si chiuse con altrettante delusioni.

Domenico Amicucci

Il mondo cattolico nella Resistenza

Il 14 marzo 2015 è stato presentato al teatro Talia di Tagliacozzo (AQ), con la partecipazione di Franco Marini, presidente emerito del Senato, il volume del giornalista Angelo Paoluzzi, dal titolo “La croce, il fascio e la svastica”, la Resistenza cristiana alle dittature, edito Estemporanee. L’incontro è stato moderato dal professor Franco Salvatori, e i relatori sono stati il professor Domenico Amicucci e il giornalista Pierluigi Natalia. All’appuntamento numerosi studenti dell'Istituto tecnico economico per il Turismo e della Scuola secondaria di Tagliacozzo ai quali Domenico Amicucci ha voluto rivolgere la seguente esortazione: «Non posso fare a meno d'invitare gli studenti presenti a studiare, con serietà ed impegno, gli avvenimenti storici dai quali è scaturita l'edificazione della nostra democrazia repubblicana. E proprio quest' anno, ricorrendo il settantesimo anniversario della Liberazione, vorrei che gli alunni ed i docenti dell'Istituto "Andrea Argoli" riprendessero la consuetudine, dopo aver letto in classe l'interessante libro di Gaetano Blasetti "I 270 giorni dell'occupazione tedesca di Tagliacozzo", di rendere omaggio, in Via Oriente, alla memoria dei fratelli Mario e Bruno Durante, nativi di Balsorano, e dei due giovani di Palestrina Luigi Consoli e Luigi Del Monaco, vittime della barbarie nazista nella nostra contrada».

Desidero subito sottolineare che questa opera di Angelo Paoluzi si segnala, anzitutto, per l'originalità e la peculiarità con cui viene analizzata la Resistenza cristiana alle dittature fascista e nazista. L'autore puntualizza, all'inizio del suo lavoro, che esso non deve essere considerato un saggio storiografico, ma una cronaca di persone ed avvenimenti situati nel periodo in cui dominarono il fascismo ed il nazismo. La pubblicazione di Angelo Paoluzi contiene non solo una mole notevole di informazioni e di documenti, frutto di una seria e scrupolosa attività di ricerca, ma anche delle acute riflessioni che denotano la sua profonda conoscenza, sia del movimento cattolico italiano, nelle diverse componenti ed organizzazioni,

sia di quello cattolico e protestante tedesco, la cui complessa fisionomia egli riesce a rappresentare, in modo perspicuo ed efficace, grazie alla sicura padronanza della lingua, della storia e della cultura germaniche. E proprio per la Germania ed indirettamente per l'Europa e per il mondo - rileva Angelo Paoluzi - il nazionalsocialismo è stato una sciagura culturale, oltre che politica e spirituale, di cui evidenzia dettagliatamente tutte le nefaste conseguenze. Osserva, inoltre, che l'opposizione alla dittatura in quel Paese, risultando priva di un apparente appoggio popolare, di legittimità di opposizione nazionale contro un invasore straniero, nonché di aiuti esterni, si rivelò un "dono" per l'avve-

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Domenico Amicucci

nire della Germania, in considerazione del fatto che si trattava di una rivolta eminentemente morale contro il potere, di una ribellione della coscienza, della quale il pulpito delle chiese rimase l'ultima trincea, non solo del cattolicesimo politico, ma del cattolicesimo in sé e per sé e forse della stessa coscienza morale tedesca. L'autore non manca, altresì, di porre l'accento, con dovizia di particolari, sui molti proibitivi ostacoli che incontrò la chiesa cattolica tedesca nell'esercizio della sua missione pastorale. Ad onta di ciò - chiosa successivamente Angelo Paoluzi - essa, però, riuscì a dar prova di una forte autonomia, quando Pio XI rese nota l'enciclica "Con bruciante preoccupazione", nella quale il pontefice romano stigmatizzava il neopaganesimo razzista ed il culto "del suolo e del sangue". A questo punto egli si sofferma ad analizzare i più significativi aspetti della lungimirante capacità di dialogo, di comprensione e di condivisione che manifestarono allora in Germania esponenti laici e religiosi della comunità cattolica e protestante, nella consapevolezza che lo spirito ecumenico affondava le proprie radici nella preghiera comune e nelle sofferenze patite in tutti i luoghi di persecuzione e di detenzione durante il tenebroso periodo del terrore nazista. Angelo Paoluzi sottolinea, infine, nella parte conclusiva della sua ultima pubblicazione, che la Resistenza tedesca non si estrinsecò attraverso la lotta armata, ma comprese tanti comportamenti individuali nei quali l'elemento prevalente fu l'affermazione di una forte coscienza morale contro la dittatura nazista. Voglio ora esporre alcune sintetiche considerazioni sul ruolo svolto dai cattolici italiani nella Resistenza, prendendo le mosse da quanto asserisce, al riguardo, Angelo Paoluzi, secondo il quale gli storici e gli studiosi più avvertiti stanno riconsiderando l'importanza e la significatività del contributo del movimento cattolico al successo della lotta di Liberazione nel nostro Paese. Indubbiamente va riconosciuto che,

dopo l'iniziale riluttanza di non pochi cattolici ad assumere un fermo e duro atteggiamento d'opposizione al fascismo, la maggior parte di loro prese le distanze dagli occupanti tedeschi e dall' esiguo numero di connazionali che li sostenevano, con la protezione della Repubblica sociale italiana, uno stato fantoccio al servizio del regime nazista. Molte pagine della guerra di Liberazione, come soleva spesso ripetere l'illustre storico cattolico Gabriele De Rosa, debbono, però, essere ancora scritte. Certamente la storiografia sulla Resistenza si è limitata, all'inizio, ad evidenziare l'importante contributo delle formazioni partigiane. In seguito essa ha messo in risalto l'opera svolta dai soldati italiani che, rifiutando di arruolarsi nell' esercito di Salò, resistettero con le armi ai nazifascisti o si unirono alle truppe alleate, il cui apporto si rivelò decisivo ai fini del successo della lotta di Liberazione. Nel 1995, in un convegno svoltosi all'Istituto Luigi Sturzo, al termine di tre anni di ricerche negli archivi diocesani e parrocchiali, è stata documentata la multiforme collaborazione del clero alla lotta antifascista. E' ormai chiaro che, con tutte le sue sfaccettature, la Resistenza in Italia al nazismo si configurò come un movimento di popolo, una storia corale, non comparabile con quello che avvenne durante il Risorgimento, che risultò un fenomeno piuttosto elitario. Per i cattolici, in particolare, essa fu, innanzitutto, una scelta morale, civile, religiosa, financo letteraria, ed infine politica. Emblematica, a tale riguardo, è la preghiera del ribelle, di Terenzio Olivelli e Carlo Bianchi, che Angelo Paoluzi opportunamente riporta nel suo ultimo libro, prima della prefazione, e che termina con queste parole, pervase da una profonda spiritualità cristiana: "Signore della pace e degli eserciti, che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore". Il pensiero politico del popolarismo fu, invece, mantenuto vivo segnatamente dagli esuli cattolici come Luigi Sturzo,

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Il mondo cattolico nella Resistenza

Francesco Luigi Ferrari e Giuseppe Donati. Va pure rammentato il ruolo svolto dal movimento neoguelfo di Piero Malvestiti e Gioacchino Malavasi, che condusse attività clandestina principalmente in Lombardia, fino a che il regime fascista, scopertane l'organizzazione, lo ridusse all'impotenza. Deve essere, inoltre, messa in rilievo l'azione di opposizione al fascismo, dispiegata da molti circoli di Azione cattolica, in quelle parrocchie, che avevano conosciuto le Leghe bianche o erano state vicine alle loro esperienze. Né può essere ignorata l'attività svolta dai giovani universitari cattolici della FUCI e del Movimento laureati cattolici, dai quali provennero molti uomini della Resistenza. Secondo l'autorevole storico Claudio Pavone, la partecipazione cattolica alla lotta di Liberazione non coinvolse solo pochi intellettuali, ma strati molto più ampi di popolazione, soprattutto nelle campagne, e quindi si legò alla presenza di quei contadini che, come affermava appunto Gaetano Salvemini, segnarono la sconfitta della tradizione sanfedista ed antirisorgimentale del mondo rurale italiano. La campagna, quindi, nella temperie sociale e politica della Resistenza, si collegò con le esperienze della lotta antifascista e conobbe tentativi di governo autonomo e democratico, distinti da quelli compiuti dalle formazioni di sinistra. "Questo fenomeno nuovo - osserva Gabriele De

Rosa - stabilisce una differenza fondamentale fra il Risorgimento, cui mancò la partecipazione contadina e dei cattolici militanti, e la Resistenza". Indubbiamente, come scrive l'eminente studioso Giorgio Campanini, il contributo dei cattolici alla lotta di Liberazione si differenziò da quello di altri gruppi per il suo carattere in prevalenza difensivo, per la sua moderazione e per la sua opposizione ad azioni terroristiche. Angelo Paoluzi ricorda, a questo proposito, che, durante il 1943, la partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica italiana aveva trovato un importante coagulo, anche se non il primo, nell'abitazione romana di Giuseppe Spataro, in cui si incontravano spesso rappresentanti del vecchio PPI, ai quali si univano pure giovani speranze della politica, come Giulio Andreotti e Giorgio Tupini. Toccherà, poi, ad Alcide De Gasperi, a conclusione della seconda guerra mondiale, guidare, da autentico statista, la nostra Nazione, facendo tesoro dei contenuti del documento, di cui fu il principale estensore, chiamato "Linee di ricostruzione", che diverrà in seguito "Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana". L'autore non manca, infine, di porre l'accento sul ruolo delle donne, degli scout e degli alpini nella Resistenza al nazifascismo, senza trascurare di porre in risalto il contributo della stampa cattolica clandestina all'esito positivo della lotta di Liberazione.

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Sara Garofalo

Umberto Zanotti-Bianco

Nel 1910 Reggio Calabria fu sede della costituzione dell’ANIMI, l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno fortemente voluta da un gruppo di insigni intellettuali interessati all’emancipazione delle aree più depresse del meridione. Tra i fondatori dell’Associazione – che sarà riconosciuta ente morale con regio decreto del 5 marzo 1911, n. 218 – vi era Umberto Zanotti-Bianco, nato nell’isola di Creta il 22 gennaio 1889, dove il padre, piemontese diplomatico di carriera, esercitava la funzione di console d’Italia. Fino a pochi anni prima della laurea in giurisprudenza conseguita nel 1911, la vita di Zanotti-Bianco non si incontra con le difficoltà del Mezzogiorno: al ritorno nella madrepatria, infatti, compie studi classici a Moncalieri, in quel reale collegio Carlo Alberto frequentato dalla migliore aristocrazia piemontese: un istituto dalla forte vocazione patriottica e umanistica, che lascerà un segno persistente nella formazione e nel tessuto morale di Zanotti-Bianco. Tra le sue peregrinazioni umanitarie, infatti, la più significativa è certamente quella del 1908, in occasione della partecipazione ai soccorsi in favore delle terre colpite dal devastante terremoto di Messina e di Reggio, in cui persero la vita metà della popolazione siciliana e un terzo di quella calabrese. Tra le numerose vittime, anche la moglie, i cinque figli e la sorella di Gaetano Salvemini, con il quale Zanotti-Bianco entrò in profondo contatto, maturando – grazie anche al contributo di personaggi come Giustino Fortunato, Leopoldo Franchetti, Luigi Bodio e Tommaso Gallarati Scotti – l’istanza dell’ANIMI. L’impegno infaticabile dell’educatore e filantropo piemontese è l’argomento del volume di Sergio Zoppi intitolato

Umberto Zanotti-Bianco. Patriota, educatore, meridionalista: il suo progetto e il nostro tempo, pubblicato per i tipi di Rubbettino Editore nel 2009. L’autore, che non è nuovo a studi sul Mezzogiorno d’Italia, articola il suo lavoro proprio a partire dalla scelta di vita di Zanotti-Bianco a seguito della distruzione di Messina e Reggio, compenetrando la propria dettagliata ricerca biografica d’archivio con la storia delle associazioni e delle istituzioni su cui il futuro senatore a vita concentrò il proprio impegno politico e civile. Materiale privilegiato di consultazione è quello contenuto nell’archivio di Umberto Zanotti-Bianco, conservato a Roma dall’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia. Il fondo, che ha una consistenza di 1011 unità archivistiche ed è stato riordinato e inventariato tra il 2004 e il 2005, è articolato in due sezioni. La prima documenta la vita privata e gli studi del patriota meridionalista, contenendo corrispondenza, diari, quaderni, fotografie e ritagli di stampa. Nella seconda, invece, la documentazione è ordinata secondo le diverse attività di Zanotti-Bianco: dall’ANIMI, alla Società Magna Grecia, a Italia Nostra, fino alla Croce Rossa Italiana, all’Accademia Nazionale dei Lincei e alla stagione dell’impegno politico e parlamentare. La storia della passione di ZanottiBianco per i territori più disagiati del Sud Italia ha inizio dunque con le quotidiane esplorazioni delle località maggiormente colpite dal sisma calabro-siculo. Località impoverite non solo a causa di un insufficiente reddito pro capite, ma anche, in termini di forza lavoro e di energie intellettuali, da un’emigrazione permanente che stava contribuendo all’allontanamento degli elementi più giovani e intraprendenti e, con essi, alla

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Sara Garofalo

limitazione delle possibilità di un suo riscatto economico e civile. Gli effetti dei progressi economici del primo quindicennio del secolo, infatti, non si distribuirono uniformemente in tutto il paese, ma si manifestarono soprattutto nelle regioni già più sviluppate, come quelle del cosiddetto triangolo industriale che aveva come propri vertici Milano, Torino e Genova. Il divario tra Nord e Sud, sia pure nel quadro di una crescita generalizzata, si accentuò a sfavore del Mezzogiorno, in cui, pur con una popolazione pari al 37% di quella nazionale, le aziende di grandi dimensioni e a tecnologia avanzata erano praticamente assenti. I discreti progressi dell’agricoltura italiana si concentrarono soprattutto nella Valle Padana, mentre le aree meridionali continuarono ad essere sfavorite sia dalle condizioni climatiche ed idrologiche che dalla naturale povertà dei territori di montagna. A queste oggettive difficoltà si univa, con un peso specifico non indifferente, il dato della disgregazione sociale, dell’assenza di una classe dirigente moderna e del carattere clientelare e personalistico della lotta politica. L’analisi del territorio condotta da Zanotti-Bianco a partire dalla prima sede reggina dell’ANIMI (che si costituiva ufficialmente Associazione sotto la presidenza di Pasquale Villari, nelle sedute del 27 e 28 febbraio in una delle sale del Senato), si concentra soprattutto sull’emergenza dell’analfabetismo diffuso, che nel 1911 raggiungeva ancora picchi del 60%, a fronte del 15% delle regioni settentrionali. Grazie alla legislazione eccezionale mirata a riconsiderare la materia del diritto pubblico e privato al fine di varare norme sollecite a seguito del disastro del 1908, fu agevolata la costruzione provvisoria di numerose abitazioni e furono approvati provvedimenti speciali di immediata attuazione, con provvidenze particolari per le scuole e per l’università; provvedimenti all’interno dei quali si colloca l’attività di Zanotti-Bianco e dell’ANIMI.

L’Associazione concorse infatti alla costruzione di centinaia di asili infantili (chiamati case dei bambini), di scuole e di ambulatori, che dall’iniziale riferimento geografico reggino si estesero in seguito a tutto il territorio, sconfinando in altre regioni, come la Lucania e la Puglia. Nel momento di maggiore impegno, si conteranno 911 istituti in Sicilia, 649 in Calabria, 263 in Basilicata e 336 in Sardegna, oltre a cooperative a biblioteche, destinate anche alla formazione superiore, come nell’esempio di quella di Reggio, dedicata specificatamente alla formazione dei maestri. Nelle scuole edificate a cura dell’ ANIMI non si curava solo l’aspetto formativo e quello dello svago a tempo pieno, ma si provvedeva anche alla refezione e all’assistenza sanitaria dei minori, lasciando spazio perfino alle esperienze didattiche più innovative, come quelle che applicavano la filosofia pedagogica di Maria Montessori. Sergio Zoppi dà accurata testimonianza delle attività di Zanotti-Bianco, raccontandone anche le ambizioni, che, a causa della scarsità delle risorse umane, non poterono trovare adeguata realizzazione: il disegno per le terre colpite dal sisma non prevedeva infatti soltanto biblioteche, asili e scuole popolari e serali, ma anche cooperative di lavoro e studi sulle realtà locali, come quelli riguardanti l’analisi dei bilanci dei comuni terremotati, l’impiego dei capitali risparmiati dagli emigranti e portati in patria o la possibilità di favorire forme di associazionismo operaio. L’opera umanitaria di Zanotti Bianco è momentaneamente interrotta soltanto da ragioni di militanza patriottica: allo scoppio della prima guerra mondiale è infatti – come Gaetano Salvemini – tra gli interventisti e, dopo aver impazientemente atteso la chiamata alle armi, è nominato ufficiale nel 1916 e inviato sul fronte friulano, presso il monte San Michele, dove verrà gravemente ferito all’addome da un proiettile nemico. La lunghissima convalescenza lo costrin-

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Umberto Zanotti-Bianco

gerà ad abbandonare la divisa, ma costituirà al contempo l’occasione per una stretta collaborazione con la Croce Rossa Americana. Sono questi gli anni di scrittura in favore delle popolazioni oppresse con la rivista “La Voce dei popoli” e nella collezione “Giovine Europa” da lui diretta con lo pseudonimo di Giorgio d'Acandia. Il volume di Zoppi racconta di un uomo versatile, capace di trasformare anche una passione personale in un servizio per la collettività: come nel caso dell’interesse per l’archeologia, maturato negli anni Venti con la fondazione della Società Magna Grecia e concretizzatosi in una campagna di scavi presso la foce del Sele, in Cilento, dove Zanotti-Bianco, in collaborazione con Paola Zancani, contribuì a riportare alla luce il ciclo scultoreo delle metope del tempio di Hera Argiva, oggi conservate presso il museo archeologico nazionale di Paestum. Sulla scoperta dell'Heràion Zanotti-Bianco pubblicò in seguito un'opera in 4 volumi (1951-54). Nonostante le difficoltà personali e associative vissute durante l’epoca fascista, Zanotti-Bianco continua ad alternare l’impegno civile con lo studio e le scoperte artistiche: nell’aprile del 1923, su la “Rivoluzione liberale” esce il primo di una serie di scritti fortemente critici nei confronti delle violenze e delle mistificazioni del regime ormai prossimo. Tra gli articoli di questo periodo, anche uno relativo al caso Matteotti, argomento cui l’autore dedicò sempre una attenzione particolare, come dimostra il fatto che nel 1926 si assunse il rischio di far giungere a Salvemini in Inghilterra copia dei verbali dell’ istruttoria giudiziaria riguardante il delitto del deputato di Fratta Polesine. “La Vita delle Nazioni”, rivista di politica estera da lui fortemente voluta nel 1925, è a breve soppressa dopo ripetuti sequestri. Nel 1928 vi è da parte del fascismo la perentoria richiesta di estromettere Zanotti-Bianco dall’ ANIMI, richiesta che non trovò alcuna

accoglienza, anche se le ricorrenti minacce squadriste lo costringono al lavorare senza l’esposizione di un tempo. Nel 1941, sette mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Zanotti-Bianco viene arrestato e rinchiuso nel carcere romano di Regina Coeli. I motivi sono futili, ma le parole critiche nei confronti delle scelte di Mussolini contenute in una cartolina privata inviata alla figlia di un ex ambasciatore di Francia presso il Vaticano costituiscono per il regime l’occasione di neutralizzare un tenace avversario politico. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, opera su due fronti: quello della Resistenza, in contatto con gli amici liberali, e quello della protezione delle strutture e delle persone dell’ANIMI. Con la rinascita democratica, partecipa al dibattito sulla eventuale necessità del decentramento politico e sulla valorizzazione delle autonomie locali e rafforza la collaborazione con il neo costituito Partito liberale. Nel 1952, già presidente della Croce Rossa Italiana, Zanotti-Bianco è nominato da Luigi Einaudi senatore a vita e, a contatto con statisti come De Gasperi, prosegue nella sua opera sociale anche da parlamentare, con una serie di proposte di legge volte alla valorizzazione dei beni culturali e al miglioramento dell’insegnamento scolastico, in accordo con lo spirito fondativo dell’ANIMI. Umberto Zanotti-Bianco è la storia di un patriota tenacemente fedele alle istituzioni pubbliche in nome di radicati valori risorgimentali, la cui totale devozione alla proprie battaglie impedisce di definire un confine netto tra vita privata e impegno per la collettività.

SERGIO ZOPPI, Umberto Zanotti-Bianco. Patriota, educatore, meridionalista: il suo progetto e il nostro tempo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009.

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DISCUSSIONE

Davide Fantasia

Sul “caso Heidegger”

Note al testo di A. Fabris (a cura di), Metafisica e antisemitismo. I Quaderni neri di Heidegger tra filosofia e politica

Il clamore suscitato dalla pubblicazione dei Quaderni neri di Martin Heidegger ha rilanciato la vexata quaestio del suo antisemitismo. Heidegger era antisemita? Se sì, di che tipo di antisemitismo si è trattato? È stato solo un insensibile detrattore dell’ebraismo, ovvero ha cavalcato e “introdotto” l’onda macabra dell’ideologia nazionalsocialista? Heideggeriani e non hanno quindi affilato le armi della “critica” per disambiguare questa compromissione – già più volte oggetto di condanne, fraintendimenti, assoluzioni. Mi limito in questa sede ad esporre i risultati di una serie di contributi presentati e discussi nel corso di una giornata di studi svoltasi al Seminario di Filosofia dell’Università di Pisa il 1 luglio 2014, in collaborazione con il Dottorato in Filosofia Pisa-Firenze. La raccolta dei contributi ha dato luogo alla pubblicazione del testo a cura di Adriano Fabris, Metafisica e antisemitismo. I Quaderni neri di Heidegger tra filosofia e politica, ETS, Pisa 2014. Apre la serie dei contributi, Peter Trawny, il curatore dei quattro volumi sinora pubblicati dei Quaderni neri1. Il suo testo, Heidegger e l’ebraismo mondiale (pp. 9-37), non fa sconti alle responsabilità del filosofo tedesco. Di più – ne rileva un implicito stendardo filosofico nel concetto di erranza. La stessa espressione, Weltjudentum – “ebraismo mondiale” – è la triste conferma di quanto l’antisemitismo di Heidegger – perché di antisemitismo si tratta, per lo meno se si tengono fermi i recenti parametri stabiliti dalla ricerca di Wolfgang Benz, Was ist Antisemitismus? – riecheggi i più noti stereotipi dei Protocolli dei savi di Sion. La “tesi” dei Protocolli è nota: «giudaismo della finanza internazionale» (Hitler), guerra trasversale per attaccare i nemici degli ebrei, progetto ebraico di un dominio del mondo. Si dà qui una sorta di «incunabolo» a cui hanno attinto vari strati dell’intellighenzia mondiale per legittimare,

esasperare e diffondere l’antisemitismo moderno. Sebbene Heidegger non avesse letto i Protocolli, Trawny non ha alcun dubbio – “Il suo spirito o demone parla a partire dai Protocolli dei savi di Sion” (p. 33). Espressioni come «principio di distruzione», «spiccata disposizione al calcolo», popolo «senza mondo», portano poi l’antisemitismo di Heidegger in una regione metafisica, quella ontostorica (seinsgeschichtlich). Trawny parla pertanto di “antisemitismo ontostorico”, rilevabile cioè sul piano della storia dell’essere – dello sradicamento, quindi, dell’essere dell’ente, elevato alla sua massima espressione dall’ebraismo (forse): “Forse per Heidegger l’ebraismo mondiale è il rappresentante per eccellenza della modernità” (p. 17). Heidegger cade così nella debolezza di contrapporre all’Heimat, alla “terra natia”, un elemento esterno: l’epoca della tecnica, dei meri parametri economici e del calcolo, è pensata attraverso “una violazione invasiva dell’esterno”, quella dell’ebreo, al cui interno la provenienza tedesca deve contrapporsi. “L’attribuzione della tecnica e del calcolo a una figura della storia dell’essere può solo essere considerata un errore. Tecnica, scienza e capitale hanno un significato universale perché sorgono dall’interno della terra natia, di ogni terra natia” (p. 37). Il rifiuto da parte di Heidegger di ogni forma di razzismo biologico di stampo nazionalsocialista, costituisce un punto di rilievo nell’ interpretazione di Jesús Adrián Escudero, Heidegger e i Quaderni neri. La rinascita della controversia nazionalsocialista (pp. 39-72). Questa prospettiva è più volte ripresa dall’autore (pp. 50, 53-54, 64), ed è in sostanza ricondotta alla necessità di cogliere la questione dell’“ebraismo mondiale” (Weltjudentum) nell’ambito di quel pensiero iniziale a cui Heidegger cercava di corrispondere. Intenti, tentativi, approssimazioni, accenni – la quaestio dei “Quaderni neri” deve

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essere letta attraverso questo incedere interrotto, questi «tentativi di pensiero». La materia qui è sempre la stessa – in senso heideggeriano –: aprire un varco tra le crepe della metafisica tradizionale, verso l’«altro inizio». D’altra parte l’immagine di un Heidegger “apolitico e rurale”, isolato nella sua baita, intento e rimestare l’edificio del suo Denkweg senza alcun riguardo per la realtà sociopolitica che lo circondava, viene qui definitivamente smentita. Anzi, in un certo senso le invettive antisemite di Heidegger – collocate sullo sfondo generale del suo pensiero – prestano il fianco alla necessità di ricollocare le macerie del nazionalsocialismo nell’ottica di una maggiore complessità. Escudero cerca così di sfuggire alla scorciatoia di un’interpretazione astorica del nazismo; ne rileva l’ascesa in relazione alla discesa della Repubblica di Weimar (p. 51). “In definitiva, da un lato, bisogna analizzare ciò che Heidegger ha detto – le sue riflessioni – e ciò che ha fatto – le sue azioni – durante il periodo del regime nazionalsocialista, dall’altro, bisogna anche capire in che modo questi fatti devono essere interpretati in relazione alla sua filosofia e al contesto storico” (p. 52). Ciò che Heidegger intravedeva nel movimento nazionalsocialista – almeno nei suoi primi anni, 1933/34 – era l’occasione di creare quel radicamento alla terra, quella costanza/permanenza all’Heimat (“terra natia”) che fu un elemento di forte interesse sin dai suoi corsi friburghesi dei primi anni venti. I referenti di questa traversata erano il conte Yorck e Oswald Spengler. Il tema della mancanza di radicamento al suolo (Bodenlosigkeit), la necessità di aggirare lo spettro del liberalismo, del capitalismo, inducevano così Heidegger a vedere nel nazionalsocialismo quell’elemento volkisch, “popolare”, che nelle sue intenzioni avrebbe ricondotto il popolo tedesco al legame con la sua comunità, la sua storia. Escudero riprende questa determinazione del politico in Heidegger, quella spirituale. Nulla a che vedere con una questione politicoistituzionale, legale o socio-economica, ma con “una politica della terra”, una “geo-politica” o “archi-politica” (p. 54). È qui che sta o cade il problema di un’identità tedesca, e con essa l’idea hölderliniana di una “Germania intesa come patria terra natia”. Heidegger ne assume tutti gli spasmi, le vibrazioni, le doglie; si tratta di un

destino collettivo, quello della “patria tedesca”, che deve anzitutto radicarsi nella sua storia, nel suo linguaggio, nella sua Heimat, per poter assumere quelle possibilità che l’epoca storica (Geschick) le invia (schicken). In questo contesto viene fuori l’opposizione agli ebrei, paradigma di un popolo “segnato dalla diaspora, dalla migrazione, dall’esodo – cioè dalla mancanza di radicamento al suolo” (p. 63). Queste precisazioni non giungono impreviste. Escudero lima i contorni più scabrosi della compromissione di Heidegger con il nazionalsocialismo. Questa va ricondotta al suo contesto filosofico e quindi ai termini in cui viene fuori l’attacco all’ebraismo. Da qui le sue conclusioni: a) se per antisemitismo si intende la persecuzione razziale e lo sterminio sistematico degli ebrei, allora la posizione di Heidegger non può essere considerata come unilateralmente antisemita (in senso razzista o biologico); b) diversamente, Heidegger può essere considerato un’espressione – certamente cinica e insensibile (Marcuse) – di un’atmosfera antisemita, o meglio “antigiudaica”, particolarmente diffusa negli ambiti accademico-universitari dell’epoca. Il suo è un antisemitismo che si può definire come “religioso”, “culturale” o “spirituale” (p. 70). Questo non significa misconoscere le responsabilità di Heidegger; tuttavia non si può neanche scadere in accuse generalizzate. Il contributo di Dean Komel, I Quaderni neri nel contesto della questione politica in Heidegger (pp. 73-80), mette in risalto l’assenza di quella parola di redenzione – da più parti e più volte richiesta, cercata, agognata dalla filosofia di Heidegger – a cui il filosofo tedesco si è più volte mostrato refrattario. Questa mancanza indica in direzione di un andare-‘contro’ – caratterizzato dal prefisso ‘anti-’: ‘anti-americanismo’, ‘anti-bolscevismo’, ‘anti-nazionalsocialismo’, ‘anti-cristianesimo’ – che ha scavato nelle piaghe della sua filosofia; un atteggiamento che Heidegger «non ha potuto, saputo o perfino voluto evitare» (p. 75). Esso è però il sintomo di un risentimento che in Heidegger origina, secondo Komel, dalla «latente angoscia di poter essere derubato della patria» (ibi.). Da qui la necessità del recupero dell’Heimat, di cui testimonia il serrato confronto con la poesia di Hölderlin. In questo gesto, la differenza heideggeriana tra l’essere e l’ente si rovescia, attraverso il risentimento, nella volontà

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d’identità. Così la differenza ontologica, appartenente essa stessa alla metafisica, oltre a non eludere quest’ultima, si ritrova imbrigliata nella metapolitica. I Quaderni neri testimoniano per la prima volta questo passaggio nel pensiero di Heidegger: “Attraverso i suoi più intrinseci legami la metafisica dell’esserci deve approfondirsi ed espandersi nella metapolitica ‘della’ nazione/Volk, ‘popolo’/storica” (p. 79). La questione della Weltjudentum viene allora ancorata a un livello più alto, più pericoloso, di quanto non abbiano fatto le posizioni antisemite (biologico-razziali) dell’ideologia nazionalsocialista – e cioè al livello della pianura del pensiero storico dell’essere (p. 78)”. Diversa invece la posizione di Alfredo Rocha de la Torre, I Quaderni neri nel contesto della questione politica in Heidegger, e per certi versi diametralmente opposta a quella di Komel. Il testo prende subito le distanze dalla vulgata del “caso Heidegger”. L’intento di cogliere il misfatto heideggeriano sulla base di prove storico-documentali, sulla sua vicenda biografica e sulle sue “decisioni politiche”, è destinato a misconoscere il cammino del pensare di Heidegger e a fraintendere la “cosa stessa” che si vorrebbe mettere in luce, la “questione politica”. In sostanza: questo percorso, un po’ alla buona, elude la stessa riflessione filosofica. La prassi è nota: si parte dalla compromissione con il regime nazionalsocialista da parte di Heidegger – il fatidico anno del ’33 – per poi livellare tutta la sua opera come ideologicamente presupposta alla barbarie nazista, e quindi “non-filosofica”. La parabola di questa riduzione parte da Victor Farìas, Heidegger et le nazisme, per giungere a Emmanuel Faye e Bernhard Taureck. Rocha de la Torre rovescia invece i termini della questione: si parte dalla filosofia di Heidegger, per poi considerare se questa possa corrispondere o meno ad una certa ideologia politica. La sua tesi è che la posizione di Heidegger non è quella di un antisemitismo esclusivo e radicale; la sua è invece una “riflessione sull’espansionismo soggiogante della metafisica (…) la quale si sviluppa come calcolo e potere della produzione nel bel mezzo dell’esigenza di disporre di tutto l’ente come ciò-che-sta-a-disposizione (Bestand)” (p. 90). Questo espansionismo riduce la ragione a mero calcolo, a funzionalità strumentale. Dove c’è solo calcolo, espressione metafisica del

subjectum, della sua volontà di potenza, e quindi predominio tecnico e uniformità generalizza nel ridurre l’essente a fondo di sfruttamento, si manifesta un totalitarismo che “sradica” l’abitare dell’uomo – vale a dire: “Tutto tende ad essere spiegato, “interpretato”, concepito e trattato mediante i canoni del calcolo e della disponibilità” (p. 88). Lo sradicamento, in quanto destino dell’uomo sottoposto allo strapotere della tecnica, dell’impianto (Ge-stell), è quindi connesso essenzialmente al carattere unilaterale della ragione calcolante. Sono lo stesso (Das Selbe). L’autore, riprendendo l’interpretazione heideggeriana di Pöggeller, sottolinea così il carattere di «totalitarismo politico», l’«uniformità organizzata» che orienta il “qui ed ora” dell’uomo nel mondo, il suo abitare. Questa è la “questione politica” alla quale Heidegger si è riferito. Il suo “antisemitismo” deve pertanto passare attraverso il confronto con questa posizione di fondo del suo pensiero. Due sono qui gli aspetti evidenziati da Rocha de la Torre al fine di problematizzare un accostamento troppo disinvolto tra la filosofia di Heidegger e l’ideologia nazionalsocialista. In primo luogo, i fenomeni indagati da Heidegger in quanto manifestazioni fondamentali dell’epoca moderna – dalla democrazia al comunismo, dall’americanismo al bolscevismo – sono tutti espressione del “dispiegamento della metafisica della soggettività, del calcolo, e della macchinazione (Machenschaft), che egli intende superare” (pp. 99-100), della volontà di pianificazione/amministrazione razionale che concepisce ogni ente come «riserva» (Bestand) e «impianto» (Gestell). A questi vi si aggiungono anche il nazionalismo e il giudaismo, per quanto la collocazione di quest’ultimo possa essere irritante e infondata. L’antisemitismo è così collocato da Heidegger in una sfera più ampia, ontologica, e non semplicemente ideologicomorale, dottrinale, o politica (nel senso di una mera contrapposizione di visioni del mondo). In secondo luogo, proprio perché qui non è in questione una Weltanschauung da affermare nei confronti di un’altra, in uno sterile gioco di contrapposizioni che non farebbero altro che affermare il medesimo, non si tratta di opporre alla tecnica un pensiero anti-tecnologico, all’umanismo uno anti-umanista, alla democrazia uno anti-democratico, e così via: “Tutte le

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prospettive dualiste che esprimono un’opposizione tra due poli non rappresentano assolutamente il senso della concezione heideggeriana, la quale riesce a superare l’uso comune del prefisso “anti-” e le sue connotazioni di “gegen”, “contra”, “opposizione/opponente”” (pp. 106-107). In sostanza: non si può comprendere la posizione “antisemita” di Heidegger se non all’interno della “questione politica” da lui affrontata, e quest’ultima se non confrontandosi con l’ambito delle questioni capitali dischiuse dal suo pensiero. L’interpretazione di Adriano Fabris, Heidegger: l’ambiguità della decisione tra filosofia e politica (pp. 109128), è invece volutamente problematica – tende cioè a far risaltare un’ambiguità di fondo che connota tout court la stessa dimensione della filosofia heideggeriana: è un’ambiguità strutturale, che gli appartiene. Da qui l’insolvenza etica che la caratterizza. Non è una tesi nuova, il Fabris ne è consapevole. Heidegger stesso fu più volte sollecitato in vita a scrivere un’etica. Fabris sottolinea così il bisogno di coerenza richiesto dalla filosofia. Teoria e prassi in essa non possono essere disgiunte, ne va dalla «veridicità» dei comportamenti: si risponde delle loro conseguenze. Dalla teoria bisogna quindi passare all’etica; è la stessa Teoretica che lo richiede2. Il Fabris sottopone allora questa determinazione al vaglio della riflessione di Heidegger, per vedere se e in quale misura essa sia stata disattesa dal filosofo tedesco. In particolare nella tensione del rapporto instauratosi tra filosofia e politica nella filosofia heideggeriana e nella rilevanza che in essa assume il concetto di ‘decisione’. La determinazione ambigua che connota il pensiero di Heidegger è così riportata proprio alla questione della ‘risolutezza’, termine nevralgico nella produzione del filosofo teutonico, in Essere e tempo in modo particolare, l’Entschlossenheit. Decisione singolare e collettiva si rapportano l’una all’altra; dalla determinazione della prima dipende quella della seconda. È aperta così la strada al destino del popolo tedesco, al Reich hitleriano. La sua autoaffermazione è conseguente alla ‘risoluzione’ che in Essere e tempo l’esserci attua sul ‘se stesso’ – un sé isolato, chiuso, rapportato alla sua radicale finitezza. Il sodalizio tra filosofia e politica in Heidegger può cosi divampare – come effettivamente è avvenuto – nella

risoluzione arbitraria di un non meglio precisato destino collettivo, quello del ‘popolo’. Esso è quindi marchiato dalle ceneri di un’ambiguità originaria: tra la decisione che apre nuovi orizzonti e una che li chiude nel sancire un destino inevitabile – dell’individuo prima, del popolo poi. Non è un caso che Heidegger cominci a battere sul temine ‘popolo’, Volk, negli scritti del periodo del rettorato (p. 123). Il MitDasein, il “con-esserci”, è così contro-esposto alla sua negazione, a una chiusura. Che questa poi avvenga nella ‘risoluzione’ dell’esserci al proprio essere-mortale, l’essere-per-la-morte; o che assuma il volere del popolo tedesco come radicamento nella sua essenza, la sua «missione spirituale» – in entrambi i casi la struttura è quella di un compito ‘eroico’, autentico, che inevitabilmente viene a confliggere con quello degli altri. Nel Rektoratsrede il termine di confronto è la decadenza dell’Occidente, il fallimento delle sue forze spirituali. In Essere e tempo, invece, la quotidianità anodina e impersonale del Man, del ‘sì’, che disperde l’esserci nel turbinio della chiacchiera. A questo punto diventa inessenziale riportare i passi dei Quaderni neri: la stessa ambiguità strutturale del Denkweg heideggeriano ‘decide’ della sua compromissione con il regime nazionalsocialista. La decisione non è attraversata da un criterio etico che ne orienti l’agire, e «la libertà che qui emerge è più simile all’arbitrio che a una libertà responsabile» (p. 122). A questa è presupposta la chiusura dell’esserci su se stesso, l’autorelazione. Essa ha il «primato rispetto a ogni forma di relazione ad altro» (p. 121). L’uomo si presuppone così chiuso nel suo isolamento: è chiamato a una decisione arbitraria, la «voce della coscienza», che dispone un’immagine altrettanto arbitraria, quella dell’esser-autentico nella chiusura della morte. È chiaro come uno degli aspetti più rilevanti che viene fuori da questi interventi riguarda l’attribuzione di una supposta identità ebraica ad un tipo umano, una sorta di demone metafisico. Tra i passi maggiormente incriminati nei Quaderni neri vi è il seguente: “La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale non è razziale, bensì è la questione metafisica su quella specie di umanità che, svincolata per antonomasia, potrebbe assumere lo sradicamento dall’essere di tutto l’ente come

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compito della storia mondiale”. Per alcuni, Trawny e Komel, questa determinazione costituisce un salto di qualità, in senso negativo, dell’antisemitismo di Heidegger – soprattutto in relazione all’ideologia biologico-razziale del nazionalsocialismo. Per altri, invece – Escudero e Rocha de la Torre – si dà la necessità di collocare questo inserimento nel solco della critica di Heidegger all’età moderna e ai suoi derivati, incensati nella parabola metafisica del subiectum, della tecnica. Si può certo condannare la superficialità e la mancanza di sensibilità di Heidegger. Sta di fatto che la potenza della Machenschaft, la volontà di potenza e la disposizione al mero computare, in quanto fenomeni essenziali dell’età moderna, non sono fenomeni ascrivibili solo all’ebreo. Si può magari pensare che Heidegger fosse preda di una visione della storia eccessivamente semplicistica e unilaterale. In tal caso, però, bisognerebbe anche cogliere le implicazioni della sua critica allo stesso nazionalsocialismo, al bolscevismo, all’americanismo, al pensiero biologico-razziale – e quindi al nazionalismo/nazionalsocialismo –, e così via. Sotto la denominazione di questi fenomeni andrebbe poi rovistata la sua concezione della tecnica, quale espressione compiuta della metafisica della soggettività, e magari introdurne le conseguenze per un pensiero che volesse meditare nel tempo della povertà. In un tempo diventato già “tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza”3. Lo stesso Trawny riconosce l’attribuzione heideggeriana del nazionalsocialismo alla tecnica moderna (p. 25). Le osservazioni di Escudero e Rocha de la Torre si rifanno a questa importante equiparazione. Un passo dei Quaderni neri ne testimonia lo sfondo in modo chiaro: “La potenza della macchinazione – l’annientamento anche dell’essenza di Dio, la deformazione dell’uomo nell’animale, lo sfruttamento della terra, la computazione del mondo, – è entrata in uno stadio definitivo; le differenze tra i popoli, stati e culture ci sono solo sulla facciata”4. D’altra parte questo neanche significa scatenare una guerra senza quartiere nei confronti della tecnica. “Sarebbe folle slanciarsi ciecamente contro il mondo della tecnica, sarebbe miope condannarlo in blocco come opera del diavolo. Ormai dipendiamo in tutto dai prodotti della tecnica, siamo costretti senza

tregua a perfezionarli sempre di più”5. Sotto questo aspetto le osservazioni di Rocha de la Torre risultano estremamente perspicue. La questione fondamentale della spaesatezza (Heimatlosigkeit), riguarda il riferimento all’uomo in quanto tale; il senso della sua direzione va affrontato a partire dall’Heimweh, dalla “nostalgia” per l’appropriazione dell’esserci dell’uomo alla sua essenza, alla sua Heimat. Questa è da esistere verbalmente, dispiegare, non nel senso di un mero esser-presente, ma del tratto autentico definito da Heidegger nell’apertura al mistero (Geheimnis) – il sopportare questa tensione nell’abitare “poetico”, nell’amore – «che tutto tiene» (Hölderlin) . “Non si tratta comunque di un «ritorno a casa» che ne prende possesso (besitzen), ma di un ritorno che scopre proprio l’impossibilità di appropriarsene” (p. 104). I “contra” o le varie articolazioni dualistico/oppositive difficilmente riuscirebbero a dar conto di questo pensiero. NOTE

1 I Quaderni neri sono composti da trentaquattro taccuini, nei quali Heidegger ha annotato appunti, riflessioni e osservazioni negli anni compresi dal 1931 al 1976. La serie delle Überlegungen (“riflessioni”) sinora pubblicate, composte da una serie di quattoridici taccuini, corrispondono ai primi tre volumi dei Quaderni neri (Schwarze Hefte): M. HEIDEGGER, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), GA 94, Klostermann, Frankfurt a.M. 2014; ID., Überlegungen VII-XI (Schwarze Hefte 1938/39), GA 95, Klostermann, Frankfurt a.M. 2014; ID., Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), GA 96, Klostermann, Frankfurt a.M. 2014. All’inizio dell’anno in corso sono invece state pubblicate la serie delle Anmerkungen, le “annotazioni”, sempre a cura di Peter Trawny, comprensive di altri nove taccuini dei Quaderni: M. HEIDEGGER, Anmerkungen I-V (Schwarze Hefte 1942-1948), GA 97, Klostermann, Frankfurt a.M. 2015. 2 Cfr. A. FABRIS, TeorEtica. Filosofia della relazione, Morcelliana, Brescia 2010. 3 M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, trad. it. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 247. 4 M. HEIDEGGER, Überlegungen XIII, cit., p. 76. 5 M. HEIDEGGER, L’abbandono, trad. it. A. Fabris, Il Melangolo, Genova 1989, p. 37.

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LE MASCHERE DELL’ARTE

Vittorio Pavoncello

Paul Gauguin, Ceci n’est pas une vie

1 IL MITO Credo che la mia arte, che voi ammirate tanto, non sia che un germoglio, e spero di poterla coltivare laggiù per me stesso allo stato primitivo e selvaggio. Per far questo mi occorre la calma: che me ne importa della gloria di fronte agli altri! Per questo mondo Gauguin sarà finito, non si vedrà più niente di lui. Con questa lettera scritta a Odilon Redon, nel 1890, Gauguin intraprende quello che sarà, sebbene interrotto per un breve rientro in Francia, il suo viaggio senza ritorno verso la Polinesia. A questo desiderio di Gauguin risposero allarmati alcuni artisti e intellettuali; per altri, al contrario, fu l’occasione per continuare e incrementare la derisione verso la scelta di un uomo che per la pittura aveva lasciato la sua vita da “integrato” e che, mediante la pittura, stava per scoprire le potenzialità che aveva come uomo. Fra coloro che mostrarono inquietudine ci fu Odilon Redon che tentò di dissuadere Gauguin dal partire. E Octave Mirbeau che scriveva nei suoi Combats esthétiques1: J'apprends que M. Paul Gauguin va partir pour Tahiti. Son intention est de vivre là, plusieurs années, seul, d'y construire sa hutte, d'y retravailler à neuf à des choses qui le hantent. Le cas d'un homme fuyant la civilisation, recherchant volontairement l'oubli et le silence, pour mieux se sentir, pour mieux écouter les voix intérieures qui s'étouffent au bruit de nos passions et de nos disputes, m'a paru curieux et touchant. M. Paul Gauguin est un artiste très exceptionnel, très troublant, qui ne se manifeste guère au public et que, par conséquent, le public connaît peu. Je m'étais bien des fois promis de parler de lui. Hélas! Je ne sais pourquoi, il me semble que l'on n'a plus le temps de rien.

La necessità di tornare ad approfondire Paul Gauguin, dopo che mostre e scritti e aste di mercato hanno dato di lui più di quanto la vita gli abbia negato, nasce da quella realtà - per molti artisti oggi indicibile - ovvero la morte sociale dell’artista, la sua esclusione dalla società. Gauguin non ha alcun desiderio di avere successo di fronte agli altri. L’arte e la vita per lui cominciano ad essere un’altra cosa. Fra coloro che derisero la scelta di Gauguin fu esemplare la battuta espressa da Auguste Renoir nell’apprendere della sua partenza: “Si può dipingere anche a Barbizon”. Le parole di Renoir però mettevano il dito nella piaga della storia dell’arte e della vita che si svolgeva all’epoca delle querelles impressioniste e post impressioniste, perché per Gauguin non era più possibile dipingere in alcun luogo che fosse l’Occidente, perché Barbizon o l’amata Bretagna potevano sì essere dipinte ma erano impossibili da vivere2. Je pars pour être tranquille, pour être débarrassé de l'influence de la civilisation. Je ne veux faire que l'art simple, très simple; pour cela, j'ai besoin de me retremper dans la nature vierge, de ne voir que des sauvages, de vivre leur vie, sans autre préoccupation que de rendre, comme le ferait un enfant, les conceptions de mon cerveau avec l'aide seulement des moyens d'art primitifs, les seuls bons, les seuls vrais. In generale, oltre allo stile di vita e alla morale occidentale che lo martoriava, la perenne ricerca di denaro lo annientava più di tutto, come diceva lui stesso a proposito di ciò che definiva “la lotta europea per il soldi”. Poiché a questa ricerca si deve aggiungere che dipendeva la sua possibilità di fuga dalla modernità. Ma che ritrovo anche a Tahiti3.

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Paul Gauguin, Ceci n’est pas une vie

octobre 1900 Je reçois votre lettre: peu de choses à y répondre mes précédentes lettres vous ont répondu à ce que vous demandiez. Seulement cette lettre sans argent me gêne considérablement et c'est la 2eme fois que cela arrive; comme vous le savez j'ai pour solder mon arrière et en même temps subvenir à mon existence pris des engagements et dans un petit pays comme Tahiti je vous assure qu'il n'est pas commode de discuter avec des créanciers. Cordialement Paul Gauguin

Di queste sue difficoltà di vita Paul Gauguin ha lasciato molte testimonianze nei suoi scritti e proprio dal libro Avant et apres nota, prende spunto questo testo per una lettura aggiuntiva ma non esaustiva sull’opera e vita di Paul Gauguin. In Avant e après, più volte e con sensi diversi, ora ironici, denigratori, sarcastici, e a volte retorici, torna la frase: Ceci n’est pas un livre. Gauguin la scrisse quasi a giustificarsi dello stile e dei continui spostamenti temporali che la memoria e le sue riflessioni lo portavano a fare nella scrittura, certo inconsueti in un libro, ma non troppo dissimili da quell’arte dell’ assemblaggio sia tematico sia iconografico che costituì lo stile di buona parte delle sue tele. La frase tendeva anche, seppur con umorismo, a decostruire il libro e ciò che lo componeva. Mettendo in crisi il contenuto del libro che parlava della sua vita tendeva quindi a invalidarla con tutto il contesto occidentale che l’aveva formata. Da qui nasce anche il titolo dato a questo mio scritto che cerca di sottolineare e mostrare le difficoltà di Gauguin e dell’artista contemporaneo, Ceci n’est pas un vie. E’ stato così inevitabile accostare l’opera di Gauguin ad un altro famoso Ceci n’est pas… quello che dà il titolo al celebre quadro di Magritte: Ceci n’est pas une pipe. Anche sul quadro di Magritte molto è stato detto ma la messa in relazione dei due Ceci n’est pas… e la convergenza fra i due artisti risulta evidente tanti sono, a mio parere, i punti

di contatto fra le operazioni pittoriche fatte da Gauguin e da Magritte. Ovviamente, per ragioni cronologiche, siamo portati a credere che sia stato Magritte a reinterpretare personalmente alcuni stimoli della pittura di Gauguin confermandone la qualità di precursore. Magritte dice: “Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa". Gauguin: chi potrebbe vivere una vita come quella descritta in questo libro che non è un libro? Nessuno. Perché questa non è una vita e questo non è un libro. (Gauguin passò la vita a convincere che la vita ritratta nei suoi quadri fosse una vita vera e come tale passibile di essere vissuta. Almeno questo è ciò che lui tentò di realizzare. Fin quando scoprì che del mondo primitivo non restava che il suo fascino perché, come disse un altro grande viaggiatore suo coevo, Victor Segalen, “Ogni agonia è ammantata di bellezza”. La seduzione che promanava dall’estetica dell’esotismo proveniva dal conflitto ingaggiato per mantenere la propria differenza più che dall’abbandonarsi al proprio destino. Mentre il mondo moderno che andava soppiantando il primitivo ancora non esisteva in tutto il suo potere). La pittura di Magritte è nota anche per la sovrapposizione di quadri nel quadro, rappresentazioni di rappresentazioni che si trasformano nella visione stessa o nel mondo e modo di darsi della visione, fra questi: La condition humaine. Qui il gioco

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della visione si moltiplica, c’è una visione attraverso una visione o se vogliamo una visione nella visione o meglio ancora una realtà che genera una visione che la rappresenta. In questo gioco del doppio e dello sdoppiarsi Gauguin fu un precursore con il quadro La visione dopo il sermone o Il Cristo giallo. Questi due dipinti mostrano bene la rappresentazione nella rappresentazione ma trattandola come una visione mitica. Ben diverse le visioni di Magritte, più cerebrali e vicine alla nevrosi dell’uomo contemporaneo che tratta tutto il mondo come spettacolo, ovvero la vita dell’uomo vissuta come alla rappresentazione della vita.

Per Gauguin la parte mancante dell’ uomo è la mente ma come pensiero formato anche di emozioni date dai colori o prodotte dall’immaginazione, come accade nel dipinto La visione dopo il sermone. Il quadro si mostra con due visioni su di una unica superficie: la raffigurazione delle donne bretoni e ciò che è da loro immaginato: la lotta di Giacobbe con l’Angelo. Il tema della visione mistica o mitologica ritornerà ancora nell’opera Il Cristo giallo dove Gesù crocefisso appare a delle donne, sempre bretoni, immerse nell’atto della preghiera. C’è quindi un doppio piano di lettura. A Gauguin la raffigurazione non basta più, vuol rendere presente anche ciò che la persona dipinta o ritratta pensa, immagina o vede. La pittura non

dà corpo e immagine solo ad una visione ma la produce nel suo stesso farsi pittura. Come dire, la produzione della visione a mezzo della visione. Il fatto che la visione si dia in presenza di suggestioni religiose quasi fosse un attività di immaginare data da una modo di pensare primitivo è ciò che, forse, Gauguin in forma più originaria cercava nei polinesiani. Affermando di volersi staccare dai canoni di successo occidentale, di volersi isolare per trovare rifugio nella incontaminata Polinesia, l’artista ha costruito un progetto totale e alternativo: la ricerca di una origine unitaria, di una mitologica e simbolica pienezza, di inconscia spontaneità, o di una vitalità capace di contrastare la risposta occidentale alla morte. Tutta questa virtuosità di intenti non possiamo affermare quanto fu attendibile, senza riserve e senza secondi fini. Sebbene una ambiguità e duplicità di fondo fosse già presente nella doppia potenza del primitivismo, quella del buon selvaggio e quella oscura, e solo selvaggia, dei primordi dell’umanità. Alcuni critici hanno voluto vedere in Gauguin un artista ambiguo. Intanto un falso naïve e poi qualcuno indeciso fra lo spettacolo del selvaggio o lo spettacolo di stato di grazia del primitivo. Qualcuno che ha cercato di incorporare il primitivo, conquistandolo culturalmente. E quindi, non depredandolo né assoggettandolo alla maniera dell’imperialismo, ma comunque di farlo proprio attraverso una colonizzazione culturale più soft. Qualcuno che non ha mai smesso di essere un agente di cambio troppo preso e interessato al mercato delle sue opere. Potrebbe suffragare questa ultima ipotesi il continuo invio di quadri per le mostre e aste parigine pur vivendo lontano tante miglia da queste. Insomma, prima in Martinica poi a Tahiti e infine alle Isole Marchesi fu un percorso sì contrassegnato dalla ricerca del primitivo incontaminato ma sempre seminando il tragitto con delle

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mollichine che lo riconducevano in Francia. Il dissidio esistenziale di Gauguin come uomo e come artista ben rifletteva il dissidio dell’uomo contemporaneo con la sua crisi dentro il progresso e il suo desiderio di fuggirne, con la consapevolezza delle illusioni sia del mondo primitivo sia di quello moderno. Gauguin forse operò o cercò di operare una sintesi non solo pittorica, ma anche umana, filosofica e religiosa fra i due. Per capire se la vita avesse un senso, aveva bisogno di risalire alle fonti del percorso storico e umano per trovare là, non tanto il paradiso perduto, quanto il paradiso da cui si era stati cacciati. E una volta arrivato là non condusse una vita da eremita, come ci si aspettava da lui che dichiarava voler fuggire le vanità parigine, o quella da eremita che la morale cattolica poteva volere da lui per riparare nell’incontaminato al peccato originale. Troppo occupato a vivere sia la libertà sessuale e di costumi sia la produzione di tele che la rappresentassero, Gauguin, incarnava le contradizioni della sua e anche della nostra contemporaneità. Già due fra gli scrittori che tanto influenzarono la fin de siécle e l’inizio del successivo, ovvero Baudelaire e Wilde, avevano affermato che l’artista doveva essere critico e anche mercante di sé stesso, con il sistema della vendita all’asta Gauguin si dimostra essere molto attento al mondo della finanza e a quello che sarà, fuor di metafora, pane quotidiano per gli artisti del XXI secolo. Si è detto delle contraddizioni dell’ artista contemporaneo e Gauguin non ne fu esente. Per il Gauguin più sano il primitivismo era qualcosa che doveva servire in primo luogo a lui. Con il suo esempio la condizione dell’artista non era e non poteva essere disgiunta dalla sua vita. In opposizione alla morale cattolica qui emergevano forse dei lati dell’etica e del rigore protestante, ma era indubbio che per Gauguin il termine “engagé” significasse essenzialmente: vivere in prima persona. Più che produrre oggetti e opere d’arte –

primitivi – l’artista doveva essere ed essere un primitivo. La sua idea di artista si orientava più nel trovare un’altra dimensione all’uomo piuttosto che riprodurre la vita del sistema mercantile del suo tempo che poi sarebbe diventato prassi nel Novecento, ovvero l’artista come produttore di arte e l’artista impresario di se stesso. La sua era e fu una scelta radicale. Non gli importava molto del sistema sociale che vigeva in Polinesia, gli interessava di più combattere o smascherare quello che l’occidente stava esportando. Il suo quadro D'où venons-nous? Que sommes-nous? Où allonsnous? sebbene la domanda sia tutta europea non raffigura borghesi o proletari europei ma sono dei polinesiani a porsi la domanda. Non c’è il Manet di Le Déjeuner sur l'herbe. La domanda di fattura occidentale se la pongono dei primitivi non più tali. Forse, preoccupati per la loro sorte ora che le loro credenze sono state aggiogate a quelle europee. La figura centrale e in primo piano di D'où venons-nous? Que sommes-nous? Où allonsnous? è dipinta nell’atto di staccare un frutto da un albero, la mitologia polinesiana sta per essere con quel gesto definitivamente spazzata via. Quello che era un gesto naturale diventerà un gesto di una simbologia e mitologia sovrapposta, quella di Adamo, e l’uomo primitivo inizierà a pensare altrimenti da come ha fatto finora. Se il mondo primitivo polinesiano, che solo in parte Gauguin aveva ritrovato in Bretagna, ha come visione le scene della Bibbia, il processo di colonizzazione e di sostituzione mitica è già avviato. Gauguin tratta scene di miti e visioni come aveva già fatto in Bretagna con le mitologie occidentali e come aveva già fatto nei quadri primitivi con scene di mitologia polinesiana. Nel mettere sullo stesso piano le due mitologie, quella occidentale e quella orientale, Gauguin le egualizza. Non si può più essere stupiti dal sacro timore che coglie le popolazioni tahitiane nel loro entrare in contatto con gli idoli e con lo spirito dei

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morti. La stessa situazione di terrore si dà nell’entrare a contatto con il Dio biblico e con quanto ne deriverà nel cristianesimo. Gesù, la sua immagine in simulacro è uguale a quella degli idoli. Anche lui è un morto che ritorna, anche lui è una figura di Dio che incute timore e che può decidere come la dea Hina della vita e della morte degli uomini. Sebbene l’aspetto di Gesù sia più gradevole. E qui sfioriamo un altro punto dell’arte primitiva. Per l’occidentale le maschere primitive appaiono brutte. In realtà agli occhi di chi le vive come propria realtà simbolica quotidiana queste maschere possono apparire come dei volti straordinariamente dolci e positivi, al pari delle raffigurazioni amorevoli di Gesù. Che Gauguin operi quindi un azzeramento delle varie mitologie sia biblica sia maori risulta più evidente dal dipinto: Ritratto con Cristo giallo. Laddove solo una visione occidentalizzante vuole e può vedere nel quadro una identificazione dell’artista solamente come Cristo. Commettendo ancora la semplificazione di vedere il mondo primitivo con i canoni occidentali. Gauguin, molto più sapientemente, si pone al centro del quadro costernato e disorientato, ma ai suoi lati le divinità sono due, quella idolatrica della Polinesia e quella, anche essa idolatrica, che raffigura Cristo in croce. La doppia natura o doppia cultura che alberga in lui, pur avendo rotto i ponti con l’occidente, si manifesta prepotente perché molto coerentemente e da artista onesto non può non fare i conti con ciò che è stato prima ancora di poter cambiare in ciò che vorrebbe essere. 2 LA SCRITTURA C’è un'altra corrispondenza fra Magritte e Gauguin che è utile al nostro discorso: l’uso della scrittura in un quadro. La famosa frase scritta da Magritte Ceci n’est pas une pipe che smentisce la realtà del quadro acquista però la sua “significanza” dalla possibilità di poter

decifrare la scrittura. Bisogna saper leggere e saper leggere il francese per poter intendere quelle parole. Chi non ha la possibilità di farlo, di fronte alla pipa, posto che sappia riconoscere che quella pipa è un oggetto pipa ovvero che abbia un grado di percezione e cultura dell’ oggetto, vedrà un’immagine della pipa. La scrittura sia come grafismo sia come senso è parte integrante del quadro, e lo è sia per Magritte sia per Gauguin. L’uso della scrittura nel dipinto è un’altra delle caratteristiche del Gauguin polinesiano. Prima di lui la scrittura non compare nei quadri4. Dans l’espace de la représentation classique, de Raphaël à Cézanne, les inscriptions dans les tableaux sont rarement des inscriptions plaquées sur l’image, ou insérées arbitrairement dans celle-ci; ce sont plutôt des représentations d’inscriptions figurant au titre d’objets réels dans l’espace des choses représentées. […] Dans cet espace iconique dont l’écriture est exclue, une exception, discrète mais insistante: la signature. Scrivere sopra un quadro non era una modalità del darsi della pittura prima di arrivare a Gauguin. E sono sporadici gli autori che scrivono il titolo del quadro sul fronte dell’opera stessa. E quando ciò è accaduto, ad esempio in un quadro di Manet, la scrittura come tale era integrata nei titoli di alcune riviste o in qualche insegna di caffè come nei cartelloni di Toulouse Lautrec. L’uso che fa invece Gauguin della scrittura nel dipinto è assolutamente anomalo e originale. Scrive il titolo del dipinto sul dipinto stesso, ma non lo fa solo in francese, lo fa prevalentemente in lingua maori. O meglio i caratteri della scrittura sono latini, secondo la consuetudine data dall’apporto dei missionari, ma le parole sono traslitterate dalla lingua polinesiana. La lettura del quadro, la lettura delle immagini e la lettura della parola, questi piani si intersecano e rincorrono. Creando così molteplici piani di rappresentazione e senso sovrapposti e facendo quasi del dipinto un iper-testo o un meta-testo o addirittura un prototipo

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delle mappe mentali. Si deve però aggiungere quanto già scritto a proposito di Ceci n’est pas une pipe che la lingua scritta nel quadro deve essere decifrabile nel suo significato o il significato che l’artista ha voluto dare al suo quadro resterà lontano e quasi irraggiungibile. Ci si dovrebbe dunque porre la domanda: a chi voleva comunicare Gauguin? Ai polinesiani scrivendo nella loro lingua? Oppure ai francesi, ai quali sarebbe rimasta incomprensibile una parte del quadro se non tutto il quadro, considerando che la parola scritta oltre al senso aveva il valore anche di immagine? Gauguin, più volte, ai suoi mercanti francesi, quando questi si lamentavano della difficoltà di venderlo con quelle strane scritte aveva opposto dei rifiuti ad una titolatura in francese. Ma la sua non fu una pratica ortodossa e alcuni quadri, come il già citato D'où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?, sono con delle parole in francese. Un quadro addirittura ha il titolo e la scritta in inglese come accade nel misterioso Nevermore. Che ci sia una precisa volontà nell’ operare in questo modo da parte di Gauguin ce lo fa pensare anche uno studio sulla grafologia dell’opera di Gauguin laddove la firma ha della sue precise caratteristiche5. Que peut-on tirer de ces signatures ? Peu de choses disent les graphologues. La signature d’un tableau rentre plus ou moins dans l’ensemble pictural. Le peintre est engagé par la surface dont il dispose dans un coin du tableau, la couleur du fond, les couleurs sur lesquelles il inscrit sa signature. Il est de quelque manière contraint et déterminé par sa toile. Il doit modifier selon les circonstances sa griffe. Par ailleurs, la signature d’un tableau a un caractère officiel, qui en fait quelque chose de spectaculaire où il est plus difficile de trouver un trait intime de la personnalité. Possiamo ritrovare questo aspetto spettacolare della firma anche nei testi posti come titolo, per niente nascosti o integrati nei quadri ma messi in evidenza e come indicazione. Scrivendo sui propri quadri, l’intento

intellettuale e artistico di Gauguin raggiunge, forse, l’obiettivo di creolizzare il suo percorso. Perché si potrebbe dire che egli operi una “creolizzazione dell’immagine”. La sua unica forza e lotta disperata di salvare il primitivismo già in declino si traduce in questo rovesciamento dei codici. I quadri si presentano con paesaggi polinesiani, con soggetti del luogo spesso composti in posture della cultura occidentale, con i titoli scritti in caratteri latini ma con un significato esplicito per la lingua maori. Tutto ciò si dà come immagine, come lingua e come ibrido fra immagine e parola, e ibrido di culture. Si creano così immagini, nuovi soggetti, nuove culture. In conclusione potremmo quindi affermare che per quanto riguarda la sua vita Gauguin raggiunse un sofferto “meticciato” mentre la parte più creativa, ovvero la “creolizzazione delle immagini” la raggiunse con la sua produzione pittorica con influenze che andranno oltre alla sua morte di cui il Ceci n’est pas une pipe non è che un esempio fra i più evidenti.

NOTE 1 Paul Gauguin, Octave Mirbeau, L'Écho de Paris, 16 février 1891. 2 JULES HURET, Paul Gauguin, Devant ses tableaux, L'Écho de Paris, 23 février 1891. 3 GILLES ARTUR, Notice historique du Musèe Gauguin de Tahiti suivie de quelques lettres inédites de Paul Gauguin, http://www.persee.fr/doc/jso_0300953x_1982_num_38_74_2492?h=gauguin 4 JEAN-CLAUDE LEBENSZTEJN, «La signature peinte: esquisse d’une typologie», dans ID., Annexes - De l’oeuvre d’art, La Part de l’OEil, Bruxelles 1999, pp. 115–116. 5 MADELEINE TAVERNIER e PATRICK O’REILLY, L’écriture de Gauguin, Étude graphologique, books.openedition.org/sdo/1168 44.

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LETTURE

a cura di Angelo Angeloni

Carla Benedetti - Giovanni Giovanetti, l’assassinio di Enrico Mattei (1962) o del Frocio e basta, Effigie edizioni, Milano, giornalista Mauro De Mauro (1969). 2012, pagg. 118 Pasolini e De Mauro muoiono forse per la stessa ragione, perché troppo vicini La morte di Pier Paolo Pasolini, nella alla verità sull’omicidio di Mattei, che si notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, colpì preparavano a divulgare accusando l’Italia di allora, soprattutto per l’atrocità Eugenio Cefis, successore di Mattei alla che tutti conosciamo. Una morte di presidenza dell’Eni e fondatore del P2. matrice sessuale, si ipotizzò. L’ipotesi Di Cefis Pasolini fa un personaggio divenne convinzione, tuttora persisten- centrale del suo incompiuto romanzo te, nonostante le varie fasi del processo Petrolio. In lui vede la “mutazione relativo a quella morte abbiano portato antropologica della classe dominante”, alla luce matrici di tutt’altra natura. quel nuovo potere finanziario che Per la gente, dunque, era morto un avrebbe portato alla cattiva società omosessuale. Ma per Moravia (e per chi cetuale di oggi, “in un Paese conosceva l’opera di Pasolini) era morto orribilmente sporco”». Così, in quarta di un grande poeta; e di poeti - disse copertina. nell’orazione funebre - ne nascono pochi. Ed era morto un intellettuale “impegnato” (l’ultimo, forse), che faceva Roberto Fantini, Il cielo dentro di noi. sentire la sua voce forte, pungente, Conversazioni sui Diritti Umani (sul mondo scomoda, profetica; che combatteva con che c’è e su quello che verrà), Graphe.it le armi di intellettuale la dittatura del edizioni, 2012, pagg. 114 Potere di qualunque tipo. Ma il giudizio che veniva dato sulla natura di quegli La cronaca martellante di problemi di interventi erano legati alla sua politica nostrana (italiana ed europea) condizione. Così, si verificò per Pasolini che vengono presentati come “nodali”; quello che si verificò per Leopardi. la presenza insopportabile di “tuttologi” Leopardi si ribellava contro coloro che o di politici che pretendono di passare si ostinavano ad attribuire alle sue alla Storia che da essi prenderebbe circostanze materiali ciò che era solo nuovo corso – tutto questo obnubila la frutto del suo pensiero, delle sue vista, la mente e le coscienze di fronte a riflessioni, della sua filosofia; contro grandi tragedie universali che coloro che volevano considerare le sue coinvolgono l’uomo e i suoi diritti. opinioni filosofiche come il risultato Questo che presentiamo è un libro di delle sue sofferenze. conversazioni con persone competenti e Nel libretto che presentiamo, invece, gli autorevoli su temi scottanti dell’umanità: autori, dopo aver ricordato, nella prima l’antisemitismo, la tragedia dei desapaparte (“Il capolavoro di Pasolini. Come recidos argentini, il genocidio ruandese, i la cultura italiana reagì all’assassinio”), campi di concentramento in Cina, la questi giudizi su Pasolini (giudizi sulla pena di morte, la tortura, la situazione persona, non sull’opera), ricostruiscono, carceraria in Italia, il disarmo, le religioni nella seconda (“Le ‘fonti’ di Petrolio. Tra e i diritti umani, Amnesty International. filologi e magistratura”), il quadro Dobbiamo considerare l’umanità come politico in cui finì per collocarsi il delitto. un unico grande corpo; convincerci che Un quadro le cui linee prendono inizio le “differenze” tra gli uomini (di razza, di dall’assassinio di Enrico Mattei e di religione, di usi, ecc.) sono “apparenze” Mauro De Mauro. «Il brutale massacro che nulla hanno a vedere con l’essenza di Pasolini (1975) resta uno dei buchi dell’uomo, unica e universale. Eppure, neri della notte repubblicana: Così come hanno insanguinato la storia, annientato 54


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LETTURE

menti e coscienze: con accanimento, violenza, barbarie, orrore, che non riusciamo a sconfiggere. L’orrore di diritti umani calpestati dura il momento che durano le immagini che ce lo mostrano; poi, segue l’indifferenza Se invece comprendessimo le cause profonde da cui nasce, le nostre coscienze ne rimarrebbero sconvolte. Il cielo (è il titolo del libro) è spazio infinito, identico in tutte le parti del mondo, senza confini: immagine dell’umanità sulla quale si stende come un velo. Quando la metafora di questo cielo è entrata in noi, scompaiono le divisioni, gli odî, le violenze.

ormai, non lungo la linea fondamentale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale, nuovissima linea che separa coloro che concepiscono, come campo centrale della lotta, quello antico - cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che formano, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità - e quelli che vedranno come compito culturale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzano verso questo scopo le forze popolari e, anche Chiara Maria Pulvirenti, L’Europa e conquistando il potere nazionale, lo l’isola - Genesi del Manifesto di Ventotene, adopereranno in primissima linea come Bonanno editore, Acireale-Roma 2009, strumento per realizzare l’unità pagg. 109 internazionale».

Confinati nell’isola di Ventotene, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, stilarono in sei mesi quel fondamentale documento dei diritti fondamentali dell’Unione europea, noto come il Manifesto di Ventotene (1941), e che nell’edizione definitiva del 1944 avrà il titolo: Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto. Ad ispirarlo, fu la lettura di un libretto di Luigi Einaudi del 1920: La guerra e l’unità europea, dove scorsero «i primi bagliori di quella che sarebbe stata l’epifania europeistica ventoteniana» scrive Chiara Maria Pulvirenti nel libro che presentiamo, nel quale ricostruisce le vicende politiche e culturali che condussero alla stesura del documento. Il Manifesto di Ventotene è davvero il testo fondamentale dell’Unione europea, unione fondata sulla pace e la libertà. Testo che i partiti politici nazionali non dovrebbero mai dimenticare, soprattutto in questo momento in cui la crisi greca dovrebbe far ripensare l’idea di Europa. Si legge, per esempio, nel capitolo II: «La linea di divisione fra i partiti progressisti e i partiti reazionari cade,

Alfonso Gatto, Il capo sulla neve – Liriche della Resistenza, Fondazione Alfonso Gatto, 2012 Carlo Cremaschi, Doveva essere un moto rivoluzionario - Scritti sulla Resistenza e la Costituente, Edizioni Junior, Azzano San Paolo (BG) 2011, pagg. 255

Il libro di Alfonso Gatto - un progetto della Fondazione a lui dedicata - raccoglie le liriche della Resistenza (in tutto venti), che il poeta scrisse tra il 1943 e il 1947, e pubblicò nel 1947. C’è in queste liriche il dolore dell’ umanità, della «natura umana offesa», di un mondo su cui si stende la tenebra. Ma c’è anche il ricordo di altri mondi di luce e di speranza. Al mondo della morte e dell’offesa il poeta oppone l’amore per la vita; anzi, l’ “Amore della vita”: un cantico, cioè, di tutto ciò che vive. Oppone il valore e la forza dei sentimenti, che non ti fanno dire più “io”, ma “noi”: il dolore, infatti, affratella più dell’amore, perché nel dolore, più che nell’amore, ci identifichiamo con l’altro. Oppone, infine la

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forza della poesia, della parola poetica, che penetra nei cuori, dove avviene la vera resistenza, il vero cambiamento, la trasmutazione dei valori, senza la quale le guerre continueranno ad insanguinare la terra, a lasciare altri martiri in altri piazzali, a mostrarci altre immagini di carnefici vivi davanti ai morti (“Per i martiri di Piazzale Loreto”), a farci udire strazianti lamenti di madri che gridano: Mio, il figlio, non era della guerra, / dei padroni che lasciano ch’io pianga / dietro la porta come un cane, mio, / delle mie mani, del mio petto giallo / ove le mamme seccano sul cuore. Alla Resistenza è dedicato anche il libro di Carlo Cremaschi, intellettuale, uomo politico e deputato della prima legislatura. Libro di memorie e interventi politici datati, senza dubbio, ma non mancano di spunti di attualità. Vi permane l’insegnamento di fondo; vi senti non solo la passione politica, ma anche l’amore per l’uomo e la società, l’amore dell’uomo per la libertà, l’aspirazione al bene e al progresso, la lotta contro tutto ciò che opprime la libertà e l’impulso alla vita. Si leggano, per esempio, queste parole dell’articolo “Se l’Europa non saprà rinnovarsi dovrà subire l’esperienza della rivoluzione”: «Di fronte a un mondo che

non ha saputo rinnovarsi, alcuni hanno pensato che non resti altro che l’esperienza della rivoluzione comunista, altri invece accarezzano l’idea di una restaurazione pura e semplice dei vecchi rapporti sociali. Scartata la prima soluzione perché annientatrice di qualsiasi libertà, ci si può, anche solo per un istante, soffermare sulla seconda soluzione? Ma se così dovesse essere ascoltiamo quel che dice la nostra gente. Non li avete mai sentiti dire: “Chi credete che combatta per un’Europa che non sa superare le vecchie questioni di rivalità? Chi volete che muoia per un’Europa che non sa unire i propri sforzi alla creazione di un mondo nuovo? Volete che si combatta per creare non una, ma parecchie Berlino? Volete che si combatta da parte di gente che vi dovrebbe essere debitrice soltanto della libertà di morir di fame?» (pag. 191). Oppure, parlando del rinnovamento della scuola: «Rinnovare bisogna, non semplicemente innovare. (…) Solo se una sana cultura avrà penetrato tutti gli strati sociali, noi potremo evitare che un arruffapopoli qualunque si presenti ancora sulla scena politica e solo sia princeps e da solo affondi e sfondi quanto di buono i secoli hanno conquistato».

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