UN BUCO NELL’ACQUA: manifesto retroattivo per l’Isola del Giglio.
0. Manifesto.
In verità, si commette un grossolano errore di valutazione nel voler indicare con il generico termine «crisi» un’altrettanto generica carenza, mancanza, scarsità [di denaro? di mezzi? di possibilità?] che sembra inevitabilmente perseguitare il presente; pare invece il contemporaneo sia ricco di frangenti critici che trascendono gli oramai consunti ritornelli delle «crisi economico-politico-social-demograficoccupazionali» e sono piuttosto configurati in quegli eventi che al grido di «disastro», «catastrofe» e simili sottraggono per qualche istante le prime pagine alle crisi già citate, siano essi di natura idro-geologica, vulcanica, bellica, nucleare, trasportistica oppure, come in questo caso, navale. Contemporaneo denso di «criticità» dunque, ma ancor più popolato dai detriti che questi eventi lasciano sul campo, e che nel tentativo di ristabilire un ipotetico ordine sono fatti oggetto dei più macchinosi piani per la loro rimozione ed il loro smaltimento, indipendentemente da quali e quante siano le risorse necessarie per la loro attuazione, indipendentemente da quale sia la loro efficacia in rapporto al problema iniziale.
Ed è così che si sancisce l’avvio di un circolo vizioso che prende la forma di un’incessante corsa alla riparazione, il più delle volte venduta sotto le spoglie della «messa in sicurezza», come ad implicare altrimenti il rischio di minare una presunta normalità. Appare evidente come questa fatica di sisifo alla continua ricerca dell’«equilibrio» [appartenente ad un mondo più onirico che umano] sia l’alibi perfetto per una prova di forza della pratica ingegneristica che vorrebbe dimostrare d’essere in grado di sovvertire la sovversione, ma che ben presto rivela la sua vera identità, del tutto incapace di abbandonare il set di schemi comportamentali e procedurali su cui, dogmaticamente, essa stessa si fonda. E se è vero che «l’Architettura ha inizio dove termina l’ingegneria» una possibile via d’uscita si prospetta non appena si prende coscienza del fallimento ingegneristico. Lo spostamento dell’obbiettivo dalla risoluzione di un problema per cancellazione, allo sviluppo, costruzione [come implicito nel nome stesso della nostra disciplina] soprattutto in virtù dei residui rimasti sul campo, apre inevitabilmente a delle possibilità di trasformazione se possibile del tutto estranee ad esperienze passate proprio a causa dell’unicità dell’input del processo. È necessario considerare però come ciò debba dichiarare una radicale indipendenza dalle pratiche perbeniste che si attuano sotto l’egida del «ri-»: il rischio insito nel passare per riuso o riciclo che siano è inevitabilmente quello di creare l’aspettativa di un risultato necessariamente «migliore»
delle condizioni di partenza, ovvero che tutto il processo abbia sempre funzionato con un rendimento più alto possibile. Dal momento però che stabilire dei criteri universalmente riconosciuti per un’imparziale valutazione di questo dato non è possibile, a meno di non voler scivolare in banali [e ahinoi diffusissime] demagogie, si porrebbe la sindacabilità a priori degli esiti dei processi di trasformazione e di conseguenza se ne limiterebbe irrimediabilmente l’evoluzione. Ed è probabilmente la componente di elevata imprevedibilità dello sviluppo di queste trasformazioni a suscitare maggiore interesse [o preoccupazione?] in un’epoca che più che da crisi sembra essere affetta da una irriducibile stasi.
1. Rimozione. «L’inconscio – che è come dire il rimosso – non offre resistenze di nessun genere agli sforzi del trattamento. Anzi, per quel che gli riguarda, esso non cerca altro che di abbattere la forza che lo schiaccia, e farsi strada sino ad arrivare alla coscienza, se non pure scaricarsi con qualche azione reale.» S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1920
2. Il problema. La rimozione, la cancellazione dei resti del disastro è l’unica procedura applicabile? Esiste il rischio che l’evento riemerga dall’inconscio in cui è stato confinato, vanificando di fatto tutti gli sforzi necessari alla sua rimozione? È possibile invece adottare delle strategie capaci di dialogare senza timore con il relitto della Costa Concordia? Sotto: i partecipanti al IV CIAM ad Atene, riuniti per l’occasione nei pressi delle rovine dell’Isola del Giglio.
3. La [possibile] soluzione. Dal ventaglio di sviluppi progettuali ipotizzabili n’è stato selezionato uno che consentisse di evitare la cristallizzazione del relitto – permettendo la sua naturale metabolizzazione da parte del contesto in cui è calato – e, al contempo, di mantenere un segno evidente dell’evento, combinazione perfettamente metaforica del destino della contemporaneità.
4. Il contenuto. Individuata la strategia, si è scelto di portare alla luce, di solidificare tutti quei volumi, di norma celati agli utenti, che in realtà costituiscono la «struttura» vera e propria della nave.
5. Il risultato. S’interseca quindi l’output dell’operazione precedente con un sistema arbitrario di piani orizzontali.
6. ÂŤPrigionieri volontariÂť.
Giunti a questo punto l’ipotesi dichiara spontaneamente la sua vocazione naturale: se la nave da crociera è in sé una grande metafora della società contemporanea, quale luogo migliore di questo per riflettere sul suo naufragio?
7. Macchine.
Nella nave vi è la presenza di un elemento, il fumaiolo, che per quanto ingentilito da colori sgargianti continua a minacciare l’inviolabilità della «struttura» intima della nave, tutto l’apparato necessario al funzionamento dell’illusoria macchina dei divertimenti. Ed è proprio da dove un tempo la quintessenza delle malefatte dei viaggiatori abbandonava tacitamente la Concordia che ha inizio il viaggio in ciò che si è voluto ne restasse.
8. Ospiti illustri. A lato: articolazione planimetrica dell’intervento ultimato. Sotto: membri dell’«Indipendent Group» sostano nelle vicinanze dell’ingresso durante la loro visita.
9. Alienazione. L’analogia formale riscontrabile tra la Walking City [sotto] di Ron Herron ed i grandi transatlantici del XX secolo è con tutta probabilità [e fortuna] destinata a rimanere tale. Se da un lato infatti Archigram propone una sorta di nuovo modello di urbanità, una città che potenzialmente è ovunque, la nave da crociera fornisce la simulazione di una realtà ipoteticamente perfetta, un frammento di città ipercondensato e privato in apparenza di tutte quelle componenti imperfette ed inevitabili che macchiano la terraferma. Ed ecco come la nave diviene la sede perfetta per una momentanea alienazione dalla realtà, dove è lecito, se non d’obbligo, vestire la maschera di qualcun altro, ipoteticamente perfetto anch’esso, un personaggio allucinato, stupefatto e perfettamente calato in un palcoscenico costruito ad arte. E questo fintanto che un crudele strappo pirandelliano, la collisione con la terra ferma, non interviene frantumando l’illusione e spingendo i viaggiatori verso la disperata ricerca del tanto odiato quanto rassicurante, solido reale. A destra: James Stirling nella sala della musica riflette in compagnia di David Bowie.
10. Capitale.
«Eppure, tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione.» K. Marx, Salario, prezzo, profitto., 1898