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Comunità e collectifs nei processi di trasformazione urbana
Politecnico di Milano Scuola di Architettura e Società Corso di studi in Progettazione Architettonica
Relatore: Marco Biraghi Correlatore: Corine Védrine - École Nationale Superieure d’Architecture de Lyon
Stefano Santamato 786872 a.a. 2013/2014 3
INDICE 1. INTRODUZIONE / QUADRO
PROBLEMATICO E METODOLOGIA 1.1 Milano e lo spazio pubblico dei «record» 1.2 Obiettivi e Metodologia
p.7 p.8 p.19
2. IL TEAM X, LA CRITICA ANTIFUNZIONALISTA E IL DIBATTITO SULL’HABITAT
2.1 La formazione del pensiero Moderno in architettura e il
p.25 p.26
dibattito sullo spazio pubblico. Cenni introduttivi.
2.2 I CIAM, la nozione di habitat e la «città funzionale» 2.3 L’intervento di Allison e Peter Smithson a Aix en Provence, la
p.29 p.35
formazione del Team X e la fine dei CIAM
2.4 Giancarlo De Carlo e «l’utopia concreta della partecipazione» 2.5 Aldo Van Eyck, i Playgrounds e l’Orfanotrofio di Amsterdam 2.6 Riflessioni sull’eredità del Team X
4
p.45 p.52 p.70
3. CAMMINARE COME RITUALE DI
TRASFORMAZIONE COLLETTIVA DELLO SPAZIO 3.1 Introduzione 3.2 Camminare come atto di trasformazione: nomadismo, pellegrinaggio e limen 3.3 Dalla visita-escursione Dadaista alla deriva Situazionista 3.4 New Babylon e l’Urbanismo Unitario: verso una città nomade 3.5 Stalker e l’accesso ai Territori Attuali
p.75 p.76 p.78
p.84 p.93 p.99
4. IL «CANTIERE APERTO» DELLO SPAZIO
PUBBLICO: IL MOVIMENTO FRANCESE DEI COLLECTIFS D’ARCHITECTES 4.1 Patrick Bouchain e il padiglione francese alla biennale di Architettura di Venezia 2006 4.2 Métavilla: utopia o trasformazione della realtà? 4.3 La Métavilla come «apertura dei possibili»: il movimento dei collectifs d’architectes [analisi di 6 collectifs _ schede] 4.4 Il «cantiere aperto», una nuova «architettura della partecipazione» 4.5 Sapere vs Saper Fare: l’architetto tra l’urbanista e il «bricoleur» 4.6 Il rapporto con la commessa e la questione del tempo 4.7 Superville: il «Dis-Ordine degli Architetti»
p.105 p.114
p.99 p.121
pp.125 - 152 p.153 p.162 p.168 p.184
5. CONCLUSIONI / LA RIMESSA IN GIOCO DELLO SPAZIO PUBBLICO
p.189
5.1 Verso la formulazione di «anti-modello»?
p.190
Bibliografia e Sitografia
p.200
5
1 INTRODUZIONE / QUADRO PROBLEMATICO E METODOLOGIA 1.1 Milano e lo spazio pubblico dei «record» 1.2 Obiettivi e Metodologia
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1.1 Milano e lo spazio pubblico dei «record» Lo spazio pubblico è sempre stato una componente di vitale importanza per il
funzionamento della civiltà, sia in quanto luogo privilegiato per lo svolgimento della vita collettiva che in quanto oggetto di identificazione culturale-simbolica per i suoi
componenti e le sue istituzioni. Fino al XX secolo l’architettura, con gli strumenti
propri di ciascuna epoca, ha avuto il compito di interpretare questa relazione e di
realizzarne una rappresentazione, rendendo lo spazio pubblico un vero e proprio «specchio dei tempi»1 di ogni società.
È complesso applicare oggi questa accezione tradizionale di progetto dello spazio
pubblico, in un contesto in cui fenomeni come la finanziarizzazione dell’economia, i flussi migratori e lo sviluppo tecnologico, ridisegnano completamente le identità e i confini della società attuale, i cui valori appaiono sempre più difficilmente
individuabili e dunque rappresentabili. Si parla oggi di «crisi» dello spazio pubblico anche per questa ragione.
I valori che tuttavia resistono a questa crisi di rappresentazione, e che effettivamente
contraddistinguono in modo incontrovertibile la contemporaneità, non appartengono
più alla sfera culturale e simbolica bensì esclusivamente a quella economicofinanziaria, veicolati dalla fase attuale del capitalismo: sfruttamento, competitività e
intraprendenza sono i soli ideali perseguiti in quella che Ilaria Boniburini definisce la costruzione della città «nuova»2, fatta di un’architettura di «grandi firme, grandi eventi
e grandi opere»3. Questo slittamento valoriale è all’origine di molti dei fenomeni urbani
che coinvolgono lo spazio pubblico odierno. Tra questi vi è la marginalizzazione e la 1
http://www.slideshare.net/architettaste/la-presunta-morte-dello-spazio-pubblico-
americano 2
Ilaria Boniburini, La lotta per lo spazio pubblico come pratica di cambiamento, in Spazio
Pubblico – declino, difesa, riconquista, Ediesse Editore, Roma 2010, p. 23. 3
8
Ibidem.
segregazione su base economica, sociale o etnica di gruppi sociali nelle periferie o
la creazione di spazi «selettivi»4 e di comunità – gated communities - che fanno della separazione dall’ambito pubblico la propria caratteristica essenziale.
Lo sviluppo della cultura del progetto dello spazio pubblico nell’epoca della città neo
liberista, il cui funzionamento è basato sull’iniziativa privata, si svolge dunque per definizione all’interno di un palese e profondo conflitto, quello pubblico-privato, e dunque in una condizione di crisi che è intrinseca, inevitabile e costante.
Le manifestazioni di questo conflitto sono tangibili e di grande attualità, anche nella città di Milano, che negli ultimi anni è stata oggetto di profonde trasformazioni del suo tessuto. Gli interessi economici privati di multinazionali e grandi banche
hanno profondamente trasformato il volto della città, riuscendo a erigere, in luoghi strategici, dei veri e propri monumenti del potere economico privato.
I più grandi architetti dello star system mondiale hanno provveduto alla definizione formale di questa dimostrazione di egemonia del privato sul pubblico, come nel caso
dell’architetto argentino Cesar Pelli che ha progettato la Torre Unicredit (2009-2011), sede dell’omonimo gruppo bancario, situata d’innanzi alla stazione nel quartiere
Garibaldi, nell’ambito del più ampio progetto Porta Nuova. Il grattacielo si articola in più corpi distinti disposti in forma circolare, la cui altezza cresce progressivamente fino a raggiungere la cima di un’antenna di 231 metri, che sancisce non solo un record
nazionale, ma un evento storico altamente simbolico: «il grattacielo più alto d’Italia sarà il grattacielo di una banca»5.
Più che per questo aspetto, si sceglie di soffermarsi sul progetto del «totem del nostro capitalismo»6, per altre due ragioni che riguardano più da vicino il tema dello 4 5 6
Ibidem.
Roberto Marone, «Unicredit e la torre sovietica» in www.doppiozero.com Ibidem.
9
Scavi di cantiere nell’area Porta Nuova Varesine, Milano, gennaio 2008
spazio pubblico. In primo luogo per il processo di espropriazione delle aree che ha
consentito la sua costruzione, emblematico del fenomeno di gentrification che ha
colpito alcune zone di Milano tra cui in primis, quella di Porta Nuova. In questo caso
si è assistito alla letterale distruzione di un importante centro culturale, l’Isola Art Center, situato a pochi metri da dove ora sorge la torre e demolito per fare posto alle nuove costruzioni. La «Stecca degli artigiani» (ex fabbrica di proprietà del comune
occupata per ospitare il centro per le arti) è stata per anni punto di riferimento di
artisti provenienti da tutto il mondo, luogo di sperimentazione accessibile a tutti, e per questo rappresentante un patrimonio pubblico da preservare.
Il secondo motivo per cui si è deciso di approfondire il caso della Torre Unicredit è
che una delle ragioni per cui si è scelto di sostenere il costo di sopprimere le preziose
testimonianze culturali stratificate nelle aree su cui è stata eretta, è stata proprio la
creazione di un’importante spazio pubblico, situato all’interno dei corpi dell’edificio: la piazza Gae Aulenti. Inaugurata nel dicembre 2012, la piazza, dedicata al celebre architetto e designer milanese, si colloca a 6 metri di altezza dal livello stradale ed è
accessibile direttamente dal viale dello shopping corso Como, dalla stazione Garibaldi
e dai Giardini di Porta Nuova, in fase di realizzazione. Il cuore dell’intervento di Porta Nuova offre da un lato una vista inedita sul quartiere isola, in direzione della Stazione
Centrale, dall’altro raccoglie i suoi fruitori nell’andamento curvilineo della torre, che ai
piani terra ospita una serie di funzioni commerciali quali Grom, Muji, Nike, Sephora, Feltrinelli ed Esselunga. Uno spazio che nei contenuti ma anche nel linguaggio architettonico ricorda più uno shopping mall che una piazza pubblica, contribuendo a
quel processo di metamorfosi che sta progressivamente trasformando i «cittadini in
clienti»7 e lo spazio pubblico in un paradiso per consumatori. Nonostante ciò, alcune scelte di gestione di questo spazio – come l’inserimento della pista per il pattinaggio 7
Ilaria Boniburini, op.cit., p. 27. 11
invernale e di altre funzioni temporanee - fanno fortunatamente funzionare la piazza anche per attività slegate dal consumo e più legate allo svago e al tempo libero.
Più recentemente, a metà giugno 2014, è stato inaugurato un altro spazio pubblico milanese da «record»: la Piazza Gino Valle, nel quartiere del Portello. Dedicata anche questa a architetto particolarmente attivo nella città di Milano, la piazza è
stata già ampiamente pubblicizzata per essere «la più grande Milano»8. Anch’essa
sorge nell’ambito di un progetto più ampio, che prevedeva la rigenerazione delle aree
ex-Alfa Romeo, la creazione di un centro direzionale, nuove residenze, un centro commerciale e un grande parco. Un altro intervento in «grande», le cui dimensioni vengono promosse come garanzia di qualità, innovazione e cambiamento9:
«Una nuova grande piazza a Milano, un segno forte di innovazione nel cuore del Portello, quartiere della trasformazione e del cambiamento» 10.
Grandezza e grandiosità che si traducono, oltre che nelle dimensioni, anche in forme
e linguaggi architettonici, concepiti per stupire ed evocare scenari futuristici, lontani e virtuali più che per contribuire all’effettiva costruzione di un habitat. Due delle tre
torri progettate dal trio Hadid-Libeskind-Isozaki, nell’ambito del grande intervento immobiliare City Life per esempio, sono state oggetto di ripetute revisioni per i costi
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_giugno_14/inaugurata-piazza-gino-valle-piu-
8
grande-milano-d1ced44e-f3c7-11e3-9746-4bf51e9b4d98.shtml 9
Cfr. ivi, p. 23.
10
Ada Lucia De Cesaris in http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/14_giugno_14/
inaugurata-piazza-gino-valle-piu-grande-milano-d1ced44e-f3c7-11e3-97464bf51e9b4d98.shtml 12
Cesar Pelli, Piazza Gae Aulenti, Milano, 2009-12
troppo elevati, dovuti soprattutto alle loro stravaganti caratteristiche strutturali. Il
Curvo, lo Storto e il Dritto, nonostante ciò, tra qualche anno, oltre a ridisegnare il già ampiamente rinnovato skyline milanese, faranno da sfondo al Parco Pubblico di
quartiere, e nel complesso, a quella che viene sponsorizzata come «la zona pedonale più grande di Milano»11.
È proprio nell’equazione grande-uguale-nuovo che sembra potersi sintetizzare
l’investimento effettuato sulla città e sul suo spazio pubblico, a suon di rigenerazioni, riqualificazioni e rivitalizzazioni urbane, nella corsa di Milano verso l’evento «grande» per definizione, Expo 2015, motore delle principali trasformazioni urbane recenti.
Ad oggi numerosi sono i cantieri e i lavori ancora in corso, e grande l’aspettativa, per la consegna di importanti spazi urbani di cui la comunità è stata a lungo privata perché
inagibili o in fase di riqualificazione. La logica del «grande evento» su scala urbana, se da un lato è stata usata come giustificazione per interventi di dubbio interesse
pubblico e soprattutto per grandi speculazioni private, se non altro ha imposto
una scadenza non negoziabile a un ampio panorama di interventi che altrimenti si
sarebbero probabilmente protratti ancora per lungo tempo. Basti pensare al bacino della Darsena, da anni inagibile, o alla piazza S. Ambrogio, che ospita l’omonima basilica romanica ed è bloccata dai lavori dal 2006: tutti spazi investiti da ampi progetti di riqualificazione, il cui termine è previsto per Expo 2015.
Non si può prevedere nel dettaglio quali caratteristiche avrà la città che verrà consegnata come eredità dopo l’evento. Ciò che è certo è che sarà una metropoli
profondamente trasformata nel suo aspetto esteriore e rinnovata per molti aspetti che coinvolgono le attrezzature pubbliche, ma che tuttavia conserverà le contraddizioni a
cui si è scelto di non porre rimedio nonostante l’occasione dell’esposizione universale. Tra le più urgenti vi è quella dell’enorme panorama di edifici e di aree dismesse 11
14
http://www.city-life.it/it/
Piazza Gino Valle, quartiere Portello, giugno 2014
e inutilizzate, quell’inestimabile patrimonio edilizio privato e pubblico «lasciato deperire nonostante la penuria di spazi dedicati alla cittadinanza»12 che da anni connota la città di Milano. Questa è stata una delle motivazioni che ha spinto un
gruppo dei Lavoratori dell’arte nella primavera 2012 a occupare la Torre Galfa: un edificio di trentuno piani di proprietà di Immobiliare Lombarda, costruito nel 1953 ma in stato di abbandono dal 2006. L’edificio, rinominato «Palazzo Macao» dopo l’occupazione, è situato proprio a poche centinaia di metri dal quartiere di Porta
Nuova, epicentro delle nuove costruzioni, in cui la stessa impresa proprietaria della torre è coinvolta.
Durante i giorni dell’occupazione sul sito web di Macao si poteva leggere: «Ancora
oggi è tollerato che soggetti privati possano lasciare inutilizzati enormi spazi sottratti
alla città, come accade per il gruppo Ligresti che abbandona all’incuria un palazzo di 33 piani nel centro di Milano pur continuando a costruire a poche centinaia di metri un altro grattacielo senza nessun tipo di limitazione o restrizione»13.
L’occupazione è stata proposta da un lato come protesta simbolica, volta a sottolineare
le contraddizioni delle trasformazioni urbane in corso, dall’altra con l’obiettivo di inaugurare un’inedita forma di grande spazio pubblico e sociale per la produzione
artistica. L’iniziativa ha avuto un grande successo e migliaia sono le persone che si sono riversate per giorni nell’edificio, contribuendo alla rimessa in funzione degli spazi interni ai primi piani, dibattendo in grandi assemblee, e partecipando attivamente
alla costruzione collettiva di questo nuovo grande spazio pubblico. L’edificio presenta
peraltro un interessante spazio aperto al piano terra, pensato come elemento di dialogo tra la città e gli spazi interni. Le barriere che lo cingevano sono state eliminate durante i primi giorni di occupazione ed è stato poi rinominato «Piazza Macao». 12 13
16
http://www.macaomilano.org/ Ibidem.
Dopo una settimana circa di attività, la polizia ha sgomberato lo stabile senza tuttavia
porre fine all’esperienza del movimento, che ha continuato la sua attività occupando per un giorno un altro edificio simbolico, il Palazzo Citterio a Brera. Ad oggi la sede
stabile di Macao è un ex-macello (anch’esso in disuso ma di proprietà pubblica), situato nella zona Est di Milano, dove numerose attività culturali vengono svolte con regolarità.
Seppur non si costituisca come un vero proprio progetto di architettura, lo spazio pubblico immaginato da Macao presenta contenuti progettuali sicuramente
più interessanti rispetto a quelli finora analizzati: un gruppo di cittadini legge una contraddizione all’interno del sistema urbano, vi individua uno spazio abbandonato con un grande potenziale, sceglie di esercitare attivamente i propri diritti appropriandosene, prendendosene cura, e trasformandolo in uno spazio
creativo, inclusivo e aperto alla cittadinanza. In questa forma di resistenza creativa14, alternativa alla logica del «grande» e del «nuovo» propria delle esperienze milanesi
finora descritte, risiedono molte tematiche che verranno sviluppate in questa ricerca.
14
Cfr. Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 7. 17
Macao, ai piedi della Torre Galfa [Melchiorre Bega, 1956-59], maggio 2012, Milano
1.2 Obiettivi e metodologia Il caso di Milano sintetizza il quadro di riferimento problematico nell’ambito del
quale questa tesi si svilupperà, con l’obiettivo di realizzare un discorso sullo spazio pubblico alternativo rispetto alle esperienze finora analizzate.
I quesiti attorno a cui il lavoro si svilupperà saranno i seguenti: cosa impedisce all’approccio progettuale tradizionale di proporre soluzioni soddisfacenti sul tema
dello spazio pubblico, soprattutto sotto l’aspetto della sua componente relazionale?
Quali soluzioni si possono configurare a fronte di questa mancanza? È opportuno ritenere che la strada da percorrere riguardi il coinvolgimento diretto della comunità
all’interno dei processi di trasformazione urbana? Quanto questo passaggio implicherebbe una revisione degli strumenti metodologici tradizionali del progetto?
Per rispondere a questi quesiti si ricorrerà all’analisi dell’opera di progettisti e autori
che hanno indagato la dialettica tra progetto di architettura e comunità durante il
corso del XX secolo. Si procederà inoltre in un’ottica che guarda con attenzione alle
potenzialità dello spazio pubblico in termini di connessione, interazione e scambio, come un dispositivo interpretabile e aperto all’imprevisto, in grado di innescare processi
creativi dal basso in termini sia individuali che collettivi. Si svilupperà un approccio che legge la città per micro realtà, considerando il grande potenziale offerto dai suoi spazi secondari, abbandonati e in disuso e non per macro aree di trasformazione. Si
guarderanno altresì con interesse le modalità d’uso dello spazio effettuate dai suoi utenti, con particolare attenzione per quelle svolte al di là dei regolamenti e dei codici di comportamento convenzionali, ritenute un inestimabile segnale di vitalità urbana
e un campo di indagine fondamentale per poter formulare delle proposte progettuali, nella convinzione che il progetto architettonico dello spazio pubblico non si esaurisca in una questione morfologica, né tantomeno di dialettica forma-funzione. «Sono le
19
persone a riempire di senso lo spazio pubblico»15 ed esso deve essere rappresentazione dei loro bisogni «vari, eterogenei, conflittuali, devianti e contraddittori»16, proprio in quanto umani.
Si tenteranno infine di raccontare pratiche di progettazione dello spazio pubblico che ne offrano una rappresentazione saldamente radicata alla realtà, rifuggendo
la spettacolarizzazione che oggi connota la maggior parte dei «grandi» interventi. In questo senso è da intendere il titolo di questo lavoro. L’aggettivo «possibile» fa riferimento ad un progetto che non necessita di una rappresentazione che ne alteri le caratteristiche per essere promosso e realizzato e che fa della fattibilità e
realizzabilità con pochi strumenti il proprio punto di forza. «Possibile» si riferisce anche all’esperienza che rappresenta l’esito di questa ricerca, che si conclude con l’analisi di un giovane movimento architettonico che fa di questo panorama di valori un’effettiva, verificabile, e non solo augurabile, realtà.
Prima di giungervi tuttavia si ricorrerà all’analisi di progetti, idee e proposte
formulate nella storia recente, che sono state capaci di introdurre, sin dal dopoguerra, un approccio sensibile alle questioni finora elencate. Si ripercorreranno le vicende relative al dibattito che si svolse nel secondo dopoguerra attorno al tema di habitat nell’ambito dei CIAM, che vide opposti i padri del funzionalismo ad un gruppo di
giovani architetti «umanisti», raggruppati sotto il nome di Team X. In questo capitolo
sarà possibile comprendere come fece ingresso lo studio della componente relazionale
all’interno del dibattito sullo spazio della comunità e come vennero sviluppati i primi tentativi di partecipazione dei cittadini ai processi di trasformazione urbana.
Si procederà all’analisi di una serie di esperienze accomunate dalla pratica del 15
Elisabetta Forni, Spazi pubblici: l’esperienza quotidiana della con-vivenza in città in Spazio
Pubblico – declino, difesa, riconquista, Ediesse Editore, Roma 2010. 16
20
Ibidem.
camminare come principale strumento di indagine del territorio, utili per arricchire
il quadro di tematiche inerenti alla dialettica progetto architettonico-comunità. Di queste pratiche si approfondirà sia l’aspetto relativo all’esperienza collettiva
che quello della trasformazione come risultato di un lavoro di gruppo: entrambi processi che si oppongono all’accezione di creatività individuale, vigente nel progetto
architettonico tradizionale. Queste pratiche inoltre, soprattutto quelle sviluppatesi nella seconda metà del XX secolo, hanno introdotto a uno sguardo sulla città e le sue
relazioni assolutamente innovativo per l’epoca, proseguendo la presa di distanza dal modello funzionalista e trasformando la città moderna in un territorio aperto alla sperimentazione e a nuove interpretazioni.
La ricerca si concluderà con l’analisi approfondita di un movimento architettonico francese di cui si illustreranno specifici progetti realizzati negli ultimi anni. I
singoli casi studio saranno utili per mettere in luce i numerosi aspetti metodologici innovativi che questo movimento, nato negli anni novanta ma al massimo della sua
attività proprio nell’ultimo decennio, presenta nell’affrontare il progetto dello spazio pubblico.
L’obiettivo della tesi sarà inoltre quello di individuare i punti di contatto tra il metodo adottato dal movimento dei collectifs d’architectes, la critica anti-funzionalista proposta dal Team X negli anni ’50 e la visione situazionista della città formulata come esito delle esperienze avanguardistiche del ‘900, analizzate nel secondo capitolo.
Da questo percorso storico non lineare si tenteranno di individuare i passaggi utili
per una riformulazione della nozione di spazio pubblico, in risposta ai quesiti posti in questa introduzione.
21
Si è ritenuto infine che l’unico strumento ragionevole per indagare le caratteristiche
di uno spazio pubblico «possibile» fosse quello della ricerca sul terreno concreto delle realtà in esame. Buona parte del materiale utilizzato per redigere il capitolo IV, quello
che racconta del movimento dei collectifs d’architectes, è infatti stato raccolto non solo tramite indagine bibliografica e sul web, ma anche e soprattutto grazie a un lungo
periodo di ricerca sul campo. Durante l’ultimo anno accademico ho avuto infatti modo di viaggiare molto, soprattutto in Francia, intervistando, lavorando e scambiando idee con numerosi attivisti e progettisti, protagonisti del movimento di cui ho cercato di
delineare i tratti. L’aspetto esperienziale di questa ricerca è stato sicuramente uno dei più preziosi sia da un punto di vista personale che metodologico, potendo garantire una buona conoscenza della realtà in esame e un alto grado di attendibilità dei dati raccolti, soprattutto se si considera che si tratta di un movimento giovane, di cui ancora non esiste materiale bibliografico.
22
23
2 IL TEAM X, LA CRITICA ANTIFUNZIONALISTA E IL DIBATTITO SULL’HABITAT 2.1 La formazione del pensiero Moderno in architettura e il dibattito sullo spazio pubblico. Cenni introduttivi. 2.2 I CIAM, la nozione di habitat e la «città funzionale» 2.3 L’intervento di Allison e Peter Smithson a Aix en Provence, la formazione del Team X e la fine dei CIAM 2.4 Giancarlo De Carlo e «l’utopia concreta della partecipazione» 2.5 Aldo Van Eyck, i Playgrounds e l’Orfanotrofio di Amsterdam 2.6 Riflessioni sull’eredità del Team X
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2.1 La formazione del pensiero Moderno in architettura e il dibattito sullo spazio pubblico. Cenni introduttivi. Il tema dello spazio pubblico, inteso nella sua accezione più ampia, si articola in un insieme eterogeneo di significati e valori che implica una trattazione complessa e necessita l’impiego di numerose discipline.
Le rapide e profonde trasformazioni a cui sono soggette le città odierne sollevano
tuttavia con chiarezza l’urgenza di un dibattito concreto e specifico sull’argomento, in grado di fornire a politici, progettisti e cittadini strumenti pratici per orientare le scelte che conducono le trasformazioni urbane.
Nonostante possa risultare arduo definire categoricamente quali aspetti di questo dibattito interessino specificamente l’architettura, è utile limitare il campo scegliendo
un percorso che renda possibile ricostruire un, seppur parziale, quadro di riferimento. Per fare ciò questa ricerca intende ricostruire le vicende relative ad uno dei più
importanti momenti di dibattito che condussero alla costruzione del pensiero
architettonico moderno: le riunioni dei Congrés Internationales D’Architecture Moderne
(d’ora innanzi CIAM), svoltesi tra 1928 e il 1958. I CIAM furono il principale
laboratorio intellettuale del Movimento Moderno e, in particolare nel dopoguerra, furono teatro di un lungo e acceso dibattito che si sviluppò attorno alla nozione di habitat, inteso come spazio della comunità.
Si trattò è un vero e proprio conflitto, che peraltro connotò buona parte della vita
del Congresso fino a causarne la chiusura definitiva, emblematico dell’incopatibilità tra le tesi di due importanti scuole di pensiero, protagoniste delle principali vicende
architettoniche del XX secolo. Da un lato figuravano i “padri” del Movimento
Moderno, fondatori del Congresso e legati a una visione funzionalista dell’architettura, dall’altra un gruppo di giovani progettisti, che assunse il nome di Team X, accomunati dall’intento di sviluppare un modello fondato su valori umanistici.
Si ritiene che sia le vicende riguardanti lo sviluppo complessivo del Congresso, sia gli apporti che i singoli delegati fornirono a questo dibattito, risultino coerenti e di 26
Incontro del Team X durante il Ciam di Otterlo, 1959
prezioso interesse per questa ricerca. Per tale ragione, dopo aver illustrato le principali
vicende congressuali, si procederà a descrivere nello specifico parte dell’attività
professionale di due celebri architetti appartenenti al Team X: Giancarlo De Carlo e Aldo Van Eyck.
È bene specificare che gli argomenti attorno a cui si svolse buona parte della discussione coinvolsero nozioni e pratiche che non riguardavano esclusivamente lo
spazio pubblico bensì aspetti metodologici più generali, a testimonianza del fatto che le idee delle due scuole erano inconciliabili e le divergenze profonde e non limitate a temi specifici.
28
2.2 I CIAM, la nozione di habitat e la «città funzionale» I CIAM nacquero su iniziativa di Le Corbusier e Sigfried Giedion che ne
organizzarono la prima riunione nel giugno 1928: il CIAM I di La Sarraz in Svizzera. In totale le riunioni effettivamente svoltesi furono undici, l’ultima delle quali ebbe luogo nel 1959 a Otterlo, in Olanda. A parte una lunga pausa di dieci anni durante la guerra – dal 1937 al 1947 – la frequenza dei CIAM fu quasi sempre biennale o triennale.
Nell’ambito dei CIAM ebbero luogo numerosi dibattiti su molteplici temi riguardanti la progettazione, che contribuirono in modo decisivo a delineare i tratti
del pensiero architettonico moderno. Il documento più emblematico e rilevante di questo periodo, redatto da Le Corbusier ma frutto di un intenso lavoro collettivo
interno al Congresso, fu senz’altro la Carta d’Atene che conteneva le linee guida per
la definizione di un’Urbanistica Moderna in grado di dare vita alla così detta «città funzionale»1.
Il dibattito e il lavoro attorno alla Carta cominciò nel 1933, in occasione del CIAM IV, che ebbe luogo inizialmente sulle acque del mediterraneo a bordo del Patris, una nave che copriva il tragitto da a Marsiglia a Atene. Le informazioni raccolte durante
il Congresso, che continuò e si concluse ad Atene, furono riunite nella Carta che venne pubblicata dopo circa dieci anni, nel 1943.
Le strategie del CIAM in tema di urbanistica, rivelavano una visione fortemente
critica dell’organizzazione urbana vigente all’epoca, considerata caotica e anacronistica. La Carta proponeva un modello che faceva della rigida separazione tra funzioni
la risposta alle sfide che la società moderna e lo sviluppo economico e industriale, ponevano.
Per metterla in pratica e trasformarla in uno strumento attuativo, i componenti 1
Il tema de «La città funzionale» fu il centro della discussione del CIAM IV, nonché titolo
della stessa edizione del congresso.
29
dell’assemblea ASCORAL2 – guidata da Le Corbusier – composero una griglia che mostrava le linee guida e i contenuti di quella che si auguravano sarebbe divenuta la nuova urbanistica. Quattro funzioni – residenza, lavoro, tempo libero, e circolazione
– riassumevano in modo essenziale i settori in cui la nuova disciplina avrebbe riorganizzato il tessuto urbano e guidato lo sviluppo della città.
La griglia, concepita come strumento moderno e alternativo sia per la pianificazione
che per l’analisi, la sintesi e l’interpretazione dei temi da dibattere3, fu presentata durante il CIAM VII. Poco tempo dopo tuttavia, in occasione dell’ottava edizione del
Congresso, cominciarono a levarsi le prime voci di dissenso: alcuni architetti di una generazione successiva a quella dei “padri” del Movimento, cominciarono a sollevare critiche al modello urbanistico proposto.
Il CIAM VIII si svolse a Hoddesdon (Inghilterra) e fu proprio incentrato sul tema
della comunità, con particolare attenzione al Centro Urbano (Civic Core) e alle
forme che esso avrebbe dovuto assumere alle diverse scale di pianificazione urbana. L’atmosfera in cui si svolse il Congresso fu influenzata dalla pubblicazione – di poco
precedente alla sua inaugurazione - di due testi: The hearth of the city – towards the humanisation of urban life, di Ernesto Natan Rogers e il saggio di Sjgrfied Giedion
Historical background of the core. In essi erano contenute significative considerazioni sull’importanza del ritorno ad una «scala umana» della progettazione. Giedion, in 2
L’Assemblée de Constructeurs pour une Rénovation Architecturale (ASCORAL) fu fondata a
Parigi nel da Le Corbusier nel 1940 che ne affidò inizialmente la guida a George Candilis. A fronte della sospensione dei CIAM durante gli anni della guerra Le Corbusier proseguì la sua ricerca in questo gruppo. Fu l’ASCORAL che ebbe il compito di organizzare il CIAM VII. 3
Cfr. Max Risselada e Dirk van den, Team 10 : 1953-81 : in search of a Utopia of the present,
NAi Publishers, Rotterdam 2005, p.30 30
particolare, si riferì ad un vero e proprio «processo di umanizzazione»4 già attivo a suo
parere nelle società occidentali, osservando una progressiva crescita della sensibilità ai diritti dell’individuo in opposizione alla «tirannia del meccanicismo»5.
Jaap Bakema, membro olandese della nuova generazione di delegati, asserì che il
progetto del Core presume la coscienza della stretta relazione che lega l’uomo alle cose e che l’accesso a questa nozione sarà possibile solo quando «saremo coscienti della pienezza della vita attraverso l’azione cooperativa»6.
La nuova generazione di architetti dei CIAM, si mostrò molto attiva e partecipante
al Congresso e, pertanto, si ritenne possibile affidargli l’organizzazione del IX Congresso previsto per il 1952, il cui tema di discussione sarebbe stato la redazione della così detta Charte de l’habitat.
L’incarico conferito alla nuova generazione fu tuttavia presto ritirato e rimandato alla redazione del CIAM X (previsto per il 1955), pur riconoscendo l’impegno e la vitalità
che i giovani membri avevano fino a quel momento mostrato nello svolgimento dei lavori. I “padri” rimasero dunque a capo dell’organizzazione della nona edizione del Congresso .
A Sigtuna nel 1952, in occasione della preparazione del CIAM IX di Aix en
Provence del 1953 erano assenti la maggior parte dei veterani come Le Corbusier, Giedion, e Gropius. Tale circostanza consentì alla nuova generazione di promuovere
un’interpretazione più ampia del concetto di habitat, fino ad allora considerato prevalentemente nella sua accezione funzionale, ovvero quella di «residenza». 4
Francis Strauven, Aldo van Eyck : the shape of relativity, Architectura & Natura, Amsterdam
1998, p.238. 5 6
Ibidem.
Eric Paul Mumford, The CIAM Discourse on Urbanism, 1928-1960, The MIT press,
Cambridge 2000, p.214.
31
Alcuni membri del gruppo ASCORAL di Parigi, portavoce del pensiero del loro
leader Le Corbusier, si mostrarono infatti promotori della visione tradizionale, affermando chiaramente che la nozione di habitat coincideva sostanzialmente con
quella di dweilling, già presente nella Carta di Atene. In altre parole essa rappresentava nient’altro che una funzione, da considerare spazialmente separata dalle altre. Gli
esponenti della cultura funzionalista prebellica si mostravano del tutto restii ad accogliere un’accezione che contemplasse la natura socio-biologica dell’abitare.
L’ Unitè d’Habitation di Le Corbusier del resto – realizzata proprio in quegli anni, tra il 1947 e il 1952 - nonostante fornisse di servizi fondamentali comuni a tutte le abitazioni, restava un imponente complesso isolato, come un «quartiere verticale»
immerso nel verde della periferia Marsigliese. Il Congresso non accolse in modo unitario le proposte di Wogenscky – relatore incaricato da ASCORAL – che trovò
la ferma opposizione di un gruppo di delegati. Tra questi vi era George Candilis, che tra l’altro in passato aveva collaborato proprio con Le Corbusier alla progettazione
dell’Unité d’Habitation. Questi definì habitat «l’insediamento umano nella sua
interezza»7 sottolineando l’importanza della dimensione collettiva dell’abitare. Al
suo intervento ne succedettero numerosi altri, come quello dell’architetto greco Despotopulos e dello svizzero Theo Manz, i quali condividevano entrambi la sua
tesi e la difesero, il primo a partire dall’origine storica della dimensione collettiva della vita urbana, il secondo sostenendo che la visione monofunzionale dell’habitat proposta nei CIAM non era più in grado di descrivere i fenomeni urbani in atto8.
Il fatto che la discussione restasse così concentrata sulla nozione di habitat, invece di
svilupparsi nella redazione di un documento complessivo, fece ritenere opportuno rilanciare il tema della Charte de l’habitat anche per il Congresso successivo: il CIAM 7 8
32
George Canidilis in: Les Documents de Sigtuna, CIAM AR-X-9, 1952, pp.1-5 Cfr. Francis Strauven, op.cit., p.242.
IX ad Aix en Provence del 1953.
In quest’occasione, nei giorni precedenti all’inaugurazione del Congresso, le premesse
al confronto sembravano sensibilmente cambiate rispetto al passato. Il gruppo di architetti appartenenti alla nuova generazione era divenuto molto più popolato e
il sentimento di rigetto nei confronti delle tesi funzionaliste sempre più tangibile
e condiviso. Oltre a un pubblico di più di tremila spettatori, tra i delegati invitati a intervenire apparivano infatti Jaap Bakema, Georges Candilis. Aldo van Eyck, Gill
Howell, Blanche Lemco, Alison e Peter Smithson, John Voelcker e Shadrach Woods, tutti esponenti della nuova generazione e membri di quello pochi anni dopo sarebbe divenuto il Team X.
I singoli percorsi che questi giovani progettisti avevano intrapreso conducevano su un terreno comune che li poneva indiscutibilmente su piano diverso rispetto a quello dei veterani.
«Ci conoscevamo appena ma nel corso di due settimane scoprimmo e accettammo che avevamo un atteggiamento comune, che stavamo tutti cercando di trovare i significati tramite i quali questo atteggiamento potesse divenire un approccio e, di conseguenza una forza positiva in urbanistica»9.
9
Jonh Voelcker, In Arena, Giugno 1965, p.12. 33
Ciam grid principles, 1949
2.3 L’intervento di Allison e Peter Smithson a Aix en Provence, la formazione del Team X e la fine dei CIAM Alcuni interventi si distinsero tra quelli pronunciati a Aix en Provence, tra questi sicuramente quello di Allison e Peter Smithson, coppia di architetti inglesi10 molto
noti in quanto appartenenti alla scuola britannica del brutalismo. Le riflessioni che essi presentarono derivavano dalla collaborazione con un’altra coppia inglese, formata dalla sociologa Judith Stephen e il fotografo Nigel Henderson.
Essi scorgevano nella periferia di Londra e nella libertà delle forme di associazione che le strada e il gioco dei bambini rendevano possibili, una realtà vitale e degna di
essere studiata e approfondita. Judith Stephen stava sviluppando appunto una ricerca su quelli che definiva patterns of associations in tutta la zona degli East Ends, mentre Nigel Henderson immortalò alcune immagini dei bambini in movimento, impegnati nell’atto del gioco.
Allison e Peter Smithson lessero nel ritratto di questa realtà sociale l’ineludibile indicazione di una forma di organizzazione spaziale, la cui coesione non era garantita
tanto da elementi fisici, quanto dall’informalità del suo assetto, che garantiva uno
sviluppo più naturale delle relazioni fra i diversi gruppi sociali. In questo quadro, l’elemento che esprimeva meglio l’idea di coesistenza tra funzioni era proprio la strada che, oltre a ospitare il traffico, diveniva un vero e proprio meeting place. La strada rappresentava inoltre il collegamento tra privato e pubblico, un luogo di forte
identificazione collettiva, snodo centrale della gerarchia dei patterns proposti dagli
Smithsons, riassunti nella struttura «house – street - district – city». L’insieme di queste
proposte era contenuto anch’esso in una griglia: la Urban Re-Identification Grid, sviluppata sulla stessa matrice della CIAM grid proposta dal gruppo ASCORAL, e 10
Allison e Peter Smithson entrarono a far parte come giovani membri del Modern
Architectural Research Group (MARS), il gruppo britannico dei CIAM. La loro notorietà era
dovuta principalmente alla recente vittoria del concorso per la costruzione della Hunstanton School a Norfolk (1949-1954).
35
Urban Re-Identification grid, Allison e Peter Smithson, 1953
Allison e Peter Smithson, “Street in the air� nel progetto Golden Lane, 1953
Cluster City, Alison e Peter Smithson, 1952
in evidente polemica contro quest’ultima.
La progettazione urbana avrebbe dovuto, secondo la loro visione, considerare
prioritariamente questa gerarchia di stati di aggregazione e il loro valore identitariorelazionale, e cessare di ragionare esclusivamente in termini funzionali.
Allison e Peter Smithson ricoprirono senza dubbio un ruolo di primaria importanza all’interno del gruppo che successivamente avrebbe assunto il nome di Team X, sia
per il loro apporto in termini teorici che progettuali. Il principio della street in the air ad esempio, fu proposto per la prima volta in occasione del concorso del 1952 per
la costruzione del Golden Lane Estate, un complesso di case popolari a Londra. Il progetto consisteva in un imponente corpo di fabbrica principale a cui si annettevano perpendicolarmente due volumi minori, per un’altezza costante di undici piani. La
particolarità dell’edificio risiedeva, più che nell’organizzazione degli appartamenti, nella presenza di una vera e propria strada che li connetteva, intesa come spazio comune, condiviso e connesso con l’esterno. Non si trattava di un puro spazio distributivo come un ballatoio, ma di una superficie ampia, coperta e in costante relazione con l’esterno, utile per creare una legame di appartenenza tra coloro che la
abitano e l’ambiente circostante. La street in the air fu realizzata nel progetto dei Robin Hoods Gardens (1969 -1972), a Londra. Non è un caso che sia proprio la strada lo
strumento indicato dagli Smithson come strumento di «Re-Identificazione Urbana» e di associazione tra gli uomini: l’idea di cluster è infatti figlia di questa riflessione, è una forma aggregazione che rompe l’ordine geometrico, che genera forme inattese
e spazi interstiziali, favorendo un uso non stereotipato e comunitario dello spazio
urbano. Un insieme sostanzialmente disorganico che nell’alternanza apparentemente priva di ordine tra pieni e vuoti disegna percorsi e flussi imprevedibili come spazi per l’incontro, lo scambio e la condivisione.
Il CIAM IX terminò, e se da un lato emergeva con più chiarezza la presenza di una 39
forza alternativa all’interno del Congresso, resisteva comunque un clima di sostanziale ostruzionismo nei suoi confronti. Il fragoroso applauso con cui il Congresso accolse il
discorso di Walter Gropius sulla «standardizzazione e la produzione industriale» era
un segnale che dimostrava, più che l’originalità delle tesi dell’ormai settantenne padre del Movimento Moderno, la sostanziale riluttanza dei partecipanti nei confronti dell proposte della nuova generazione.
Fu così che il gruppo olandese dei CIAM, il de 8’ Opbouw, composto tra gli altri da Jaap Bakema e Aldo Van Eyck e gli Smithsons si riunì nel Gennaio del ‘54 a Doorn, in
Olanda con l’obiettivo di trasformare radicalmente il Congresso. Il risultato di questa riunione fu quello che viene definito il «Manifesto di Doorn», ovvero una decisa e
articolata definizione del termine habitat. Il contenuto del manifesto riprendeva il discorso degli Smithson sulla human association a cui associava la sezione di Patrick Geddes che rappresentava la sezione di una valle, e la sua gerarchia di insediamenti:
1) Detached house-farm 2) Village
3) Towns of various sorts
4) Cities (multi-functional)
Parallelamente alla pubblicazione del manifesto, il gruppo fece richiesta al Consiglio dei CIAM di poter essere responsabile dell’organizzazione del CIAM X che, come
da accordi, acconsentì. Dopo poco tempo il gruppo costituitosi a Doorn cominciò ad essere conosciuto come Team X.
I lavori del CIAM X di Dubrovnik del 1956 furono organizzati in due commissioni, 40
il Team X riunito nel giardino di Aldo Van Eyck, 1974
una che aveva l’obiettivo di studiare i vari aspetti della Charte de l’habitat, e l’altra, a cui
parteciparono i membri del Team X, che approfondiva il tema relationship, e le griglie che sarebbero state usate nella Carta. Questa divisione era nata su suggerimento di
Le Corbusier – tuttavia assente – il quale, prendendo atto della grande distanza che separava le due generazioni, proponeva che i membri del «primo CIAM», quello del 1928, storicizzassero il loro percorso, dando finalmente vita a un documento che costituisse un’eredità per la generazione successiva, quella del «secondo CIAM»11.
Aldo Van Eyck, con il suo discorso intitolato «The child and the city», presentò in
quest’occasione il suo lavoro sui Playgrounds12 che ricevette il plauso di Peter Smithson, Voeckler e Candilis.
Il CIAM di Dubrovnik, oltre alla discussione sul merito dei lavori presentati, fu
occasione per un ripensamento del senso e della forma del Congresso. Si ponevano
più questioni. Da un lato l’istituzionalizzazione che aveva investito i CIAM aveva
fatto sì che ai congressi presenziassero centinaia di membri che non esponevano il propri lavori. Questo aveva fatto gradualmente smarrire il carattere spontaneo e informale che lo aveva contraddistinto inizialmente. Dall’altro il clima di ostilità tra le fazioni rendeva il un clima teso e poco produttivo. Alcuni delegati come Van Eesteren, Giedion e Aldo Van Eyck valutarono addirittura di porre fine all’esperienza
dei CIAM: i presupposti che li avevano fatti nascere non sussistevano più e con sempre
più difficoltà si riuscivano a dare risposte alle problematiche sollevate dalla modernità.
Questa rimase tuttavia temporaneamente un’opinione non sufficientemente diffusa. Per i tre anni successivi, ovvero fino al 1959, si ridiscusse il modello del Congresso e
11 12
42
Eric Paul Mumford, op. cit., p.248.
Sui Playgrounds si tornerà a breve (cfr. capitolo II, paragrafo 5).
se ne rividero alcune caratteristiche strutturali13.
Il CIAM XI tenutosi a Otterlo, sebbene ricco di interventi molto rilevanti come
quello di Ernesto Nathan Rogers sulla Torre Velasca o quello di Luis Kahn sul progetto di laboratori di ricerca medica Richards a Philadelphia, fu tuttavia l’ultimo
ad avere luogo. Dopo il suo svolgimento, un gruppo limitato di membri decise di smettere di utilizzare il nome «CIAM», decretando la fine di questa esperienza.
Il Team X continuò a esistere, sebbene si possa affermare che il periodo di più florida attività per i suoi componenti coincida proprio quello del Congresso.
La critica al Movimento Moderno continuò a essere oggetto del lavoro del gruppo, che pubblicò un secondo manifesto nel 1962 chiamato «The Aim of Team Ten», in cui
affermava di essere portatore di un’ «utopia del presente»14, intesa, non tanto come fuga dalla realtà, quanto come slancio intellettuale che si poneva come obiettivo quello di trasformare, costruire, modificare la realtà attuale.
13
Il comitato e organizzativo dei CIAM, composto da tra membri più anziani, Emery, Rogers
e Roth e quattro membri giovani, Bakema, Howell, P, Smithson e Woods revocò la necessità
di organizzarsi in federazioni nazionali per partecipare al congresso, lasciando autonomia ai gruppi di determinarsi autonomamente. Il numero dei partecipanti sarebbe stato ridotto a un
numero massimo di trenta persone. Nel 1957 il nome del congresso diverrà ‘ CIAM Social Group for Social and Visual Relationships’. 14
Max Risselada e Dirk van den, op.cit., p.13. 43
Giancarlo De Carlo all’ingresso della XIV Triennale di Milano, 1968
2.4 Giancarlo De Carlo e «l’utopia concreta della partecipazione» Uno dei componenti del Team X che ha contribuito come protagonista in questa vicenda è senz’altro l’architetto italiano Giancarlo De Carlo, che condivise la critica
al funzionalismo e ai dettami della Carta d’Atene sviluppata dal gruppo, concependo
proposte progettuali personali e per certi versi eccentriche rispetto a quelle degli altri
membri. L’oggetto della sua ricerca durata molti anni fu il tema della partecipazione popolare ai processi di trasformazione urbana, che studiò e mise in pratica in varie circostanze. Ai fini del presente lavoro, che si interroga sulla relazione tra spazio pubblico e comunità, si ritiene utile soffermarsi su questo aspetto e ripercorrere l’articolato pensiero di questo autore.
De Carlo espose in più occasioni i principi di quella disciplina che lui stesso definiva «Architettura della Partecipazione»15, tuttavia la ricostruzione che si effettuerà in
questo capitolo farà principalmente riferimento ad una conferenza da lui tenuta a Melbourne nel 1972, in cui poté illustrare ampiamente la sua personale critica al funzionalismo.
L’autore riteneva che il Movimento Moderno, nonostante si fosse approfonditamente
occupato della questione dell’uso, si fosse limitato a farlo nell’ambito della dialettica forma-funzione, applicando dunque una drastica semplificazione all’analisi dei comportamenti umani, i quali erano stati studiati in un logica strettamente
individualistica e con finalità esclusivamente funzionali. Le caratteristiche dell’habitat
dell’uomo erano state ricercate in questa epoca in un’ottica di sfruttamento e
ottimizzazione, assimilando i comportamenti umani al funzionamento della macchina e agli strumenti del «Taylorismo». Tale principio è rappresentato 15
Il Royal Australian Instute of Architects organizzò un ciclo di tre conferenze a cui
parteciparono Jim M. Richards nel 1969, Peter Blake nel 1970 e De Carlo nel 1971. Nel 1972 lo stesso istituto pubblicò il saggio An Architecture of Participation in cui erano raccolte le riflessioni di De Carlo esposte durante la conferenza.
45
efficacemente in urbanistica dallo zoning, in virtù del quale la città era letta come un
organismo composto di elementi rigidamente distinti, che svolgevano una specifico ruolo, correlati da un rapporto di necessità funzionale. Ogni eccezione al principio di totale specializzazione era un errore del sistema, un’incoerenza funzionale: in altre parole un elemento di «disordine». Non a caso il modello proposto dal Movimento
Moderno ha sempre considerato l’ordine e la chiarezza valori imprescindibili per
la progettazione, riducendo la complessità della società e ad un insieme di rapporti lineari e prevedibili, organizzabili in settori specializzati.
Quello della specializzazione, afferma De Carlo, è in realtà un fenomeno che ha sempre caratterizzato non solo la città ma l’intera società occidentale dell’epoca
preindustriale. Ad esempio ogni individuo svolgeva solo ed esclusivamente il suo mestiere per tutta la sua esistenza. Tuttavia, dalla rivoluzione industriale in poi il principio di specializzazione ha cominciato a estendere la sua influenza sino a divenire
causa di un totale offuscamento delle facoltà critiche dell’individuo facendogli perdere ogni cognizione delle motivazioni e delle conseguenze che il proprio mestiere ha sul
resto della società. Il lavoratore cominciò a svolgere operazioni ripetitive, preordinate e alienanti con un unico scopo, quello del salario. Questo processo rappresentò la causa
della sostanziale scissione tra il lavoro e il mondo esterno, e dunque dell’individuo con il resto della società.
Quando durante il XX secolo il processo di specializzazione e mercificazione della società ha coinvolto l’organizzazione dello spazio fisico della città, esso ha prodotto
due «effetti-motivazioni»16 principali. Da un lato ha causato il totale assoggettamento dello spazio urbano alle esigenze dei processi produttivi e dall’altro ha limitato la
sua utilizzazione a fini di controllo e repressione della vita sociale. Il Movimento Moderno ha utilizzato gli stessi strumenti adoperati in passato nell’organizzazione 16
46
Giancarlo De Carlo, L’architettura della Partecipazione, Quodlibet, Macerata 2013, p.56.
della produzione industriale per la gestione dello spazio urbano, sortendo lo stesso effetto alienante, e mostrando così la convinzione che la realtà possa essere riassunta
in modelli, codici e schematizzazioni. L’equazione forma-funzione, nel suo secondo termine, teneva conto esclusivamente di comportamenti convenzionali, tipizzati e individuali, escludendo aprioristicamente i rapporti sociali che connotano la vita collettiva.
Per quanto riguarda la progettazione degli edifici invece, se da un lato è vero che
l’approccio scientifico alla progettazione dell’abitazione ci ha fornito un «ricco vocabolario tipologico»17 che ha permesso in effetti lo sviluppo di una progettazione più razionale, è anche vero che si è spesso incorsi in un ribaltamento tra soggetto e
oggetto nella progettazione, ritenendo più importanti le caratteristiche in termini di efficienza degli ambienti - progettati per un unico e determinato scopo - che
la loro qualità spaziale in senso più esteso. È questo il caso della Frankfurter Küche – la cucina di Francoforte - presentata nel 1926 alla fiera di Vienna. Uno dei
primi esempi di cucina standardizzata, progettata per una sola persona, seguendo fedelmente i principi dell’economia domestica e dell’Existenzminimum18, per limitare scientificamente le azioni da compiere, in questo caso, nell’atto di cucinare. È chiaro
in questo caso che il progetto non ha più come obiettivo quello di creare uno spazio per una determinata funzione o per uno specifico utilizzatore, bensì di dimensionarlo in modo che l’azione che vi si svolgerà sia la più rapida ed efficiente possibile.
Riassumendo, De Carlo riteneva che la cultura architettonica e urbanistica moderne, nel binomio forma-funzione, avessero proposto una scissione su più livelli: tra soggetto e oggetto della progettazione, tra chi abita l’architettura e l’architettura 17 18
Ivi, p.49
Il modello teorico dell’ Existenzminum fu sviluppato in Germania durante gli anni ’20 e ’30
nell’ambito della ricerca sull’alloggio minimo.
47
Giancarlo De Carlo, Villaggio Matteotti, Terni, 1969-75
stessa e tra individuo e società. Ciò si è tradotto nell’incapacità di trovare un
linguaggio moderno in grado di inserirsi nei contesti sociali, fisici e culturali senza
provocare frammentazione dei gruppi, l’indebolimento delle relazioni tra individui e, di conseguenza, alienazione.
La proposta di Giancarlo De Carlo per colmare questa frattura - per certi ancora
irrisolta versi e tutt’oggi oggetto di dibattito – consiste nell’includere la popolazione nel progetto di architettura, ovvero di «sottrarre l’architettura agli architetti e di
restituirla alla gente che la usa»19. La partecipazione è intesa da De Carlo come
strumento di inclusione democratica e di uguaglianza che coinvolge tutti ad egual modo nei processi decisionali e nella gestione del potere in opposizione alla
tradizionale pratica autoritaria con cui le forme dell’architettura si estrinsecano nello spazio urbano. Questo passaggio impone in primo luogo una riflessione: quale sarà il ruolo dell’architetto in questo nuovo tipo di processo? In che termini il progetto
di architettura dovrà adattarsi a questa nuova pratica? Occorre premettere che un intervento architettonico passa normalmente da una sequenza di tre fasi: 1) la definizione del problema,
2) l’elaborazione di una soluzione 3) valutazione dei risultati
La pratica tradizionale consacrava alla seconda fase – che ricopre il tempo che intercorre dal progetto alla fine dell’ esecuzione - la maggior parte dell’energia e degli
sforzi. Essa porta alla rappresentazione di un oggetto invariabile, unico, che esprime
un significato fisso e irripetibile, assimilabile a un’opera d’arte. Alla fine dell’esecuzione
questo viene consegnato al destinatario. La prima e la terza fase sono sempre state a parere di De Carlo poco accurate, talvolta considerate irrilevanti. Per quanto riguarda 19
Giancarlo De Carlo, op.cit., p.60.
49
la definizione del problema, come si è detto poc’anzi, venivano utilizzati modelli
o strumenti sistematici, utilizzati prediligendo le questioni economico finanziarie, tecniche o estetiche. Il momento finale, quello della verifica dei risultati, era considerato molto poco rilevante in quanto in nessun modo sarebbe stato in grado di influenzare il risultato. Il progetto partecipativo proposto da De Carlo passa dalle
stesse tre fasi, riproponendo dunque la stessa struttura. La differenza sta nel fatto che i futuri utilizzatori sono coinvolti in tutte e tre le fasi del progetto, rendendo
ognuna di esse ugualmente importante per la definizione delle soluzioni da adottare e ridisegnando sostanzialmente la relazione che intercorre tra i tre momenti.
In questa ottica il primo momento è utile per far effettivamente emergere problemi
e contraddizioni riguardanti l’uso, le esigenze degli utenti e, per esempio, le risorse a
disposizione. Il secondo non si propone come fine quello dell’individuazione di una
soluzione stabile sin dal principio, ma si articola in una serie di ipotesi soggette a continue critiche da parte dei partecipanti al progetto. La fase di verifica invece è utile
per provvedere ad eventuali adattamenti e trasformazioni in relazione alle esigenze ai bisogni materiali e creativi degli utilizzatori.
L’architetto appare dunque «declassato» a mediatore tra i gli attori, recettore delle
istanze emerse nelle varie fasi e coordinatore di una creatività collettiva, oltre che portatore di una visione progettuale. Non rappresenta più colui che, tramite il disegno, impone una forma definita e immutabile ai luoghi ad espressione di una personale sensibilità, talento o sistema di valori. Tale evoluzione mette in crisi un altro
aspetto molto caro ai protagonisti del Movimento Moderno, ovvero il principio di chiarezza e ordine di cui il progetto di architettura doveva essere vettore. Il progetto era sempre stato veicolo di un idea chiara e materializzazione di principi coerenti al
pensiero di chi lo realizzava. La partecipazione introduce una variabile di «disordine»
all’interno del progetto imponendogli di rispondere a istanze mai considerate prima, 50
a esigenze reali e legate all’uso, in grado di trasformare radicalmente il suo significato. Il progetto non è più materializzazione di un’idea astratta o frutto della riflessione
lineare e dialettica tra forma e funzione, ma opera collettiva, risultato imprevedibile di un processo flessibile e aperto alle ibridazioni.
È proprio nell’antitesi ordine-disordine che De Carlo riassume il conflitto tra
architettura autoritaria e architettura della partecipazione. Nel disordine l’autore individua un valore altamente creativo, constatando che tanto più alto è il numero
di variabili necessarie per descrivere un sistema fisico, tanto più si può verificare che
questo sia vitale. Lo stato di disordine di un sistema – ovvero il suo grado di entropia – è proporzionale alla sua vitalità. L’ordine, imposto e coerente ai valori del potere è
annichilente, frustrante e noioso, nonostante l’architettura sia da sempre storicamente associata al «mettere ordine».
Come conciliare dunque l’esigenza di disordine a quella del progetto? «Il disordine non si progetta», afferma de Carlo, ma occorre creare le condizioni affinché questo
si possa manifestare. La partecipazione è un processo che autonomamente introduce
elementi di vitalità nel progetto che si configurerà come un «sistema aperto», attuabile
per fasi e flessibile. Questo è il cammino che De Carlo si augurava per l’Architettura degli anni ’70: un rifondazione profonda dell’architettura e dell’urbanistica, realizzata con l’introduzione della partecipazione.
51
2.5 Aldo Van Eyck, i Playgrounds e l’Orfanotrofio di Amsterdam L’architetto olandese Aldo Van Eyck, fu uno dei membri più attivi del Team X e fu definito «umanista ribelle»20 in virtù della sua marcata volontà ripensare il funzionalismo in un’ottica più compatibile all’uomo. Nel 1959 fu lui a sostenere:
«Il funzionalismo ha distrutto la creatività, porta ad una fredda tecnocrazia, in cui gli aspetti umani sono dimenticati. Un edificio è più di una somma di funzioni; l’architettura deve semplificare le attività umane e promuovere l’interazione sociale»21.
Per tradurre i suoi principi in pratica Aldo Van Eyck definì alcune strategie spaziali
come quella dell’ «inbetweening», che poneva l’attenzione sullo spazio tra le cose, come i residui urbani e gli scarti dei processi di produzione della città. Queste aree di
risulta, sebbene in stato di abbandono, costituivano a parere dell’architetto olandese, ambiti potenzialmente molto vitali.
L’inbetweening poteva essere sfruttato anche per concepire i meeting places, ponendo
attenzione sul posizionamento degli ambiti di incontro tra le funzioni - espediente
riscontrabile in quasi tutti i progetti di Van Eyck. Come prodotto di questo pensiero, prese vita il progetto dei Playgrounds.
Nel dopoguerra Amsterdam, come molte altre capitali europee, si trovava nella
situazione di doversi fornire di strumenti urbanistici adeguati a sanare i danni portati della guerra. L’amministrazione decise di concentrare gli sforzi in un ambizioso
progetto di ricostruzione, che rispondesse ai moderni concetti di funzionalità 20
Lefaivre e Tzonis, Aldo van Eyck, humanist rebel : inbetweening in a postwar world, 010
Publishers, Rotterdam 1999, p.9. 21
52
Aldo Van Eyck, Het Verhaal van een Andere Gedachte, in Forum, luglio 1959, p.223.
e efficienza. Già nel 1945 Cornelis Van Eesteren, a lungo presidente dei CIAM, fu incaricato di realizzare il Piano Di Espansione Generale per la città (Algemeen Uitbreidingsplan – AUP) già redatto nel 1934. Il documento recepiva fedelmente i
dettami esposti nei CIAM, candidandosi ad essere uno dei primi piani urbanistici
moderni della storia. Grande interesse era riposto sul tema della mobilità, la cui strategia era figlia di un’ampissima consultazione statistica, mai effettuata prima d’ora
in tali proporzioni. Grande enfasi era altresì riposta sulla separazione tra funzioni: circolazione, residenza, tempo libero e lavoro, erano, in osservanza dei dettami funzionalisti, concepiti come entità autonome. Anche in quanto facente parte dei CIAM, Van Eyck fu coinvolto nell’attuazione del Piano, che tuttavia fallì nella sua prima versione e fu rielaborato e modificato ciclicamente.
Dal 1947 al 1978, durante la redazione di strategie generali sostitutive, l’architetto
progettò centinaia dei così detti Playgrounds, spazi di gioco per i bambini, disseminati per su tutta la superficie della città di Amsterdam. Il primo esemplare di Playground fu in realtà disegnato con Jacoba Mulder, uno dei primi architetti donna della storia
olandese a ricoprire posizioni di rilievo nella pianificazione. Verificato il successo
del primo esperimento, Van Eyck lo assunse come modello di base, finendo con
lo sviluppare, per più di trent’anni, numerosissimi micro-progetti che, considerati
nel complesso, rappresentano forse una delle più significative risposte in campo urbanistico al modernismo funzionalista dei CIAM22.
Quello sviluppato da Van Eyck fu un progetto che interpellò al contempo sia la scala
architettonica che quella urbana: i playgrounds erano ricavati negli spazi in disuso o
in abbandono della città, considerati spazi «minori» dal piano di espansione del 1934. Essi rappresentano una costellazione di interventi puntuali e specifici messi in atto su un tessuto urbano problematico e disconnesso. 22
Cfr. Francis Strauven, op.cit., pp.150-151 53
54
Aldo Van Eyck, Dijckstraat Playground, Amsterdam, 1954
Le Corbusier, Unité d’Habitation, Marsiglia, 1947-52
55
Nelle numerose composizioni concepite da Van Eyck si possono individuare elementi e materiali ricorrenti, come, ad esempio, le vasche di sabbia circondate da un basso
setto in calcestruzzo di trenta centimetri circa, che costituivano spesso l’elemento principale all’interno della composizione dei Playgrounds, indipendentemente dalla loro forma, che poteva essere triangolare, circolare o rettangolare. L’uso del
calcestruzzo era inoltre impiegato nella realizzazione di piccoli solidi geometrici, come i cilindri pieni, disposti in linea nel playground Zaanhof, nel 1949.
Al carattere massivo degli oggetti in cemento si contrapponeva la snellezza delle
filiformi sculture in metallo: reti e griglie si articolavano in superfici, volumi e cupole utili per stimolare il movimento, la scoperta e l’interpretazione dei bambini.
L’uso di questi elementi era volutamente non determinato a priori, era bensì suggerito, evocato, come le forme geometriche che componevano l’insieme. La volta in acciaio
(climbing–arch) – anch’essa largamente utilizzata da nei Playgrounds – è un oggetto emblematico di questo principio: una struttura rigida, immutabile, che esprime
un’immagine plasticamente evidente, ma che, al contempo, può essere decifrata in
molteplici modi. Essa, a discrezione di chi ne usufruisce, può assumere le sembianze di un ponte, di un tunnel, di un percorso, di una montagna o di uno strumento per fare ginnastica.
I playgrounds sono tutti realizzati con un linguaggio semplice, un’estetica controllata
ed essenziale che mostra tuttavia una vitalità vibrante quando entra in contatto con l’uso per cui è stata costruita, come se la creatività del bambino/fruitore riuscisse a colmare la povertà – voluta e progettata – delle strutture. Il gioco non viene
considerato una funzione programmabile ma un’esperienza grazie alla quale l’uso si
inventa, si improvvisa e il progetto è nient’altro che un veicolo per sprigionare questa creatività collettiva.
Si tratta di un’ architettura indefinita, che fissa solo alcuni elementi nello spazio: le 56
sedute per i genitori, gli elementi che disegnano soglie da varcare, le superfici da attraversare o su cui arrampicarsi.
Si tratta di uno spazio ambiguo23 poiché non tracciato e i cui limiti non sono evidenti. L’esperienza della mancanza di «bordi e di separazioni nette» costituisce, secondo Richard Sennet, una lezione per «imparare a gestire le transizioni ambigue nello
spazio urbano» 24. Il gioco è un atto creativo fino a sé stesso poiché «svincolato da
qualsiasi finalità estrinseca» e diviene in questo caso non solo la destinazione d’uso del progetto bensì metafora dell’esperienza urbana stessa.
Nell’osservare le immagini che ritraggono i bambini che giocano nei playgrounds, colpisce effettivamente la mancanza di recinti che separino l’ambito del gioco dalle
attività urbane che vi si svolgono attorno. I campi da gioco non sono inseriti in scenari protetti o idealizzati bensì spesso compresi in piazze e strade pubbliche, facendo del
contatto diretto con la realtà quotidiana della città il loro punto di forza. L’esatto
contrario della rappresentazione dell’infanzia che propose Le Corbusier negli stessi anni, dove i bambini riuniti in cerchio sugli altissimi tetti dell’Unité d’Habitation
a Marsiglia, giocano in un contesto quasi ultraterreno, nell’isolamento totale e confortante dal mondo reale.
Centinaia di questi micro-progetti, furono realizzati ad Amsterdam frutto anche
del confronto con la popolazione dei quartieri coinvolti prima della costruzione
da una sezione del Dipartimento di Pianificazione Urbana della capitale olandese. La dimensione, la forma, il luogo e le attrezzature per la manutenzione erano tutte questioni oggetto di discussione con i cittadini. Nonostante questa collaborazione tra istituzioni, negli archivi della municipalità di Amsterdam non è possibile rinvenire 23
Cfr. Elena Granata, Il gioco e lo spazio tra le case – Attualità del progetto di Aldo Van Eyck, in
«Losquaderno», 27, pp.39-40. 24
Richard Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli, Milano 2008, p.221. 57
Aldo Van Eyck, Nieuwmarkt Playground, Amsterdam, 1968.
Aldo Van Eyck, Orfanotrofio, Amsterdam, 1955-60
una mappa che contenga l’insieme dei playgrounds progettati da Van Eyck, non perché perduta o distrutta ma perché gran parte di questi non vennero mai inseriti
in un piano, ovvero mai considerati come fenomeno complessivo. Si può dunque
dedurre che ogni singolo intervento nascesse di volta in volta, in funzione di necessità specifiche senza una riflessione astratta sulla grande scala.
Il progetto dei Playgrounds rese Van Eyck piuttosto conosciuto e fu così che nel
1954 Frans van Meurs, direttore del vecchio orfanotrofio di Sint-Luciensteeg, lo contattò per proporgli una collaborazione. La proposta consisteva nella costruzione
di un nuovo orfanotrofio dai caratteri moderni, situato non nel centro storico ma in periferia e immerso nel verde, con una forte relazione con lo spazio esterno. Un
microcosmo in cui i giovani potessero fare sport, giocare, imparare a recitare o a suonare uno strumento, creando le condizioni per gli orfani di acquisire un’educazione
più completa di quella ordinaria. Van Meurs era cresciuto lui stesso da orfano e aveva quindi maturato una lunga esperienza da «autodidatta» – come la definì lo stesso Van Eyck –.
Il committente aveva già acquisito un’area in una zona periferica di Amsterdam e
scelse Van Eyck come architetto in grado di tradurre in architettura la sua dettagliata visione. In tre lettere25 risalenti all’autunno 1954, Van Meurs istruì l’architetto olandese sui significati che l’edificio avrebbe dovuto esprimere, evitando una descrizione puramente funzionale ma evocando gli stili di vita che si augurava si
sarebbero sviluppati al suo interno. In alcuni estratti della corrispondenza tra Van Eyck e Van Meurs si può leggere:
25
60
Francis Strauven, op.cit., p.284.
«La nostra casa deve essere una casa amichevole in ogni suo aspetto, all’interno come all’esterno. Deve essere una casa, una casa per i bambini che per un periodo più o meno lungo – per anni, forse – non vivranno con i propri genitori, a cui mancherà la propria casa. È nostro compito tentare di compensare tale mancanza. Avvicinandosi alla nostra casa, il bambino deve poterci entrare con piacere; il suo aspetto esteriore deve trasudare amichevolezza, facendo cenno, per così dire, a al bambino di entrare. […] Cosa vogliamo dall’architetto? Quello che non vogliamo è un edificio grande e oppressivo il cui massiccio volume suggerisca l’idea di una casa in cui i bambini sono intrappolati lontani dal resto del mondo. È il contrario di quello che stiamo cercando – una casa amichevole, aperta, la cui forma fantasiosa e avvolgente, la cui organizzazione interna ben proporzionata dia ai bambini che ci vivranno la sensazione di stare a casa, sani e salvi.» 26.
Dal tipo di relazione che intercorreva tra il progettista e il committente si può già dedurre il grado di eccezionalità di questo progetto, che aveva dunque come obiettivo quello di realizzare una struttura accogliente per una «grande famiglia». Questa era la richiesta dal committente, che mostrando un alto grado di coinvolgimento
personale nel progetto, sottolineava la sua volontà nel prendere le distanze dalle istituzioni austere e autoritarie dell’epoca. A questo tipo di indicazioni Van Meurs
addusse altre informazioni di carattere generale come anche precise indicazioni di carattere funzionale. Lo studio del direttore ad esempio doveva avere sede al centro
della struttura, come a indicare il ruolo di capo-famiglia in constante contatto con lo svolgimento della vita all’interno della struttura. L’orfanotrofio doveva essere
dimensionato per accogliere 125 bambini suddivisi per fasce d’età, ciascuna delle 26
Ivi, p.285. 61
Aldo Van Eyck, Zeedijk Playground, Amsterdam, 1956
Aldo Van Eyck, Orfanotrofio, Amsterdam, 1955-60
quali aveva peculiari necessità e bisogni, che si traducevano in differenti tipologie di
camere da letto e spazi comuni. Per esempio ogni stanza doveva essere differenziata in relazione all’età dei bambini che avrebbero ospitato. Le finestre ad esempio
sarebbero state progettate affinché qualsiasi bambino seduto su uno sgabello potesse comodamente vedere le persone passare davanti alla finestra. Con lo stesso principio sarebbero stati dimensionati i bagni e le docce.
Era previsto che i più piccoli dormissero al piano terra, ma non raggruppati in
un’unica camerata bensì suddivisi in stanze da quattro letti, illuminate almeno da due
fronti. La loro sala comune invece doveva essere pensata in relazione al loro bisogno di coltivare le proprie fantasie, «perdendosi nell’attività del gioco»27.
Le ragazze tra i 14 e i 20 anni avrebbero disposto di spazi comuni pensati per
condividere momenti di intimità e quiete, e avrebbero dormito al primo piano disponendo di un armadio ciascuna. Gli spazi comuni delle ragazze tra i 10 e i 14
anni sarebbero invece stati equipaggiati di cucine, per consentirgli di sperimentare, cosa che, a parere di Van Meurs «le ragazze di quell’età hanno bisogno di fare». I
ragazzi di questa fascia d’età avrebbero invece disposto di tavoli e utensili da lavoro
per «lavorare, mettere insieme oggetti, fare confusione senza alcuna restrizione»28. Tutte le quattro sale comuni erano proporzionate per ricevere ospiti. Alcune soluzioni architettoniche erano altresì indicate nelle istruzioni consegnate a Van Eyck:
27 28
64
Ivi, pp.286-287. Ibidem.
«No a corridoi interminabili e porte in cui un bambino può perdersi, ma collegamenti tra le varie aree di abitazione e stazionamento, collegamenti ingegnosamente costruiti in modo che in nessun modo disturberanno la convivialità dell’abitazione collettiva.»29
Due settimane dopo il primo incontro tra l’architetto e il committente fu ufficialmente
trasmesso il compito di stilare un disegno preliminare del progetto. In cinque anni di lavoro e applicazione spesi nel seguire fedelmente le istruzioni ricevute, Van Eyck portò a termine il progetto, che fu costruito tra il 1958 e il 1960.
L’edificio recepisce chiaramente i principi di Van Meurs e li traduce in architettura
che effettivamente decompone e rinnega il principio stesso dell’istituzione. L’edificio è
infatti il risultato di una giustapposizione di moduli, volumi e forme che, sviluppandosi orizzontalmente generano un effetto bidimensionale, inserendosi discretamente nel paesaggio suburbano.
Per quanto riguarda l’organizzazione interna l’architetto rifiuta la convenzionale e rigida organizzazione dell’asse ed opta per un sistema distributivo centrale, in favore
di un organizzazione che propone l’incrocio continuo degli elementi di distribuzione, spazi comuni, uffici amministrativi ecc.
Nel complesso della geometria dell’edificio, il fronte Nord è quello che appare più chiuso e monolitico rispetto alla strada che gli si accosta. In realtà lo scarto tra i
due volumi che lo compongono costituisce un interessante espediente per creare uno spazio di ingresso che è sì interno all’edificio ma anche ancora in forte connessione con l’esterno. La messa in pratica dell’ inbetween è in questo caso utile a gestire una
transizione tra l’interno e l’esterno dell’orfanotrofio, che risulti «dolce», come richiesto dalla committenza. 29
Ibidem. 65
Aldo Van Eyck, Orfanotrofio, Amsterdam, 1955-60, vista a volo d’uccello
Aldo Van Eyck, Orfanotrofio, Amsterdam, 1955-60, schema compositivo e pianta
Questa corte, considerabile come naturale estensione dello spazio pubblico, conduce tuttavia senza ostacoli al cuore dell’edificio, su cui affacciano l’accettazione e altri uffici amministrativi. A partire da questo cortile centrale tutto l’orfanotrofio si struttura sul
ritmo dettato dall’alternanza tra strade, spazi aperti, coperti e chiusi; privati, comuni
e ibridi, a testimonianza della volontà dell’architetto di riprodurre una vera e propria
città all’interno dell’edificio. Un’architettura che dunque si fonde all’interno del contesto urbano ed è anche metafora della città stessa.
Tentando di sintetizzare la composizione di questo complesso organismo
architettonico, si possono individuare due unità abitative, sviluppate sulle due strade diagonali in quattro blocchi per ciascuna unità. Le unità abitative sono organizzate per fasce d’età, secondo le istruzioni ricevute.
Van Eyck affermò, in occasione del CIAM tenutosi a Otterlo, che la forma dell’edificio è il risultato dell’ispirazione a tre tradizioni architettoniche differenti, quella classica a cui si era ispirato per il carattere ‘immutabilità’, quella moderna, in termini
«cambiamento e movimento» e quella degli edifici dell’architettura vernacolare per il suo carattere spontaneo.
La strategia spaziale utilizzata nel (de-)comporre questo edificio è in effetti non
facilmente sintetizzabile in una definizione, né tantomeno desumibile semplicemente
dalla formula forma-funzione. La poetica di Van Eyck esprime una pluralità di istanze
e principi, etici , estetici e architettonici. Ciò che sembra tuttavia individuabile come tendenza costante in questo progetto è la costante messa in relazione dell’elemento
particolare con l’universale: nel binomio architettura–città e nella relazione individuocomunità sono infatti rinvenibili le scelte fondanti più o meno esplicite, di questo
progetto. Il risultato è un sistema che propone una varietà di soluzioni, ritmi e spazi rifuggendo sistematicamente la possibilità di risultare statico o ripetitivo. A questo
principio si accostano tuttavia alcune scelte che testimoniano la volontà dell’architetto 68
di voler riconciliare le singole parti con il tutto, dando forte coesione all’insieme. L’utilizzo della cupola, riproposta identicamente sulla quasi totalità dell’edificio e la
scelta dei materiali di rivestimento, conferiscono al manufatto visto dall’esterno un buon grado di comprensibilità e riconoscibilità. Il complesso risulta inoltre dotato
di una forte tensione centrifuga applicata al fulcro simbolico dell’edificio, il cortile centrale, come a tenere insieme un organismo che si decompone man mano che si distanzia dal suo centro.
69
2.6 Riflessioni sull’eredità del Team X Per diverse ragioni si ritiene che il contributo del Team X risulti di fondamentale importanza per questa ricerca, che si interroga oggi sull’approccio che la progettazione architettonica deve assumere nei confronti dello spazio pubblico.
Questo gruppo è stato capace di introdurre, all’interno del più importante contesto di dibattito ed elaborazione teorica in campo architettonico, concetti e riflessioni di sorprendente contemporaneità, ancora oggi indagati e discussi.
La presa di distanza dalle posizioni del Movimento Moderno per l’astrattezza dei metodi di analisi e di intervento, il sottolineare la responsabilità che l’architetto ha
nei confronti dei gruppi sociali per cui si costruisce, la coscienza del fatto che ogni
intervento mette a rischio la coesione delle strutture sociali e la loro stabilità perché
si agisce su un sistema complesso di relazioni, sono tutti fattori che dimostrano una sensibilità necessaria, oggi come allora, nel momento in cui si agisce sullo spazio della comunità.
È bene sottolineare tuttavia che sarebbe impreciso pensare di poter racchiudere le
idee di tutti i membri del Team X sotto un’unica definizione, corrente o filosofia di pensiero, considerandolo un movimento omogeneo. Al suo infatti interno hanno
convissuto visioni compatibili ma anche molto divergenti, seppur sempre accomunate
dal rigetto delle tesi del funzionalismo dei CIAM. Anche per questa ragione si è scelto di approfondire il lavoro di due singoli autori, che si ritiene mettano in luce degli elementi importanti per questa ricerca.
Il pensiero di De Carlo sulla partecipazione mette in discussione l’intero modello
proposto dal Movimento Moderno, sostenendo sinteticamente una sua implicita
contraddittorietà e mettendo in luce gradualmente i motivi della sua limitatezza. L’operazione di ricucitura che egli effettua, ristabilendo un contatto tra fruitori dell’architettura e architettura stessa tramite lo strumento della partecipazione, fu
del tutto innovativa per l’epoca ed è, come si dimostrerà in seguito, tutt’oggi utile per 70
Aldo Van Eyck, The Otterlo Circles, presentati in occasione del CIAM X a Otterlo, 1959
comprendere alcuni fenomeni contemporanei.
Anche Aldo Van Eyck a ben vedere effettua un’operazione di ricucitura, individuabile
non solo nella sua volontà di sviluppare un modello che considera fondamentale lo sviluppo delle relazioni umane all’interno del progetto - dimostrata nei concetti
di ‘inbetweening’, ‘cluster’ e ‘relationship’ applicati nei progetti precedentemente esaminati-. L’idea che sta alla base dell’intero pensiero di Van Eyck è ben riassunta
nello schema soprannominato «The Otterlo Circles», presentato nel CIAM del 1959. L’immagine è composta da due cerchi, a cui è rispettivamente accostato il titolo
«BY US», per il primo, e «FOR US», per il secondo. Il primo contiene tre schemi
raffiguranti tre architetture stilizzate. A ciascuna di queste Van Eyck fa corrispondere un principio: un tempio greco, simbolo di stabilità e immutabilità, un diagramma
dell’architetto avanguardista olandese Theo Van Doesbourg, a indicare il movimento e il cambiamento, e la pianta di un insediamento di architettura vernacolare, immagine
di come la comunità è in grado di dare forma a al suo ambiente senza intermediari. Il
secondo cerchio ( «FOR US» ), contiene un disegno che ritrae un gruppo di persone riunite in cerchio.
Riferendosi ai «Cerchi di Otterlo», nella conferenza che Van Eyck tenne alla Delft
University of Technology nel 1987, dichiarò, «Ci sono aspetti dell’architettura che sembrano inconciliabili, io ho pensato che fosse necessario riconciliarli»30. È questa dunque la doppia operazione di ricucitura effettuata da Van Eyck: per quanto
riguarda l’architettura, «BY US», è necessario riunire in un unico metodo i tre modelli architettonici (come tra l’altro effettuato nel progetto dell’Orfanotrofio di Amsterdam), restando coscienti che gli architetti sono anch’essi destinatari delle trasformazioni che mettono in atto, «FOR US». 30
Aldo Van Eyck , in occasione della conferenza « International Design Seminar (Indesem)»
Faculty of Architecture, TU Delft 1987 - (https://www.youtube.com/watch?v=Uf7RyqXIYmM) 72
Il carattere che accomuna tutte le esperienze esaminate, che forse rappresenta il vero
traguardo raggiunto dal Team X, è l’introduzione di un radicale cambiamento di
prospettiva: la comunità e le relazioni che la caratterizzano cessano di rappresentare un entità astratta («THEM»), a cui l’architetto fornisce soluzioni in modo «arrogante»31 o «autoritario»32. La comunità diviene il centro della ricerca e il punto di partenza della riflessione che prelude alla progettazione, guidandola in tutte le sue fasi.
Anche per queste ragioni l’architetto perde il suo primato e viene «declassato», collocandosi in una posizione di mediazione tra i soggetti coinvolti e le fasi del
progetto, come se si trovasse anch’egli in una zona di inbetween tra la condizione di
attore e quella di osservatore esterno.
31 32
Ibidem.
Giancarlo De Carlo, op.cit., p.67. 73
3 CAMMINARE COME RITUALE DI TRASFORMAZIONE COLLETTIVA DELLO SPAZIO
3.1 Introduzione 3.2 Camminare come atto di trasformazione: nomadismo, pellegrinaggio e limen
3.3 Dalla visita-escursione Dadaista alla deriva Situazionista 3.4 New Babylon e l’Urbanismo Unitario: verso una città nomade 3.5 Stalker e l’accesso ai Territori Attuali
75
3.1 Introduzione Il Team X è stato in grado di introdurre elementi di riflessione estremamente innovativi per l’epoca – e validi ancora oggi – per la definizione della relazione
progetto di architettura-comunità. Questa ricerca è stata sviluppata prevalentemente in opposizione alle tesi funzionaliste promosse dai CIAM, delle quali si criticavano
l’eccessivo grado di astrazione, che si traduceva in una sostanziale incapacità di riflessione sui reali bisogni dei gruppi sociali di cui si organizzava l’habitat.
Si ritiene a questo punto opportuno esaminare l’operato di altri gruppi che nella
storia recente non si sono limitati a sviluppare una riflessione sul rapporto tra la
società e il suo ambiente ma hanno elaborato vere e proprie strategie, teorie e pratiche di trasformazione collettiva dello spazio urbano, contribuendo ad arricchire il quadro di riferimento attuale.
Si procederà in primo luogo all’analisi dell’atto del «camminare» inteso come pratica di esperienza-trasformazione dello spazio, che sebbene non comporti di per sè un aspetto collettivo, è stato veicolo di esperienze rivoluzionarie nella definizione del rapporto tra la comunità e il suo ambiente, sin dall’antichità.
A partire dall’uomo nomade del Neolitico che per potersi orientare sul territorio lo tracciava con elementi come i menhir, per passare alle più recenti esperienze di
Land Art, in cui l’attraversamento dello spazio naturale diventa forma impressa nel
paesaggio, fino ad arrivare alle ricerche dei Situazionisti, per cui la marcia diventa strumento di ricomposizione «psicogeografica» della città, il camminare si articola
come una vera e propria «pratica estetica»1 che mette nelle condizioni l’uomo di
trasformare il suo ambiente di vita. Il camminare evoca inoltre le nozioni di
spostamento e di nomadismo, temi centrali nell’elaborazione delle più importanti utopie situazioniste. New Babylon, la città progettata da Constant che rappresenta
lo snodo centrale del lavoro svolto dal gruppo, è una città in continua costruzione, 1
76
Francesco Careri, Walkscapes Camminare come pratica estetica, Einaudi, Torino 2006, p.9.
cambiamento, migrazione: una città nomade. Questa si colloca all’interno del più
ampio progetto dell’ Urbanismo Unitario, sintesi mirante alla costruzione di una
società interamente nuova e compatibile agli ideali situazionisti di libertà, agio e alla
dimensione ludico-poetica e collettiva dell’esistenza, opposta alla città funzionalista individualista e regolata dalla dittatura del lavoro.
Si procederà infine a illustrare l’esperienza di Stalker, collettivo italiano nato negli anni ’90 il cui esponente più noto è Francesco Careri, che utilizza la marcia per accedere
a quelli che definisce i «territori attuali»: quegli spazi marginali, interstiziali residui della produzione dello spazio urbano, proseguendo e riattualizzando l’esperienza situazionista.
L’insieme di queste esperienze, che presentano il camminare come campo comune di ricerca, sarà utile per arricchire il quadro di tematiche relative alla dialettica progetto
architettonico-comunità, introdotta nel capitolo precedente. Da un lato perché si
approfondirà l’aspetto dell’esperienza collettiva, nonché della trasformazione come risultato di un lavoro di gruppo, processi che si oppongono all’accezione di creatività
individuale vigente nel progetto architettonico tradizionale. In secondo luogo perché queste pratiche, soprattutto quelle del XX secolo, hanno introdotto a uno sguardo sulla città e alle sue relazioni assolutamente innovativo, che prosegue la presa di
distanza dal modello funzionalista, trasformando la città moderna territorio aperto alla sperimentazione e nuove interpretazioni.
77
3.2 Camminare come atto di trasformazione: nomadismo, pellegrinaggio e limen Dalle diverse maniere di spostarsi e di pianificare percorsi e soste nell’attraversare
lo spazio, dipendono le principali tappe dell’evoluzione dell’essere umano, sin dalle
sue origini. Ciascun traguardo segna una relazione nuova col territorio, un’attitudine diversa nell’attraversarlo e dunque nel trasformarlo.
Durante il paleolitico ad esempio l’uomo raccoglie e caccia, e per questo non può
instaurare con il territorio una relazione stabile. Si sposta di continuo mettendo in pratica la così detta erranza: un movimento su un territorio che gli è sconosciuto e non mappato, effettuato senza una meta predefinita2.
Si può parlare di nomadismo solo dopo il settimo millennio a.C., quando in seguito
al cambiamento climatico successivo alla glaciazione, la terra diventa lavorabile e l’uomo può instaurarvi le proprie coltivazioni. L’uomo nomade segue i cicli stagionali
e delle transumanze, pratica l’agricoltura e la pastorizia e si sposta su rotte conosciute, prevedendo il ritorno ciclico in luoghi specifici. Solo il lento processo di affinamento
delle tecniche di allevamento e agricoltura lo condurranno progressivamente alla sedentarietà.
Sia nell’erranza che nel nomadismo si possono leggere specifiche relazioni instaurate
con il territorio, che corrispondono a peculiari modalità di trasformazione. L’erranza, sebbene non implichi la costruzione fisica di uno spazio nell’essere praticata, lo trasforma sul piano culturale: la stessa presenza dell’uomo sul territorio implica un’attribuzione di significato agli elementi del paesaggio, sia da un punto di vista
simbolico che per orientare i percorsi. È a quest’attribuzione di significato che corrisponde la trasformazione di «spazio» in «luogo» che rende il camminare «l’unica architettura simbolica capace di modificare l’ambiente»3 dell’era paleolitica.
Per quanto riguarda il neolitico e dunque il nomadismo, si assiste all’introduzione 2 3
78
Cfr. Francesco Careri, op.cit., pp.26-27 Ibidem.
nel paesaggio del primo elemento artificiale che trasforma il territorio: il menhir. I semplici gesti di rotazione e conficcamento a terra di lunghe pietre adagiate sul terreno costituiscono l’istituzione di un punto privilegiato all’interno del sistema di
relazioni esistenti tra gli elementi del paesaggio circostante, di un «tempo zero che si prolunga nell’eternità»4. Le funzioni che il menhir soddisfacevano in un questa epoca erano molte e tutt’oggi non si può circoscrivere con precisione la serie di scopi
a cui essi servivano. È noto tuttavia che le opere megalitiche avevano soprattutto una
funzione simbolico-religiosa, come testimoniano i santuari che radunano più menhir, dolmen e cromlech, che riunivano le popolazioni in occasione delle festività e dei
riti. Questi elementi fungevano anche da punti di riferimento in termini geografici, punti fissi per l’orientamento territoriale, e guidavano le rotte dei commerci e della pastorizia: tutte funzioni legate alla dinamica, allo spostamento e al camminare. Con
questi esempi Francesco Careri afferma dunque che l’origine dell’architettura «come
principio di strutturazione del paesaggio» è legata ai percorsi erratici e nomadi e non, com’è credenza diffusa, alla vita sedentaria.
In epoca paleocristiana e medioevale invece, il camminare è piuttosto associato alle rotte del pellegrinaggio, esperienza che conduceva singoli individui o intere comunità
a percorrere a piedi grandi distanze col fine di riconnettersi al sacro. Questi viaggi, perlomeno nel mondo cristiano, potevano essere intrapresi con scopo devozionale o penitenziale e avevano – e hanno tutt’oggi – significato di vero e proprio percorso di evoluzione interiore per chi li compie.
Rebecca Solnit, in questo brano tratto da «Storia del Camminare» descrive il
pellegrinaggio come stato transizionale tra due identità, come la soglia tra due condizioni interiori profondamente diverse. 4
Ibidem. 79
«Quando si parte in pellegrinaggio ci lasciamo alle spalle tutte le complicazioni legate al posto che si occupa nel mondo – famiglia, affetti, classe sociale, doveri – e si diventa un individuo che cammina in mezzo ad altri individui che camminano perché l’unica aristocrazia
del pellegrinaggio sta nel conseguimento della meta e nella dedizione. I Turner definiscono il pellegrinaggio uno stato liminale, lo stato in cui l’individuo sospeso tra la sua identità passata
e quella futura e perciò al di fuori dell’ordine prestabilito, in una condizione di potenzialità.»5.
Il concetto di limen, che in latino significa soglia, fu per la prima volta utilizzato in
questo senso dall’antropologo scozzese Victor Turner nella sua opera Antropologia Della Performance.
Turner intende, con il concetto di «stato liminale», una fase che un’ intera comunità
attraversa in seguito a un social drama, grazie al quale si assiste a una ridefinizione
degli elementi socioculturali della stessa. Il dramma è un momento di crisi, di rottura all’interno della comunità causato dalla delegittimazione delle sue istituzioni a opera
di qualche suo membro – nel caso di una rivoluzione ad esempio. Il gruppo sociale si trova dunque in una zona di ambiguità o appunto liminarità socioculturale, in cui gli elementi della sfera familiare collettiva vengono ricomposti liberamente e trasformati
nel non-familiare, ridefinendo l’identità successiva. Gli atti che contribuiscono alla
rilettura critica delle proprie istituzioni e tradizioni sono per esempio le arti e il gioco, riassunte nel termine performance, intesa come atto creativo-creatore.
Il brano di Rebecca Solnit sul pellegrinaggio e il concetto di limen illustrato da
Victor Turner, arricchiscono l’insieme di tematiche e significati comuni all’atto del camminare e al concetto di trasformazione – inteso come occasione di metamorfosi individuale e collettiva.
Danilo Capasso, giovane architetto, artista e ricercatore dell’Università Federico II di 5
80
Rebecca Solnit, Storia Del Camminare, Bruno Mondadori, Milano 2005, p.58.
Napoli ha recentemente realizzato un progetto fotografico dal nome «Limen – state of possibility» con cui effettua una trasposizione del concetto di limen, inteso come stato transizionale, applicandolo allo spazio della città. Il soggetto della sua ricerca è
stata la degradata zona di Napoli Est, ricchissima di «spazi liminali», luoghi indefiniti e indefinibili, spazi tra le cose, residui della pianificazione degli insediamenti umani. «La dimensione liminale della città è quella in cui, durante la trasformazione, lo spazio acquisisce un’identità sospesa, passando temporaneamente nel campo della possibilità pura verso nuove configurazioni. Sono gli spazi transizionali della città, margini appunto, contemporaneamente luoghi di grande ricchezza per il cambiamento e luoghi di degrado assoluto»6.
Il contributo di Capasso non si è limitato al racconto di questa realtà ma ha anche
scelto di intervenire su di essi organizzando delle performance di artisti Napoletani in questi spazi, dando forma a quello che definisce «il fuoco della creatività, il luogo in cui nascono le idee, il rito di evoluzione e sviluppo degli stati transizionali»7.
L’associazione dunque tra l’atto di camminare e un processo di trasformazione apre
a numerose interpretazioni utili all’obiettivo della ricerca, che si interroga su quali strategie di analisi e di azione sia opportuno mettere in campo oggi per ripensare
un progetto dello spazio pubblico. Come si vedrà nel paragrafo a seguire, questa
dialettica è stata ampiamente indagata durante il XX secolo da gruppi e movimenti artistici che si sono interrogati sulla relazione tra l’uomo e lo spazio urbano. 6
html 7
http://www.danilocapasso.eu/it/projects/16/LIMEN-A-STATE-OF-POSSIBILITY.
Ibidem. 81
Danilo Capasso, Limen - A state of Possibility, 2011
3.3 Dalla visita-escursione Dadaista alla deriva Situazionista Durante tutto il ‘900 la pratica del camminare è stata oggetto di numerose
sperimentazioni effettuate in campo sia artistico che e architettonico. Intesa come forma di lettura critica dello spazio, viaggio nel subconscio o metafora del tempo
liberato dal lavoro alienante, l’esperienza del camminare è stata il vettore di idee rivoluzionarie, che hanno fortemente influenzato il pensiero contemporaneo in campo sia architettonico che artistico.
I Dada per primi nel 1921 misero in atto delle visite-escursioni della città di Parigi, con l’intento di effettuare un attraversamento casuale dello spazio urbano ed esplorarne i luoghi più insulsi e secondari. Questo esperimento, emblematico del grande interesse
delle avanguardie per il movimento, il moto e la velocità, in questo caso si traduce, per
la prima volta, non nella sua rappresentazione ma nella costruzione di un’azione da compiersi nella realtà. L’atto dell’esplorazione fisica e sensoriale della così detta città banale dadaista, rappresenta l’equivalente di un ready made urbano, in cui l’opera d’arte consiste nell’aver concepito un’azione, più che nell’azione stessa. Dada infatti passa da
«portare un oggetto banale nello spazio dell’arte a portare l’arte – nella persona e nei corpi degli artisti Dada – in un luogo banale della città»8, proseguendo il suo percorso mirato alla dissacrazione totale dell’arte, e rivendicando l’arte stessa come strumento di intervento urbano.
L’esplorazione della città banale, dei suoi spazi più evidenti e familiari, come dei più reconditi e sconosciuti, tutti intesi come «realtà da svelare» e portatori di verità nascoste, apre alla ricerca sulla dimensione inconscia della città, che sarà approfondita
da altri movimenti, come per esempio quello surrealista. Quest’esperienza è inoltre emblematica di una ricerca assolutamente innovativa per quanto riguarda lo sguardo
alla città poiché attribuisce per la prima volta valore estetico allo spazio tra le cose - il vuoto - piuttosto che al singolo oggetto. 8
84
Francesco Careri, op.cit., p.47.
Fu lo stesso André Breton, che prese parte alla visita Dadaista che, distaccandosi
dal gruppo poco tempo dopo, pubblicò nel 1924 il «manifesto del surrealismo» definendolo:
«Automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in altre maniere, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di tutti i controlli esercitati dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica o morale»9.
Si profilava dunque una ricerca artistica che attingeva esplicitamente dall’esperienza
della psicanalisi di Freud, che nel 1900 aveva pubblicato «L’interpretazione dei sogni», testo da cui la cultura surrealista ha ampiamente attinto10.
Con questo approccio Breton, Aragon, Morise e Vitrac partirono in treno da Parigi in direzione Blois, cittadina di campagna a pochi chilometri da Orleans, abbandonandosi
ad una «esplorazione ai confini tra vita cosciente e la vita del sogno»11 con l’obiettivo
di raggiungere Romorantin a 40 chilometri di distanza. La deambulazione surrealista si svolse dunque in gruppo e in campagna, a stretto contatto con la natura e fu
occasione di indagine interiore, di scoperta di un mondo onirico al confine con la realtà.
Con gli anni ’60 invece, si assiste ad una chiara evoluzione di quel processo di
appropriazione, da parte del mondo dell’arte, di oggetti, dettagli ed esperienze della
vita quotidiana, cominciato con il periodo Dada. In questo contesto, il percorso, la 9
André Breton, Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino 1987, p.30.
10 11
86
André Breton, op.cit., pp.17-18.
André Breton, Entretiens 1913-1952, Gallimard, Parigi 1952, pp.53-54.
«strada» e la sua relazione con il paesaggio attira l’attenzione di alcuni artisti come Tony Smith, Richard Long e Carl Andre, il cui lavoro sarà alla base del dibattito
legato alla così detta Land Art. In questo contesto si assiste ad un effettivo uso del camminare come forma d’arte visiva, plastica e scultorea. L’opera A Line Made by Walking, di Richard Long sembra rappresentare una chiara esemplificazione di
questo passaggio. La fotografia realizzata dallo scultore inglese nel 1967 in campagna a pochi chilometri da Bristol, ritrae una linea apparentemente infinita realizzata tramite il semplice attraversamento di un prato a piedi nudi. La trasformazione che
Long effettua è tanto radicale, nell’incisione di un elemento puramente geometrico nello spazio naturale, quanto completamente reversibile: il mattino dopo l’opera d’arte sarà sparita.
Se durante il ‘900 il camminare è stato oggetto di studio di gruppi e avanguardie
con interessi prevalentemente artistici, tra gli anni ’50 e ’60 diventa snodo centrale del lavoro dell’Internazionale Situazionista, un movimento rivoluzionario in campo sia artistico che politico e architettonico che vedeva proprio nell’architettura lo strumento privilegiato per portare a compimento la sua rivoluzione.
L’Internazionale Situazionista, in cui confluì l’Internazionale Lettrista nel 1957, nacque come un gruppo intellettuali formatosi a Parigi nel dicembre 1952
convinti che la società neocapitalista appena nata andasse radicalmente combattuta proponendo nuovi «stili di vita» prima che nuove forme artistiche. Questo approccio
alla «critica della vita quotidiana»12 trovava la sua applicazione nel ripensamento della città funzionalista e dunque in una critica architettonica e della forma urbana: 12
Si fa riferimento al testo di Henri Lefebvre, intitolato appunto «Critica della vita quotidiana»,
pubblicato per la prima volta nel 1958 a Parigi. Il testo affronta da un punto di vista marxista la questione dello stile di vita inteso in senso esistenziale e indagato come rapporto tra come esperienza quotidiana e alienazione.
87
«L’architettura è il mezzo più semplice per articolare il tempo e lo spazio, per modellare la realtà, per far sognare. […] L’architettura sarà... un mezzo per sperimentare i mille modi di modificare la vita, in vista di una sintesi che non può essere che leggendaria»13.
I situazionisti concordavano sostanzialmente con la critica anti funzionalista elaborata
dal Team X e vedevano nella riorganizzazione della vita comunitaria proposta in
urbanistica dalla Carta d’Atene, e nella «macchina per abitare» di Le Corbusier, un progetto rigidamente determinista e alienante, emblematico del processo di «funzionalizzazione economicista del mondo»14 in corso. Il movimento progettava di
rovesciare del tutto questo sistema per far posto a una nuova società che perseguisse un nuovo ideale di felicità. I campi di ricerca sperimentale in cui questa critica fu
indirizzata furono principalmente due: da un lato la deriva e la psicogeografia, tramite
cui fu possibile reinterpretare il tessuto urbano e le sue relazioni, dall’altro il progetto dell’Urbanismo Unitario, mirante alla costruzione di vere proprie città situazioniste.
La deriva era un’esplorazione effettuata a piedi nello spazio urbano, priva di qualunque scopo utilitario e praticata in piccoli gruppi, in cui le individualità vengono quasi
del tutto soppresse, che tentava di trarre considerazioni oggettive dall’esperienza sul
territorio della città15. Una realtà, quella urbana, che secondo i situazionisti, è terreno 13
Ivan Chtcheglov, Formulario per un Nuovo Urbanismo, pubblicato in Internazionale
Situazionista – n° 1, Giugno 1958, p. 19. 14
Leonardo Lippolis, Urbanismo Unitario – Antologia Situazionista, Testo & Immagine,
Roma 2002, p.6. 15
Guy Debord, Théorie de la derive, Pubblicato in Les Lèvres nues n° 9, dicembre 1956 e in
Internationale Situationniste n° 2, dicembre 1958, pp.6-13. 88
Guy Debord, Guide PsychogĂŠographique de Paris, 1957
fertile per la trasformazione concreta e radicale della società alienata dal lavoro, e non
una dimensione noiosa da rifuggire abbandonandosi in esperienze ultra terrene. Sta
principalmente in questo il «penoso fallimento» dei Dada e dei surrealisti secondo Guy-Ernest Debord, padre intellettuale dell’internazionale Situazionista, che nel
1956 pubblicò Théorie de la dérive. Per psicogeografia Debord intendeva invece il
risultato della ricostruzione psichica che l’individuo mette in atto durante la deriva. Una costruzione fatta di immagini, correnti, punti fissi, vortici, e frammenti che furono
sintetizzati per la prima volta nella Guide Psychogrografique de Paris poi in The Naked
city nel 1957. La città in questa rappresentazione rivoluzionaria viene «spogliata»
della sua costituzione fisica, decostruita nelle relazioni geografiche e riletta per «unità di atmosfera o di abitazione», come un arcipelago di isole-quartieri indipendenti delimitate da confini netti e collegate da frammenti di possibili derive, rappresentati da frecce rosse. Sullo sfondo il vuoto, rappresentato da un colore bianco uniforme.
Un altro aspetto di primaria importanza nel discorso sulla deriva riguarda il
tempo. Quello impiegato nella deriva è un tempo ludico-costruttivo speso nel gioco dell’esplorazione. I situazionisti rifiutano l’ideale borgese di un’esistenza unicamente
finalizzata alla produzione e al lavoro, promuovendo il recupero di un vero tempo libero e non produttivo da spendere nello spazio urbano.
Fu Johan Huizinga che sviluppò l’idea dell’ «homo ludens»16 da cui il termine «tempo ludico», con cui si immaginava un uomo libero dell’automatizzazione del lavoro e
dunque nelle condizioni di sviluppare la sua creatività. Cittadino della «societé ludique»
contrapposta alla «societé utilitariste», l’homo ludens è un potenziale presente in tutti gli
uomini, che nel giocare esprime una funzione essenziale quanto quella del fabbricare, propria dell’homo faber. Constant auspica la liberazione di questo potenziale per porre
fine alla concorrenza tra i due individui nell’auspicio di una società nuova e conviviale. 16
90
Johan Huizinga, Homo ludens, Il saggiatore, Milano 1967.
La lezione di Huzuinga verrà accolta dai membri dell’Internazionale Situazionista, che daranno vita a un grande progetto di «spazio sociale» in cui la società ludica potrà svilupparsi. Come sarà illustrato nel paragrafo che segue, tra gli obiettivi dell’ambizioso progetto dell’Urbanismo Unitario appare proprio questo aspetto.
91
Constant Nieuwenhuys, New Babylon, 1959-1974
92
3.4 New Babylon e l’Urbanismo Unitario: verso una città nomade Il termine Urbanismo Unitario fu utilizzato per la prima volta da Gil Wolman, delegato dell’ Internazionale Lettrista che al congresso di Alba17 del 1956 lo definì una «sintesi mirante a una costruzione integrale di un’atmosfera, di uno stile di vita»18
e un’urbanistica «rivolta alla vita e contrapposta al funzionalismo razionalista»19. In
questa seppur breve descrizione appaiono già chiari due fondamentali aspetti di questo progetto. Da un lato gli strumenti: un progetto di architettura mirato alla
costruzione di nuovi rapporti umani e alla sperimentazione di nuovi modi di vivere. Dall’altro la strategia generale: quella di recuperare quella «volontà totalizzante di dare forma al mondo circostante»20 che era stata propria delle avanguardie di inizio secolo.
Il proposito di elaborare progetti universali finalizzati a cambiare il mondo è uno degli aspetti che distingue in modo sostanziale i situazionisti dal Team X, che opera
nello stesso periodo e ne condivide sostanzialmente la critica anti funzionalista, ma
che fa del rigetto dell’attitudine all’astrazione dei CIAM (mutuata a sua volta dalle avanguardie) uno dei principi cardine del proprio pensiero.
I contatti tra i due gruppi nonostante ciò vi furono. Yona Friedman ad esempio, che
partecipò al CIAM X con il suo «Manifeste de l’architecture mobile», fu in costante
contatto con Constant Nieuwenhuys durante gli anni ’60, il periodo della sua sperimentazione megastrutturale. Fu proprio Constant, amico di Aldo Van Eyck
nonché principale interprete dei dettami dell’Urbanismo Unitario, a pronunciarsi 17
Ad Alba, tra il 2 e il 9 Novembre 1956 si svolse il «Primo Congresso Mondiale degli
artisti liberi» sul tema «Le arti libere e le attività industriali». Dieci mesi dopo nascerà l’Internazionale Situazionista. 18 19 20
Leonardo Lippolis, op.cit., p.9 Ibidem. Ibidem. 93
Constant Nieuwenhuys, New Babylon, 1959-1974
sulla relazione tra il suo approccio e quello gli architetti olandesi vicini al Team X, affermando che «mentre loro discutevano del presente, io sognavo il futuro»21.
Fu in quest’ottica, e con l’obiettivo di sviluppare un prototipo di città risultato dell’applicazione dei principi dell’Urbanismo Unitario, che Constant cominciò
a concepire la città della deriva: Dériveville, la «megastruttura ipertecnologica
progettata a misura di umanità ludica e nomade»22, che fu tuttavia presto ribattezzata New Babylon da Guy Debord.
Il grande progetto urbano, economico e sociale a cui Constant lavorò per molti
anni, si articolava in primo luogo come un grande spazio concreto, di incontro e di contatto tra esseri umani, in cui spazialità e socialità rappresentavano un’unica
entità, sovvertendo la visione della società utilitarista che li vedeva irreversibilmente dissociati.
New Babylon e i suoi abitanti erano inoltre pensati per essere in perpetuo movimento. Constant era convinto che una persona libera di disporre del suo tempo, non potesse
goderne al massimo in una società regolata dal domicilio fisso. La vita dell’Homo Ludens è legata all’avventura e all’esperienza del nuovo e, dunque, alla mobilità, alla
mescolanza tra culture. Quello di che si prospettava era un habitat che ospitasse tutte le identità possibili in una fluttuazione incessante, come una moderna Torre di Babele orizzontale e in costante ricostruzione. Il nomadismo diveniva così una
condizione strutturante non solo dell’individuo ma dell’intera società, che sfruttava la mobilità come motore di continua auto rideterminazione.
New Babylon era organizzata in grandi strutture mobili e flessibili, realizzate con i più moderni strumenti offerti dalla tecnica. Le immagini delle numerose maquettes 21
Mark Wigley, Constant’s New Babylon: The Hyper-architecture of Desire, 010 Publishers,
Rotterdam 1998, p.75. 22
96
Francesco Careri, op.cit. p.82
realizzate durante gli anni ‘60 da Constant mostrano enormi travi reticolari a vista che sostenevano strutture sospese e collegate tra loro che restituiscono un’immagine
di continuità spaziale garantita dalla sovrapposizione di micro e macro strutture, suddivise anch’esse in settori mobili al loro interno. I collegamenti tra le strutture
erano possibili tramite l’uso di elementi mobili come ponti, passerelle e scale, smontabili e riutilizzabili, grazie alla standardizzazione della produzione.
In tutte le sue rappresentazioni, New Babylon appare staccata da terra, su un terreno che appare vergine, senza alcun legame apparente con una qualsiasi preesistenza. Ciò
nonostante Constant descrive con attenzione le fasi di transizione tra la città-società
moderna e quella da lui immaginata. La prima grande rivoluzione che avrebbe dovuto precedere la costruzione di New Babylon avrebbe riguardato, come detto, l’economia
che avrebbe dovuto essere orientata esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni
degli uomini, orientando la produzione industriale verso processi automatizzati. Successivamente sul territorio urbano si sarebbe attivato un processo lento di
sostituzione e sovrapposizione delle nuove strutture a scapito di quelle preesistenti. La disgregazione della rigida città funzionalista si sarebbe verificata in parallelo
alla diminuzione degli orari di lavoro e i nuovi settori di New Babylon, costruiti tra le maglie del tessuto urbano, avrebbero rappresentato dei poli attrattori, luoghi
di scambio, socializzazione e diffusione della cultura. La moltiplicazione di questi elementi isolati avrebbe consentito gradualmente l’unione tra di essi, rendendoli sempre più autonomi dalla città.
97
Stalker, territori attuali, Primavera Romana, 2009
3.5 Stalker e l’accesso ai Territori Attuali Nel 1995 a Roma Francesco Careri e un gruppo di ricercatori tra cui Lorenzo Romito, fondano Stalker, quello che appare oggi come il tentativo più esplicito di attualizzare
l’esperienza situazionista sul territorio della città contemporanea. Il collettivo lavora in un campo disciplinare a cavallo tra l’architettura, le scienze sociali e l’attivismo
politico, mettendo in pratica delle marce collettive con l’obiettivo di accedere ai così detti «Territori Attuali», spazi del divenire urbano e in via di trasformazione.
«Il nostro primo tentativo è stata l’esplorazione di Campagna romana. Abbiamo formato otto gruppi, nei quali erano sempre presenti un urbanista, un fotografo e uno scrittore, e abbiamo percorso a piedi le principali direzioni regionali: cinque giorni di marcia per intercettare i processi prodotti da quella che ho definito l’Oltrecittà. Parlare di città oggi significa fare riferimento a una dinamica di relazioni in cui quella centroperiferia mi pare superata. Mi sembra che stia emergendo qualcosa di nuovo e cercare di capirlo può forse significare la possibilità di indirizzare lo sviluppo»23.
Il camminare per Stalker è un’esperienza utile per comprendere e cogliere lì quegli
indizi emergenti delle trasformazioni in atto, che permettono di prevedere le
configurazioni che il territorio assumerà in futuro. La marcia si costituisce dunque come un «dispositivo di interazione creativa con l’ambiente investigato», in grado
di mettere in contatto gli abitanti dei territori col proprio patrimonio e il suo divenire. La dimensione fisica e corporea di quest’esperienza diviene dunque forma di «conoscenza, investimento e riappropriazione dei vuoti urbani»24. 23 24
http://www.abitare.it/it/architecture/stalker-dalle-periferie-all%E2%80%99accampata/
http://www.digicult.it/it/digimag/issue-064/the-roman-spring-by-stalker-wondering-
around-with-lorenzo-romito/
99
Mario Fiorentino, Corviale, Roma, 1972
«Primavera Romana» è uno dei progetti più recenti guidati da Stalker, replicato per alcuni anni, che ha messo in contatto un folto gruppo di persone con le aree periferiche di Roma con l’obiettivo di indagare a fondo quello che viene definito
l’«Oltrecittà». Gli itinerari, definiti precedentemente e comunicati via internet a chi
voglia parteciparvi, si costellano di una serie di micro-azioni il cui fine è l’attivazione di processi di trasformazione sociale «dal basso». Questo aspetto, che si avvicina a certe
forme di resistenza urbane e «modalità di relazione, condivisione e riappropriazione»25
del territorio segna la differenza riscontrabile ad oggi tra la dérive situazionista e la marcia di Stalker, anche se in principio la differenza non era così marcata:
«Una delle differenze è che nelle prime passeggiate sperimentavamo noi stessi e su noi stessi le possibilità di conoscere, rappresentare e abitare quegli spazi indefiniti ed incerti, in divenire, che chiamiamo «territori attuali». Ora, invece, stiamo cercando di promuovere questa pratica come pratica sociale e collettiva. Cambiare il nostro modo di comportarci per cambiare la società in cui viviamo».26
L’impegno politico tradotto in termini di attivismo è riscontrabile anche nel
progetto «Le arance non cadono dal cielo», un progetto di agricoltura realizzato nel gennaio 2011 nel giorno dell’anniversario della ribellione di Rosarno per ricordare le
condizioni di sfruttamento sul lavoro a cui molti immigrati devono sottostare in Italia. La manifestazione si è articolata come una raccolta di agrumi nei giardini pubblici
di Roma che si è tradotta successivamente nella mappatura degli aranci sul territorio 25 26
Ibidem.
http://www.digicult.it/it/digimag/issue-064/the-roman-spring-by-stalker-wondering-
around-with-lorenzo-romito/
101
romano e alla costituzione di gruppi di raccolta spontanei. Con le arance raccolte si
sono realizzati prodotti vari prodotti (succhi, marmellate, canditi ecc.) e con i fondi ottenuti, si è pianificato il ripristino di uno spazio del comune di Rosarno da adibire
a centro sociale per i lavoratori stranieri27. Un aspetto importante nel lavoro di Stalker è il processo di rappresentazione grafica dei percorsi effettuati o da effettuare:
«Un’altra parola chiave nel nostro lavoro è «cartografia», una disciplina che rappresenta il paesaggio nel modo più oggettivo possibile, da sempre un dispositivo di misurazione e controllo e del territorio. Noi usiamo la mappa come narrazione, ma anche come lavoro collettivo: quando iniziamo una passeggiata all’interno di Primavera Romana non decidiamo un percorso a priori, ma apriamo una mappa dell’area su google map e chiediamo a tutti di aiutarci a trovare luoghi interessanti… così le persone iniziano a individuare e indicare luoghi, aggiungono segnalibri, linkano video, notizie, commenti, informazioni. La mappa inizia a riempirsi e, dopo il cammino, si arricchisce di altre informazioni, cambia continuamente, diviene un indice.»28
Stalker è un gruppo tutt’oggi attivo, che fa del potenziale in termini di investigazione
e trasformazione della realtà dell’atto del camminare il fondamento della propria attività. La tesi procederà, col prossimo capitolo, all’analisi di un movimento architettonico articolato in gruppi\collettivi di lavoro con un metodo per certi versi assimilabile a quello adottato da Stalker, sebbene non indaghi la pratica del camminare e sia finalizzato alla costruzione fisica di strutture e oggetti di architettura. 27 28
102
Ibidem. Ibidem.
103
4 IL «CANTIERE APERTO» DELLO SPAZIO PUBBLICO: IL MOVIMENTO FRANCESE DEI COLLECTIFS D’ARCHITECTES 4.1 Patrick Bouchain e il padiglione francese alla biennale di Architettura di Venezia 2006
4.2 Métavilla: utopia o trasformazione della realtà? 4.3 La Métavilla come «apertura dei possibili»: il movimento dei collectifs d’architectes
4.4 Il «cantiere aperto», una nuova «architettura della partecipazione» 4.5 Sapere vs Saper Fare: l’architetto tra l’urbanista e il «bricoleur» 4.6 Il rapporto con la commessa e la questione del tempo 4.7 Superville: il «Dis-Ordine degli Architetti»
105
4.1 Patrick Bouchain e il padiglione francese alla biennale di Architettura di Venezia 2006 La 10° biennale di architettura di Venezia, organizzata nel 2006 da Richard Burdett,
ha come tema «Città. Architettura e società». Il ministero della cultura francese decide nel 2005 di proporre come curatore del padiglione nazionale l’architetto, scenografo
e docente universitario Patrick Bouchain, nato a Parigi nel 1945 e fondatore dello
studio professionale Construire. La visibilità che Bouchain ottiene nel periodo
precedente alla nomina è principalmente dovuta a due esposizioni in cui ha modo
di mostrare alcuni aspetti del suo peculiare metodo raccontando i suoi ultimi lavori. Le mostre del 2004 «Fait main, la matière et la manière» e « Est-ce que construire, c’est positif ?» raccontano del «piacere»1 di costruire a mano, dell’importanza dei mestieri contrapposta all’uso/abuso dell’informatica nel progetto di architettura.
«Il lavoro manuale è il complemento del lavoro intellettuale e quello intellettuale complemento di quello manuale. Tutte le volte che realizzo un cantiere metto in atto quella che chiamiamo la “casa del cantiere” grazie alla quale tutti coloro partecipano alla costruzione hanno il compito di trasmettere il loro sapere»2.
Bouchain è convinto che l’atto architettonico rappresenti un’occasione per sviluppare
un’esperienza collettiva, in cui committenti progettisti, realizzatori e utilizzatori contribuiscano tutti e allo stesso modo al risultato finale. In questo processo è proprio
il cantiere il momento cruciale in cui si materializza l’esperienza, in quanto territorio di confronto di arti, mestieri e culture3.
Lo slogan su cui lavorare è Métacité, con il quale si invita ad interrogarsi sull’espansione 1 2 3
106
Cfr. Patrick Bouchain e Exyzt, Construire en habitant, Actes Sud, Arles 2011, pp.12-13.
Patrick Bouchain in «Metavilla» di Goutes Cristophe. YouTube, 2 marzo 2009. Patrick Bouchain e Exyzt, op.cit., pp.12-13.
incontrollata delle città, sul passaggio da metropoli a megalopoli e sull’effetto metaspaziale che ne deriva. Bouchain ritiene di non essere la persona adatta a indagare
questo fenomeno di «iper-concentrazione umana catastrofica»4, per nulla pertinente alla sua attività. Per questo rifiuta inizialmente la commessa spiegando peraltro di non
condividere l’idea di un’ «architettura raccontata per immagini»5 insita nel principio di biennale internazionale.
Sarà proprio una riflessione sul titolo del padiglione tuttavia, che porterà Bouchain
ad accettare la commessa, traslando il senso di «méta» da «mega», grande, a «micro», ovvero «piccola unità, dove la vita democratica sia possibile».
Prende così vita l’idea di abitare il padiglione francese per tutta la durata dell’esposizione: il tempio ottocentesco a pianta circolare progettato nel 1912 da Umberto Bellotto e collocato nel parco dei giardini sarà attrezzato durante l’estate, e abitato da agosto
a novembre 2006. Non sarà tuttavia un’impresa legata alla biennale la responsabile
della costruzione: il gruppo che costruirà le strutture del padiglione sarà lo stesso che lo abiterà. «Métavilla» sarà lo slogan dell’esposizione che corrisponde alla pronuncia in francese di «mets-ta-vie-là» (letteralmente «metti la tua vita là»).
«Quando mi hanno proposto di fare il padiglione della Francia a Venezia ho esitato per molto tempo, ho accettato solo perché ho ottenuto la libertà di fare del padiglione un luogo di vita, e non semplicemente un luogo di esposizione»6.
Bouchain decide da subito di invitare il collettivo Exyzt per concepire e realizzare con 4 5 6
Ivi, pp.13-14. Ibidem. Ibidem. 107
lui questo progetto sperimentale. Il gruppo, formatosi poco tempo prima a Parigi, è
stato fondato da cinque studenti di architettura che avevano avuto proprio lui come
relatore di tesi. L’équipe finale sarà del tutto multidisciplinare, composta da architetti, designers, illustratori, carpentieri, artisti, cuochi e musicisti, tutti invitati a vivere nel padiglione per i tre mesi della biennale.
Pochi giorni prima dell’avvio del cantiere i giovani membri del collectif Exyzt effettuano un primo sopralluogo del sito, che suggerisce l’idea di sviluppare una
parte della struttura sulla copertura del padiglione da cui sarà possibile godere di
una vista privilegiata della laguna. Questa idea, accolta con entusiasmo da Bouchain, impone al progetto due tappe necessarie che rendono il suo sviluppo molto rapido: il posizionamento di una scala all’interno del padiglione e la suddivisione degli
spazi comuni al piano terra. Il progetto della cucina e delle camere da letto viene di conseguenza, realizzato in legno e acciaio e sorretto da una struttura modulare simile
a quella di un ponteggio edile. Al piano superiore del padiglione verranno anche realizzate una piccola piscina ed una sauna.
La fase di cantiere, benché si svolga prima dell’inaugurazione, dunque senza
pubblico, è parte centrale della performance architettonica perché crea e consolida questo gruppo altamente eterogeneo. Bouchain mette a contatto individui di diverse
generazioni, provenienze e culture, ritenendo che l’incontro e lo scontro tra i diversi
attori rappresenti una parte fondamentale di questa esperienza collettiva. L’«inatteso», il non pianificabile e tutti gli eventi imprevisti frutto del naturale svolgersi del cantiere rappresentano per Bouchain la linfa vitale di questa esperienza. Per tale ragione
considera opportuno non programmare, quanto piuttosto inserire degli elementi di
«vuoto» che si alternano ai «pieni»7, come si fa in architettura. Il cantiere sarà dunque caratterizzato anche da inevitabili problemi e discussioni come quella riguardante 7
108
Patrick Bouchain e Exyzt, op.cit., p.37.
Patrick Bouchain + Collectif Ezyzt MĂŠtavilla, Biennale di Venezia 2006 [foto pp. 110,113,116]
i tamburi progettati per essere appesi sul peristilio d’ingresso da Daniel Buren. Inizialmente il gruppo Exyzt era fortemente contrario a questa proposta, sebbene, una volta realizzata, abbia apprezzato l’installazione.
Dopo l’inaugurazione il padiglione diviene da subito un’attrazione. Sia i visitatori che
la stampa reagiscono con grande stupore e curiosità alla performance messa in atto. «È uno squat! È un loft!»8, recita l’introduzione di un articolo apparso su Libération
in quel periodo, tentando di riprodurre le reazioni di chi entrava per la prima volta all’interno del padiglione. Gente che cucina, pulisce, stende i panni, riposa su un amaca
o mangia in compagnia sul grande tavolo vicino all’ingresso: questa è l’immagine che si ha quando si entra alla Métavilla.
L’ipotesi che si tratti appunto di un’ «occupazione» evoca in modo pertinente uno dei
significati che questo evento intende veicolare. La Métavilla, se da un lato ribadisce la possibilità di una società conviviale, dall’altro muove un chiaro atto d’accusa contro la biennale e il sistema che rappresenta. Per questa ragione ne prende in ostaggio un
padiglione e lo trasforma nel teatro di un atto tanto primordiale quanto rivoluzionario: quello di abitare.
All’ingresso della Metavilla è peraltro affisso in quattro lingue il seguente messaggio:
8
Anne-Marie Fevre, Un autre Lieu est possible in Libération,13, Settembre 2006. 111
«Un palazzo occupato da una folla esultante è un’immagine comune dell’eccesso rivoluzionario. Ogni epoca propone le sue variazioni sul tema di quell’immagine, secondo le contingenze della storia. La sua persistenza, che ne fa una rappresentazione necessaria o finanche rituale, costituisce di per sé l’atto rivoluzionario, incarnando la speranza di giustizia raggiungibile attraverso un’equa ridistribuzione degli spazi. L’occupazione è il volto architettonico di una prospettiva sociale.»9
La Metavilla viene peraltro in breve tempo definita la «maison des pavillons»10: un
luogo di accoglienza e scambio per i visitatori ma soprattutto per gli i lavoratori della
biennale. Al momento della chiusura dei padiglioni, buona parte del personale invece
di rientrare in albergo si riunisce in quello francese - l’unico in cui trovare ciò che serve per preparare una cena, ascoltare della musica, riposarsi dopo una giornata di lavoro - in un clima festoso e internazionale.
Il fatto di sovvertire la regola per cui ogni padiglione nazionale è indipendente dagli
altri, è uno dei primi obiettivi di Bouchain, che ha affermato: «Non vorrei essere pretenzioso ma se l’obiettivo di una biennale è quello di riunirsi, forse il 2006 è stato l’unico anno in cui ha davvero adempito alla sua funzione»11.
L’alternanza di «pieni e vuoti» struttura complessivamente lo svolgimento
dell’esposizione. Un muro interno al padiglione mostra gli eventi programmati e per l’appunto, quelli ancora da definire. Ai concerti e agli spettacoli previsti in calendario
si alternano eventi improvvisati e partecipazioni inattese che animano tutto il periodo dell’esposizione. 9
Dal «manifesto» di Michel Onfray in Patrick Bouchain e Exyzt, op.cit., p.4.
10 11
112
Dall’intervista a Patrick Bouchain, effettuata l’1 Febbraio 2014. Ibidem.
4.2 Métavilla: utopia o trasformazione della realtà? Renzo Piano, in visita al padiglione, disse a Patrick Bouchain: «Sei pazzo! Fai ancora quello che progettavamo in maniera utopica negli anni ’60!»12.
Questo commento, benché rivolto informalmente, richiama un tema di centrale
importanza per lo sviluppo della ricerca: in che termini la Métavilla può essere
considerata un’utopia? E quanto un esercizio di effettiva trasformazione della realtà? Il termine «utopia» deriva dal greco οὐ (non) e τόπος (luogo), interpellando innanzi tutto una nozione spaziale, quella appunto di «luogo».
La Métavilla è effettivamente un esperimento che si sviluppa in una parentesi spaziotemporale che suscita interesse proprio in virtù dei suoi caratteri di eccezionalità
e astrazione. Essa, al contrario di un consueto intervento architettonico, non fa i
conti con circostanze locali, preesistenze urbane e vincoli della realtà quotidiana. Rappresenta piuttosto un esercizio intellettuale, la fedele trasposizione dell’idea in forma e di concetto in atto architettonico ed effettua questo esperimento al di fuori
del contesto che intende trasformare. Queste ragioni fanno dedurre che la Métavilla presenti alcuni caratteri dell’utopia.
Anche l’associazione diretta alle utopie del dopoguerra - quelle «degli anni 60» - in parte già esaminate, risulta per certi versi calzante.
Nella volontà di negare con forza il meccanismo della rappresentazione e il principio
di spettacolarizzazione dell’architettura, ritenendolo una forma di alienazione della
realtà, è possibile ad esempio riscontrare una chiara attitudine situazionista. «La Società
dello Spettacolo» di Guy Debord rappresenta una critica esplicita a questo principio,
che nella biennale di architettura vede la sua più evoluta e aggiornata manifestazione. La dimensione collettiva e ludica del costruire è inoltre principio cardine di New Babylon, la città utopica progettata da Constant Nieuwenhuys, pensata come luogo di movimento, relazione e mescolanza fra culture. 12
114
Patrick Bouchain e Exyzt, op.cit., p.38.
Bouchain vìola inoltre ogni regola della Biennale, rimescolando i ruoli di espositore, costruttore e visitatore e affermando che l’architettura coincide con l’atto primordiale di vivere e dunque di abitare. In sintesi, come lui stesso ha affermato, trasforma il
periodo dell’esposizione in un’esperienza di vita. Questo atteggiamento sembra rispondere quasi esplicitamente all’invito di Henri Lefebvre che indicava l’esperienza
della «vita quotidiana» come l’unico possibile, non solo per condurre l’esistenza ma anche per immaginare una società migliore.
Sebbene dunque i punti di contatto tra la Métavilla e il pensiero di questi autori siano
evidenti, sarebbe impreciso affermare che Patrick Bouchain, che si è effettivamente formato proprio negli anni della grande diffusione di queste teorie, le riproponga nostalgicamente e acriticamente, e sarebbe ancor più errato limitare la portata di questo progetto alla sua connotazione utopica. In primo luogo poiché a fronte della definizione letterale di utopia, ovvero quella di «luogo che non esiste», la Métavilla
propone un’esperienza vissuta, che per quanto de-contestualizzata ed eccezionale rimane comunque fisica, performativa, fatta di persone e vissuti reali. In secondo
luogo perché è lo stesso Bouchain a prendere le distanze da quei movimenti del dopoguerra. Egli stesso definisce «Democrazia elitaria»13 quella immaginata dai situazionisti, mettendo in luce una delle differenze tra questo metodo e il suo:
13
Dall’intervista a Patrick Bouchain, effettuata l’1 Febbraio 2014. 115
«I movimenti utopistici degli anni ’60 si ponevano al margine, mettendosi all’esterno della società per immaginare un paradiso da realizzare. Ci si è resi conto molto presto che nessun paradiso può esistere se è al di fuori dall’insieme. Dunque come rimettersi nell’insieme? E in questo contesto come essere un attore? Non per avere una soddisfazione personale, ma per anticipare o rispondere a delle esigenze che la società non soddisfa?»14.
Se infine ci si riferisce all’utopia nella sua accezione più limitativa ovvero quella
di «modello irrealizzabile» sterile e incapace di influenzare la realtà, se ne può facilmente verificare l’incompatibilità con il progetto Métavilla, che è stato capace
di trasmettere un messaggio, un metodo e una cultura ad un pubblico internazionale molto vasto. Come si racconterà nel paragrafo che segue, grazie alla visibilità che ha
ricevuto il padiglione francese, tra molte persone, soprattutto in Francia, si è diffusa
la convinzione che l’«occupazione gioiosa di un luogo e la co-costruzione aperta al pubblico possano essere degli strumenti di prefigurazione di usi e di sensibilizzazione
ai cambiamenti della città»15. In questa immagine non è solo contenuto un gesto
simbolico ma un complesso sistema di scelte e azioni progettuali che insieme formano ciò che questa ricerca assume come metodo di intervento pratico sullo
spazio pubblico. Tutto questo, se confrontato con il pensiero utopico del dopoguerra, presenta delle analogie ma anche delle forti divergenze, e sicuramente degli elementi di assoluta originalità, strettamente legati al contesto contemporaneo. Le questioni
elencate di seguito tentano di riassumere per temi le peculiarità del metodo proposto, 14 15
Ibidem.
Margaux Darrieus in AMC n°233, Aprile 2014, p.64.
117
da cui sarà possibile dedurre analogie e differenze significative tra l’insieme delle esperienze finora esaminate e la Métavilla. Il tempo Il contesto dell’esposizione detta i tempi di questa esperienza. La Métavilla è
un’architettura effimera, pensata per esistere un tempo limitato. L’efficacia del
messaggio che intende trasmettere è strettamente legata al suo carattere temporaneo, che la colloca in un contesto fisico/storico unico. La temporaneità dell’intervento
consente la possibilità di sperimentare, di sbagliare ed eventualmente di tornare sui propri passi.
Concepire, costruire e abitare Il gruppo creato da Bouchain, progetta costruisce e abita l’architettura. È la sequenza di questi tre atti sempre più irrimediabilmente scissi nella pratica professionale che veicola tutta l’esperienza. Il risultato è frutto della sperimentazione e del contributo di ognuno in relazione a problemi specifici. Concezione, costruzione e uso convivono dall’inizio alla fine di questa esperienza.
Pluridisciplinarità e ruolo dell’architetto Le competenze necessarie per intervenire in questo progetto sono molteplici e
l’esperienza collettiva impone a ognuno di interfacciarsi con capacità differenti dalle
proprie. Non si tratta di un gruppo omogeneo ma di un’unione proficua di un insieme
eterogeneo di competenze. L’architetto, a cominciare dal curatore in questo caso, perde il suo primato di «creativo» e viene declassato a collaboratore\coordinatore
di una creatività collettiva, simile alla figura che emerge dalle proposte di Aldo Van Eyck e Giancarlo De Carlo.
118
Prospettiva politico-sociale Come si evince dalle parole affisse all’ingresso del padiglione, l’evento contiene un
esplicito contenuto politico, rivelando il suo intento di riaprire al pubblico uno spazio fino a quel punto negatogli. Apparrebbe evidente accostare le lotte dei movimenti
italiani attivi nella grande mobilitazione per la casa, o quelle dei lavoratori dell’arte
all’atto di occupare il padiglione della biennale. La questione dei criteri di gestione degli spazi in disuso, della carenza di spazi per la cultura a uso sociale, della gentrification
sono, come già accennato, temi centrali del dibattito politico e architettonico odierno. Per concludere, si può collocare la Métavilla in un ambito intermedio tra una prova di effettiva trasformazione della realtà e un esercizio intellettuale e utopico: reale in
quanto atto performativo, tangibile e veicolo di esperienze verificabili e trasmissibili, utopico poiché illustra un modello di società in un contesto fisicamente astratto dalla società che intende modificare e poiché appare per molti versi coerente alla ricerca generalmente definita «utopista» sviluppata negli anni del dopoguerra.
Nel fatto stesso di ricoprire questa posizione intermedia risiede il grande interesse di questa esperienza capace di veicolare messaggi e valori di grande complessità senza
trattati e dissertazioni ma utilizzando esclusivamente materiali semplici e utensili da
costruzione. In questo esercizio di possibile convivenza tra astratto e iper-concreto, e dunque in qualche modo tra slancio ideale e possibilità di trasformare la realtà, è contenuto in primo luogo un messaggio incoraggiante a fronte dell’alto grado di
disillusione a cui è spesso associato il progetto di architettura, sempre più sovente
percepito come asservito agli interessi privati e di speculazione che come strumento
concreto di lotta per il cambiamento della realtà nell’interesse della comunità. L’esperimento mostra, in secondo luogo, che lo slancio intellettuale e ideale - l’utopia-
119
può essere ancora oggi un “utensile di lavoroâ€? e uno strumento in grado di contribuire definizione di strategie di prefigurazione e trasformazione dello spazio pubblico.
120
4.3 La Métavilla come «apertura dei possibili»: il movimento dei collectifs d’architectes «L’esposizione offre l’opportunità di vivere sulla propria pelle il concetto architettonico, ma soprattutto di misurare l’ideale di vita che comporta, non come speculazione utopica ma come gesto da realizzare. (…) Per fortuna la gioiosa città che si dispiega nel padiglione possiede una propria realtà, qui e altrove. Questa mostra non è altro che un indizio della sua esistenza.»16
Queste parole, anch’esse contenute nel manifesto affisso all’entrata del padiglione, affermano che Métavilla non intende rappresentare soltanto l’esemplificazione di
una postura nei confronti del progetto dello spazio pubblico, che risulta peraltro pertinente alle tematiche finora sollevate. Essa intende invece essere testimonianza di una realtà già esistente al di fuori della Biennale.
Il manifesto fa evidentemente riferimento ad un vastissimo ed eterogeneo
panorama di esperienze grazie alle quali in Francia e in altri Paesi europei, già
da anni si approfondiscono i temi dell’auto/co-costruzione, tradotti in partiche e
sperimentazioni genericamente definite «alternative». Per raggruppare questo insieme di pratiche «altre» dall’ accezione classica di architettura, sono stati coniati
slogan come «Alterarchitecture» appunto «Construire Autrement», titolo di un testo di cui Patrick Bouchain è autore.
Si tratta di un fenomeno ampio e in continua evoluzione di cui è difficile definire con precisione i tratti poiché costituito da una moltitudine di esperienze singole e
non da una rete di iniziative coordinate. Vista l’ampiezza del fenomeno si ritiene sia
utile limitare il campo d’indagine riferendosi a un particolare sotto-fenomeno, forse
il più legato da un punto di vista metodologico alla Métavilla, quello dei così detti “collectifs d’architectes”, che col passare del tempo risulta acquisire un’identità sempre 16
Dal «manifesto» di Michel Onfray in Patrick Bouchain e Exyzt, op.cit., p.4. 121
più autonoma all’interno di questo panorama oltre che proporre delle soluzioni molto originali e innovative sul tema dello spazio pubblico.
Si tratta di una realtà nata negli anni ’90 ma che si è sviluppata prevalentemente negli
ultimi dieci anni, i cui attori sono prevalentemente professionisti sotto i trent’anni che dopo la laurea hanno deciso di rifiutare il percorso canonico che comincia con
un tirocinio in uno studio professionale. Essi si sono riuniti da subito in gruppi pluridisciplinari con l’obiettivo di limitare quella «distanza dal reale»17 che connota spesso l’ingresso nella vita professionale con l’obiettivo di poter agire da subito e in prima persona sui processi di trasformazione delle città. Questi propongono
alternative al processo tradizionale di elaborazione del progetto architettonico e urbano, privilegiando interventi a scala ridotta e mettendo in atto pratiche di
coinvolgimento della popolazione. Il termine collectifs si riferisce alla forma di queste associazioni e, come si vedrà, ai numerosi statuti giuridici che possono assumere.
Benché attualmente in Francia esistano decine di collettivi attivi e in contatto tra loro, non esiste una rete che raggruppi tutte queste esperienze, che restano isolate e per lo
più indipendenti, né esiste un manifesto che indichi valori e pratiche ufficialmente
condivise. Nonostante l’alto grado di informalità che questo movimento ha, e – come si vedrà in seguito - intende programmaticamente mantenere, la sua esistenza è un fatto conclamato e già accettato sia dai suoi stessi protagonisti che nelle sedi
istituzionali. Ciò nonostante la bibliografia a riguardo è estremamente limitata, salvo il lavoro di Elise Macaire, che ha sviluppato nell’ambito di un dottorato di ricerca presso L’école Nationale Superieure d’Architecture di Parigi La Vilette, intitolata
«L’ARCHITECTURE A L’EPREUVE DE NOUVELLES PRATIQUES, RECOMPOSITIONS PROFESSIONNELLES ET DEMOCRATISATION CULTURELLE», che verrà pubblicata a breve. 17
122
Margaux Darrieus in AMC n°233, Aprile 2014, p.64.
Dall’analisi sviluppata dunque sulle singole realtà e dalle interviste effettuate ai singoli protagonisti, si può notare un sensibile terreno di valori condivisi che accomuna tutte
queste esperienze disseminate in modo omogeneo sul territorio francese. In primo luogo l’oggetto della ricerca, ovvero lo spazio pubblico nelle sue più svariate forme
(piazze, parchi, aree dismesse urbane e periurbane, infrastrutture, ecc.) è stato in questi anni oggetto della sperimentazione dei collectifs, con particolare attenzione per gli spazi «in transizione», liminali, in attesa di essere trasformati.
In secondo luogo gli strumenti di intervento, ovvero quelli dell’autocostruzione e
della carpenteria: l’unione tra le competenze necessarie alla concezione e quelle
del fare e del costruire collocano questi collettivi in un ambito disciplinare unico, compreso tra quelli «dell’urbanista e del falegname»18. I collettivi tendono inoltre ad
avvicinare professionisti di altre discipline, realizzando gruppi di lavoro fortemente multidisciplinari.
Altra condizione comune a queste esperienze è la predilezione per interventi che interpellano trasformazioni di piccola scala e ambienti di prossimità, condizioni
che rendono sempre possibile la conoscenza del destinatario e le ragioni delle
trasformazioni. Talvolta questa premessa consente altresì l’attivazione di varie forme di processi di partecipazione popolare, realizzati tramite atielier di strada, riunioni
pubbliche, cantieri aperti al pubblico e altri tipi di eventi. Il cantiere si struttura dunque, e anche in questo caso, non tanto come la fase della realizzazione nel processo di progettazione di un oggetto, quanto come un’esperienza di ricerca/azione19 per chi costruisce. Abitare i luoghi è condizione imprescindibile per trasformarli e il progettista-costruttore concepisce lo spazio attraverso la sua presenza permanente in situ. 18 19
Cfr. Margaux Darrieus in AMC n°233, Aprile 2014, pp.64-65. Ibidem.
123
Anche il tempo è un elemento preso in grande considerazione dai collettivi, in primo
luogo poiché effettuano principalmente strutture effimere, pensate per durare un tempo predeterminato.
L’attività dei collettivi dipende inoltre molto spesso da un intenso dialogo con le
istituzioni pubbliche che, sempre più interessate a questo tipo di interventi, elaborano
peculiari e nuove forme di commessa pubblica per finanziare questo tipo di progetti. In alcuni casi non vi è alcuna commessa pubblica e i collettivi si accordano direttamente
con le comunità per realizzare strutture e equipaggiamenti di spazi autofinanziandosi. Questo metodo risulta essere compatibile e forse parzialmente mutuato dall’esperienza della Métavilla, che è stato definito l’evento dell’ «apertura dei possibili»20 per il movimento dei collettivi. La sua applicazione si traduce in un modus operandi ricorrente
per quanto concerne la fase di intervento, e in un estetica molto riconoscibile nella maggior parte dei casi, poiché fortemente connotata dal largo impiego del legno come materiale principale di costruzione.
Prima di soffermarsi punto per punto su questi elementi metodologici è utile effettuare
una panoramica delle esperienze più recenti e significative prodotte nell’ambito del movimento. Tra i collectifs più conosciuti attualmente appaiono proprio il Collectif Exyzt, che dopo il 2006 ha continuato la sua attività, il Collectif Etc, uno dei più
prolifici attualmente nel panorama francese, Bruit Du Frigo, Cochenko, Parenthèse e altri ancora.
20
124
Ibidem.
COLLECTIF ETC, MAPPATURA DEI COLLECTIFS DURANTE IL DÉTOUR DE FRANCE
125
[5] / Collectif les Saprophytes
p.144
[6] / Collectif Cochenko p.148
[2] / Collectif Exyzt
p.132
[3] / Collectif Bruit Du Frigo [4] / Collectif Parenthèse
126
p.136
p.140
[1] Collectif Etc
p.128
127
[1] Collectif Etc ANNO DI FONDAZIONE: 2009 SEDE: Marsiglia (non fissa) COMPONENTI: 15 fondatori e 30 membri attivi CAMPI DISCIPLINARI: architettura, grafica, urbanistica, sociologia urbana STATUTO: associazione di interesse generale > http://www.collectifetc.com/
128
«Nato a strasburgo nel settembre 2009, il Collectif Etc ha la volontà di raccogliere le energie attorno a una dinamica comune di indagine e rimessa in discussione dello spazio urbano. Attraverso diversi mezzi e competenze, il collettivo vuole essere uno strumento di sperimentazione. La maniera di trasformare la città di oggi, soprattutto in Francia è essenzialmente il risultato di una logica verticale e gerarchica che coinvolge i diversi attori dello sviluppo urbano in tempi e spazi determinati e fissi. Crediamo che i diversi utenti e cittadini possano tutti essere coinvolti nel suo sviluppo ad una vasta gamma di scale. Vogliamo intervenire in questa struttura verticale mediante l’attuazione di una rete flessibile di interazioni artistiche e sociali, incontri e dibattiti. I nostri progetti sono ottimisti, aperti e orientati verso il pubblico spontaneo della città. La loro caratteristica comune è quella di agire nello spazio pubblico integrando la popolazione locale nel processo creativo. Queste azioni e questa ricerca non si limitano quindi solo alla disciplina artistica, ma anche influenzare questioni sociali, politiche e urbane. Essi si esprimono attraverso la realizzazione di strutture costruite, arredo urbano,organizzazione di incontri, conferenze, corsi di formazione, o interventi artistici: dispositivi esposizioni, sculture, installazioni. Lo scopo e l’importanza di questi esperimenti urbani non risiede tanto nel risultato, quanto nel processo che lo genera e nel nuovo ambiente e nei nuovi comportamenti da esso generati.»
Autobarrios Madrid, 2013
CafĂŠ sur place Bordeaux, 2012
Place au changement! S. Etienne, 2011
129
Place au changement! S. Etienne 2011
«Due punti sono stati importanti per ottenere la trasformazione di un lembo invisibile di città in spazio pubblico. Primo: aprire il laboratorio tutto il giorno a persone che volevano collaborare: sono stati messi a loro disposizione diversi attrezzi e materiali e noi eravamo sempre lì con loro per aiutarli nel processo di costruzione. Secondo: immaginare il laboratorio come un festival: ogni giorno alle 18:00 abbiamo organizzato un programma di eventi direttamente sul cantiere: concerti, lezioni di ballo, gare di “bocce” … tutti gratis. L’obiettivo era quello di amplificare il coinvolgimento della popolazione locale al fine di creare uno spazio che non è stato solo pubblico, ma anche costruito in comune.» > http://www.abitare.it/it/citta-e-urbanistica/placeau-changement-unintervista-al-collectif-etc/
130
131
[2] / Collectif Exyzt ANNO DI FONDAZIONE: 2003 SEDE: Parigi COMPONENTI: 20 circa CAMPI DISCIPLINARI: architettura, urbanistica, grafica, video STATUTO: associazione « Nato nel 2003 su iniziativa di cinque architetti, EXYZT oggi è una piattaforma per la creazione multidisciplinare che coinvolge una ventina di persone: architetti, grafici, operatori video, fotografi, dj, produttori botanici. Ogni gruppo di intervento fa parte di una temporalità in un dato territorio, spesso sotto forma di installazione temporanea. I progetti EXYZT partono dalla specificità del sito e il contesto diventa sostegno del progetto. A seconda del progetto, EXYZT mobilita tutti o parte dei suoi membri e costruisce nuove relazioni con gli attori sul territorio, formando le comunità di azione, di vita e di scambio. “Azione, vita e scambio” sono le tre parole chiave per affrontare l’approccio collettivo. Progettare una architettura attraverso atti o azioni, caricare l’architettura della vita. L’insieme dei progetti incoraggia il visitatore ad abbandonare un atteggiamento puramente contemplativo per diventare, lui stesso, un utente, attore, e prendere parte al progetto. Delle installazioni temporanee, sempre auto-costruite e abitate dallo stesso gruppo, reinterrogano i contesti, i luoghi e il loro uso.» > http://www.exyzt.org
132
Construir junto
Guimaraes, 2012
Palace
Bordeaux, 2011
The Reunion Londra, 2013
133
134
The Reunion Londra, 2013
«Nello spirito del Beer Act del 1830, per cui chiunque poteva chiedere una licenza per aprire il proprio salotto al pubblico e vendere birra in casa propria, “The Reunion” è stato un esempio di quello che potrebbe essere definita una public house che va oltre l’idea di pub. Con il supporto essenziale di LAKE ESTATE, che ci ha dato in uso il terreno e ha reso possibile la costruzione del progetto, EXYZT ha riunito anche quest’anno una vasta gamma di persone per consegnare un manufatto autoprodotto e autogestito, atto collettivo di architettura e luogo aperto a tutti, nel cuore di Southwark.»
135
[3] / Collectif Bruit Du Frigo ANNO DI FONDAZIONE: 1997 SEDE: Bègles COMPONENTI: 7 permanenti e circa 20 attivi CAMPI DISCIPLINARI: architettura, arte, urbanistica, STATUTO: associazione «Bruit du frigo è un ibrido tra uno studio di indagine urbana, un collettivo creativo e una struttura di educazione popolare, dedicato allo studio e l’azione sulla città e il territorio abitato attraverso un approccio partecipativo artistico e culturale. All’incrocio tra territorio, arte e popolazione, i nostri progetti offrono modi alternativi di immaginare e costruire il nostro ambiente di vita, coinvolgendo tutti gli attori in gioco tramite: • Atelier di urbanistica partecipata • Interventi artistici nello spazio pubblico • Assistenza alla gestione del progetto • Workshop artistici • Attività pedagogiche • Workshop e seminari • Formazione Bruit du frigo interviene in comuni, comunità locali, strutture culturali e artistiche, centri sociali, scuole e associazioni di residenti.» > http://www.bruitdufrigo.com/
136
La Poïpoïgrotte Grigny 2013
Grésilab
Gennevilliers 2013
Le Ring 2013
Benauge 2013
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Le Ring
Benauge 2013
«Le Ring è un’installazione temporanea installata sulla piazza Pinçon nella città di Benauge. Il Ring è una zona panoramica per testare e condividere situazioni collettive nello spazio pubblico, uno spazio interattivo per il dialogo e il confronto dei punti di vista. Il Ring è uno spazio di co-costruzione realizzato da residenti, autorità locali e artisti e fa parte di un progetto di sviluppo sostenibile concreto. Il Ring è un evento artistico e culturale che invita artisti locali e nazionali alla produzione e alla creazione, e a confrontarsi con un ambiente che mette in contatto la gente e che crea spazi di incontro inaspettato.»
139
[4] / Collectif Parenthèse ANNO DI FONDAZIONE: 2012 SEDE: Montpellier COMPONENTI: 8 CAMPI DISCIPLINARI: Architettura, Installazioni, Scenografia, grafica, design, video, fotografia STATUTO: / «Formato nel 2012 da un gruppo di amici e architetti, Collectif Parenthèse fornisce un quadro di riflessione e di sperimentazione pratica in tutto lo spazio della città. Il desiderio di creare in modo diverso, mettendo in discussione discipline e professioni in architettura e i suoi metodi di lavoro sono i temi all’origine di questo gruppo. Lo sviluppo di ogni progetto del collettivo segue un processo completo, dall’idea al disegno fino alla progettazione e alla realizzazione. Cerchiamo di sviluppare un approccio interattivo, umano e responsabile attraverso tutti i mezzi disponibili che suscitano nostro interesse. Architettura, scenografia, installazioni, grafica, design, video, fotografia ... tutte le discipline creative, in cui la nostra immaginazione e i nostri pensieri possono essere espressi. Questa energia si realizza attraverso lo sviluppo di installazioni effimere, arredo urbano, proiezioni, oggetto di design ma pure creazioni artistiche. Lo spazio pubblico appartiene a tutti, a ogni cultura, vogliamo offrire agli utenti una architettura, un quartiere, un evento, un esperienza visiva, fisica e sociale.» > http://www.collectifparenthese.com/
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FIFMA
Montpellier 2014
DO YOU READ ME ?
Montpellier 2012
FIFMA
Montpellier 2014
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FIFMA
Montpellier 2014 «Progettato come un segnale visibile da Place de la Comédie, il progetto invita i passanti a scoprire il Festival del Film Festival des Métiers d’Arts. La struttura è costituita da telai in legno che offrono un viaggio ludico-poetico. Attraverso gli alberi, le altalene meravigliano i più giovani sotto lo sguardo divertito dei genitori. Dando l’illusione di oscillare tra i platani dell’ Esplanade Charles de Gaulle, l’installazione attira l’attenzione di chi cammina e lo informa sui momenti salienti della manifestazione.»
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[5] / Collectif les Saprophytes ANNO DI FONDAZIONE: 2007 SEDE: Lille COMPONENTI: 6 fondatori, 14 volontari CAMPI DISCIPLINARI: Architettura, urbanistica, paesaggio, agricoltura STATUTO: associazione «Partendo dall’idea che gli abitanti possono e devono intervenire sulla costruzione della comunità, il nostro approccio, i nostri progetti, effimeri o perenni, a Lille, Roubaix, Bruxelles o altrove, di giorno o di notte, controllati o spontanei, sono sempre basati su 7 caratteri fondamentali: Diversità: utilizzare e valorizzare la diversità degli incontri, paesaggi, misteri ... che ci offre la città, ma anche aprire i nostri campi di azione alle peculiarità di ogni luogo e di ogni progetto. Incontro: la città ha un enorme potenziale da sfruttare in termini di incontro, e sperimentare per dare nuove dimensioni alla vita urbana. Spontaneità: dare il diritto a un’azione spontanea in un territorio sempre più controllato Ecologia: utilizzare le risorse locali offerte dalla città, riciclare, in un procedimento di costruzione meno legato al consumo e più legato all’Umano Autonomia: (re) inventare, utilizzare e fornire strumenti che consentano una maggiore autonomia, sia da un punto di vista ecologico che umano, e un maggiore coinvolgimento dell’uomo nel suo spazio di vita. Esperienza: uscire, mettere le mani in pasta, per incontrare le persone e costruire lo spazio pubblico nello spazio pubblico. Passare il testimone: Imparare a ritirarsi, dissolversi, quando il progetto è maturo.»
144
> http://www.les-saprophytes.org/index.php?cat=umlu
Unité Mobile de Loisirs Urbains Roubaix 2013
Et pourquoi pas au bord du canal Dunkerque 2011
Les beaux monts d’Hénin Darcy 2013
145
Les beaux monts d’Hénin Darcy 2013
«L’obiettivo è di interrogare gli abitanti sullo stato e gli usi dei loro spazi pubblici, circa i loro bisogni e le loro aspettative per queste aree. Il Comune Darcy è una città giardino, la presenza della natura di ampi spazi pubblici sono le idee principali che sottendono la sua costruzione. L’evento ha contribuito a costruire una storia comune dei residenti nel loro territorio e mettere in discussione l’uso quotidiano del loro quartiere. Con questo atto di forte mobilitazione delle persone, ogni individuo ha contribuito alla creazione dell’opera, ma anche simbolicamente di una piccola porzione del quartiere. Teniamo testimonianza di questo evento con una foto di gruppo. Gli ingredienti del festival: - un banchetto pubblico - un happening teatrale e musicale - una foto di gruppo su Bing - partenza per visite guidate da parte dei residenti del quartiere - una mostra aperta a scoprire sui muri della città.»
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[6] / Collectif Cochenko ANNO DI FONDAZIONE: 2007 SEDE: Saint Denis COMPONENTI: 8 + 15 attivi CAMPI DISCIPLINARI: grafica, architettura, serigrafia, fotografia, geografia, ingegneria, gastronomia STATUTO: associazione «Creato nel 2007, Cochenko esplora vari spazi coinvolgendo gli abitanti in interventi in luoghi pubblici, luoghi di vita e di incontri al fine di costruire “utopie ordinarie”. Queste creazioni ruotano intorno varie pratiche (grafica, design, architettura, serigrafia, fotografia, geografia, ingegneria, gastronomia ...) e sono progettate per costruire legami sociali, investendo la coscienza civica di ognuno. L’opportunità di dare luogo ad azioni artistiche partecipative può indurre un cambiamento di prospettiva per l’ambiente quotidiano. Il collettivo difende un attivismo poetico, politico e ludico.» > http://cochenko.fr/Collectif-Cochenko
148
Les Guitones
dal 2010, itinerante
LE BANBAK
Buisson-Saint-Louis
La Ban-Banquette Joliot-Curie 2012
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La Ban-Banquette Joliot-Curie 2012
“La ban-banquette è installata ai piedi di un edificio della città Joliot-Curie (93200) in un giardino comunitario. La creazione di questa panca pubblica è stata l’occasione per concretizzare i desideri degli utenti del sito che richiedevano un arredo urbano confortevole, dedicato al relax. Questa concezione rappresenta anche un contro-piede nei confronti della diffusa politica di gestione dello spazio urbano che impedisce (di distendersi, di riunirsi, ecc.) e non promuove usi generatori di vita sociale.”
150
151
152
4.4 Il «cantiere aperto», una nuova «architettura della partecipazione» Uno degli aspetti metodologici più originali dal movimento dei collectifs è quello di
riuscire a coinvolgere la popolazione all’interno dei cantieri. In questo modo, non solo si afferma l’esigenza di una partecipazione attiva degli abitanti alla costruzione dello spazio pubblico, ma si delinea un metodo alternativo di elaborazione/realizzazione
del progetto di architettura. Per illustrare questo aspetto si ricorre a un progetto specifico, realizzato nel 2013 dal collectif Etc.
San Cristóbal de los Ángeles è un quartiere di circa 18.000 abitanti situato nella periferia sud di Madrid, ‘Autobarrios’ è invece un ambizioso progetto di self-made-
neighboorhoods lanciato nel 2012 da una piattaforma di associazioni locali. In questo contesto nasce la proposta di riattivazione di un spazio in disuso di 1200m2 collocato al di sotto dell’imponente Avenida de Andalucía, strada sopraelevata che collega il quartiere al centro città.
La prima fase dell’iniziativa si attiva nel Maggio 2013 sotto il nome di «Barrio de
colores» ed è guidata dal gruppo spagnolo di artisti urbani Boa Mistura. Il grande affresco realizzato con la collaborazione degli abitanti del quartiere trasforma in
breve tempo gli austeri elementi strutturali della sopraelevata in vivaci totem colorati, avvolgendo la totalità dello spazio in geometrie ed effetti cromatici. Nell’inverno
dello stesso anno si sviluppa la seconda fase del progetto, grazie alla collaborazione tra il collettivo Basurama e il gruppo francese Collectif Etc.
L’obiettivo è la realizzazione due oggetti: una scena teatrale e uno spazio di gioco per
i bambini. Le linee guida per la loro costruzione si definiscono in situ, considerando
in primo luogo i materiali a disposizione, rinvenuti in gran parte tra gli scarti di un vicino cantiere di Herzog e Demeuron. Il concept prende spunto dalle geometrie
disegnate nella prima fase e dalla forma triangolare dei moduli in legno recuperati e la messa in opera, anche in questo caso, avviene con la partecipazione degli abitanti
153
del vicinato. Più di ottanta moduli di grandezza e altezza variabili vengono costruiti e assemblati in relazione alla funzione proposta.
L’esperimento è un grande successo sia in termini di eredità lasciata al quartiere sia
per quanto riguarda il cantiere stesso. Un’esperienza collettiva, forte e creativa, una festa che trasforma «una zona inquinata e abbandonata del quartiere in uno spazio conviviale»21.
Ciò che rende eccezionale questo cantiere è il fatto che «non persegue la realizzazione di un disegno esecutivo»22, né ha come obiettivo quello di riproporre un’immagine già elaborata. Il «cantiere aperto» è una pratica in cui le fasi di concezione e costruzione
convivono per tutta la durata del cantiere, seguendo un disegno di massima, ma
lasciando comunque a ciascun partecipante la libertà di contribuire con la propria creatività all’elaborazione soluzioni specifiche, influendo così sul risultato finale. Ciò che è noto ai collettivi Basurama e Etc una volta giunti in situ è esclusivamente il materiale a disposizione, da cui è possibile dedurre un «principio costruttivo»23 che
guiderà l’assemblaggio dei moduli triangolari che comporranno la pista da gioco e il palco.
Questo progetto esprime con chiarezza il processo non lineare ed estremamente
dipendente dalle circostanze che guida la costruzione. Un sistema per l’appunto
«aperto» in quanto inclusivo e influenzabile dall’esterno ma anche poiché non finito, trasmissibile, successivamente interpretabile.
Questa postura, che unisce l’esigenza dei fruitori di partecipare alla fabbricazione del proprio habitat e quella di ripensare il processo di concezione/rappresentazione/ 21 22
«Autobarrios SanCristobal» di Autobarrios. Vimeo, 1 Novembre 2013.
Dall’intervista a Michael Guegueneu, membro del Collectif ETC, effettuata il 7 Febbraio
2014. 23
154
Ibidem.
Collectif Etc, Autobarrios Madrid, 2013 [foto pp. 155,156,158]
155
156
realizzazione dell’architettura-oggetto, sembra essere il vero elemento comune di questo ampio movimento nonché il centro della sua riflessione.
Patrick Bouchain, che come detto rappresenta l’iniziatore del movimento dei collettivi
e forse il padre di questo metodo, nel raccontare come ci sia giunto fa riferimento alla metafora del teatro, che è peraltro il suo ambiente di provenienza.
«Come è possibile che funzioni ancora oggi il fatto di prendere un testo antico di un drammaturgo greco, latino, un testo che ha 2000 anni o che ne ha 50, e come è possibile che possiamo ancora rappresentarlo e comprenderlo? Cosa c’è di permanente in questa opera? Quello che è formidabile è l’interpretazione, ovvero il fatto che qualcuno a un certo punto, vedendo qualcosa che appartiene all’antico, che ovvero appartiene all’accademia e alla storia dell’uomo, possa essere presa da qualcuno, un regista, che la interpreta affinché sia compresa oggi prendendone l’essenziale. E la donerà a un attore, che ha un corpo che non è lo stesso, e non ha neanche la stessa maniera di essere sorpreso, innamorato o violento, che prenderà ciò che c’è di essenziale affinché questo sia compreso dal pubblico.»24
La comprensione di un testo risalente al periodo classico è comprensibile oggi solo
se sottoposta a successivi livelli di interpretazione. Il regista interpreta nel momento della lettura del testo originale e il pubblico recepisce con gli strumenti della cultura
contemporanea la recitazione degli attori - anch’essa frutto di interpretazione. «Perché l’architettura non dovrebbe essere fatta così?»25 si domanda Bouchain. Perché non
trasferire in architettura l’idea che la collaborazione tra ogni partecipante possa essere 24 25
Dall’intervista a Patrick Bouchain, effettuata l’1 Febbraio 2014.
Ibidem.
157
158
fondata su un rapporto di fiducia e sulla trasmissione-interpretazione delle idee del singolo, al posto della consueta impostazione piramidale?
Questo è realizzabile in architettura, a parere dell’architetto francese, quando la comunicazione fra gli attori avviene «senza disegnare», ovvero senza fornire
indicazioni troppo dettagliate. Bouchain afferma di aver svolto questa pratica con numerosi soggetti con cui ha collaborato: assistenti, politici, imprenditori e operai. «Per esempio mi recavo da un imprenditore edile che sapeva costruire, dunque gli raccontavo di un oggetto da realizzare in cui sarebbe stato bello che fosse contenuta la sua cultura, il suoi strumenti, i suoi attrezzi, con tutti i limiti che questo può comportare. [...] Mi sono reso conto che in ogni situazione c’era un’interpretazione possibile e un urgenza, un sentimento nell’oggetto costruito che non c’era nell’oggetto eseguito. Per questo l’architettura è interpretabile, non eseguibile»26
È bene sottolineare che il termine «partecipazione», spesso abusato anche in relazione
all’attività dei collettivi, comprende un’ampia serie di pratiche di coinvolgimento della
popolazione. Gli atielier di strada, le riunioni pubbliche, i cantieri aperti al pubblico, le “cene di quartiere”, sono strumenti di coinvolgimento capaci di avvicinare in modo diverso il futuro utilizzatore dello spazio al progetto.
Per orientarsi all’interno di queste formule di partecipazione, e confrontarle con quelle proposte in passato, come quelle di Giancarlo De Carlo, è utile effettuare una principale distinzione: quella tra cantieri di «Co-concezione» e quelli che si limitano alla «Co-costruzione».
Da quanto emerge dalla ricerca, nell’ambito dei collectifs la prima formula di 26
Ibidem. 159
partecipazione è decisamente meno sviluppata. La possibilità di organizzare riunioni
formali in cui gruppi di popolazione si possano confrontare su tutti i temi necessari fino a formulare delle vere e proprie proposte per il loro territorio richiede tempi
molto lunghi, e una grande complessità di gestione. Sono stati effettuati alcuni tentativi, come per esempio il laboratorio a Rennes del collectif Etc, i cui risultati sono stati per certi versi deludenti27. Non si esclude che in futuro possano verificarsi le condizioni per un reale sviluppo di queste pratiche.
La Co-costruzione, è invece una formula sicuramente più informale e di semplice attuazione e ricade anch’essa all’interno dei molti significati finora attribuiti
all’espressione «cantiere aperto». In questo caso ci si limita a far partecipare la popolazione alla fase di realizzazione del progetto, una volta che è stato definito
in linea di massima e a cantiere già avviato. Questa formula limita evidentemente l’apporto di partecipazione della gente in termini creativi, ma innesca un forte
processo di appropriazione di chi costruisce alle strutture realizzate, che una volta terminato il cantiere è portata a prendersene cura. È bene inoltre sottolineare che
quello di “costruire” è di per sé un atto creativo, soprattutto se considerato nell’ambito
dei progetti proposti dai collettivi lasciano grande spazio all’interpretazione e alla creatività del singolo.
Se si guarda ancora all’esempio di Madrid, il progetto viene concepito in situ, in gran
parte a mano, a fronte della disponibilità di materiali rinvenuti. Ciò che è noto ai componenti dei due collettivi è il principio di assemblaggio delle strutture triangolari
e un’idea di massima della forma che potranno assumere la scena e lo spazio da gioco. L’atto di costruire rappresenta una forma di «interpretazione collettiva» dei vincoli e dei limiti presenti a cui partecipano gli abitanti del quartiere. Da questo punto di 27
Dall’intervista a Michael Guegueneu, membro del Collectif ETC, effettuata il 7 Febbraio
2014. 160
vista il cantiere aperto può essere definito coerente alla ricerca di Van Eyck e De
Carlo, che criticavano la figura dell’architetto «autoritario» proponendo quella di un
mediatore di interessi collettivi, «direttore d’orchestra» della creatività dei partecipanti al cantiere.
161
4.5 Sapere vs Saper Fare: l’architetto tra l’urbanista e il «bricoleur» È bene a questo punto soffermarsi su quest’aspetto: in che cosa consiste esattamente questa nuova figura? Quali sono le sue competenze, quale il suo campo d’azione? In che relazione si pone rispetto alla disciplina intesa in senso tradizionale? In che termini vi si può intravedere una possibile evoluzione del mestiere dell’architetto?
In primo luogo, come già visto, quella proposta dai collettivi è una figura professionale
meno specializzata ma di scambio, coordinazione e incrocio tra numerose discipline
quali l’urbanistica, le scienze sociali, la grafica, il design, le arti applicate, la carpenteria, ecc. La trasformazione di un luogo e un progetto di architettura divengono il medium
affinché tutte queste competenze possano unirsi, sebbene per un tempo limitato, e l’architetto la figura che coordina questa cooperazione.
In secondo luogo si profila un’attitudine decisamente meno dirigista e programmatrice. Come già descritto, dagli esempi presentati emerge con chiarezza la volontà di rompere il processo progettuale tradizionale, poiché ritenuto troppo astratto, rigido
e discontinuo. Si propende tuttavia per un processo «aperto» al caso e all’inatteso, in un’attività di perpetua ricerca-azione-sperimentazione svolta in situ, a stretto contatto con la realtà da trasformare.
Come descrivere meglio questa attitudine alternativa rispetto alla pratica tradizionale?
A bene vedere questo approccio ricorda quello descritto all’inizio degli anni ’60
dell’antropologo Claude Lévi-Strauss facendo riferimento al «bricoleur». Questa
figura fu introdotta nell’ambito della sua importante opera «Il pensiero selvaggio»
con l’intento di ricostruire i meccanismi di pensiero «mitici» propri delle popolazioni indigene indiane per confrontarli con gli strumenti moderni occidentali. Per fare ciò l’autore propone il confronto tra la figura dell’ingegnere, che simbolizza il
pensiero scientifico primario, e quella del bricoleur, che indica il lavoro manuale non specializzato «che utilizza mezzi diversi dall’uomo di mestiere»28. 28
162
Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il saggiatore, Milano 1990, p.30.
«Il bricoleur è capace di eseguire un numero di compiti differenziati, ma, a differenza dell’ingegnere egli non li subordina al possesso di materie prime di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto: il suo universo strumentale è chiuso e, per lui, la regola del gioco è adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone, cioè a un insieme via via finito …»29
Dal punto di vista metodologico invece l’ingegnere si esprime «per concetti», formulando «ipotesi e teorie» e situandosi in una posizione «al di là»30 in relazione «alle limitazioni in cui si riassume una civiltà», al contrario il bricoleur è costretto a
restare «al di qua», esprimendosi per «segni». Il bricolage è legato ad una dimensione manuale, personale e inventiva, ed è una disciplina da cui è possibile ottenere «risultati
brillanti e imprevisti»31 poiché aperta nei confronti del caso. L’obiettivo del bricoleur
si determina con l’avanzamento del lavoro, e dunque si auto-ispira, in base alle possibilità che si presentano progressivamente. Il bricolage si delinea dunque come
un’attività con forte carattere di spontaneità, capace di dialogare con il contesto in cui si situa in base ai mezzi a disposizione. La traduzione sul piano intellettuale di
questo procedimento è rappresentata dal pensiero «mitico», primitivo, considerato
appunto dall’autore una forma di «bricolage mentale», per nulla inferiore, a suo parere, rispetto a quello occidentale. La dialettica bricoleur-ingegnere - che equivale a quella
primitivo-civilizzato e selvaggio-colto sarà infatti utile a Levi Strauss per invitare ad una rivalutazione di alcune forme di cultura popolare, fino ad allora considerate 29 30 31
Ibidem.
Ivi, pp.32-33. Ibidem.
163
secondarie rispetto a quella occidentale.
Questo tentativo, assolutamente innovativo per l’epoca, di costruire un ponte tra i due mondi, creando uno strumento di dialogo tra un approccio colto e uno popolare può
essere utile per tentare di definire in che posizione possono collocarsi le pratiche dei collectifs in relazione alla disciplina intesa in senso più ampio e «tradizionale».
La prima osservazione che si può effettuare sulla base di questa analisi è che se si considera lo spazio che intercorre tra la definizione di ingegnere e quella di
bricoleur, verrebbe naturale posizionare l’architetto in un punto se non coincidente, sicuramente più vicino al primo che al secondo. L’architettura è in fondo una pratica di predeterminazione dello spazio, effettuata con strumenti tecnico-specialistici
tramite i quali si determinano progetti studiati in termini di fattibilità e costruibilità, successivamente trasmessi a chi è incaricato della fase esecutiva. Se si considera quindi il grado di “apertura” al caso e all’imprevisto, proprio del metodo chiamato
appunto “cantiere aperto”, e la dipendenza dalle circostanze specifiche imprevedibili
di ogni progetto (diponibilità di materiali, possibili collaborazioni esterne, condizioni metereologiche, regolamenti, norme di sicurezza ecc.) si può concludere dunque che
i collettivi propongano un’interpretazione del mestiere di architetto che si allontana dell’ingegnere e si sposta verso la figura del bricoleur descritta da Levi Strauss.
L’antropologo Jean Charles Depaule ha inoltre più recentemente affrontato la questione in termini simili, analizzando il binomio architettura «colta» - architettura «selvaggia»32.
L’autore chiama «selvaggi dell’architettura» i «trasgressori della divisione rigida tra
lavoro manuale e lavoro intellettuale»33, coloro che non detengono un potere conferito 32
Depaule Jean-Charles, « Savoirs et manières de faire architecturaux : popoulaires versus
savants » in Les Cahiers de la recherche architecturale et urbaine, juillet 2004, n°15, pp.13-14. 33
164
Ibidem.
dalla «specializzazione» ma che nonostante questo intervengono trasformando i luoghi tramite «autocostruzione», talvolta realizzati dagli abitanti intenti in pratiche di riappropriazione spontanea dello spazio comune.
A queste pratiche si oppone l’architettura colta, che nel concepire un edificio, indica «le tappe da intraprendere in cantiere, il cui avanzamento è sottoposto a una successione programmata di operazioni intellettuali e manuali». Il tutto confluisce nel
«progetto di architettura», che si identifica con «un documento disegnato» e dal vasto impiego di strumenti informatici. All’architettura «selvaggia», per come la definisce l’autore, corrisponde un ampissimo panorama di pratiche, a partire dalle esperienze di architettura vernacolare fino al più recente fenomeno delle bidonville.
Ai caratteri già enunciati, si aggiungono dunque altri temi interessanti per la nostra
ricerca. Il primo è quello dello relativo al binomio lavoro manuale-intellettuale: i collettivi promuovono la pratica dell’autocostruzione che unisce concezione ed
esecuzione e «trasgredendo» dunque alla divisione rigida esistente tra le due fasi. L’architettura «colta» esclude sistematicamente questa eventualità.
Il secondo riguarda la partecipazione degli abitanti a questo processo di concezione/
costruzione che rende effettivamente possibile l’associazione di questo movimento ad alcune forme di architettura vernacolare, descritta da van Eyck come «l’estensione
del comportamento collettivo in forma costruita»34 in un processo in cui è la stessa comunità che determina la forma del suo habitat.
Questi elementi inducono dunque ad affermare che la figura professionale proposta
dai collectifs, composti per la maggior parte di architetti laureati e dunque appartenenti
al mondo dell’ «architettura colta», si avvicini a quell’insieme di pratiche raggruppate da Depaule sotto la definizione di «architettura selvaggia», per alcune caratteristiche 34
Cfr. Aldo Van Eyck , in occasione della conferenza « International Design Seminar (Indesem)»
Faculty of Architecture, TU Delft 1987 - (https://www.youtube.com/watch?v=Uf7RyqXIYmM)
165
quali l’adozione di un approccio di «apertura» rispetto agli imprevisti, con una forte attitudine alla comunione tra lavoro intellettuale-manuale e perché promotore di esperienze di riappropriazione dello spazio da parte degli abitanti.
Dal contesto descritto emerge, come era successo per la Métavilla, l’interessante convivenza tra un’esigenza di concretezza ed una di giustizia, tra un’attitudine
pratica ed una etica, tra bricolage e slancio utopico. Questa sintesi rappresenta uno dei concetti chiave di questa esperienza che invita l’architettura da un lato a riavvicinarsi alla realtà, a riconquistare una relazione con la manualità, la materia e
gli strumenti da costruzione. Dall’altro afferma la necessità di una riflessione etica e sociale e l’importanza che gli abitanti possano contribuire alla trasformazione
dl loro habitat, lottando contro il meccanismo piramidale che lo organizza. Questa forma di resistenza effettuata con gli strumenti del «fare» contro i meccanismi di «produzione»35 dello spazio urbano, ricorda la figura del «consumatore», descritta
da Michel De Certeau nel 1980 nell’opera «L’invenzione del quotidiano». L’autore
sostiene che il consumo sia un atto creatore, che in ogni forma di manipolazione di un immagine, di un messaggio o di un oggetto prodotto dalle élites del potere
economico e culturale risieda un’occasione di rielaborazione creativa. De Certeau rifiuta infatti la visione della società come una massa docile e disciplinata che
sottostà passivamente alle regole che le vengono imposte. Egli al contrario intravede nell’immagine dell’ «uomo ordinario» una creatività nascosta che risiede in sottili ed efficaci astuzie quotidiane. Dopo aver indicato le «strategie» e le «tattiche» proprie di questo meccanismo, De Certeau definirà come «arts et manières de faire» tutti questi rituali di elusione della disciplina comune. L’uso diventa dunque a sua volta
produzione di alternative ed il consumatore un «inventore sentieri nelle giungle della razionalità funzionalista», e di «traiettorie indeterminate, apparentemente insensate 35
166
Michel De Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p.7.
poiché non sono più coerenti con lo spazio costruito, scritto e prefabbricato in cui si dispiegano»36.
Tutte queste forme di «bracconaggio»– termine sempre usato da De Certeau –
risultano utili per descrivere in modo ulteriormente preciso l’attività dei collettivi, in relazione ad almeno a due attitudini alla «resistenza» quotidiana.
In primo luogo per quanto riguarda il modo di relazionarsi alla città, prediligendone e parti in transizione, dismesse o abbandonate, dunque trasgredendo alle regole formali, scritte e imposte dalla pianificazione urbanistica e favorendo meccanismi di riappropriazione dello spazio da parte dei cittadini.
In secondo luogo, ancora una volta, nella relazione che si istituisce nei confronti con
l’«architettura colta», sviluppando puntuali esperienze di bricolage, che promuovono e producono una cultura del «saper fare», resistendo alla cultura condivisa che esclude il lavoro manuale, a favore di sistemi «aperti» al caso e all’inatteso.
36
Michel De Certeau, op.cit, pp.69-70. 167
4.6 Il rapporto con la commessa e la questione del tempo Un altro aspetto importante per sviluppare un’analisi di questo movimento è il suo
rapporto con le istituzioni: che statuto giuridico scelgono i collectifs? Con quali mezzi economici realizzano i propri progetti? In che modo si relazionano con le commesse pubbliche e private? Come questo rapporto influisce sulla loro attività?
Quello che si presenta è un panorama del tutto eterogeneo e in grande evoluzione. Il termine collectif, più che alla forma associativa si riferisce ad una serie di valori
condivisi, ad un modo di vivere e concepire il lavoro di gruppo e l’attività collettiva. Sarebbe errato pensare che questo termine si riferisca ad una omogeneità formale
di statuti giuridici. Al contrario ci sono alcuni collettivi che optano per la forma di associazione, più o meno a scopo di lucro, altri che rifiutano qualsiasi tipo di inquadramento giuridico. A queste possibilità si aggiunge la scelta, per ciascun
membro del collettivo, di vivere dell’attività svolta, come fa il collectif Etc., o di affiancare a questa un’attività professionale, che è il caso di Exyzt.
A questo quadro eterogeneo corrisponde una varietà di atteggiamenti nei confronti delle istituzioni pubbliche e private che propongono degli interventi ai collectifs. Le
forme di collaborazione dipendono dai tipi di commessa come quello della «commande publique», la commessa pubblica diretta, o l’ «appelle à participation», i bandi e concorsi
pubblici indetti da istituzioni locali. Esiste anche la possibilità per i collettivi di
partecipare a Festival artistici, Biennali e Triennali di arte e architettura. Come ultima eventualità vi è quella che i collettivi si organizzino con delle associazioni
locali e che avviino con esse un dialogo finalizzato alla realizzazione di un progetto, autofinanziandolo. Si prospetta dunque un quadro complesso, la cui comprensione è
fondamentale per verificare la coerenza di questo movimento, che da un lato rivendica il proprio essere “alternativo”, militante e profondamente critico nei confronti di un sistema che esclude sistematicamente il cittadino dai processi di trasformazioni
urbana, dall’altro vede nelle stesse istituzioni l’unico – o quasi – interlocutore 168
Collectif Etc, TATATA EN TUTU sous la douche sonore, Parigi, 2014 [foto pp. 169,170,172,173]
possibile per poter finanziare i propri progetti. Non tutti i collettivi leggono questa
problematica allo stesso modo, per questo si intende in questo paragrafo di analizzare due progetti che presentano attitudini del tutto divergenti sul tema.
Iil Collectif ETC ad esempio fa del dialogo con le istituzioni pubbliche il suo punto di forza: «è una scelta che facciamo, quella di voler dialogare con il potere pubblico. Vogliamo fare quello che vogliamo ma dialogare con il massimo di persone
possibile»37. Un chiaro esempio di questo atteggiamento è il progetto recentemente
realizzato a Parigi, - in due fasi distinte tra il dicembre 2013 e l’aprile 2014 - intitolato “Ta Tata en Tutu sous la Douche Sonore”. L’area che ha ospitato il progetto presenta
caratteristiche peculiari poiché situata sotto il centralissimo Pont de La Concorde, in un area oggetto del recente e ambizioso progetto di riqualificazione che investe tutto il lungofiume della Rive Gauche della Senna chiamato «Les Berges de Seine». Il
percorso carrabile di circa 2,5 Km compreso tra il Museo Quai Branly e il Musée d’Orsay è stato chiuso al traffico nel Gennaio 2013 e progettato per ospitare strutture per il tempo libero, lo svago e lo sport.
Tra gli interventi già realizzati, come il posizionamento di sedute, bar e ristoranti in alcune aree, ve ne sono alcuni decisamente più sperimentali come quello della
«Douche Sonore» installato sotto il Ponte della Concorde, con la collaborazione di
due radio locali: Radio Nova et TSF Jazz. Il dispositivo consiste in un sistema di diffusione sonora collegato a una playlist continuamente aggiornata dalle due emittenti, che tuttavia consente a chiunque lo voglia di connettersi via bluetooth e ascoltare la propria musica.
Il Collectif Etc. viene coinvolto per estendere questa esperienza e trasformare il suo 37
Dall’intervista al Collectif ETC di Quentin Bourguignon, in « Vers une institutionnalisation
des collectifs d’architecture?», tesi sostenuta a l’Ecole Superieure d’Architecture de Lyon, a Maggio 2014.
171
ambiente in un luogo conviviale, finalizzato all’ascolto della musica e alla danza. L’idea
viene discussa con alcuni referenti dell’amministrazione parigina e nel Dicembre 2013
viene concepita e realizzata una pista da ballo urbana, munita di sbarra, vetri riflettenti
e luci per illuminarla nelle ore di buio. Alla settimana di cantiere partecipano anche un collettivo di illustratori che dipingono un parquet «galleggiante» sull’asfalto e un’equipe addetta all’illuminazione.
L’idea di uno spazio per la danza risponde all’esigenza di inserire un’attività aggregante e molto caratterizzante per questo spazio ma che consenta ai passanti e ai molti
che praticano la corsa di poterlo attraversare in ogni momento. La danza inoltre, a
differenza delle altre attività pensate per il lungofiume, non è per forza legata alla vista dell’acqua, che da sotto il ponte della Concorde è invisibile poiché ostruita dall’altezza del parapetto.
Nella primavera 2014 a Etc. si unisce il collectif Bivouac, un gruppo di giovani diplomati alla scuola di paesaggio di Versaillles, un gruppo di grafici e disigners addetti alla
comunicazione e alla segnaletica e il collectif Bim, collettivo di attori e ballerini che
durante la settimana di cantiere preparerà una performance per inaugurare lo spazio. Il secondo cantiere dura anch’esso una settimana ed è finalizzato alla costruzione di un piano bar, di sedute e gradoni per ospitare il pubblico durante le performance e
rendere più accessibile lo spazio durante la giornata. Durante la settimana si svolgono alcuni atelier di carpenteria per i bambini di alcune scuole elementari parigine e alcuni passanti si soffermano qualche ora per partecipare alla costruzione.
Nonostante il progetto sia inquadrato in un contesto istituzionale la progettazione delle strutture avviene in situ e risponde ai criteri di “apertura” finora descritti. Tre gruppi che si suddividono il progetto, interfacciandosi man mano sia tra loro che con i responsabili della sicurezza che validano o meno le scelte effettuate.
La settimana si chiude con un dibattito pubblico a cui presenziano i responsabili 174
comunali del progetto Berges De Seine e altri invitati tra cui Pablo Georgieff, attivista
all’interno del collectif Co.lo.co. Dopo il dibattito si inaugura la nuova struttura con la
performance del collectif Bim e un concerto dal vivo, il pubblico è un misto di invitati e di passanti che si fermano incuriositi.
Il risultato sembra davvero «una discoteca di giorno senza buttafuori» dove «tutti
possono essere dj, braker, o stelle della danza»38. Uno spazio per la rappresentazione
all’aperto, che non ostacola il passaggio di chi cammina sul lungofiume ma che anzi fa di questo continuo cortocircuito tra chi usa la pista e che ci passa soltanto, un
caso di unico interesse. Ancora una volta un progetto senza barriere, aperto alle interpretazioni, alle influenze e agli imprevisti, carattere interpretato perfettamente
dal collectif Bim che struttura la performance giocando su questa ambiguità, mischiandosi in continuazione con il pubblico-passante.
Questa istallazione durerà fino a Novembre 2014 , quando verrà definitivamente smontata.
A differenza di Etc esistono collettivi più scettici nei confronti dell’eventualità di dover dipendere dal denaro pubblico per sviluppare le proprie azioni. È il caso di Exyzt che interpreta la sua attività più come una forma di attivismo che come un
vero mestiere utile al sostentamento dei propri componenti. Negli ultimi anni sono
state numerose le occasioni in cui questo collettivo ha completamente scavalcato la
tappa della commessa realizzando cantieri grazie ad accordi con gruppi di cittadini o
associazioni locali. Un caso assolutamente emblematico di questo tipo di procedura è
il progetto realizzato da Exyzt a Cova do Vapor in Portogallo da Aprile a Novembre 2013.
Cova do Vapor è un villaggio di pescatori situato sulla costa sud dell’estuario del Tejo, a pochi kilometri da Lisbona, e conta poco più di 200 abitanti permanenti e 350 38
http://www.collectifetc.com/realisation/ta-tata-en-tutu-sous-la-douche-sonore/ 175
Collectif Exyzt, Casa do Vapor, Cova do Vapor, 2013 [foto pp. 176,178,180]
abitazioni. Da sempre legati ad una tradizione di autocostruzione, gli abitanti della Cova hanno dovuto, negli anni ’40 del novecento, trasportare letteralmente le proprie baracche di parecchi km a est da dove originariamente sorgeva il villaggio a causa di
ripetute inondazioni. Il terreno attualmente occupato dal villaggio è di proprietà del
porto di Lisbona e non è riconosciuto ufficialmente da nessuna istituzione locale o nazionale. Da un punto di vista amministrativo il paese gode dunque di uno stato eccezionale e del tutto informale e si auto amministra esclusivamente grazie alla
coordinazione della «Associaçao dos moradores», letteralmente «Associazione degli abitanti», che conta complessivamente circa 400 membri. Oltre che per queste
caratteristiche e per la singolare bellezza della natura che lo circonda, è noto per essere stato, soprattutto negli anni ’80 e ’90, un luogo estremamente problematico dal punto di vista sociale e con un elevato tasso di criminalità.
Il progetto nasce su iniziativa della giovane donna franco-portoghese fondatrice
dell’associazione Casa do Vapor Amalia Buisson, la cui infanzia è strettamente legata
a questo posto, e Alex Roemer del collectif Exyzt, affascinato dal potenziale di questa
peculiare comunità auto-organizzata. L’obiettivo è quello di creare uno spazio che
inviti allo scambio, l’apprendimento, la creazione e la produzione artistica, utili
per valorizzare il luogo e stimolare una riflessione sul suo futuro della comunità. Da qui nasce l’idea di costruire una biblioteca e una cucina comunitaria, a cui si aggiungeranno uno spazio per il gioco e lo sport e una ciclo-officina, il tutto realizzabile
con il materiale ottenuto dalla smontaggio della struttura realizzata per il festival artistico di Guimaraes Capitale della Cultura, a cui Exyzt partecipò nel 2012. Con il
permesso del porto di Lisbona e la convalida della Commssione Ambiente, si avvia la
costruzione di queste strutture effimere, il cui smontaggio avverrà a Novembre 2013. Diversi workshop animano il periodo di costruzione e coinvolgono la popolazione di tutte le fasce di età. Alla costruzione partecipa una grande equipe multidisciplinare
177
che ospita numerosi giovani volontari provenienti da tutto il mondo. Molti abitanti
della Cova non parlano l’inglese ma la barriera linguistica viene oltrepassata dal lavoro
pratico e dalla costruzione, che diventano il punto di contatto tra mondi distanti e apparentemente inconciliabili. Soprattutto i bambini partecipano alla costruzione della Casa; molti sono quelli che hanno abbandonato la scuola e che passano alcune ore in cantiere.
Dopo l’inaugurazione sono gli stessi bambini a mostrare il più grande entusiasmo nell’uso assiduo dei giochi e della biblioteca.
La Casa do Vapor è stata realizzata con la sola partecipazione di volontari che non
paghi di aver lavorato senza alcuna remunerazione, hanno addirittura investito
economicamente nel progetto. È un’idea nata su iniziativa degli stessi che l’hanno realizzata, assecondando un’ intuizione che ha potuto diventare una realtà sensibile per un periodo limitato. Questo processo ricorda quello descritto da Patrick Bouchain
nel raccontare uno degli aspetti più importanti della sua ricerca in merito ai processi di democratizzazione delle trasformazioni urbane sullo spazio pubblico.
«Come fare che un piccolo gruppo non completamente autonomo nel prendere le decisioni, ma a contatto con l’insieme, possa essere attore dell’insieme? […] Come fare affinché un individuo che ha un intuizione sensibile possa essere portatore di qualcosa che la massa non percepisce, e che lui all’interno della massa sente ma per un momento, non definitivamente?» 39.
A parere di Bouchain bisogna mettere in atto quello che definisce un «processo artistico di riappropriazione dello spazio pubblico». Artistico, dunque senza commessa: 39
Dall’intervista a Patrick Bouchain, effettuata l’1 Febbraio 2014. 179
«Un’opera d’arte è giudicabile solo quando è prodotta, non giudicabile a priori. [...] L’opera prodotta su commissione è generalmente una cattiva opera, ma l’opera prodotta su intuizione dell’artista è un’opera che a contatto con la società può aiutare la società stessa a comprendere alcune cose. E anche questo è un ribaltamento perché fino al XIX secolo le opere erano tutte su commissione del potere reale, aristocratico, religioso e repubblicano. A un certo punto dunque l’opera artistica si «inverte», dall’inizio del XX sec e comincia a si sviluppa senza commessa»40.
Riguardo al secondo termine, quello di «riappropriazione», Bouchain propone un
altro interessante ribaltamento di punto di vista sul tema dello spazio pubblico. Egli sostiene che esso sia «appropriabile» che è un concetto opposto alla proprietà poiché
stabilisce un rapporto non esclusivo con chi lo occupa. Lo spazio pubblico è inoltre senza specifica destinazione d’uso, come per esempio uno spazio naturale:
«Per una foresta non esiste programma, a parte il fatto di farla espandere in questa o quella direzione per ragioni di equilibrio biologico, non possiamo dire che la gente sia obbligata a correre, cacciare o di fare l’amore nella foresta. [...] Per trasposizione potremmo dire che questo spazio naturale e senza destinazione unica, potremmo pensare di trasporlo in città. Che uso potremmo fare di questo spazio?»41.
La risposta quindi sta nell’interpretazione di un luogo che un piccolo gruppo o un individuo può offrire per un tempo limitato e non definitivo, nel prendersene cura 40 41
Ibidem. Ibidem. 181
senza commessa, per un’intuizione, per una voglia di agire. Questo può peraltro innescare dei meccanismi di mimetismo e invogliare altri cittadini alla «partecipazione con gioia all’armonia democratica»42.
Questo processo è molto diverso dal meccanismo della commessa pubblica che deve
considerare un grandissimo numero di utenti ed effettuare una sintesi di bisogni, una media statistica che trasforma a parere di Bouchain la democrazia in una «Mediocrazia»43, che per definizione offre risposte di livello mediocre ai problemi esistenti.
Tornando dunque ai due progetti analizzati, sebbene coerenti alle premesse finora elencate (concezione e autocostruzione, intervento di piccola scala, lavoro in
gruppi multidisciplinari, partecipazione popolare, cantiere aperto) essi differiscono
totalmente per quanto riguarda invece le premesse, il tipo di finanziamento e le
modalità di investimento individuale dei componenti del collettivo. Nel primo caso si tratta di un gruppo, il collectif Etc, ingaggiato dall’amministrazione pubblica per sviluppare un progetto sperimentale all’interno di una più ampia strategia di politiche urbane. Nel secondo Exyzt si inserisce in un vuoto legale e amministrativo, reperisce i
materiali e autofinanzia l’esperienza della Casa do Vapor, avvicinandosi fortemente al «processo artistico di riappropriazione» descritto da Patrick Bouchain.
Questi due atteggiamenti si traducono di fatto in due modi di interpretare la stessa attività, nel primo caso tentando di trasformarla in una professione, proponendo una
concreta alternativa professionale, dall’altro interpretandola in un senso più militante e attento alle problematiche sociali, senza finalità di lucro.
Ciò che invece è comune ai due metodi è la dimensione effimera degli interventi, entrambi destinati a essere smontati dopo un periodo predeterminato, che è peraltro caratteristica comune alla quasi totalità dei dispositivi pensati dai collectifs. Questa 42 43
182
Ibidem. Ibidem.
scelta garantisce in primo luogo un quadro normativo meno rigido, la possibilità di utilizzare materiali più poveri, e tempi di esecuzione molto più limitati. L’effimero dà
il diritto all’errore, al tentativo e alla sperimentazione, condizioni imprescindibili per un cantiere aperto. La temporaneità dell’intervento è inoltre coerente all’idea che la
reinterpretazione temporanea di un luogo rappresenti un gesto davvero alternativo ai
rigidi tracciati esistenti e all’atteggiamento «autoritario» che connota la progettazione
urbana. L’architettura diventa performance, esperienza, situazione, momento unico
di condivisione e di vita collettiva, efficace perché limitata nel tempo e univocamente individuabile.
183
4.7 Superville: il «Dis-Ordine degli Architetti» Il tema dell’istituzionalizzazione del fenomeno dei collettivi è molto attuale non solo per quanto riguarda il rapporto dei singoli gruppi nei confronti delle istituzioni ma soprattutto per la posizione dell’intero movimento: una volta rilevato il forte carattere
comune a tutte queste realtà è il caso di metterle a sistema? È opportuno creare una rete dei collettivi?
Proprio Etc si è interrogato su questo aspetto e nel 2012 ha effettuato un «Detour de France» , un viaggio in bicicletta per le più importanti città di Francia sul tema «
fabrique citoyenne de la ville », potendo così entrare in contatto con più di sessanta
collettivi44. In seguito a questo lungo viaggio, caratterizzato da numerosi incontri, dibattiti e interventi, è sorta la volontà di organizzare un evento, svoltosi a Febbraio 2013 a Busset nell’Alvernia, che riunisse per la prima volta gran parte dei collettivi
esistenti. 43 collettivi hanno dunque condiviso una casa in montagna per più giorni con l’obiettivo di discutere sull’identità, il ruolo e il futuro del movimento.
Nel dibattito sono emersi fondamentalmente due punti di vista sulla questione. Il primo che riconosceva i vantaggi della costruzione di un soggetto giuridico in grado di rendere il movimento più influente e attivo, il secondo che riteneva precoce
l’idea di una federazione intravedendo il rischio di «diventare un organo integrato al processo urbano»45.
Come detto, l’attività dei collettivi si colloca al confine tra attivismo, ricerca
e professione, e la pratica verge verso l’una o l’altra dimensione in funzione dell’interpretazione che ciascun collettivo offre del suo ruolo, soprattutto in relazione
alle istituzioni e alle commesse. È evidente che questo status impone una condizione
di grande instabilità economica a chi vi lavora, in un perpetuo «equilibrio tra 44
Per approfondire sul Détour de France effettuato dal collectif Etc: http://www.collectifetc.
com/realisation/le-detour-de-france-du-collectif-etc/ 45
184
http://strabic.fr/Le-desOrdre-des-architectes
inventività gioiosa, precarietà subita»46.
Optare per la costruzione di una rete, aumenterebbe il grado di riconoscibilità dei collettivi, stabilizzerebbe la condizione professionale di chi vi lavora e accelererebbe
il processo di evoluzione delle forme di concorso pubblico in una direzione probabilmente più compatibile alle forme di intervento dei collettivi.
Nonostante ciò l’assemblea dei collettivi opta per mantenere la struttura informale attuale poiché «l’obiettivo non è quello di confrontarsi tra gruppi che sviluppano le
stesse pratiche ma di essere aperti ad accogliere le alterità»47. Da qui il concetto di ex-tituzione, un’istituzione aperta e trasparente, che guardi verso l’esterno e sfrutti le
connessioni disponibili che compongono già una rete, seppur informalmente. «La federazione sta nei fatti, più che nella struttura» afferma (…) .
L’immagine da mantenere sarà quella di una «nebulosa movente, con un’identità
fluida, condivisa, composta di individualità in rete», come ben descritto dall’immagine che fa da logo al documento riassuntivo dell’assemblea di Superville. Si rinuncia
dunque alla definizione di una struttura che definisce i valori comuni e unisce le forze contro un «nemico comune»48.
-
Prima di concludere è bene specificare che si è scelto di descrivere questo movimento
esclusivamente attraverso l’esperienza francese poiché porre dei limiti geografici a questa realtà si è rivelato l’unico metodo possibile per poterla analizzare. In realtà
la logica del collectif è sviluppata anche in altri paesi europei come, e soprattutto, la
Spagna e la Germania, articolandosi come una grande rete sovranazionale e informale di esperienze locali. In Italia esistono alcuni collettivi di architetti e designers come 46 47 48
Ibidem. Ibidem.
Ibidem. 185
quelli nati a Roma nel 2010 chiamati Orizzontale e Superfluo, che coerentemente
all’approccio finora raccontato, sviluppano proposte progettuali e di partecipazione
popolare sullo spazio pubblico. Si è scelto tuttavia di non analizzare il caso italiano
poiché decisamente meno ricco e più acerbo, e sostanzialmente ispirato ad esperienze europee come quelle francesi.
Anche in Spagna e Germania si è sviluppato questo approccio traducendosi
in esperienze ugualmente interessanti , sebbene nessuno dei due casi presenti quella dimensione di «movimento» che connota quello francese, che analizzato autonomamente offre un vasto panorama di esperienze coerenti tra loro.
186
187
5 CONCLUSIONI / LA RIMESSA IN GIOCO DELLO SPAZIO PUBBLICO 5.1 Verso la formulazione di «anti-modello»?
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5.1 Verso la formulazione di «anti-modello»? Prima di trarre le conclusioni generali di questo percorso, si considera utile commentare
un ultimo progetto, che si ritiene sintetizzi efficacemente le esperienze finora esposte. «Supersantòs» è il nome di una ricerca in forma di video effettuata da IndiziTerrestri, un gruppo multidisciplinare napoletano che indaga sui temi dell’architettura e della
città. Il progetto ritrae gruppi di bambini e adolescenti che giocano per le strade di Napoli, a cui segue una serie di interviste in cui ciascun protagonista viene invitato a raccontare l’organizzazione, le regole e i rituali delle partite.
Nell’articolo pubblicato nel Marzo 2013 sulla rivista «Lo Squaderno», lo stesso gruppo di ricercatori descrive il gioco dei ragazzini come una «situazione
temporanea»1, in grado di generare e riconfigurare lo spazio urbano, «mediante
una pratica non sancita da regole e ordinamenti»2, che tramite l’istituzione di un
soggetto collettivo, ricostruisce e risignifica lo spazio pubblico quotidianamente e
per un tempo determinato. Gli spazi secondari e interstiziali sono i prediletti dai bambini perché sono quelli che li espongono meno alle lamentele del vicinato e gli
consentono più margini di libertà di azione. Quelli «conquistati dal pallone» sono spazi contesi ma allo stesso tempo condivisi e trasformati in ambiti ludici, che si
intrecciano e mescolano alle attività quotidiane della città trasformando il gioco in un «dispositivo utile per leggere alcune qualità dello spazio pubblico ed articolarne
una visione più ampia»3. Nell’attività del gioco di strada si può altresì individuare
un’autentica attitudine creativa alla costruzione, che si traduce in «progetto» nella
la realizzazione di porte, pali e limiti del terreno di gioco, tutto realizzato con il
solo utilizzo di materiali trovati o recuperati: un’azione «temporanea, autocostruita, 1
Cfr. IndiziTerrestri, Il calcio di strada e la trasformazione temporanea dello spazio pubblico,
in «Losquaderno», 27, p.25. 2 3
190
Ibidem.
Ivi, p.26.
partecipativa, che sostanzia l’essere pubblico di questi spazi urbani»4.
La lettura offerta da IndiziTerrestri nel raccontare il gioco di strada è utile per sviluppare le conclusioni di questa tesi, riuscendone a sintetizzare in modo efficace
il messaggio. I bambini nell’atto del giocare sono infatti i protagonisti di una delle immagini più simboliche del dibattito sul funzionalismo svoltosi all’interno dei
CIAM, discusso nel capitolo II. Le fotografie scattate ai bambini degli East Ends da Nigel Henderson, e applicate alla Urban Rigeneration Grid di Allison e Peter Smithson, proposta in occasione del CIAM IX a Aix en Provence nel 1954, coincisero
con uno dei principali momenti di rottura tra la generazione dei padri e quella del Team X. Il gioco è emblema dell’informalità e al tempo stesso della forte coesione
che caratterizza la realtà sociale della periferia Londinese, che fa della strada un
meeting place multifunzionale, spazio di frontiera tra pubblico e privato, adibito allo svolgimento della vita collettiva. Il gioco è anche dispositivo utile nel grande progetto
dell’architetto olandese Aldo Van Eyck per realizzare la grande metafora urbana dei
playgrounds e dell’orfanotrofio di Amsterdam, in cui gli spazi del gioco si inseriscono nel tessuto della città - ad Amsterdam come a Napoli - e si intrecciano alle sue attività, senza recinti né barriere. Giocare nei playgrounds e per le strade di Napoli
significa dover interpretare spazi, forme e luoghi, e fare l’esperienza dell’ambiguità5 della città senza protezioni.
La dialettica «esperienza ludica-progetto» sottende anche tutto il discorso
sull’Urbanismo Unitario: il cuore della ricerca situazionista, esposta nel capitolo III. Il progetto di New Babylon era espressamente pensato a misura di società ludica 4 5
Ivi, p.27.
Cfr. Elena Granata, Il gioco e lo spazio tra le case – Attualità del progetto di Aldo Van Eyck, in
«Losquaderno», 27, pp.39-40.
191
e nomade6 alternativa alla société utilitariste, e rappresentava un’idea di mondo in continua metamorfosi e movimento, costruzione e rinnovamento. Il gioco inteso
come «situazione» rimanda anche alla ricerca sulla dérive, in cui il tempo diviene
«ludico-costruttivo» e la cui pratica è utile per immaginare la realtà secondo schemi alternativi, destituendola delle sue relazioni evidenti e ricostruendola per unità di atmosfera o di abitazione.
Gli autori dell’articolo intendono infine instaurare un chiaro parallelo con quelle che
definiscono «tattiche più strutturate e programmatiche, che si possono rilevare in altri
contesti europei, dove sono accompagnate spesso da soggettività diverse ed attivisti
urbani che innescano nella cittadinanza processi bottom-up di costruzione dello spazio pubblico», che coincidono con quello che in questa ricerca è assunto come il
metodo dei collectifs. La lettura che IndiziTerrestri offre del gioco di strada a Napoli è del tutto coerente alle «strategie e tattiche» di resistenza creativa di cui parlava Michel De Certeau7, adottate dai membri dei collectifs d’architectes, con la differenza che essi fanno di queste azioni «temporanee, autocostruite e partecipative», occasione di coinvolgimento della popolazione locale per innescare processi di trasformazione dello spazio pubblico dal basso.
La tesi, che ha percorso una serie cronologicamente non lineare di esperienze e
progetti, individua in questa «rimessa in gioco» dello spazio pubblico raccontata in Supersantòs e messa in pratica dal movimento dei collectifs, un’immagine in grado di sintetizzare questo ampio panorama di vicende. Come ben descritto da Elena
Granata nel suo articolo «Il gioco e lo spazio tra le case»8, sempre pubblicato ne «Lo Squaderno», il gioco rimanda a tematiche utili sia per descrivere l’esperienza della 6 7 8
192
Francesco Careri, Walkscapes Camminare come pratica estetica, Torino 2006, p.82. Per approfondire si rimanda al paragrafo 5 del capitolo IV. Cfr. Elena Granata, op.cit., pp. 41-42.
costruzione collettiva, che quella quotidiana dello spazio urbano, costituendosi come un dispositivo di confine tra i due momenti, la cui analisi è molto utile per condurre questa tesi verso le conclusioni.
«Gioco è aderenza alla regola e libertà dalla regola, è attività individuale e relazionale, è immaginazione e protezione, contenimento delle paure, cura delle tensioni vitali, è insieme di abilità e affrancamento da ogni abilità acquisita. […] In questo senso il gioco, svincolato da qualsiasi finalità estrinseca, permette di vivere a pieno il valore dell’esperienza, di trovare senso nel momento presente senza tendere a un momento successivo, al risultato compiuto. Infine, il gioco è un luogo dell’esperienza umana qualitativamente diverso da tutti gli altri luoghi; non è interno né esterno alla persona, si colloca in un’area intermedia tra ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivo, non è irreale ma è concreto, non appartiene però alle cose della realtà in senso stretto perché implica un coinvolgimento immaginativo che in qualche modo trascende la realtà stessa. L’esperienza nello spazio urbano dovrebbe poter sempre avere questo respiro» 9.
Questa capacità del gioco di riunire in un unico dispositivo l’esperienza dello spazio
e la possibilità di una sua trasformazione, costituendosi come punto di contatto tra le tre esperienze analizzate nei capitolo II, III e IV, introduce alla formulazione della prima delle conclusioni: il movimento dei collettivi non nasce come iniziativa slegata
da ogni tradizione storica ma attinge molti dei suoi strumenti dalla cultura anti-
funzionalista promossa dal Team X e dalle tesi situazioniste elaborate fino agli anni ’70, con cui condivide numerose istanze e pratiche, tra cui quella della dimensione ludica
del costruire/abitare. Si può dunque affermare che la riformulazione degli strumenti 9
Ibidem. 193
di intervento sullo spazio pubblico proposta dai collectifs avviene oggi come esito di una ricerca iniziata nel dopoguerra e sviluppatasi durante il corso di tutto il ‘900. In
questa relazione con la storia si ritiene di centrale importanza il ruolo ricoperto da Patrick Bouchain, personalità considerata come il «padre» del movimento, che ha provveduto a definire il centro di interesse dei collettivi, e il loro sistema di valori: « [...] e io potrei sembrare un ritardatario, come se io fossi l’ultimo di una corrente progressista degli anni 60 e 70. E allo stesso tempo sono in una situazione attuale un po’ solitaria ma paradossalmente più in accordo con una generazione nuova, come la vostra. È come se io rappresentassi un po’ il punto di chiusura di un movimento, ma anche il punto di apertura di uno nuovo che segue, e che può essere che non sia condotto e condizionato come lo eravamo noi»10.
Una volta definita relazione che intercorre tra le esperienze esaminatee assunta quella proposta dai collectifs come esito di questo percorso storico di indagine sul rapporto
tra architettura, spazio pubblico e comunità, si profila una seconda conclusione, in risposta ai quesiti che si ponevano nell’introduzione: una delle strade possibili affinché
il progetto dello spazio pubblico urbano possa sopperire alle sue mancanze in termini
relazionali, è considerare una «rimessa in gioco» di alcuni elementi disciplinari e un coinvolgimento in prima persona dei suoi attori (nel ruolo dei progettisti come in quello dei fruitori), da convogliare in «situazioni temporanee», esperienze ludiche e momenti di costruzione collettiva sul modello degli interventi collectifs d’architectes.
Ma qual è la portata di questa riformulazione della nozione di «progetto di spazio 10
194
Dall’intervista a Patrick Bouchain, effettuata l’1 Febbraio 2014.
pubblico»? Quanto questa proposta, che si sostanzia nel metodo adottato dai collettivi
e che in Supersantòs vede una sua rappresentazione ludica, si limita solo a proporre un’alternativa metodologica specifica limitata allo spazio pubblico? Quanto in realtà è in grado di rimettere in discussione alcuni capisaldi del pensiero architettonico e
del metodo progettuale nel suo complesso? Quali indicazioni si possono individuare da questo confronto sul presente e il futuro della disciplina?
In primo luogo la distinzione tra la figura di progettista e quella di esecutore materiale
è assolutamente fondante e irrinunciabile per chiunque eserciti la professione di architetto. È evidente che la proposta di un ritorno agli strumenti del bricoleur11 e a
quelli del «fare» pratico-esecutivo rappresentino una rilettura profondamente critica
del metodo architettonico così come è sempre stato concepito in epoca moderna. Il volersi distaccare dalla figura di intellettuale che dal rinascimento in poi distingue
il progettista dal costruttore, in favore di una visione che potrebbe definirsi “arcaica” della professione, è un elemento che potrebbe suggerire un’ispirazione forzata e anacronistica a un modello del passato. Tuttavia, quella proposta dai collectifs, è una
lettura assolutamente radicata nella contemporaneità, che si articola da un lato come
critica ai processi piramidali che escludono i cittadini dalle trasformazioni urbane e dall’altro come un invito ad un riavvicinamento agli aspetti più concreti e tangibili
della disciplina, a fronte dell’apparentemente irreversibile processo di virtualizzazione-
informatizzazione che l’ha investita. A questi aspetti si affianca il chiaro tentativo di far fronte ai numerosi ostacoli che le nuove generazioni di architetti in tutta Europa
incontrano sul proprio cammino: precarietà, sotto-retribuzione e incarichi di bassa responsabilità, sono caratteristiche sempre più associate alla vita lavorativa dei giovani architetti, specie in quei paesi, come Francia, Italia e Spagna, in cui il mercato è saturo e le scuole di architettura continuano a produrre laureati in gran numero. 11
Per approfondire si rimanda al paragrafo 5 del capitolo IV. 195
I collectifs in risposta a questa condizione propongono una pratica concreta, slegata
dai meccanismi del mercato e un’azione in prima persona sulla realtà da trasformare. La strategia attuata per ridurre quello scarto che vi è tra le aspettative maturate
in ambito accademico e la realtà professionale consiste sostanzialmente nella
riconnessione tra la fase di progettazione e quella di cantiere, nella trasformazione del
progettista in attivista-costruttore. Questa rimessa in campo del «fare» non si limita rideterminare il ruolo dell’architetto e il suo campo disciplinare ma investe un altro
aspetto metodologico fondamentale che riguarda il progetto: l’annullamento di quella distanza fisica tra i luoghi in cui si progetta e quelli in cui realizza, inscindibilmente
separati nella pratica tradizionale. Secondo l’approccio dei collettivi, conoscere a fondo i luoghi e abitarli è condizione imprescindibile per trasformarli. È solo come
conseguenza di questa permanenza in situ che il progettista-costruttore è in grado di concepire gli spazi e le forme da realizzare.
Questi aspetti si affiancano ad una dimensione in cui il singolo è sistematicamente portato a progettare, costruire e lavorare in collettivo e spesso in gruppi
multidisciplinari, a fronte dell’organizzazione verticistica e specializzata degli studi
professionali di architettura in cui, per lo meno per quanto riguarda la fase creativa, spesso vige il primato di uno sugli altri.
Il «declassamento» dell’architetto a ruolo di coordinazione creativa proposto da
Giancarlo De Carlo e Patrick Bouchain e messo in pratica dai collectifs, è necessario
per innescare quei processi partecipazione popolare che durante il «cantiere aperto» sostanziano la componente di riappropriazione dello spazio pubblico. Il cantiere
si costituisce come appunto una «situazione», un’esperienza non programmabile, un sistema «aperto» in quanto inclusivo e influenzabile dall’esterno anche poiché non finito, trasmissibile e successivamente interpretabile. Un dispositivo che fa
dell’inatteso un elemento di sostanziale importanza, come appunto una partita o un 196
«gioco», di cui non si conosce l’esito, utile per ripensare l’intero processo di concezione/ rappresentazione/realizzazione dell’oggetto architettonico che caratterizza il progetto tradizionale.
Del sistema attuale viene criticato anche il «meccanismo della commessa», al cui posto talvolta viene messo in atto quello che Patrick Bouchain definisce «processo artistico
di riappropriazione dello spazio pubblico». «Artistico» poiché non giudicabile a priori, e frutto di un’iniziativa spontanea e autentica di un gruppo di abitanti, e di
«riappropriazione» temporanea, in quanto lo spazio pubblico è «appropriabile» da tutti, ma «senza proprietà».
Si può dunque affermare che nella proposta dei collettivi sia contenuta una lettura
fortemente critica del sistema architettonico tradizionale, sviluppata alla luce della
sua incapacità di offrire risposte soddisfacenti sulla questione dello spazio pubblico
e del suo progressivo distacco dalla realtà e dalla cittadinanza. Questa proposta si è tradotta in certi casi come vera e propria alternativa professionale per molti giovani architetti a fronte del poco o inesistente spazio che il mercato gli riserva.
L’insieme di questi aspetti farebbero effettivamente pensare a quello che Patrick Bouchain ha definito un «anti-modello», effettuando tuttavia una precisazione:
197
« … penso che ci sia lo spazio per lo sviluppo di un anti-modello, che non è un nuovo modello sovversivo contro il vecchio modello, ma sarà sovversivo nei confronti del vecchio modello perché lo rimette in causa tramite una rappresentazione nonmodellizzata. Bisogna che entriamo in un ottica di un mondo che forse non avrà più modelli ed è un processo a cui forse assistiamo già, sul piano politico, filosofico, religioso ed estetico, c’è una tale produzione che diventa altamente complicato avere un modello»12.
Questa critica resterà limitata forse nell’ambito di un non-movimento o di una realtà non-modellizzata, ciò che è certo è che si è già dimostrata in grado di sollevare il
dibattito in importanti sedi istituzionali oltre ad aver sortito effetti concreti e notevoli
nelle realtà in cui è stata applicata, inediti nella ricerca architettonica sullo spazio pubblico.
Questa dinamica conferma l’ipotesi secondo la quale, se da un lato la crisi generale
dello spazio pubblico non può essere analizzata che nel quadro più generale di altre
crisi profonde – come quella economica, sociale e ambientale – che minacciano il mondo in questa epoca, a maggior ragione l’aspetto architettonico del progetto dello
spazio pubblico non può essere analizzato se non in relazione a ciò oggi rappresentano più in generale il progetto di architettura e gli architetti in questa società.
Per concludere, se nella proposta dei collettivi non risiede una dichiarata e
formalizzata volontà di rivoluzionare il modello architettonico tradizionale, in nome
di una ribadita e rivendicata autonomia da quest’ultimo, se non altro appare chiaro il tentativo di immaginare una professione radicalmente differente, più vicina e coerente
a una dimensione etica e a istanze specifiche della contemporaneità. Le condizioni 12
198
Dall’intervista a Patrick Bouchain, effettuata l’1 Febbraio 2014.
in cui verte la disciplina al giorno d’oggi impongono una riflessione e un’apertura nei
confronti di questo tipo di fenomeni che sebbene non abbiano autonomamente la
forza di rifondare l’intero sistema, rappresentano di per certo un segnale interessante nell’ottica di un’evoluzione della professione.
199
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