"I canti del Salento" - estratto

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VOCI SUONI E RITMI DELLA TRADIZIONE Collana di musica salentina diretta da Luigi Chiriatti



Cesare Monte

I canti del

Salento a cura di Federico Capone

CAPONE • KURUMUNY


Capone Editore srl Via prov.le Lecce-Cavallino km 1,250 73100 LECCE Tel. 0832611877 (anche fax) on line: www.caponeditore.it www.myspace.com/caponeditore e-mail: info@caponeditore.it Edizioni Kurumuny Sede legale via Palermo,13 73021 – Calimera (Le) Sede operativa via S. Pantaleo, 12 73020 – Martignano (Le) Tel. e Fax 0832 801577 on line www.kurumuny.it e-mail: info@kurumuny.it ISBN 978-88-95161-34-1 © Kurumuny edizioni • Capone editore – 2009


Indice

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La musica come bene culturale di Maria Rosaria Manieri

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L’altra musica del Salento di Luigi Chiriatti

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Dopo Ernesto de Martino il Salento cambia musica o forse no di Federico Capone

1 Alle radici della contemporaneità 2 Una storia varia 3 L’isola che non c’è 4 Anelli di congiunzione Nota bibliografica

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Cesare Monte raccontato dalla figlia di Marilena Monte

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I canti

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Album fotografico



I canti del Salento

La musica come bene culturale Maria Rosaria Manieri*

La musica, in tutti i suoi generi, è un bene culturale che occorre saper tutelare e valorizzare. Non solo la cosiddetta musica colta, ma anche quella popolare che, nella ricchezza e varietà di espressioni, è elemento costitutivo dell’identità storica e culturale di un popolo e di un territorio. Sull’identità del Salento abbiamo scommesso in questi anni con successo, anche ai fini di promozione turistica, convinti che la valorizzazione di una terra come la nostra, ricca di storia e di tradizioni, di saperi e di sapori, di colori e di suoni, sia di per sé una risorsa fondamentale per la crescita, non solo culturale, ma anche economica e sociale, delle genti salentine. Il Salento è conosciuto per il Barocco e per la pizzica. Ma come la variegata dimensione artistica del suo patrimonio storico architettonico non può esaurirsi nell’espressione barocca, così la musica e il canto, che hanno fatto vibrare le molteplici corde dell’anima di una terra meticcia e ne hanno spesso segnato l’evoluzione sociale, del gusto e dei costumi, non possono essere assorbiti, o peggio cancellati, dalla artificiosa esorbitanza dei suoni, dei ritmi e dei canti della pizzica. Occorre, quindi, rivisitare la musica popolare salentina, rifiutandone ogni operazione riduzionistica e portarne alla luce il ricco repertorio di generi e voci, che hanno da sempre accompagnato i modi di vivere e di lavorare, di amare e di pregare degli abitanti della terra tra i due mari. Da questa esigenza nasce la pubblicazione dei canti di Cesare

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Cesare Monte

Monte, cui si deve il recupero e la diffusione di arie della tradizione popolare salentina; un recupero frutto di una ricerca appassionata, grazie alla quale ci sono state restituite melodie bellissime, a cui Cesare Monte ha dato testi di straordinaria immediatezza espressiva, da lui stesso magistralmente interpretati. Melodie antiche, innovate e contaminate da una sensibilità nuova, che hanno caratterizzato una particolare stagione della società salentina in profonda trasformazione e che, in qualche modo, costituiscono le radici, come nota Federico Capone, di quell’hip hop-reggae made in Salento, che trova oggi espressione in gruppi di successo come i Sud Sound System. Sul finire degli anni ’60, nel mio paese, a Nardò, dove Cesare Monte ha vissuto con la sua famiglia, non c’era festa o veglione, come la figlia Marilena ricorda, in cui non fossero protagoniste la sua musica e la sua voce. Era, inoltre, un uomo di spettacolo, elegante, popolare e raffinato al tempo stesso. Il negozio “Mamme e bimbi” che i Monte gestivano, e in cui la signora Monte aveva un rinomato atelier di abiti da sposa, era a pochi passi da casa mia. L’incontro e la magia delle splendide serate estive o del carnevale nel Salento sono strettamente intrecciati, nei ricordi della mia giovinezza, agli spettacoli di Cesare Monte e del Trio Folk del Salento, i cui altri componenti erano Totò Zuccaro e Mimino Spano, entrambi artisti neretini dotati di una spiccata personalità. Ho avuto il privilegio della loro amicizia ed è con gioia che voglio tributare loro questo omaggio.

* Assessore al Turismo e Marketing territoriale della Provincia di Lecce.

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I canti del Salento

L’altra musica del Salento Luigi Chiriatti

Nell’ultimo decennio la musica di tradizione del Salento è stata resa nota a un pubblico molto vasto e le numerose e variegate ricerche etnomusicologiche, antropologiche, sociologiche, sono state pubblicate o ripubblicate impreziosendo un repertorio di canti, ritmi, voci che sempre hanno interessato la quotidianità culturale e sociale salentina. Si tratta di una documentazione realizzata prevalentemente sul campo che, almeno per quanto riguarda le registrazioni sonore e video, abbraccia un arco di tempo compreso fra il 1954 e i giorni nostri e che ha visto coinvolti studiosi e appassionati di chiara fama nazionale e internazionale (Alan Lomax, Diego Carpitella, Gianni Bosio e Clara Longhini, Cecilia Mangini, Gianfranco Mingozzi e altri). Tutte queste ricerche hanno indagato, registrato e reso pubblico un modo di cantare, di stare insieme tipico di una società agricolopastorale fortemente legata ai ritmi e miti del territorio. In contemporanea a questo filone che ricalca i muedi sonori (come li definiva D. Carpitella) rurali, nasceva e si diffondeva una musica popolare cittadina altrettanto ricca e variegata, testimone di un modo nuovo di vivere il territorio e soprattutto la nuova dimensione cittadina. Rappresentanti di questo modo di interpretare la musica popolare sono Gino Ingrosso, Bruno Petratchi, Cesare Monte e altri. Si tratta di un movimento e di un filone musicale di notevole importanza di cui si ha poca conoscenza e di cui ancora poco si parla.

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Cesare Monte

Questo movimento nato e sviluppatosi fra gli anni Sessanta e Ottanta si pone come un cuscinetto fra quello che potremmo definire un Salento ancora agricolo e una società che si trasforma rapidamente. Si pone fra una riproposta caratterizzata da un’esigenza politica e una voglia di reinterpretare la tradizione che esploderà successivamente dal 1990 in poi. Cesare Monte in questo panorama rappresenta una grossa novità che si colloca in un territorio (Nardò) conosciuto e studiato quasi esclusivamente per la presenza e la musica di Luigi Stifani, “dottore delle tarantate”, che ha (anche se inconsapevolmente) condizionato le successive ricerche in quell’area del Salento. Cesare Monte pone in essere un genere musicale popolare che a volte trae origine dal canto di tradizione, altre volte diventa canto d’autore, riproposto al pubblico con modalità musicali più vicine alla musica del liscio. Si tratta di un repertorio e di una riproposta che vede i suoi protagonisti molto attivi sulla scena soprattutto negli anni Ottanta quando il movimento di riproposta legato al Canzoniere Italiano comincia a scemare e per una decina di anni sulle sonorità popolari di tradizione cala un velo di silenzio. Con questo lavoro su Cesare Monte, curato da Federico Capone e fortemente voluto dai parenti, si apre uno spaccato nuovo ed estremamente interessante che ci pone nelle condizioni di ragionare e rivisitare la musica popolare del territorio a trecentosessanta gradi.

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I canti del Salento

Dopo Ernesto de Martino il Salento cambia musica, o forse no Federico Capone

1. Alle radici della contemporaneità Se qualche anno addietro mi avessero chiesto chi fosse Cesare Monte molto probabilmente non avrei saputo rispondere, preso com’ero a vivere da dentro quella grande stagione innovativa, dal punto di vista culturale e musicale, passata alle cronache come il “fenomeno delle posse” che, per quanto riguarda il Salento, si consacrava al grande pubblico nel 1991 con il singolo Fuecu (bside T’à sciuta bona). Eppure proprio nell’hip hop-reggae made in Salento, Cesare Monte (come anche Bruno Petrachi, Gino Ingrosso, Eupremio Fersino, Luigi De Gaetano – in arte Ginone – Augusto Nuzzone e altri) veniva ripreso a tal punto che i suoi brani trovavano spazio, più o meno palesemente, in registrazioni, ufficiali e non, di quella posse1 salentina che già cominciava a prendere forma stabile in un gruppo, il Sud Sound System.

1 Posse non ha un significato univoco, cambiando a secondo il contesto temporale e spaziale. All’inizio, negli Usa, stava a indicare un gruppo di cittadini guidati da uno sceriffo che cercava di far rispettare la legge. Negli anni Settanta, sempre in Usa, la posse era equiparata a una gang. In Italia, in ambito musicale e più specificatamente riguardo l’hip hop-reggae, posse assume significato di gruppo aperto, nel senso di una formazione non stabile, come invece solitamente accade in altri ambiti musicali, quale per esempio il rock. La posse salentina per eccellenza era la Salento Posse.

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Cesare Monte

Il richiamo alla cultura popolare non era dettato da ragioni economiche o politiche ma rispondeva a una richiesta precisa avanzata da parte di quelle generazioni del meridione d’Italia che per troppi anni, fino a quel momento, erano state poste di fronte, almeno in ambito musicale, a una scelta molto ristretta: la canzone proposta dai media, quindi la canzonetta, o il folk revival in chiave politica. Una terza via in realtà c’era, come dimostrano brani quali La coppula 2 (La coppola), La gaddhina (La gallina), quest’ultima di certa provenienza popolare,3 che sarebbero stati destinati all’oblìo, se non fossero stati creati o mantenuti in vita e comunque resi cele-

2 Sulla modalità compositiva di La coppula, ci viene in aiuto Giuseppe Tarantino con un suo articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia del 22 settembre 2005 «[...] Cesare era sempre pronto a salire sul palco e a far risuonare la sua voce che ha reso indimenticabili tante arie popolari ma che, soprattutto, è stato lo strumento musicale attraverso il quale intonava canzoni da lui stesso scritte: l’allegra e maliziosa L’uccellino, la malinconica e struggente Mannaggia lu rimu..., ma su tutte La coppula, il brano che gli ha dato la celebrità nel Salento e oltre, molto oltre. La melodia, come raccontava Cesare, era ispirata a un’aria popolare che da bambino sentiva spesso. Lui ci aveva scritto sopra le parole che tutti, in qualche modo, abbiamo almeno una volta canticchiato. Ma Cesare era orgoglioso del fatto che cantanti del calibro di Al Bano e Tony Santagata l’avessero tante volte inserita nei propri repertori. E una leggenda vuole che anche l’altro menestrello, quello del folk americano, il grande Bob Dylan una volta l’abbia cantata durante un suo concerto [...]». Sempre su La coppula c’è da annotare, dal punto di vista della realtà storica, un fatto di non poco conto: in tanti rimproverano a Cesare Monte di averla ripresa da una versione popolare. Allo stato attuale degli studi sulla musica del Salento, ciò non è dimostrabile, perché dunque non credere alle parole del cantautore, quando afferma che di popolare, in quel brano c’è solo la melodia e che le parole invece sono state da lui composte? 3 Il legame di Cesare Monte con la musica di tradizione popolare è ben evidenziato dal fatto che una versione di La gaddhina è presente nella raccolta di Clara Longhini e Gianni Bosio 1968. Una ricerca in Salento (Kurumuny, 2006) con il titolo Cummare l’aggiu persa la jaddhina, registrata a Otranto l’8 agosto del 1968. Il

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I canti del Salento

bri da Cesare Monte.4 I primi a comprenderlo furono i ragazzi dell’hip hop-reggae, che li riproposero, molto spesso anche inconsapevolmente, per sentito cantare, in maniera nuova. Con tale spontaneità si è voluta rappresentare e recuperare un’identità che c’era sempre stata, seppure occultata agli occhi dei più, soprattutto negli anni Settanta, un po’ per vergogna, un po’ per un becero voler uscire a tutti i costi dalla provincia da chi aveva

testo differisce leggermente da quello proposto da Cesare Monte e pubblicato sul vinile I canti del Salento (vedi a tal proposito il testo La gaddhina nella sezione testi). Vale qui la pena riportare il canto raccolto dalla Longhini e dal Bosio, per chi volesse paragonarlo a quello di Monte: Cummare l’aggiu persa la jaddhina / cummare l’aggiu persa la jaddhina / sutta lu liettu tou / opipinna nanna na / sutta lu liettu tou s’ha mmasunata // e mi facia l’ou ogni matina / e mi facia l’ou ogni matina / e buscava tre granelli / oppipinna nanna na / buscava tre granelli a la simana // cu sti granelli mi cattai cuttone / cu sti granelli mi cattai cuttone / facia li gazzetti / oppipinna nanna na / facia li gazzetti a lu miu bene // e li facia a puntu de sacara / e li facia a puntu te sacara / cussì paria chiù beddhu / oppipinna na nanna / cussì paria chiù beddhu lu miu bene / cussì paria chiù beddhu lu miu bene. Riduzione in italiano: Comare ho perso la gallina / sotto il tuo letto / oppipinna na nanna / sotto il tuo letto si è appollaiata // mi faceva l’uovo ogni giorno/ guadagnavo tre granelli / oppipinna na nanna / guadagnavo tre granelli alla settimana / / con quei granelli compravo cotone / per fare le calze / oppipinna na nanna / per fare le calze al mio bene // e li facevo come i colori della biscia / così sembrava più bello /oppipinna na nanna / così sembrava più bello il mio bene. 4 In realtà sono stati ripresi dal Sud Sound System-Salento Posse anche brani quali Lu posperu (Il fiammifero, di Grimaldi-Barone), Funtana noscìa (Fontana nostra, di Pecoraro-Attisani Vernaglione), Ndaticchia mia (Andata mia, di Oronzo), Arcu te Pratu (Arco di Prato di Corallo-Corallo). Il fatto che tali brani, ma anche Santu Paulu, Fimmene fimmene e altri siano stati riproposti dal Sss è un dato di fatto che avevo già constatato e reso noto in altre mie precedenti pubblicazioni ma che non trovava sostanziale conferma da parte dell’ultima formazione del Sss, almeno fino alla pubblicazione del libro di Tommaso Manfredi Dai Caraibi al Salento (Lecce 2008) dove Nandu Popu afferma: «Io e Don Rico in passato frequentavamo lo stesso Liceo e condividevamo già la

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Cesare Monte

invece ritenuto che il popolare si dovesse inventare a tavolino.5 La risposta era nella continuità, in quella musica urbana che, evidentemente, non era mai stata presa in considerazione da chi pro-

passione per la musica... ci ritrovavamo a scherzare nei bagni di scuola... io mi divertivo a suonare la fisarmonica mentre Federico improvvisava sopra le sue liriche. Prima della Salento Posse ero stato appassionato di blues e musica popolare [...]» (pag. 42). Sulla stessa linea d’onda, ma più esplicito, è Papa Gianni: «Eravamo un gruppo di amici che si incontrava al mare... nelle invernate succevssive si è iniziati timidamente a inserire delle frasi prese dalla tradizione popolare salentina, coniugandole con il reggae». (pag. 50). Queste coniugazioni fra musica popolare salentina e reggae si trovano tanto in registrazioni ufficiali che non. Venivano proposte soprattutto in momenti di free-style, cioè di improvvisazione. 5 Su quali fossero i problemi relativi alla musica popolare negli anni Settanta ci delucida Daniele Durante quando afferma che «[...] I musicisti tecnicamente abili della musica popolare venivano utilizzati nei repertori da ballo che, come detto, avevano subito un eccessivo processo di omologazione, soprattutto con il liscio, mentre era quasi del tutto sparita la pizzica a vantaggio delle tarantelle edulcorate di stile rossiniano. [...] Io avevo il desiderio di caratterizzare anche musicalmente i pezzi e, scartando il folk che si ascoltava allora nel Salento (per differente stile e sensibilità) di Cesare Monte e Bruno Petrachi, [...] mi arrovellai nella ricerca di qualcosa che fosse adatto. Il problema era di non scadere nel liscio [...]» (tratto da Daniele Durante, Spartito. E io resto qui. Storie e canzoni della musica popolare salentina, Lecce 2005, pag. 24). Alla luce di quanto affermato appare subito chiaro di quanta poca considerazione godesse la musica folk leccese, tanto da essere considerata da evitare. Con gli anni le cose sono cambiate e lo stesso Daniele Durante, in un articolo apparso sul «Nuovo Quotidiano di Puglia» edizione di Lecce del 22/11/2005, il giorno dopo la scomparsa di Cesare Monte, così scrive del neretino: «Cesare Monte e il Trio folk del Salento era l’unica espressione della musica popolare salentina che avesse una visibilità a cominciare dagli anni Sessanta. La sua versione di La coppula, incisa su disco vinile e trasmessa per radio (allora c’era solo la Rai), è senza dubbio la canzone popolare più famosa nel Salento. Quando bisognava fare ascoltare qualcosa del Salento, le uniche incisioni erano appunto quelle di Cesare Monte. Negli anni Settanta arrivammo noi del Canzoniere e Bruno Petrachi. È brutto fare paragoni e classifiche, ma per grandi linee si potrebbe dire che il Canzoniere rappresentava l’ala più intellettuale e impegnata,

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duceva cultura nelle accademie e nei salotti intellettuali rinnegandola e considerandola kitch.6

Bruno Petrachi quella più popolaresca e Cesare lo collocherei senza dubbio al centro [...]». 6. Sul fatto che la musica folk della città fosse considerata kitch è quello che pensa il prof. Eugenio Imbriani nell’intervista rilasciata il 13/08/2005 a Carla Petrachi dal titolo Notte della Taranta, tutto fa audience, apparsa sul sito vincenzosantoro.it D.: Un ultimo punto. Nell’affrontare storicamente le questioni legate alla tradizione musicale, si rimuovono quasi sempre gli anni Settanta e Ottanta. Quelli in cui, su versanti e tempi molto diversi fra di loro, l’impegno del Canzoniere Grecanico con Rina Durante, Bucci Caldarulo, Luigi Chiriatti, Daniele Durante, Luigi Lezzi, riscoprì il lavoro sul campo; Pier Paolo De Giorgi aprì la stagione dei gruppi di riscoperta; e Bruno Petrachi, praticamente ignorato e misconosciuto, continuò a diffondere un patrimonio consistente, sia pure all’interno di determinati ambiti sociali, e lungo la corrente del folk revival. La sensazione è che questo sia stato rimosso. Perché di tutto questo non si parla? R.: È vero. Come dicevo prima si selezionano alcune cose e altre si dimenticano. Daniele Durante, nel suo libro, parla del modo in cui il Canzoniere costruì e in alcuni casi inventò una vera e propria modalità di ricerca sulle tradizioni popolari personale, con una finalità chiara e netta. Molto politica. E loro lo confessano. D.: Fimmene fimmene è una invenzione a tavolino di Luigi Lezzi. R.: Inventano molte cose, modificano i canti. D’altra parte il loro non è un atteggiamento filologico, ma politico, culturale, eccetera. Bruno Petrachi non appartiene a questo filone. Ragione per cui è stato, come dire, dimenticato. D.: Ma se poi parliamo di popolare, lo è molto più degli altri. Concretamente, anche per adesione sociale. Ovviamente qui si apre la domanda su cosa sia il popolare. R.: Infatti è così. C’è questa idea che si aveva allora del popolare come di una cultura alternativa alla classe borghese. Per cui è chiaro che canzoni come quelle di Petrachi più che essere considerate popolari venivano considerate tutto sommato kitch. Di un kitch popolare. Folcloristiche. Dipende dalla definizione che diamo ai nostri concetti. Oggi siamo in grado di affermare che in un’ottica del popolare, inteso come pratica di ricostruzione e di autorappresentazione della propria identità, è un po’ più facile che Petrachi entri nel nostro repertorio della memoria piuttosto che le cose più sofisticate, e difficili, tipiche del Canzoniere Grecanico. Questi due universi erano paralleli ma distanti. Un po’ come il popolare dei gruppi popolari che snobbavano la televisione. Mentre la tv era molto più popolare di quel che facevano loro.

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In questo senso la musica delle città può essere considerata il tratto d’unione fra la musica della campagna e l’hip hop-reggae (cultura, quest’ultima, che contrapponendosi a un mercato in grado di imporre le proprie mode e a una canzone intellettualistica fin troppo politicizzata che non si poneva più di tanto il problema del ricercare le proprie radici,7 si fece portavoce delle reali istanze dei giovani del Salento). Il compito dello storico è quello di studiare tali cambiamenti alla luce di dati di fatto. Purtroppo, a causa di preconcetti metodologici, si è voluta leggere la storia della nostra civiltà come ridotta alla pizzica e alla tarantella, tanto da far passare per legami scontati, quale l’unione diretta fra la pizzica e il reggae, culture che hanno avuto una dinamica di cambiamento ben più complessa. Sistematicamente si è voluta cancellare quella importante stagione del folk cittadino8 approcciandosi allo studio della cultura musicale di Terra d’Otranto in maniera antropologica o etnomusicologica, piuttosto che storica9.

7 Ancora oggi si fa passare per scontato che la ricerca sul campo in Salento, dopo la discesa di de Martino sia svanita per poi ricomparire d’incanto negli anni Settanta. In realtà non è così. Negli anni Sessanta, soprattutto in seno ai complessi di musica folk, si formavano gruppi di ricerca (per esempio quello degli Ultimi e quello del Trio Folk del Salento, ma anche la ricerca condotta da Gino Ingrosso per la pubblicazione di dischi, fra questi è da menzionare Le più belle canzoni leccesi. 8 Quella della musica della città (che per immediatezza chiamo folk) è da considerarsi importante tanto dal punto di vista qualitativo quanto dal punto di vista quan titativo. Si pensi alle tante registrazioni del Gruppo Liscio del Salento, pubblicate su vinile. Il GLdS, il cui inventore fu il cantautore Gino Ingrosso, aveva nelle sue fila, fra gli altri, Ginone, Ciccio Perla, Anna Ciaccia (oggi stimato maestro d’orchestra) come cantanti e Gianfranco Delle Rose come presentatore e manager. 9 Con questo non voglio dire che l’approccio storico sia superiore a quello etnoantropologico, semplicemente ribadisco uno di quei concetti che sono fonda-

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2. Una storia varia Se tali preconcetti metodologici erano giustificabili negli anni Settanta, oggi è necessario scrivere della musica di Terra d’Otranto non limitandosi alla sola pizzica. Questo anche alla luce del fatto che i processi di globalizzazione che rapidamente stanno mettendo in crisi il concetto di identità, rendono sempre più complesso il problema dell’individuazione di un territorio, della sua cultura, della sua tradizione. Se questo è vero a livello macroscopico, diventa ancora più evidente a livello locale, tanto che risulta impossibile e improduttivo identificare univocamente il Salento e questo tanto che si cerchi di farlo da un punto di vista geografico, quanto da quello culturale, dal momento che, fra le altre cose, i dialetti stanno scomparendo e la cultura si sta omologando. Nel corso dei secoli la Terra d’Otranto, dimensione geografica sovrapprovinciale rispetto alla odierna realtà, è venuta trasformandosi e da centro da e per l’Oriente è diventata terra di margine, isola culturale. Nonostante ciò il Salento non ha mai perduto la sua capacità di attrarre singoli o gruppi, per interessi e obiettivi diversi: qui arrivavano improvvisamente bande di pirati che razziavano, mettevano a ferro e fuoco le città, portavano via uomini e donne, grandi e piccini, da vendere sui mercati orientali; qui, tra Sette e Ottocento, arrivavano dal centro e dal nord Europa raffi-

mentali per l’etno-antropologo: se prima non si conoscono i fatti storici non si può procedere all’analisi degli stessi. A oggi, non esiste alcuno scritto di base sulla storia della musica del Salento, pur essendoci in provincia istituzioni importanti quali Università, Accademia di Belle Arti, Conservatorio, con relativi docenti/musicologi/etno-antropologi. Si è preferito, in questo senso, dar spazio a scritti monografici (molto spesso su iniziativa privata) che non danno una visione d’insieme di come la musica del Salento sia cambiata col passare degli anni.

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nati intellettuali che volevano sapere delle nostre tradizioni, dei nostri costumi e dei nostri usi; qui arrivarono molto più recentemente, negli anni Cinquanta del secolo scorso, etnologi e antropologi che attraversando in lungo e in largo gli angoli più sperduti delle nostre contrade, intervistando la gente del posto, cercavano di capire chi erano i nostri antenati, come vivevano, a cosa credevano, a cosa aspiravano. Volevano insomma capire la nostra organizzazione sociale che, proprio in quegli anni, stava cominciando, dopo secoli, a cambiare. Se fino ai primi decenni del Novecento i nostri ritmi di crescita erano ancora molto lenti, molto di più rispetto al nord del paese, fu il secondo dopoguerra ad accelerare il cambiamento per la forte ripresa economica ma soprattutto con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa. Questi infatti contribuirono enormemente a rendere pubblico ciò che da sempre era passato inosservato: le culture altre. Se a questo si aggiunge il fenomeno dell’emigrazione, che trova il suo apice negli anni Sessanta, si intuisce facilmente quanti e quali trasformazioni avvennero, per l’incrociarsi di culture molto diverse. A testimonianza di come nel volgere di pochi anni dopo de Martino la situazione in Salento fosse cambiata, ci vengono in aiuto gli scritti di Clara Longhini e Gianni Bosio del 1968, successivi, quindi, di circa dieci anni: 1968. Una ricerca in Salento. Suoni, grida, canti, rumori, storie immagini, Kurumuny, Calimera 2006). Gli autori riscontrano subito una certa diffidenza nei loro confronti (non che de Martino non ne avesse trovata) e scrivono: «Si modificano i costumi, cambiando le condizioni di vita, e riti tanto antichi e radicati vengono, nel giro di pochi anni, sostituiti da quelli più diffusi e nella gente rimane una certa ritrosia o vergogna a parlarne». Forse è proprio questo il punto centrale e il limite delle attuali ricerche che si svolgono in Terra d’Otranto: il non voler considerare il cambiamento al quale la cultura è giocoforza sottoposta e il voler continuare a pensare il Salento come un’isola, ferma ancora al 1959. 18


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De Martino segna una linea di non ritorno per la cultura popolare di Terra d’Otranto, ancor più rispetto a quanto fosse precedentemente avvenuto con Lomax e Carpitella nel 1954. E questo accade non solo per la grande personalità e autorevolezza di de Martino, ma anche perché con i nuovi mezzi di comunicazione, si riuscì a presentare una cultura salentina sconosciuta al resto d’Italia, come se questa fosse ferma da secoli, da sempre altr dunque rispetto all’egemone. A seguito del grande successo che ebbe la Terra del rimorso10 si volle bloccare quella cultura così romanticamente sofferente descritta nel saggio demartiniano, come a racchiuderla in una sorta di riserva, per continuare a far credere che potesse sempre e comunque rimanere altra, estranea a qualsiasi processo di cambiamento. Gli studiosi, salentini e non, hanno focalizzato la propria attenzione su un falso concetto di tradizione e di salentinità creando, paradossalmente, una cultura egemone in grado di oscurare le altre. Il Salento è sempre più spesso considerato terra del ragno ed è stato fatto oggetto di saggi, scritti a firma di intellettuali autorevoli, molto approssimativi e talvolta fantasiosi. Insomma, dal 1961, la Terra d’Otranto, pur mutando nella sostanza, viene stereotipata nella forma e fatta passare per un’isola culturale dove il tempo non scorre, estranea a ogni processo di cambiamento.

10 Ernesto de Martino, La terra del rimorso: contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961.

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3. L’isola che non c’è Diciamocelo con franchezza: può, in un paese avanzato come il nostro, in un mondo che, per dirla con McLuhan, è un villaggio, perdipiù tutto quanto messo in rete, esistere un’isola chiamata Salento? Perché si insiste in questa direzione? Perché dobbiamo pensarlo come un luogo staccato dal resto del pianeta? La caparbietà di rappresentare il Salento come espressione della pizzica intorno alla quale ruota tutto il nostro mondo, contribuisce a creare stereotipi che, nonostante non appartengano alla nostra storia, sono funzionali alla cultura egemone che, esaltando oltremodo la pizzica, oscura, mortificandola, la musica popolare tradizionale intorno alla quale, oggi come ieri, non ruota, purtroppo, alcun business. Peccato che a non rendersene conto siano proprio gli appassionati di musica tradizionale che sono sempre pronti, invece, ad allinearsi a quanto offre la moda del padrone di turno! Semplice e autorevole è la testimonianza di Uccio Aloisi tratta da una intervista, poi diventata libro (I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare, con prefazione di Sandro Portelli, a cura di Roberto Raheli, Vincenzo Santoro, Sergio Torsello, Edizioni Aramirè, Lecce 2003, pp. 79-80 e pp.128-129): Int. Ma lu scotis comu se balla? Uccio: Iu nu sacciu cu ballu, ma era anticu… [Uccio fa vedere alcuni passi di danza canticchiando la melodia]… se vutava de costi, se vutava de costi… a passetti Cetta: A passetti… Uccio: Lu scotis, ma quiddhu ghera bellu… lu scotis cu lu balli… propriu ci sapìa lu balla, dicu… lu Casaranu, per esempiu, quiddhu sapìa lu balla, poi ìa quiddhi vecchiareddhi ca puru lu ballavane… però se l’hannu ballare moi sti giovani nu sanne.

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Int.: No, lu scotis s’ha persu propriu. Uccio: Ma non esiste proprio. La raspa! Int.: Cci? Mo’ mai sentita sta raspa… Uccio: Na furmine! Int.: Ci è la raspa, non so. Uccio: Eh… du… ‘lo spi…’ No! [canticchia la melodia] Int.: E comu la chiami te? Raspa quista? Uccio: Raspa, è chiamata la raspa. Poi c’era la… aspetta nu pocu… Lampu… Furmine! La tegnu mbucca a mbucca! Cetta: Ci bboi? Uccio: La canzone Limonero, chiamata… [canta]: Quel giardino di limone tutto in fiore / na na na na, na na na… / a limon limonero, poi c’era la… Int: Quista era ballabile puru? Uccio: Sì sì, è bellissimo! Poi ìa ddh’addha, ma comu se chiamava… aspetta… no… lu scotis, la raspa… quiddh’addhu chiù difficile comu se chiamava? Cetta: Tangu? Uccio: No cce tangu te Gesù Cristu! Lu tangu se usa dappertuttu… lu spirù! Int.: Mai sentito in vita mia! Uccio: [canta]: Lo spirù, lo spirù / piega le gambe e i ginocchi anche tu / vuoi canta’ lo spirù / così ballava lo spirù / tà tà! Na sera lu ballamme casa quannanzi, le risate, ci se mantenìa… Int.: Però moi sempre de l’anni Cinquanta aci cunti… Uccio: Sì, te parlo te cinquant’anni rretu, forse puru te cchiui… cinquanta, cinquantaquattru, cinquantacinqu’anni… lo spirù, lo spirù, prima ballavane lo spirù. Int.: Ma quand’eri vagnone ssignuria, no? Quannu tinivi quattordici quindici anni… 21


Cesare Monte

Cetta: Tutte le caruse spettavane la dumineca ca ìane sunare… Int.: Ma quand’eri vagnone ssignurìa, ma propriu vagnone, lu ballu non era la pizzica? Uccio: Ma quale pizzica? No n’ìa nuddha pizzica tandu… quale pizzica? No se usava propriu la pizzica! Mo’ è ssuta cu santu Roccu cu ddhe cazzu te tarantate ca se sentìa, se giràu la pizzica, se no nommancu esistìa sta pizzica… ci cazzu la ballava prima la pizzica?

Riduzione in italiano Io lo scotis non lo so ballare, ma è un ballo antico [Uccio fa vedere alcuni passi canticchiando la melodia], si girava di lato, a passettini. Era un bel ballo, per chi sapeva ballarlo, Uccio Casarano per esempio lo ballava bene, poi c’erano i vecchi che lo sapevano ballare, ma se i giovani dovessero ballarlo ora, non lo sanno ballare. Non esiste proprio più. Ah! Poi c’era la Raspa! [canticchia la melodia] Questa è chiamata Raspa. Poi c’era… aspetta un poco… fulmine! Ce l’ho sulla punta della lingua… quella canzone… Limonero: Quel giardino di limone tutto in fiore / na na na na, na na na… / … a limon limonero… Era ballabile ed era bellissimo! Poi c’era quell’altro, ma come si chiamava, aspetta un po’, quell’altro più difficile… no, che Tango e Tango di Gesù Cristo! Il tango si usa dappertutto… lo spirù! Lo spirù, lo spirù / piega le gambe e i ginocchi anche tu / vuoi canta’ lo spirù / così ballava lo spirù / tà tà! Una sera lo ballammo qua davanti, roba da non tenersi per le risate!

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Ti parlo di cinquant’anni fa, anche di più, cinquantaquattro, cinquantacinque anni fa… Lo spirù… prima lo ballavamo… E quando avevo quattordici anni? Se il ballo era la pizzica? Ma quale pizzica? Non c’era nessuna pizzica allora… quale pizzica? Non si usava proprio! È uscita ora, con san Rocco, con queste cazzo di tarantate, è venuta fuori ‘sta pizzica, perché se no neanche esisteva ‘sta pizzica. Chi cazzo la ballava prima la pizzica?! Alessandro Portelli ritiene che la voce del cantore salentino sia «la grana e la storia di un mondo del quale la pizzica è solo una delle espressioni, e non necessariamente la più significativa». Peccato, però, che ancora oggi, nonostante tutto, gli studi sulla musica popolare del Salento siano incentrati su un fenomeno di nicchia quale il tarantismo, sfruttato e oltremodo osannato. Questa pervicace volontà di voler fermare il tempo è contro natura e si scontra con uno dei fondamenti dell’antropologia culturale, il cui centro di interesse «è costituito dalla cultura. L’uomo si evolve nel tempo; ha cioè, il senso del passato, del presente e del futuro; a differenza degli animali ha coscienza del tempo. L’uomo, inoltre, come tutti gli altri organismi capaci di movimento, si muove nello spazio. Infine l’uomo vive in società e si identifica con i suoi simili con i quali coopera per mantenere in vita il suo gruppo e assicurarne la continuità» (in Merriam A. P., Antropologia della musica, a cura di Diego Carpitella, Sellerio Editore, Palermo 1983, p. 39). Da quanto riportato si evince chiaramente che la cultura, e quindi la musica come una delle sue espressioni, è capace di assorbire i cambiamenti che avvengono nella società e, seppur minimi, di registrarli. Ciò significa che la musica si rinnova e non è una espressione statica della cultura.

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Purtroppo il Salento, in ambito accademico e nel mondo degli intellettuali, è ancora fermo agli studi demartiniani, e lo è semplicemente perché non ha avuto la forza di spingersi oltre, di guardare avanti (o anche solo di studiare il passato), perché ha trovato più comodo rimanere aggrappato a una autorità, quale quella di de Martino, piuttosto che cercare nuove vie e nuovi argomenti, e ce ne sarebbero tanti, su cui discutere.

4. Anelli di congiunzione Si vuole dunque rimanere nel “Salento di de Martino” perché fa comodo. Questa comodità, tuttavia, non aiuta la ricerca anzi la assopisce. E non è un caso, allora, che per alcuni ambienti dell’accademia, non poche espressioni artistiche non solo non vengono riconosciute per quello che rappresentano, ma addirittura vengono oscurate. Questo accade anche in ambito letterario, dove poeti del calibro di Salvatore Toma sono pressoché esclusi dalla storia della cultura salentina o, ancora, in ambito teatrale, dove, al fianco di figure che talvolta, e comunque con molto ritardo, vengono valorizzate, quali Raffaele Protopapa e William Fiorentino, ce ne sono altre decine che per il mondo della ricerca sono inesistenti. In musica avviene altrettanto per tutti quegli artisti che hanno mantenuto e rinnovato la tradizione popolare che svaniscono fagocitati dalla taranta. In questo contesto di esaltazione della sola pizzica, si inserisce Cesare Monte, originario di Presicce ma neretino d’adozione, riconosciuto come il menestrello del Salento:11 egli rappresenta l’esem-

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Anche Niceta Petrachi, detta la Simpatichina, di Melendugno, può essere a giu-

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pio concreto di come la musica di Terra d’Otranto sia passata, in tempi fra l’altro neppure tanto remoti, dalla campagna alla città, ricontestualizzandosi per divenire musica dialettale d’autore con Gino Ingrosso12 e per inserirsi poi nel contesto musicale nazionale con il reggae. È un cambiamento spontaneo che non viene dal basso e non è imposto dall’alto: si tratta semplicemente di continuità. Evidenti interessi tutt’altro che culturali, assieme all’ignoranza diffusa nelle accademie trasformatesi da luoghi di ricerca a salotti intellettuali, hanno contribuito a rappresentare il Salento così come non è nella realtà. Il volersi sdoganare a tutti i costi dalla provincia, fatto di per sé non negativo, ha paradossalmente creato degli stereotipi che non esistono nella quotidianità. Cesare Monte, con il suo immenso repertorio riusciva a far ballare in piazza migliaia di persone e, anche se nei cosiddetti lavori scientifici sulla musica del Salento non viene neanche menzionato, è certamente l’artista più rappresentativo della musica popolare. Alcuni suoi brani, divenuti famosi attraverso la televisione locale, Teleleccebarbano, correvano sulla bocca di migliaia di salentini (ci riferiamo a La coppula e La gaddhina), raccolti fra l’altro sul vinile I canti del Salento, un Lp che ottenne un grande successo.

sta ragione paragonata a Cesare Monte e quindi rappresentare l’anello di congiunzione fra la musica della campagna e quella della città. Un distinguo però è d’obbligo, mentre Cesare Monte ha fatto della musica una professione, quindi è uscito dal ristretto ambito familiare, la Simpatichina, cantava anche durante il lavoro nei campi. Della Simpatichina è opportuno segnalare la monografia pubblicata da Kurumuny nel 2003: Niceta Petrachi, La Simpatichina. Malachianta, Calimera 2003. 12 Una ottima monografia di Gino Ingrosso è Gino Ingrosso. 25 anni di canzoni leccesi. 1975-2000.

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Al di là delle vendite, I canti del Salento, è di fondamentale importanza in quanto canzoni popolari, tramandate nei secoli oralmente, venivano registrate su disco e proposte a un pubblico ampio, che non apparteneva esclusivamente al mondo della ricerca. Ma non solo: quei brani offrivano un canovaccio dal quale partire per creare brani che, a ogni esecuzione, risultavano originali. Un po’ come accadde con Quandu te llai la facce, canzone di certa origine popolare, registrata da Tito Schipa per la prima volta nel 1921 divenne talmente famosa che non c’era salentino che non la conoscesse e la cantasse a modo proprio, magari cambiando le parole o la melodia e creando, ogni volta una versione originale. Per la cronaca, una di queste versioni è riportata sul cd della Longhini e Bosio col titolo Cu l’acqua ci te llavi la matina. La stessa cosa è accaduta per Lu purece, canzone di provenienza popolare resa celebre e mantenuta in vita dal tenore leccese Tito Schipa. Una versione del brano è contenuta nel cd Italian Treasury. Puglia: the Salento, Alan Lomax collection, Rounder Records 2002, versione registrata a Galatone nel corso della ricerca effettuata da Alan Lomax e Diego Carpitella nel 1954. Il non voler prendere in considerazione tali dati di fatto, e cercare a tutti i costi di creare un salentocentrismo basato su una tradizione creata ad hoc, imposta da politiche economiche, e soprattutto oscurare le altre vie, non contribuisce che a uccidere e limitare fortemente le capacità presenti sul territorio e immolarle in nome di chissà quale tipo di progresso.

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Nota bibliografica

Gianni Bosio, Clara Longhini, 1968. Una ricerca in Salento. Suoni, grida, canti, rumori, storie immagini, Kurumuny, Calimera 2006. Federico Capone, Lecce che suona, Capone, Lecce 2003. Federico Capone, Hip hop-Reggae Dance Elettronica, Stampa Alternativa, Viterbo 2004. Daniele Durante, Spartito. E io resto qui. Storie e canzoni della musica popolare salentina, Lecce 2005. Aa Vv., I colori della terra. Canti e racconti di un musicista popolare, con prefazione di Roberto Portelli, a cura di Roberto Raheli, Vincenzo Santoro, Sergio Torsello, Aramirè, Lecce 2003. Tommaso Manfredi, Dai Caraibi al Salento. Nascita evoluzione e identità del Reggae in Puglia, Lecce 2007. Alan P. Merriam, Antropologia della musica, a cura di Diego Carpitella, Palermo 1983.

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Cesare Monte raccontato dalla figlia Marilena Monte

Poteva essere più o meno il 1966 o 1967 quando un pomeriggio d’inverno mio padre mi condusse in un locale vicino casa, perché imparassi una canzone che avrei cantato in una manifestazione, La girandola d’oro, dove si esibivano anche altri bambini e che era presentata da lui assieme a Cino Tortorella, meglio noto all’epoca come Mago Zurlì e da un personaggio dal nome Richetto. In quel garage privo di riscaldamento, non molto distante dalla casa in cui abitavamo allora e dal negozio “Mamme e bimbi” di proprietà, dove i miei lavoravano, io imparai la mia canzone e lui provò i suoi brani folcloristici. Questo episodio mi è rimasto impresso, perché allora realizzai nella mia mente di bambina che mio padre era un cantante, anche se in realtà cantava già da una decina di anni. Ho un ricordo più o meno chiaro di tutte le altre volte in cui, negli anni che seguirono, mio padre cantò in manifestazioni di una certa importanza nel panorama degli spettacoli che si svolgevano in quell’epoca nella provincia di Lecce soprattutto ma anche in provincia di Brindisi, Taranto, Bari e Foggia. In diverse manifestazioni oltre a cantare lui presentava come per esempio proprio nel festival di cui ho detto prima oppure in un altro per bambini svoltosi a Bari sempre in quel periodo. Tutte le volte in cui a Nardò o zone limitrofe vi era una manifestazione chiamavano quasi sempre lui sia come direttore artistico sia come cantante. In quegli anni in cui fervevano iniziative di ogni genere, mio padre fu coinvolto in un corso di Educazione Popolare organizzato dall’ENAL per il Comune di Nardò. 28


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