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basta accendere la luce?
Prefazione. IV-VII Paura: un’analisi. 8-43 Il termine 10-11 La paura nella storia e nell’arte. 12-15 Estetica dell’orrore. 16-21 Cinematografia Horror. 22-33 Il potere del suono. 34-35 Il personaggio nascosto. 36-43 Concept. 44-55 Il nostro immaginario. 46-55 Esperienza. 56-139 Artefatti comunicativi. 58-81 Una narrazione. 82-99 Pensare facendo. 100-115 La macchina comunicativa. 116-139 Conclusioni. 140-147 Words Works. 142-145 Implementazioni. 146-147 Riflessioni. 148-151 Riferimenti. 152-153 Ringraziamenti. 154-157
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Prefazione
L’elaborato che segue è uno dei dodici che raccoglie gli esiti e le relative considerazioni che ciascun gruppo di studenti ha elaborato durante il Laboratorio di Sintesi Finale del Corso di Laurea in Design della Comunicazione (a.a. 2017-2018). La classe, organizzata appunto in 12 gruppi di lavoro, aveva come obiettivo quello di lavorare su alcune parole riferite a emozioni o condizioni, stati d’animo, dell’uomo. L’obiettivo generale è stato quello di progettare un’esperienza centrata su una macchina comunicativa, un dispositivo, o una interazione – con una propria identità visiva – che interpretasse la parola assegnata, al fine di coinvolgere gli utenti in una più ampia comprensione della parola stessa. Tutto il processo progettuale è stato centrato sul semplice ed eterno principio dell’imparare facendo che sostanzialmente consiste nel pasticciare, nel fare errori, nel provare e riprovare per giungere al migliore
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Prefazione
risultato possibile. Questo approccio permette agli studenti di sperimentare espressioni visive e user experience tra le due e le tre dimensioni. Ciascun progetto deve poggiare su una solida e motivata base concettuale ed essere verificato fisicamente, mediante la realizzazione di prototipi funzionanti. Questo percorso e i suoi obiettivi sono stati definiti nella convinzione che il Design della Comunicazione oggi è un ambito, un contesto, aperto, con limiti e confini sfumati. La si potrebbe definire come una disciplina antidisciplinare che dal design di artefatti visivi fisici e immateriali converge verso il design di sistemi (Ito, 2016). Del resto il suo centro si sta spostando sempre piÚ da quello della funzione verso quello del significato (Antonelli, 2011). Questo spostamento di centro porta inoltre valore nell’adozione di pratiche speculative in un ambito educativo. Generalmente il Design della Comunicazione è inteso come una pratica orientata al problem-solving
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Prefazione
e anche in ambito didattico e formativo si ricorre spesso a simulazioni di un contesto professionale. Nonostante ciò, si deve considerare la disciplina come raramente centrata su se stessa: è un linguaggio, un vessillo che è possibile riempire con ciò che si vuole. Qualche volta è un cliente a riempire tale vessillo, altre volte questo ruolo lo deve svolgere il progettista. In ogni caso, il vessillo resta un mezzo di comunicazione (Fuller, 2012). È intrigante coinvolgere gli studenti in un processo che dal problem-solving si sposta verso il problem-finding, incoraggiandoli a sviluppare concetti e scenari in cui non è necessario né fondamentale considerare una precisa funzione. Per cui: concetto, progetto e verifica delle soluzioni. Non è tanto un problema di competenze e tecnicalità: è un problema di conoscenza intellettuale. L’importante è avere
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Prefazione
una forte motivazione per imparare cose incerte e a gestire tale incertezza, ad analizzare criticamente le proprie soluzioni e a metterle in discussione, piuttosto che imparare semplicemente una pratica professionale. Francesco E. Guida
Antonelli, P. (2011). “Talk to me”. in Hall, E. (eds.), “Talk to me. Design and Communication between People and Objects”. New York: Museum of Modern Art. Fuller, J. (2012). “Graphic design as a liberal art”. Disponibile da: http://jarrettfuller.com/ projects/liberalart [consultato l’11 Feb. 2018]. Ito, J. (2016). “Design and Science. Can design advance science, and can science advance design?”. Journal of Design and Science. Available at http://jods.mitpress.mit.edu/pub/ designandscience [consultato l’11 Feb. 2018].
Paura: sensazi forte preoccup insicurezza, an si avverte in pr pericoli reali o
ione di pazione, ngoscia, che resenza di o immaginari.
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Paura: un’analisi
Paura: un’analisi Durante il Laboratorio di Sintesi Finale ci è stata lanciata una sfida stimolante. La richiesta presupponeva il confronto con un sentimento a tutti conosciuto, che fa parte della quotidianità e dei pensieri più privati di ciascuno di noi: la paura. Malgrado essa sia un’emozione apparentemente di facile comprensione, poiché chiunque ne ha fatto esperienza nella propria vita, abbiamo cercato di non scadere in un’analisi semplicistica, provando ad esaminare le numerose sfaccettature che la contraddistinguono. Per questo motivo è stato quindi necessario partire dall’origine del termine e fare un’analisi approfondita sia dal punto di vista linguistico, storico ed iconografico.
Il termine
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Definizione da: Enciclopedia Treccani on-line
Ritratto della paura realizzato da Stephan Vanfleteren
La paura è definita come “Stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario […] assume il carattere di un turbamento forte e improvviso, che si manifesta anche con reazioni fisiche, quando il pericolo si presenti inaspettato, colga di sorpresa o comunque appaia imminente”1. Il significato del termine è affascinante perché identifica un’emozione intrinseca nell’animo umano i cui risvolti connessi possono essere imprevedibili spaziando dalla frustrazione alla generazione di violenza. Il campo semantico della paura rappresenta per molti individui un tabù linguistico che si tende a superare servendosi di formule perifrastiche, oppure utilizzando le varietà linguistiche infantili. La paura presenta due accezioni: la prima di spavento e la seconda di angoscia, antònimi di speranza e sicurezza. La paura è l’aspetto manifesto dell’angoscia. L’angoscia e la paura possono avere anche un’origine sociale e sono condizionate dalle singole culture: la paura di sbagliare, di trasgredire delle regole, la paura della violenza, degli incendi o semplicemente quella di non riuscire. La società si dimostra, infatti, come una serie di prove in cui l’uomo deve assumersi il rischio di poter fallire. Tuttavia una delle principali fonti di paura, comune ad ogni essere vivente dagli uomini agli animali, è costituita dalla morte. Sappiamo di essere effimeri, ma non sappiamo quando e come la morte giungerà e cosa ci riserva l’aldilà. Più che la morte la fonte principale della paura è allora la totale incertezza del futuro, il non sapere e non poter capire che cosa accadrà.
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La paura nella storia e nell’arte
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Il trionfo della morte è un tema iconografico a carattere macabro diffuso nel tardo medioevo a partire dal Trecento. Si contano quasi trecento esempi comprendendo anche le danze macabre e il tema dell’Incontro dei tre morti e dei tre vivi.
Questa molteplicità di significati che possono essere attribuiti al termine paura trova una corrispondenza anche nella rappresentazione visiva che si ha di essa. Non esiste pertanto un’iconografia univoca che descriva questo sentimento, ma piuttosto un immaginario volubile che si è sviluppato nei secoli, adattandosi alla società e ai cambiamenti del periodo storico. L’arte è il mezzo tramite il quale gli uomini, sin dall’antichità, hanno cercato di dare forma alla paura, mostrandone le varie sfaccettature e le conseguenze che essa apporta all’animo umano. Attraverso un’analisi delle varie forme artistiche ci è stato possibile osservare il mutamento della concezione di paura, che trova forse le rappresentazioni più significative a partire dall’epoca medioevale. I cristiani dei primi secoli immaginavano l’aldilà come nei grandiosi e terrificanti quadri che rappresentavano il Giudizio Universale. Dopo la morte, un giudice incorruttibile avrebbe concesso ai buoni le gioie del Paradiso e sprofondato i malvagi nelle tenebre dell’Inferno. Dopo l’anno Mille, tuttavia, lo sviluppo dell’economia urbana contribuì alla nascita di un nuovo immaginario. In una società basata sul commercio, in cui tutto si poteva vendere e comprare, si decise che anche la salvezza, entro certi limiti, poteva essere pagata: nasceva così il Purgatorio, un luogo di espiazione delle colpe, di cui non si parla né nel Vecchio né nel Nuovo Testamento, ma la cui esistenza fu certificata dalla Chiesa. Ad ogni peccatore veniva attribuita una penitenza che tuttavia poteva essere riscattata attraverso le preghiere e le offerte. Il Purgatorio divenne quindi, nell’immaginario collettivo, ancora più importante del Paradiso e dell’Inferno, come dimostra la Divina Commedia dantesca, poiché la maggior parte dei credenti, ritenendosi peccatori, si sentiva rassicurata dall’idea di poter riparare ai propri peccati scontando una punizione che tuttavia non sarebbe durata in eterno. Il risultato fu che l’attesa del Giudizio Universale perse molto del suo pathos originario. Come si afferma nel saggio Senza misericordia di Chiara Frugoni e Simone Facchinetti, a partire dal XIII-XIV secolo, la Chiesa, accorgendosi che la certificazione dell’esistenza del Purgatorio aveva diminuito grandemente la paura dell’aldilà, decise di modificare la sua pedagogia del terrore. In tutta Europa le pareti di chiese e palazzi si coprirono di affreschi raffiguranti scene macabre e terrificanti, quali il Trionfo della Morte2 che cavalca brandendo la falce su mucchi di cadaveri o la danza macabra, con la sua processione di umani di tutte le estrazioni sociali, dal papa al contadino, trascinati da uno scheletro sghignazzante. A lungo si è creduto che la diffusione di questi temi fosse dovuta alla peste che spopolò l’Europa nel 1348 e continuò a infierire a più riprese fino al XVII secolo; ma in seguito si accertò che il grandioso Trionfo della Morte dipinto da Buffalmacco nel camposanto di Pisa risale a qualche anno prima della grande epidemia.
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Il Trionfo della Morte, Palermo, affresco staccato, 600x642 cm, Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Autore sconosciuto (1446) Vanitas, Pietr Claez. Tema centrale è quello del memento mori (1656)
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L’urlo (Skrik), Edvard Munch, olio, tempera e pastello su cartone, 91 x 74, (1893)
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Nuove paure
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Sigmund Freud, (1856–1939) fondatore della psicoanalisi è noto per aver ideato una teoria scientifica e filosofica, secondo la quale i processi psichici inconsci esercitano influssi sul pensiero, sul comportamento umano e sulle interazioni tra individui.
Paura: un’analisi
Si comprese perciò che fu la Chiesa stessa ad incentivare la diffusione di questi temi, con lo scopo di alimentare nei cristiani la paura della morte, del disfacimento fisico, della decomposizione del cadavere, e trarne quindi motivo di riflessione sulla salvezza dell’anima. Nacque allora la personificazione della Morte armata di falce. Anche la pittura barocca è ricca di rappresentazioni macabre, nelle quali si condannano la mondanità ed i piaceri terreni. Tali immagini paurose, raffiguranti spesso teschi e scheletri, evocano dolore fisico, punizione e morte e servivano come monito affinché i fedeli si allontanassero dalle tentazioni di una vita frivola e si dedicassero alla preghiera, alla meditazione sulla morte e alla salvezza dell’anima. Il pittore Pieter Claesz, con la sua natura morta Vanitas (pagina precedente) riassume emblematicamente questo tipo di cultura figurativa, grazie ad elementi allusivi al tema della caducità della vita. Il Settecento segna una svolta nell’iconografia della paura. Il famoso dipinto di J. H. Fussli Incubo (1781) evidenzia quanto e come l’uomo sia preda non tanto di paure provenienti dall’esterno, quanto delle sue paure interiori; durante il sonno, il controllo della ragione si allenta e le emozioni più recondite balzano all’improvviso in primo piano, turbando la sfera emotiva. Le immagini degli incubi notturni che agitano il sonno assumono nel dipinto la forma di un mostro accovacciato sullo stomaco di una donna riversa sul letto, mentre irrompe sulla scena l’immagine spettrale di una cavalla dagli occhi sbarrati e dalla criniera al vento. A partire dall’Ottocento e particolarmente da Goya in avanti, la pittura diviene il mezzo per esprimere una realtà personale che dà corpo ai sentimenti, alle angosce, alle incertezze. Il mondo dell’irrazionale prende forma con figure mostruose, animali volanti, immagini d’incubo proiezioni dei più reconditi turbamenti dell’inconscio. Le paure che incombono sull’uomo hanno sempre più origine dentro di lui, anche se il mondo esterno, la società e la natura stessa contribuiscono ad alimentarle. Emblematico è il famosissimo Urlo di Edvard Munch, del 1893, che in una sola immagine ha saputo incarnare il dramma esistenziale dell’uomo moderno. L’essere umano raffigurato nel dipinto è terrorizzato e sconvolto, senza che vi sia una causa esterna; mille motivi possono suscitare angoscia e terrore: smarrimento, solitudine, incomunicabilità, tutti temi che provengono da quel campo fino ad allora inesplorato e che le grandi menti dell’epoca, da Schopenhauer a Freud3, hanno iniziato a svelare. Ciò che suscita paura dunque non si trova solamente nel mondo esterno, non sono solo gli orrori e le crudeltà delle guerre o le problematiche e le contraddizioni della società, ma anche la progressiva scoperta e consapevolezza di un mondo interiore, magmatico, complesso che la psicanalisi ha contribuito a far emergere. L’uomo non deve solo confrontarsi con gli altri, ma anche con se stesso e con quella parte oscura di sé che forse preferirebbe non conoscere perché non può che spaventare, tante sono le pieghe nascoste dell’Io.
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L’estetica dell’orrore
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Trattato di estetica che ha attratto l’attenzione di eminenti filosofi dell’epoca, quali Denis Diderot e Immanuel Kant (1756).
Non solo le arti visive hanno contribuito alla creazione dell’immaginario relativo alla paura, ma un ruolo fondamentale è stato svolto anche dalla letteratura, in particolar modo durante il periodo romantico, con la nascita delle Gothic novel, sviluppatesi in Inghilterra a partire dalla metà del XVIII secolo. Il pensiero romantico ruota attorno al concetto di Sublime, di cui Edmund Burke, nel suo saggio Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello4 , dà una prima definizione. Burke considera il Bello ed il Sublime tra loro opposti. Il Bello è piacere verso ciò che è luminoso, delicato, armonioso, Il Sublime ha invece la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore ed ha origine da ciò che è informe, smisurato, oscuro, da “tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili” e sfugge in qualche modo al controllo della ragione. Terrore e orrore saranno quindi i temi dominanti anche nella letteratura, inaugurando la grande ed inquietante stagione del fantastico, che trova la sua espressione in alcuni elementi tipici (topoi) quali castelli, foreste, rovine, cimiteri e altri ancora, il tutto avvolto da un’aura di mistero, che costituisce il cardine dell’intreccio narrativo. In particolare il castello appare simbolo, da una parte, di forza, di magnificenza, di dominio, dall’altra di minaccia, inaccessibilità e sudditanza delle classi subalterne. La graduale scomparsa del vecchio mondo feudale comportò la fine dell’autorità e dell’arbitrio signorile e, nell’ambito letterario, si tradusse nell’immaginario delle rovine, tipico della poetica romantica. Le rovine rappresentano la testimonianza delle civiltà passate e, subendo l’aggressione e la corrosione del tempo, suscitano la sensazione del disfacimento delle opere realizzate dall’uomo, rievocando nello spettatore il rimpianto e lo struggimento del tempo che passa. La rovina quindi, per lo spirito romantico, è più emozionante e piacevole di un edificio o di un manufatto integro. Un altro elemento simbolo, che costituisce una costante del Gothic romance, è quello del labirinto. Girare a vuoto, tornare sui propri passi e non trovare la via d’uscita, corrisponde freudianamente all’incubo di perdere se stessi, la propria identità di persona. Il labirinto, per il suo percorso tortuoso e con infinite possibilità di accesso e una sola possibilità di uscita, simboleggia il senso di frustrazione di chi è incapace di scegliere la sua via. Risulta quindi una trappola in cui tutte le scelte appaiono possibili, mentre una sola, spesso la più ovvia, è quella corretta. Da qui deriva la paura di sbagliare, pena la sconfitta, la morte. Gli scrittori romantici sono tormentati, ma nello stesso tempo attratti e affascinati dall’idea della morte e, per questo motivo, nella loro poetica, assumono un ruolo centrale i cimiteri. Già alla metà del Settecento, in Inghilterra, Thomas Gray compose un poema intitolato Elegia scritta in un cimitero di campagna, che ispirò numerosi poeti, tra cui il Foscolo. Quest’ultimo, nel suo componimento Dei Sepolcri, riesce con i suoi versi a delineare la sensazione di sgomento e di paura nei confronti dell’ignoto e della morte.
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Incisione per La caduta della casa degli Usher, di Edgar Allan Poe, Constant le Breton (1839). Viene rappresentato il tema della rovina.
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All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Ove più il Sole per me alla terra non fecondi questa bella d’erbe famiglia e d’animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi a me non danzeran l’ore future, nè da te, dolce amico, udrò più il verso e la mesta armonia che lo governa, nè più nel cor mi parlerà lo spirto delle vergini Muse e dell’Amore, unico spirto a mia vita raminga, qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso Foscolo, Dei Sepolcri, versi 1-15
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In tutta la narrativa gotica, oltre all’ambientazione in luoghi cupi e tenebrosi, circondati spesso da una natura matrigna, assume un ruolo fondamentale il sentimento della paura, che ha lo scopo di suscitare l’attenzione del pubblico e di creare una potente tensione emotiva nel lettore. Sul piano estetico a ciò che appare chiaro, tangibile e quindi ovvio, si preferisce l’oscuro, l’indecifrabile, l’inatteso. “Per rendere un oggetto molto terribile” - scrive ancora E. Burke nel trattato - “sembra in generale necessaria l’oscurità, un elemento importantissimo per suscitare la paura nel lettore. Quando conosciamo l’intera estensione del pericolo, quando possiamo ad essa abituare il nostro sguardo, gran parte del timore svanisce”. Basti pensare a quanto aumenti di notte la nostra percezione di pericolo. In questi scenari permeati dall’oscurità ricorrono spesso ombre spettrali, fantasmi e mostri, figure che hanno lo scopo di alimentare l’attrazione per tutto ciò che è terrificante, abnorme ed inverosimile e che contribuiscono all’immaginario del soprannaturale. Esponenti rappresentativi di questo tipo di narrazione sono John William Polidori e Mary Shelly. Il primo, con Il Vampiro (1819) riuscì a tratteggiare una creatura che ispirò più tardi lo scrittore Bram Stoker per la realizzazione del suo personaggio: il famosissimo Conte Dracula. Si tratta di un demone aristocratico che cerca le sue prede nell’alta società, annientandole attraverso il vizio ed il denaro. Il vampiro di Polidori è elegante, affascinante e corrisponde alla concezione dell’eroe maledetto e fatale, che rovina gli altri e se stesso. I motivi ricorrenti del racconto sono la forza, la potenza seduttoria, la distruttività del mostro-vampiro e del suo sguardo. Nella creatura di Polidori, la natura vampiresca del protagonista si fonde indissolubilmente con la sua connotazione umana. Mary Shelly, d’altro canto, autrice di Frankenstein (1818), crea un romanzo che supera alcuni schemi del primo periodo del romanzo gotico, non sono infatti presenti castelli diroccati, fanciulle perseguitate o fantasmi. Nonostante ciò, vengono mantenute le atmosfere cupe, che in certe parti del romanzo assumono toni ancor più lugubri e viene ceduto il passo ad una visione della paura in chiave fantascientifica. Il romanzo introduce poi tematiche culturali e filosofiche tuttora attuali e di grande impatto in un’epoca nella quale la ricerca stava accelerando enormemente le sue scoperte: il rapporto fra l’uomo e la scienza, i limiti della scienza oltre i quali non è lecito spingersi, il diverso che viene emarginato dalla società civile, la figura della creatura artificiale che si ribella al suo creatore. Infine un autore molto rappresentativo, è Edgar Allan Poe che potrebbe essere considerato l’anello di congiunzione tra il genere gotico e la narrativa horror moderna. Lo scrittore americano infatti riesce nei suoi racconti a liberarsi dei tipici cliché del gotico, legando l’orrore a tematiche nuove, come la malattia, la tortura fisica e psicologica e la follia omicida.
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Lo scopo ultimo per cui l’uomo dà forma alla paura è quello di identificarla e perciò esorcizzarla. Questo tema trova le sue origini nel pensiero aristotelico, che sottolineava l’effetto purificante del rivivere intensamente un forte stato emozionale al fine di liberarsene. Tale visione catartica della rappresentazione della paura è giunta dall’antica Grecia fino ai giorni nostri e trova riscontro sul grande schermo, con la nascita della cinematografia horror.
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(Nella pagina precedente) Litografia per Wuthering Heights (Cime Tempestose) di Emily Bronte, Fritz Eichenberg. Rappresenta Heathcliff mentre scava la tomba di Catherine. Illustrazione per il frontespizio della I edizione di Frankenstein, Theodor von Holst (1831)
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Cinematografia horror Dal gotico alla realtà
Il cambio di supporto, dalla carta al grande schermo, ha permesso la nascita di un nuovo modo di intendere e rappresentare la paura. La possibilità di dare forma e movimento a ciò che ci terrorizza, infatti, sollecita profondamente i nostri sensi, permettendoci di vivere un’esperienza molto più intensa accrescendo la tensione emotiva. Con la nascita della cinematografia è stato possibile dare origine ad una percezione dell’orrore immediata, più di quanto non accada nell’omologa letteratura; il cinema possiede infatti una disposizione che la parola non può raggiungere, ma solo evocare facendo appello alla fantasia del lettore. La parola offre uno spunto allusivo ed emotivo che il cinema sostituisce con immagini concrete e precise, offrendo allo spettatore una visione diretta, in cui l’unico intermediario è rappresentato dalla macchina da presa. Siamo sempre consapevoli della natura fictional di un film, cioè di assistere ad uno spettacolo in cui l’unica nostra funzione è quella di osservatori esterni che non possono in alcun modo intervenire per modificare gli eventi. Tuttavia, poiché lo sguardo non è solo una registrazione passiva, ma ha legami indissolubili col cervello, quest’ultimo interviene rielaborando le immagini e dando alla visione diverse implicazioni. Ogni mutamento di prospettiva, di distanza, di composizione permette di creare nuove suggestioni: per esempio, l’inquadratura dal basso di una creatura mostruosa, ci pone in una condizione d’inferiorità fisica, come se fossimo proprio di fronte ad una statura gigantesca. Nel cinema fantastico la definizione di orrore è spesso associata a quella di paura, anche se i due termini, apparentemente conseguenti, non sono sempre sovrapponibili e conservano alcune differenze essenziali. Innanzitutto, il termine orrore definisce una sensazione prevalentemente iconica, compete quindi in primo luogo all’immagine e allo sguardo, mentre la paura è legata alla narrazione ed è destinata a instillare nello spettatore una sensazione d’insicurezza e di pericolo che lo riguarda da vicino, anche quando appare palesemente distante dal racconto e dalla sua natura di spettacolo e di finzione. La paura, che si leghi o meno all’orrore, nasce solo quando scatta un secondo meccanismo che s’inserisce nella visione. Nel mondo dell’immaginario cinematografico le paure che attraversano la società in un determinato momento storico trovano espressione nella figura del mostro, creatura inseparabile dalla struttura del film horror. Destrutturando tale figura è possibile risalire alle paure prevalenti, caratteristiche di un certo tipo di società. Infatti, se in passato streghe, vampiri e fantasmi erano centrali nell’immaginario dell’orrore, dagli anni Settanta il cinema ha abbandonato l’immaginario gotico per lasciare spazio all’insicurezza suscitata dalla vastità e dai percoli della metropoli. Le creature fantastiche sono spesso state soppiantate da figure scaturite dalla cronaca nera, come ad esempio quella del serial killer.
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Colin Clive in una scena di Frankenstein diretto da James Whale (1931)
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Nuovi mostri
La struttura, oltre che sulla rappresentazione del mostruoso, è anche in questi casi, fondata sulla duplice caratteristica di umano/non umano e sull’incomunicabilità dei due sistemi, uno realistico e l’altro fantastico. L’aspetto della mostruosità non è, tuttavia, di per sé un elemento sufficiente o indispensabile per generare paura, semmai si limita a suscitare un certo fascino dell’orrore sullo spettatore. Per far emergere tale sentimento è necessario che i personaggi siano immessi in circuiti narrativi fondati sul pericolo e l’aggressione. Per esempio, l’alieno di E.T. non suscita terrore, pur essendo la versione distorta di un bambino o dei suoi pupazzi, oppure, il Jack Nicholson di The Shining non suscita orrore in sé, ma solo grazie al suo comportamento, che rompendo regole e confini, si scontra con la concezione di morale riconosciuta dalla società. A partire dal binomio orrore/paura i registi costruiscono il racconto visivo necessario a creare una reazione nello spettatore. Per fare ciò ogni scena è studiata e realizzata seguendo alcune tecniche specifiche in grado di stimolare i sensi ed in particolare l’amigdala, porzione del cervello che gestisce le emozioni. È possibile ad esempio innescare un sentimento di paura tramite l’inquadratura a tutto schermo di un dettaglio, costringendo il movimento oculare dell’osservatore a soffermarsi sul particolare voluto. Un coltello che si conficca nella carne, una bocca spalancata, degli occhi terrorizzati, sono solo alcuni dei possibili elementi di cui un regista si può avvalere per indirizzare lo sguardo degli spettatori e controllarne le emozioni. In altri casi è possibile mostrare all’osservatore ciò che il protagonista della pellicola non può vedere e sfruttare questo effetto per allarmarlo ed intimorirlo. Egli è così in grado di immaginare in anticipo ciò che potrebbe accadere. Questa tecnica permette di creare un legame emozionale tra la vittima ed il pubblico che diviene attore passivo della scena senza poter in alcun modo intervenire. Questo legame può anche tradursi come identificazione con la vittima, che può avvenire anche grazie all’uso di inquadrature come le soggettive, in cui la scena viene ripresa esattamente dal punto di vista di uno dei personaggi, come se la si stesse vivendo attraverso i suoi occhi.
Espedienti horror
Jack Nicholson durante le riprese di The Shining (1980)
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Un altro elemento importante nella cinematografia horror e di cui i registi si avvalgono è il sangue. Mostrare del sangue può certamente avere un forte impatto a schermo, tuttavia il suo uso eccessivo potrebbe generare reazioni opposte a quelle sperate, ridicolizzando alcune scene altrimenti terrorizzanti. Un esempio molto rappresentativo di tutto ciò può essere rinvenuto nell’adattamento cinematografico del romanzo Misery (1987) di Stephen King, da parte del regista Rob Reiner. Nel romanzo infatti in una scena molto cruda, il protagonista subisce con un colpo d’ascia l’amputazione dei piedi. Tale scena all’interno della pellicola è stata sostituita da una versione apparentemente più soft, nella quale i piedi del protagonista vengono spezzati con una mazza. Il piede tagliato, sullo schermo, avrebbe rischiato di suscitare non solo ribrezzo, ma soprattutto una reazione simile a quella che si ha con le scene splatter, ovvero così esagerate da rasentare il ridicolo. Ecco perché vedere meno sangue e immaginare la sofferenza inflitta spesso può rendere la scena anche più agghiacciante. Tutte queste tecniche sono certamente necessarie per suscitare reazioni paurose in un pubblico; tuttavia, assistere ad una serie di scene di questo tipo causa una sorta di assuefazione, che porta a diminuirne o addirittura annullarne l’efficacia. Il nostro cervello infatti impara a riconoscere e di conseguenza a reprimere quella sensazione di profonda paura. I registi conoscono bene questo meccanismo ed ecco perché per stimolare sempre di più le nostre reazioni rappresentano scene in crescendo, nelle quali aumenta sempre di più la dose di terrore. Questi espedienti sono rappresentativi e ritrovabili in molte pellicole, sia horror che non, e mostrano l’attenzione e la cura nei dettagli che i registi pongono anche su una singola inquadratura. Iconica in particolare è la scena della doccia di Psycho (1960) di Alfred Hitchcock, nata da uno storyboard del designer statunitense Saul Bass. Per girarla sono state necessarie 72 posizioni della macchina da presa ed in soli 45 secondi ci vengono mostrate 35 inquadrature nelle quali è possibile individuare un uso sopraffino di molte delle tecniche sopracitate. Altro elemento fondamentale in Psycho è l’uso del bianco e nero che genera taglienti contrasti tra luce ed ombra ed in questo modo aiuta l’autore a modellare l’ambiente ed i personaggi, nascondendo elementi alla vista dello spettatore. L’uso del bianco e nero è certamente da far risalire all’origine della cinematografia, ed in particolare, un suo uso innovativo, può essere rinvenuto nel cinema cosiddetto espressionista, che tra gli anni dieci e venti del XX secolo porta elementi di forte rottura rispetto ai canoni realistici. Dal punto di vista stilistico infatti le luci sono usate in modo non naturalistico, creando toni cupi e minacciosi. Spesso alcune parti della scena rimangono in ombra, quasi a nascondere alla vista una parte del mondo rappresentato, creando un’atmosfera di mistero e inquietudine.
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Alfred Hitchcock, Psycho (1960)
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Il colore
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Vasilij Kandinskij, da Lo spirituale nell’arte (1909)
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Nel cinema horror, infatti, il non visto è estremamente importante ed è la chiave del meccanismo della paura. Il brivido è dato da tutto ciò che è allusione, sottrazione, tutto ciò che fa intuire, che si può immaginare al di là del fotogramma. L’immaginario visivo del cinema espressionista è caratterizzato da linee spezzate e ombre disegnate ed i personaggi spesso diventano sagome stilizzate e le ombre vivono di vita propria, fino a diventare quasi personaggi autonomi. Uno degli stilemi ricorrenti nel cinema espressionista, che continua nel cinema horror, è rappresentato per esempio dall’entrata in scena del personaggio malefico, che il più delle volte viene preceduto dalla propria ombra, come ad esempio avviene nella famosa sequenza in cui Nosferatu, il vampiro, fa la sua comparsa. Negli anni ’60 tuttavia, l’horror si allontanava dall’uso del bianco e nero introducendo contrasti di colore e palette cromatiche che permisero di intensificare il racconto visivo delle pellicole, andando ad influenzare e controllare le emozioni degli spettatori, in modo consapevole o subliminale. Il colore rappresenta tuttora un vibrante metodo di narrazione ed è divenuto un dispositivo chiave utilizzato per semiotica, espressione e intrattenimento. Già Kandinskij aveva individuato il potenziale narrativo ed emozionale intrinseco nel colore e teorizzò una psicologia ad esso legata. Affermò che il colore può avere due possibili effetti sullo spettatore: uno fisico, superficiale e basato su sensazioni momentanee ed uno psichico dovuto alla vibrazione spirituale attraverso cui il colore raggiunge l’anima. L’effetto psichico del colore è determinato dalle sue qualità sensibili: il colore ha un odore, un sapore, un suono. Perciò il rosso, ad esempio, risveglia in noi l’emozione del dolore, non per un’associazione di idee, rosso-sanguedolore, ma per le sue proprie caratteristiche, per il suo suono interiore. “Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde”5. Nella maggior parte della cinematografia horror è possibile individuare l’uso ricorrente di alcuni colori. Spesso può essere riconosciuta una tonalità monocromatica nella quale spiccano sprazzi di blu e rosso, che generano impostazioni oscure ed inquietanti permettendo di rievocare sensazioni di morte, violenza, ed angoscia.
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Nosferatu il vampiro, film muto diretto da Friedrich Wilhelm Murnau (1922) Twin Peaks, serie televisiva statunitense ideata da David Lynch e Mark Frost (1990/91)
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Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde. Vasilij Kandinskij, Lo spirituale nell’arte (1909)
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Questa palette cromatica rappresenta un leitmotiv che non è tuttavia esente da variazioni. Tim Burton ad esempio nei suoi film quali Sleepy Hollow, Sweeney Todd e Corpse Bride, predilige un uso preponderante di tonalità grigio/blu che permettono di creare un’atmosfera agghiacciante, in cui i colori freddi dominano la scena. David Lynch al contrario nei suoi horror neo-noir predilige colori vibranti, caldi e vellutati in cui il rosso prende il sopravvento, creando effetti disorientanti e surreali, come è visibile in Blue Velvet o Twin Peaks. In altri casi i registi optano per incrementare l’intensità del colore, creando così un brivido meno prevedibile e più psicologico. Dario Argento nel suo capolavoro Suspiria (1977) mostra con efficacia l’utilizzo di questa tecnica. Colore e luce si fondono immergendo l’ambientazione in un chiarore quasi al neon che avvolge i personaggi e gli spettatori intensificando la sensazione di psicosi. L’illuminazione rossa che permea la scenografia genera violenti bagliori che rendono l’intera pellicola un incubo ineludibile. Argento abbina l’intensità del rosso ad un blu agghiacciante creando una combinazione che suscita emozioni e sentimenti contrastanti; ghiaccio freddo/rosso caldo e calma/pericolo. Solitamente siamo abituati a considerare la luce come un elemento tranquillizzante e la cinematografia horror, nella maggior parte dei casi, riprende questa concezione mettendo in scena l’eterna lotta tra luce ed ombra, in cui il visibile ed il non visibile sono giustapposti offrendo da una parte salvezza e dall’altra pericolo. La luce generalmente ha una funzione rassicurante, basti pensare alla paura infantile di una stanza buia, che svanisce con la sola presenza di una fonte luminosa. Dario Argento tuttavia in Suspiria ci rivela come anche la luce, associata a colori che risvegliano in noi sensazioni angosciose, possa essere, al pari del buio, strumento di terrore. La luce può quindi avere su di noi effetti ambivalenti.
Dario Argento, Suspiria (1977)
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Il potere del suono
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Michel Chion (Creil, 1947) è un critico, compositore, regista di film e video e teorico dell’ascolto e dell’audiovisione francese.
Nella regia cinematografica, la progettazione del suono è una parte essenziale per la comprensione del film in quanto è in grado di determinarne completamente l’atmosfera generale e di dare una forma al modo in cui lo spettatore interpreta un’immagine. Spesso tende a passare in secondo piano, ma è una delle componenti più significative in una pellicola, indifferentemente dal genere. Le scelte sonore infatti hanno lo stesso valore, se non maggiore, della scelta di un determinato colore o di una particolare inquadratura. L’immagine non può prescindere dal suo rapporto con il suono: non si vede la stessa cosa se allo stesso tempo non la si sente. Esso non si limita ad accostare ciò che già si vede sullo schermo, ma riesce ad esprimere ciò che da sola l’immagine non esprime, restituendone il significato inespresso. Michel Chion6 parla di valore aggiunto inteso come “valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un’immagine data sino a far credere, nell’impressione immediata che se ne ha o nel ricordo che si conserva, che questa informazione o espressione, si liberi naturalmente da ciò che si vede e sia già contenuta nella sola immagine”. Nell’ambito della cinematografia horror questo aspetto è ancora più evidente. Se un regista di un film horror si concentrasse solamente sulle componenti visive, per spaventare e terrorizzare il pubblico, il risultato non sarebbe efficace. L’utilizzo di componenti visive quali sangue, luoghi oscuri, volti spaventosi ed altri elementi in grado di generare inquietudine, devono essere accostate a componenti sonore come ad esempio l’utilizzo di urla, passi, suoni ambientali, musiche e rumori minacciosi, per conferire il cosiddetto valore aggiunto all’immagine. In questo modo il sonoro diviene parte essenziale per la narrazione e per la resa complessiva del significato filmico.
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Valore aggiunto: valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un’immagine data sino a far credere, nell’impressione immediata che se ne ha o nel ricordo che si conserva, che questa informazione o espressione, si liberi naturalmente da ciò che si vede e sia già contenuta nella sola immagine Michel Chion, L’audiovisione, suono e immagine nel cinema (1997)
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Il personaggio nascosto
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Lo squalo (1975) di Steven Spielberg. Colonna sonora a cura di John Williams
Come progettare l’elemento sonoro nei film horror? Quali sono le fasi e gli elementi da tenere in considerazione? La componente che sta alla base della progettazione sonora è la paura dell’ignoto: lo spettatore tende a spaventarsi maggioarmente per ciò che non può vedere. Infatti, quando non ha la possibilità di identificare visivamente il pericolo, non sa a cosa sta andando incontro e si sente ancora più esposto e minacciato. Nel momento esatto in cui il pericolo viene svelato, la tensione diminuisce immediatamente, mentre la precedente attesa di scoprire il volto di tale minaccia è ciò che ha trasmesso ansia e agitazione nella mente dello spettatore. E’ in questo contesto che il suono gioca un ruolo essenziale. Infatti, come si può nascondere un personaggio alla vista dello spettatore ma allo stesso tempo renderlo percepibile? Il suono può essere considerato l’unico elemento in grado di definire la presenza di un personaggio ignoto senza l’impiego di componenti visive rivelatorie. Per questo motivo durante una scena, molte volte fa più paura ascoltare che vedere in quanto inconsapevolmente lo spettatore assume consapevolezza del possibile arrivo di una minaccia. Un esempio che esprime al meglio questo concetto lo troviamo nel film Lo squalo7. Un film di tensione ed attesa dove Spielberg non ha bisogno di mostrare troppo a lungo il mostro ma vuole creare l’idea di esso. Si tratta infatti di un pericolo nascosto, che prende corpo nell’immaginazione dello spettatore prima ancora che nella realtà delle immagini. Lo squalo non si vede, compare solo al minuto 65 della pellicola ed è attraverso ritmo e musica che Spielberg riesce a mostrare una presenza che non c’è. La musica extradiegetica del compositore americano John Williams avverte lo spettatore sull’arrivo del mostro divenendo un suggerimento per chi guarda il film. Essa sale d’intensità quando l’entità misteriosa si avvicina sempre di più. Il ritmo serrato del violoncello, dei fiati e del contrabbasso, le basse e scarne note disposte in modo crescente ed ossessivo vogliono raffigurare l’attacco dello squalo. Un rumore brusco, alla stessa maniera, crea spavento immediato, la paura per qualcosa che sta avvenendo: per questo motivo è ricorrente nei film horror utilizzare inquadrature inaspettate di pochi frame accostate a suoni improvvisi e intensi, quello che in gergo viene chiamato jumpscare.
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Parte della locandina de Lo squalo di Steven Spielberg (1975)
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Il pianista, Roman Polański (2002) The Shining, Stanley Kubrick (1980)
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Sottofondo
Nella progettazione di tale personaggio nascosto ci sono sei fattori che giocano un ruolo estremamente importante. I suoni di sottofondo, nonostante non siano i suoni principali all’interno di una scena, sono i primi ad essere percepiti dallo spettatore e sono quelli in grado di aiutarlo ad immergersi all’interno del mondo cinematografico, rendendo il tutto più veritiero e definendo spazio e tempo. Una scena, infatti, può cambiare completamente di significato in base all’ora ed al luogo in cui ci si trova. E’ ambientata durante il giorno o la notte? In un luogo affollato o completamente isolato? Il suono di background ha quindi come funzione quella di definire la rappresentazione di un determinato ambiente. I motori accesi delle auto in movimento, il brusio di una folla, il ticchettio delle macchina da scrivere in un ufficio, il sibilare del vento che soffia fra le foglie degli alberi o rumori extraterrestri sono tutti effetti sonori essenziali alla definizione del contesto ambientale in cui si svolge una determinata sequenza. Il suono ambientale ha anche una funzione unificante in quanto avvolge le diverse componenti visive in un unico continuo flusso sonoro in grado di catapultare lo spettatore nell’atmosfera che si vuole creare. In una delle prime scene de Il Pianista, di R. Polański, lo spettatore viene introdotto in un ambientazione pacifica, la musica del pianoforte viene però brutalmente interrotta dal suono dello scoppio di una bomba proveniente dall’esterno anticipando allo spettatore che ci si trova in un contesto di guerra. Il tono prepara lo spettatore al contesto della scena trattata facendogli capire se essa sia spaventosa, ironica o pacifica. Sebbene negli horror la maggior parte delle volte il tono può sembrare scontato, bisogna comunque conferirgli la giusta cura nella progettazione. Specialmente nell’introduzione del personaggio nascosto bisogna essere in grado di creare l’atmosfera adatta. In questo contesto, la musica gioca un ruolo essenziale. L’utilizzo di una musica dai toni forti, cupi e pesanti o di una musica allegra e melodica può cambiare totalmente la percezione della scena. Molte inquadrature prive di elementi visivi forti assumono tensione solamente grazie al tipo di musica associata. Inoltre, come già citato, se una determinata musica o suono viene utilizzata più volte per introdurre l’arrivo di una minaccia che segue, per tutto il resto del film le prime note di questa, verranno automaticamente associate alla minaccia in arrivo. Nei primi minuti di The Shining, nonostante vengano inquadrati paesaggi pacifici, l’inquietante incipit sonoro che accompagna la salita di Jack Torrance all’Overlook Hotel, definisce completamente il tono generale del film e l’atmosfera che seguirà. In questo caso la colonna sonora risulta essere un vero e proprio valore aggiunto alla scena. .
Tono
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Introduzione
Dopo aver identificato il luogo e il momento della giornata in cui ci si trova, lo spettatore comincia a domandarsi se ci siano altri personaggi o elementi all’interno della scena, essenziali per la narrazione. Se l’intento è quello di introdurre la presenza di una minaccia nascosta e soprattutto non identificabile, l’introduzione di piccoli suoni inquietanti allarma lo spettatore. L’utilizzo di passi in lontananza, di uno scricchiolio di una porta, un respiro più profondo o voci confuse sono gli espedienti utilizzati maggiormente nella storia cinematografica e soprattutto i più efficaci nella creazione di tensione. Il silenzio ha un ruolo estremamente essenziale in quanto può aumentare ulteriormente la tensione e l’attesa del protagonista o dello spettatore come accade in Profondo Rosso, all’interno della scena del pupazzo meccanico. Lo spettatore, consapevole dell’esistenza di un personaggio estraneo ed indistinto, si domanda immediatamente quale sia la forma ed il ruolo di quest’ultimo: se si tratta di una presenza innocua o pericolosa, quale sia il suo intento, se sia reale o qualcosa di indefinito. Il suono può suggerire tantissimi elementi in risposta a queste domande. La velocità e la pesantezza dei passi, il tipo di respiro, la presenza di altri oggetti con sé possono creare nella mente dell’utente un’immagine anche senza vedere oggettivamente il personaggio. Un’altra componente descrittiva è il tipo di voce del personaggio. Essa infatti è l’elemento che svela maggiori dettagli su di esso. L’utilizzo di un tipo di voce o di un altro determina lo stato emotivo di un personaggio. La voce può essere tagliente, piatta, profonda o robusta. Le persone cambiano voce in relazione al loro stato d’animo e di conseguenza ne svela l’intento. In questo contesto inoltre, è particolarmente importante la sperimentazione: si combinano suoni diversi dal solito che acquisiscono comunque un valore semantico idoneo alla situazione rappresentata. Prendendo ad esempio Godzilla, di Roland Emmerich (1998), in una scena, ambientata in un contesto metropolitano, l’arrivo e l’intento del mostro viene svelato solamente tramite l’utilizzo del suono. Il mostro inizialmente non si vede ma il rumore assordante dei passi, fa intuire che non si tratta di una creatura umana ma qualcosa di immensamente grande tanto da far tremare le macchine in coda al semaforo. Inoltre l’introduzione di urla spaventate dei cittadini aumenta la tensione della scena definendo che si tratta sicuramente di una minaccia.
Intento
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Dario Argento, Profondo Rosso (1975) Roland Emmerich, Godzilla (1998)
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Prossimità
Uno degli elementi più importanti è la definizione della vicinanza del personaggio. Ovviamente maggiore è la vicinanza, maggiore è la paura nello spettatore. Se si desidera creare un effetto di tensione dilatata nel tempo bisogna progettare una maggiore distanza tra la minaccia ed il protagonista, lentamente avvicinarlo fino ad arrivare allo spavento finale. Se si desidera creare invece, un effetto jumpscare immediato, la vicinanza della minaccia dovrà essere minima. Nella storia del cinema entrambe le tecniche vengono usate. I suoni soggettivi sono quei suoni che il personaggio immagina e sente solamente nella propria mente. Questi possono essere rappresentati da fruscii, forti impatti e altri suoni extradiegetici. Più chiaramente, i suoni soggettivi sono solamente metaforici. In molte scene cinematografiche, il protagonista vede e sente ombre o presenze in realtà inesistenti, lo stesso meccanismo viene utilizzato con il suono: un contesto di paura fa percepire al protagonista rumori sospetti. Molti di questi vengono percepiti come minacciosi nonostante siano innocui o addirittura semplicemente frutto dell’’immaginazione. Ciò accade in quasi tutti i film horror o thriller, ad esempio in numerose scene di The Others la protagonista percepisce strane presenze all’interno della propria abitazione anche quando non sta accadendo nulla di scoinvolgente e pericoloso.
Suoni interni
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Jumpscare, Paranormal Activity, Oren Peli (2010) Nicole Kidman in The Others, Alejandro AmenĂĄbar (2001)
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Quante volte c come intrappo scatola buia a l nostre paure qu
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ci troviamo olati in una lottare con le uotidiane?
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Concept
Concept La fase di analisi e ricerca iniziale ha aperto a numerosi scenari di riflessione su tematiche differenti ed il passo successivo è stato quello di definire una nostra area di progetto.
Il nostro immaginario
Ipotesi di progetto
La sfida che abbiamo dovuto affrontare è stata quella di realizzare un artefatto che avesse come tema un sentimento complesso, dalle varie sfaccettature: la paura. Fondamentale è stato quindi prendere coscienza di una sensazione primordiale già ampiamente indagata e comprendere come trasmetterne una nostra peculiare visione. Sicuramente non volevamo scadere nel banale concetto di spavento, né sminuire il nostro progetto realizzando una scontata casa degli orrori. Guardando perciò alle nostre esperienze personali e provando a risalire alla nostra percezione di paura abbiamo analizzato questo stato d’animo esaminandone i molteplici aspetti, diversi ma generati da una comune matrice, impossibili da analizzare e raccontare in un singolo progetto. Prima di giungere ad un concept di progetto definitivo, quindi, sono state indagate molte vie, ognuna delle quali poneva il focus su aspetti differenti: tra queste ne abbiamo individuate tre che ci hanno permesso di intraprendere un percorso verso la creazione di un nostro immaginario della paura. Abbiamo scartato una prima ipotesi sul mondo dello Shock Adv, parte fondamentale della comunicazione visiva moderna. L’utente medio si sente molto informato, ma basta una campagna che faccia leva su alcune sue paure per renderlo vulnerabile e spingerlo a sentire la necessità di affidarsi alla soluzione proposta. Il progetto si sarebbe tradotto in un percorso visivo nel quale l’utente avrebbe dovuto mettersi alla prova per scoprire se e in che modo veniva influenzato dalla campagna e dal brand proposto. La seconda ipotesi considerata si poneva come obiettivo una classificazione delle paure che ci accompagnano sin dall’infanzia e che spesso portiamo con noi per tutta la vita. L’aspetto interessante sarebbe stato comprendere come queste paure siano legate alla nostra età e alle nostre esperienze passate. Nella terza idea di progetto, quella che più si avvicinava al concept finale, anche se è stata poi totalmente stravolta durante il percorso, l’utente non sarebbe stato solamente un soggetto passivo a cui incutere timore, al contrario avrebbe dovuto spaventare un fantoccio dall’aspetto tenero ma al tempo stesso inquietante. Provando a percorrere questa terza via, abbiamo cercato inizialmente di comprendere quali potessero essere le reazioni nel vivere questo tipo di esperienza; abbiamo quindi approfondito il tema dello screditamento della paura, la possibilità cioè di superare le nostre
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Paure quotidiane
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inquietudini attraverso il processo razionale e logico della nostra mente, tornando così ad essere padroni di noi stessi. La presa di coscienza delle proprie paure, infatti, svolge una funzione catartica che ne permette il superamento rimuovendo i blocchi emozionali e le difese dell’Io. Dopo aver preso in esame le numerose sfumature che il concetto di paura racchiude in sé, abbiamo deciso di focalizzarci solo su alcuni aspetti del termine indagato, restringendo il campo a tutte quelle paure che condizionano la nostra quotidianità. Vi sono persone che evitano di camminare sopra ad una grata o di passare sotto una scala o che accendono immediatamente le luci in una stanza buia per assicurarsi che non ci sia nessuno. Sono azioni a cui normalmente non diamo troppo peso o rilevanza, ma che in realtà ci condizionano, influenzando i nostri comportamenti quotidiani. Le nostre reazioni così istintive si situano in una indefinita zona grigia tra le paure irrazionali e razionali, che ci impongono un grande sforzo fisico e mentale e alle quali sentiamo il bisogno di reagire. Soltanto l’intervento della nostra psiche riesce a gettare un po’ di luce aiutandoci a distinguere le paure immaginarie da quelle reali. L’origine di queste piccole paure deriva da un immaginario già presente in noi e le risposte istintive sono alimentate da fantasie generate dalla nostra stessa mente. Noi abbiamo voluto sperimentare questo meccanismo utilizzando ombre e luci per provocare una forte reazione emotiva: da qui nasce il nostro personaggio.
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Concept
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Bu è il nome del nostro personaggio. In lui sono racchiuse tutte quelle paure quotidiane che spesso ci portiamo appresso sin dall’infanzia e che influenzano le nostre azioni in modo consapevole e non. Bu incarna quindi tutta la serie di paure che vengono ingigantite dalla nostra percezione e dal contesto in cui sono calate. La razionalizzazione di tali paure può portare a comprenderle e a ridimensionarle ed è proprio attorno a questo concetto che ruota il nostro immaginario e successivamente la nostra esperienza. Bu tenta ossessivamente d’inserirsi nella giornata di ciascuno di noi facendoci agire nel nostro quotidiano guidati dalla paura, prendendosi gioco della nostra immaginazione e percezione. Il racconto visivo che si genera attorno alla figura di Bu è certamente derivato da formule di tipo infantile che permeano le sembianze del personaggio quanto l’ambiente e la narrazione in cui si inserisce.
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L’aspetto infantile viene messo in evidenza dallo stesso naming, infatti, la formula bu, tipicamente usata per spaventare in modo giocoso i bambini, viene attribuita al personaggio facendo già presagire la sua natura innocua. Tuttavia Bu si rivela inizialmente all’osservatore come una figura indefinita, in cui gli unici elementi riconoscibili sono gli occhi, che incontrano lo sguardo dello spettatore in modo minaccioso ed incombente. Il bagliore rosso che li contraddistingue ne aumenta la connotazione terrificante invocando sensazioni di pericolo. La vera natura di Bu è però quella di un esserino minuto ed in realtà innocuo, che si cela nell’oscurità agli occhi di tutti noi. Una volta accesa la luce della ragione infatti siamo in grado di svelare la vera essenza del personaggio che, in un sistema catartico, permette di comprendere, accettare e superare le nostre paure.
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Bu assume forme stilizzate ed infantili ed il suo strumento di terrore, gli occhi, si svuotano del loro bagliore rosso e si trasformano divenendo sferici e bianchi. Questa è la natura delle nostre paure quotidiane: basta pensare razionalmente per rendersi conto della loro reale entità ed estensione.
Basterebbe ric che spesso la co semplice è acce
cordarsi osa piĂš endere la luce.
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Esperienza
Esperienza L’esperienza dell’utente comincia ancor prima dell’effettivo arrivo all’installazione. Precedentemente all’esperienza vera e propria, è stata infatti progettata una dimensione di anticipazione dell’evento nella quale l’intento è stato quello di immergere l’utente in uno stato di mistero ed inquietudine per poter generare curiosità e un desiderio di conoscenza in esso.
Artefatti comunicativi
Manifesto
La fase di pre-esperienza riguarda tutto il periodo antecedente l’effettivo arrivo dell’utente all’installazione. Si tratta di una dimensione di anticipazione dell’evento nella quale l’intento è stato quello di creare uno stato di mistero ed inquietudine per poter generare curiosità e desiderio di conoscenza. I contenuti che vengono presentati attraverso gli artefatti comunicativi sono volutamente misteriosi e privi di dettagli per mantenere un’atmosfera generale di ambiguità. Visivamente tutta la fase che precede l’esperienza, infatti, è caratterizzata da uno stile molto scuro, vago e tenebroso dove pochissimi elementi permettono di svelare solo le informazioni di base riguardanti l’evento. I colori che caratterizzano questo immaginario sono unicamente due: il rosso e il nero. Il nero cupo vuole generare un effetto di ignoto e oscurità contrapposto alla vividezza di un rosso acceso, che richiama l’attenzione di chi osserva, rivelandogli maggiori informazioni. La presenza di due grandi occhi rossi in un contesto completamente neutro ed indefinito è l’elemento caratterizzante e ricorrente. L’obiettivo è quello di fissare nella mente dell’osservatore questa semplice ma forte immagine e soprattutto di domandarsi di chi siano questi occhi e quale sia l’intento dello strano personaggio nascosto. Il primo touchpoint tra l’utente e la presenza di questo misterioso personaggio è il manifesto. Seguendo la logica di mantenere un profilo analogico, il manifesto è stato creato fotografando un papercut con una luce retrostante composto da quattro livelli di carta in modo da creare il gioco di ombre caratteristico del linguaggio comunicativo adottato in tutto il progetto. La realizzazione del manifesto tramite questi livelli di carta ha permesso la progettazione di una campagna teaser che prevede la sua diffusione nelle strade della città in quattro differenti versioni che vanno a rappresentare le quattro differenti fasi di costruzione dell’artefatto.
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Esperienza
Cerchiamo così di generare curiosità e mistero nell’utente fornendo le informazioni complete sull’evento solamente la settimana antecedente ad esso. Nella prima fase il manifesto è costituito solamente da un background nero sul quale contrastano i due occhi inquietanti di un colore rosso acceso. In basso a destra, la presenza di un sito internet suggerisce all’utente una possibile fonte di maggiori informazioni. Procedendo nelle tre successive settimane il manifesto si evolve: piccoli layer di carta vengono aggiunti come cornice, andando a mostrare man mano maggiori informazioni sull’evento quali nome, data e luogo. I livelli di carta aggiunti sono un richiamo alla tecnica con cui sono state realizzate le lightbox con cui l’utente entrerà in contatto quando visiterà l’installazione.
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Sito web fase uno
Il sito opera da secondo touchpoint introdotto allo scopo di svelare la figura archetipale del nostro personaggio e le informazioni di base per la partecipazione all’evento. Anch’esso è stato suddiviso in due versioni che vanno evolvendosi tra il pre e il post esperienza. Nella fase di teasing iniziale il sito svela qualche dettaglio in più rispetto al manifesto ed è composto da una sola schermata principale contenente pochi elementi significativi per la comprensione del concept. Il primo elemento che salta all’occhio dell’utente è la presenza di un’illustrazione che svela una delle scene delle lightbox che sarà poi visibile all’evento. L’illustrazione è composta da sette diversi layer animati da un effetto di parallasse, fenomeno per cui un oggetto sembra spostarsi rispetto allo sfondo se si cambia il punto di osservazione. Muovendo il mouse all’interno della scena, i layer si spostano leggermente in direzioni e tempi diversi, generando un effetto tridimensionale dando all’utente la sensazione di interagire con una vera e propria lightbox. In basso, la presenza di un countdown, tiene il conto del tempo rimanente all’arrivo dell’evento. Con l’evolversi della campagna teaser vengono mostrate una dopo l’altra le informazioni essenziali quali nome, data e luogo e vengono aggiunti i layer della scena. Scorrendo verso il basso, l’esperienza all’interno del sito prosegue, vari piccoli occhi rossi invadono lo schermo e vanno ad incorniciare una frase che attrae subito l’osservatore: “Quante volte ci troviamo intrappolati come in una scatola buia a lottare contro le nostre paure quotidiane?” Si tratta di una domanda legata alle esperienze di vita di ogni singolo utente: le paure quotidiane di ognuno vengono messe in evidenza tramite questa provocazione con lo scopo di stimolare la curiosità verso il contenuto dell’evento e la ragione della presenza di questi occhi rossi. Il tono è colloquiale per chiamare in causa il lettore e attirare la sua attenzione. Tutto è volto a far arrivare l’utente all’esperienza con una particolare predisposizione emotiva grazie alle sensazioni stimolanti provocate dalla curiosità.
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Lightbox e box
La seconda fase affrontata dall’utente è quella composta dalla partecipazione vera e propria all’installazione. Appena arrivato l’utente si troverà di fronte quattro piccole lightbox ed una grande box nella quale dovrà entrare per scoprirne il contenuto: la narrazione comincia dalle prime tre piccole lightbox; continua poi con l’interazione con la box principale, creando una vera e propria immersione dell’utente nell’esperienza; si conclude infine con l’ultima lightbox che esplicita il contenuto del messaggio che vogliamo veicolare.
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Lightbox I, Metro
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Lightbox II, Periferia
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Lightbox III, Cambiamento
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Lightbox IV, Svelamento
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Cartolina
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L’intento dell’ultima fase è quello di smorzare e sminuire tutta la tensione accumulata precedentemente per poter svelare il reale contenuto del messaggio che questo percorso vuole generare. Inoltre vuole lasciare in chi vive l’esperienza un ricordo che riassuma tutto il percorso effettuato e la consapevolezza acquisita. Dopo aver partecipato a tutta l’installazione l’utente potrà prendere e portare via con sé una cartolina. Quest’ultima, in formato A6, presenta sul fronte uno sfondo tutto nero sul quale è posta in contrasto la piccola figura di Bu che va a completare il logo iniziale composto solamente dal naming, mentre nel retro vi è riportata una filastrocca descrittiva del personaggio che aiuta a comprenderne meglio lo spirito ed il significato. L’intento della filastrocca è quello di sottolineare il concept di base in un modo originale e scherzoso.
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La filastrocca inoltre è un espediente utilizzato frequentemente nell’ambito della cinematografia e dei racconti del terrore. Essa infatti, con le sue rime, è in grado di rimanere impressa nella mente di chi la legge o ascolta, generando una sorta di inquietudine ed ossessione. Nel nostro caso il suo utilizzo è stato un richiamo anche all’universo infantile, in quanto la maggior parte delle paure irrazionali e soggettive che affrontiamo sono legate all’infanzia.
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Sito web fase due
Il sito internet dopo l’esposizione si evolve. Alla prima parte del sito, già visualizzata, viene aggiunto un approfondimento. L’utente ha la possibilità di ripercorrere una sorta di sintesi della tensione e dello svelamento vissuto durante la partecipazione all’installazione. Dopo la domanda provocatoria, l’utente visualizza l’immagine della parete frontale presente all’interno della box raffigurante un ambiente inquietante ed indefinito. Esso ha la possibilità di sostituire quest’immagine con quella dell’ultima lightbox raffigurante la reale debolezza di Bu. Scorrendo verso il basso infatti i vari layer della prima immagine vanno a sostituirsi gradualmente con quelli dell’ultima. Infine un’ultima frase vuole riassumere metaforicamente la morale che intendiamo trasmettere: “Basterebbe ricordarsi che spesso la cosa più semplice è accendere la luce.”
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Una narrazione Diffondere il messaggio
Cattivik, personaggio dei fumetti creato da Bonvi, e poi regalato a Silver (1967)
Bu viene supportato da una narrazione che dà senso a tutta l’esperienza: un’esperienza che ha un inizio e una fine, un incipit e un climax, e in cui ogni parte è strettamente correlata all’intreccio della fabula che abbiamo creato, in un mondo narrativo unico. Tutto è funzionale al messaggio finale della narrazione, al narrare all’utente che la paura è solo un costrutto della realtà, e come tale un’illusione. Ma ciò è solo quello che abbiamo deciso di raccontare. In fondo la nostra narrazione non pretende di raccontare la realtà.La realtà nelle narrazioni non esiste, esiste solo un’interpretazione, è ciò che vogliamo raccontare che può essere più o meno veritiero. Si è scelto di mantenere un sistema di valori coerente che si rifà al mondo infantile. Anche il nome del personaggio rievoca l’espressione di scherzo che si fa per spaventare i bambini. Lo stesso personaggio ricorda più Cattivik di Silver, anche nel suo voler essere cattivo rimanendo un poco goffo ed impacciato, piuttosto che un mostro tipico dei film horror più inquietanti. La suspense creata dal teaser ed i colpi di scena improvvisi che abbiamo creato sono scenari comuni al mondo del cinema horror, ma il contesto visivo è proprio dell’immaginario infantile. Bu incarna le caratteristiche e i paradossi della paura senza mai esplicitarli apertamente e al contempo la esorcizza trasportandola nel mondo dell’infanzia.
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Non c’è dubbio: la narrativa fa un lavoro migliore della verità Doris Lessing
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Struttura drammaturgica in tre atti di Sydney Alvin Field
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Transformational moment
CLIMAX
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Sydney Alvin Field è stato uno sceneggiatore statunitense, di stampo strutturalista.
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Nel percorso della nostra narrazione abbiamo giocato sul rapporto fiduciario con il narratario: inizialmente abbiamo dato poche informazioni per incuriosirlo, facendo vedere un Bu atterrante, malvagio; siamo passati poi tra vari livelli narrativi per stravolgere questo concetto arrivando a un finale a sorpresa che ribalta ogni aspettativa, seguendo in un certo qual modo la struttura narrativa ipotizzata da Syd Field8, con l’intenzione di creare nell’utente un forte coinvolgimento. L’accorgimento più importante è stato quello di non frammentare il bacino semantico, non divagando e mantenendo lo stesso sistema di segni e le stesse tecniche narrative. Così abbiamo creato il nostro storyworld: un mondo di carta, fragile, come il nostro animo sottoposto alla paura; un mondo di ombra, dove le poche luci enfatizzano ciò che sta accadendo; un mondo dove la nostra immaginazione è protagonista quanto il personaggio principale. Per fare ciò ci siamo basati su strutture sintetiche universali, come il nostro approccio alla paura; ad isotopi immaginativi, emozioni dal subconscio che agiscono da catalizzatori per imprimere nella mente la nostra storia; al gioco luce/ombra, in cui l’ombra indica la nostra parte oscura, la parte che non sappiamo gestire; a figure architepali di tipo junghiano: la rappresentazione visiva dell’alter-ego dell’utente è, l’archetipo della maschera e figurazione del suo ego, mentre il nostro personaggio Bu da animus ombra, mascolinità tenebrosa, si trasforma nell’immagine dell’imbroglione, altra figura archetipa del mondo junghiano. Abbiamo cercato di far sembrare l’animus ombra il fulcro del nostro racconto, ma in verità il protagonista cambia ogni volta che qualcuno fa l’esperienza, perché è l’utente ad esserlo veramente, impersonificandosi lui stesso nella figura archetipale della maschera ed entrando effettivamente nella narrazione.
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In verità abbiamo voluto che l’istanza narrante della storia non fosse il nostro personaggio, ma le suggestioni visive: ciò porta il narratario ad essere contemporaneamente anche narratore, indotto a costruirsi un immaginario personale dal nostro mondo figurale. Lo spazio immaginario è uno spazio metropolitano che si trasforma in uno spazio interiore. Si passa dal macro, la città, al micro, la nostra mente, in una visione narrativa che ha gli stessi intenti semantici delle carrellate in avanti proposte da Hitchcock. In questo modo si crea un’interazione particolare con la storia: con chi si crea effettivamente il conflitto? È un conflitto con il personaggio Bu, o un conflitto interiore contro la nostra incapacità di non cadere in false paure create dall’immaginazione? Il vero contendente è il nostro Es, di cui forse Bu è solo l’impersonificazione, in conflitto con il nostro Io e Super-io, quest’ultimo condizionato dalla nostra narrazione.
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bu.
Esperienza
Il nostro racconto
La narrazione crea un effetto domino in cui ogni step trascina il successivo fino ad arrivare ad una conclusione inevitabile. Abbiamo ipotizzato un mondo ordinario, un mondo urbano in cui una persona, la suddetta maschera junghiana, torna a casa. Un treno sopraelevato preannuncia la fine del lavoro, la sera spaventosa del pendolare che torna a casa nella cittĂ buia e angusta.
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bu.
Esperienza
Rimaniamo poi nello stesso contesto metropolitano, ma in un ambiente piÚ buio: è la città con tutte le sue ombre e tutte le sue suggestioni. Panni appesi tra i palazzi lasciano intravedere vicoli angusti in cui la maschera si addentra con un nodo alla gola. Le paure ancestrali salgono dal suo inconscio senza un ragionevole motivo.
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Esperienza
In seguito questo mondo si trasforma in qualcosa di irreale, i palazzi trasmutano, si deformano, diventano una foresta di alberi intrecciati, una ragnatela di timori, trasposizione di un’immaginazione, una paura di difesa che solo la coscienza del reale potrà dipanare. Qui si presenterà l’incidente scatenante, si manifesta visivamente la paura arrivando alla prima soglia di svolta di Field.
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Esperienza
Da quel momento entra in gioco il conflitto, fattore determinante di qualsiasi narrazione. Si scatena la guerra contro la paura: suoni, luci, figure inquietanti. Gli occhi di Bu spiazzano l’utente, lo lasciano davanti al velo di Maya, ma è lì che si svolge la battaglia finale. Ci si ritrova come invischiati nella trappola della paura, una ragnatela crudele che inibisce ogni nostra impavidità, la ragnatela dell’ignoto. L’utente ha un engagment immediato in cui percepisce il contenuto semantico del nostro racconto.
Dettaglio dell’interno della box durante l’asperienza
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Esperienza
L’ultimo atto della narrazione provoca il risveglio: Bu si manifesta per un esserino innocuo, come innocua diventa la nostra immaginazione una volta che si prende coscienza della realtà. Arriva il momento dello svelamento, tutto diventa chiaro, un momento che esplicita la narrazione enfatizzandone il climax, il punto di svolta della storia che apre gli occhi al narratario.
Dettaglio dell’interno della box durante l’asperienza
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Paura: un’analisi Esperienza
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Vladimir Yakovlevich Propp (1895 - 1970) studioso sovietico che ha analizzato i racconti popolari russi per identificare i loro elementi narrativi più irriducibili.
Esperienza
A questo punto ci si impone come esseri imperiosi di fronte alle nostre ingenuità, ci prepariamo a quello che nelle fiabe Vladimir Propp9 identifica come il ritorno dell’eroe, che torna a casa con nuove consapevolezze. Un’imperiosità evidente nell’ultima sequenza dove la maschera si trova vicino al personaggio Bu, diventato l’archetipo dell’imbroglione. Ora è piccolo come sono piccole le nostre paure una volta smascherate. Una filastrocca infine ci racconta la vera natura di Bu, ma solamente dopo il momento epifanico, solo per confermare le nostre certezze acquisite.
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Jean-Marie Floch (1947 – 2001) semiologo e pubblicitario francese. 11
Paul Ekman (Washington, 15 febbraio 1934) è uno psicologo statunitense. È divenuto, grazie alle sue ricerche scientifiche, pioniere nel riconoscere le emozioni universali grazie alle espressioni facciali.
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Robert V. Kozinets (1964) è un esperto riconosciuto a livello mondiale su social media, ricerche di mercato e branding.
Esperienza
L’engagment è possibile grazie ai meccanismi sensoriali che abbiamo instillato con la nostra esperienza, meccanismi di paura e della sua catarsi, quei meccanismi emotivi comuni a tutto il genere umano. Perché non è la razionalità che attiva la nostra attenzione, quanto la risposta emotiva che le sensazioni che abbiamo cercato di trasmettere ha provocato. La nostra narrazione potrebbe creare altre mille scenari legati a questo concetto, ma sempre stando attenti a non guardare altrove, non perdere il filo. Il nostro personaggio dovrà mantenere le stesse intenzioni anche se le sue emozioni potranno essere mutevoli. L’aspetto, come abbiamo dimostrato, non è importante se si hanno questi fattori: Bu da due occhi spaventosi si trasforma in un innocuo esserino, senza cambiare comunque le sue inclinazioni caratteriali mantenendo un senso coerente alla narrazione. Per Floch10 il senso è generato e prodotto in una logica narrativa, una struttura riempita con figure e segni. Il senso della nostra esperienza è dato dall’ambiente di luci e ombre, dal sistema audiovisivo e, soprattutto, dal personaggio di Bu. Queste figure e segni creano un messaggio codificato dai nostri sensi, da un’emozione primaria come quella della paura che Ekman11 annovera tra quelle universali. Per questo pensiamo che la nostra narrazione sia in grado di arrivare anche in ambienti transculturali, perché tratta un’emozione comune a tutto il mondo, dando la sensazione che chiunque la possa sconfiggere. Oltretutto l’appartenere di Bu ad un mondo fantastico, come i personaggi esotici delle opere ottocentesche, innerva la nostra curiosità e crea un contesto che va oltre ogni confine nazionale. È importante che Bu abbia qualcosa di unico per manifestare i nostri fantasmi interiori e ferite inconsce con un linguaggio proprio, diverso da qualsiasi altro, solo così potrà entrare nel subconscio dell’utente e rimanere un’esperienza significante nei suoi ricordi. Una volta create le figure e segni propri della narrazione è stato fondamentale programmare un roll-out, un programma di tempistica, che dai teaser portasse alla mostra, senza far dimenticare i primi spin, ma al contempo senza farli diventare ridondanti e di poca importanza per chi li avrebbe dovuti vedere quotidianamente. Abbiamo voluto che l’esperienza rimanesse impressa nell’utente. In fondo questi mezzi sono gli stessi usati dalle aziende per creare interesse per il proprio brand. Come ricordava Kozinets12 ogni brand è una narrazione. Come una brand ci siamo basati su un valore aggiunto, quale la struttura in papercut, per creare dei markup, quelle memorie fidelizzanti capaci di rimandarti alle sensazioni create dalla nostra esperienza. Manteniamo una promessa grazie alla nostra narrazione utilizzando le strategie narrative per valorizzarla.
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Esperienza
Punto culminante
Tempo dell’esperienza
IDENTIFICAZIONE
IMMERSIONE
EMERSIONE
FAMILIARITÀ
CONTATTO
Tappe Trance narrativa d’Ascolto, Andrea Fontana
DISTANZIAZIONE
Arco dell’esperienza
TRASFORMAZIONE
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Trance Narrativa
Andrea Fontana, sociologo della comunicazione, esperto di strategia aziendale, comunicazione d’impresa e people engagement.
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David Foster Wallace (1962 - 2008) scrittore americano e istruttore universitario nelle discipline della scrittura inglese creativa.
Esperienza
Importante è stato gestire l’esperienza, mettendola al punto giusto della nostra fabula, in uno spazio controllato. I mezzi tecnologici a nostra disposizione hanno permesso di delimitare questo spazio per dare un serie di emozioni, più o meno previste, in un arco di tempo stabilito. Finita l’esperienza si torna al mondo reale, enorme, infinito, ma stranamente anche il nostro ambiente limitato lo sembrava. In quel metro e mezzo si è venuto a creare un expanded environment, un ambiente allargato, non grazie alle dimensioni di spazio e tempo, ma ad un’ulteriore dimensione, quella della nostra immaginazione condizionata dalla narrazione. È il contenuto semantico dell’ambiente scenografico a renderlo infinito. Quest’ambiente è solo una variante delle applicazioni mediali che il nostro storyworld può creare, perché, immesso un sistema di valori, una tematica comune, un contesto controllato, insomma un universo ben definito dove far girare galassie narrative ad esso inerenti, si può creare una qualsiasi narrazione coerente per ogni piattaforma mediatica. Una buona narrazione ci permette di entrare in una Trance Narrativa d’Ascolto, in un momento in cui ci sentiamo in tutto e per tutto elementi attivi della storia raccontata, come ipotizzato da Fontana13. L’immedesimazione, è un fattore indispensabile alla nostra narrazione e solo grazie alla familiarità con il tema trattato diventa possibile. La storia deve generare un ascolto memorabile, far ascoltare l’utente, credere, vivere nel senso del meraviglioso, attraverso i valori. I nostri sono forti, capaci di combattere la paura, di riscoperta di se stessi. Credendo in quei valori si rimuove il reale per entrare nel mondo narrativo. La nostra narrazione diventa essa stessa il reale. Come abbiamo già detto, nessuna narrazione è reale e funziona in base a quanto siamo disposti a credere. Entrare nella Trance Narrativa d’Ascolto significa creare un patto fiduciario molto forte tra narratore e narratario, a questo punto pronto a credere quasi ciecamente al nostro racconto. Se l’utente sfonda la quarta parete ed entra nella narrazione, allora entra in una trance in cui è disposto ad ascoltare tutto ciò che diciamo. La nostra scatola serve a sfondare quella parete e mostrare una narrazione sempre valida. Emersi da questa trance ci ritroviamo cambiati, una trasformazione possibile grazie all’aver fatto propria l’esperienza. Trovare una narrazione coerente aiuta questa disposizione e la nostra narrazione, con un tema così comune come la catarsi della paura, ha sicuramente una presa non indifferente sul pubblico. Questo dimostra che una narrazione non è mai neutra, perché il nostro essere credibili per alcuni e non per altri dipende dal sistema dei valori che scegliamo. Foster Wallace14 afferma “C’è una relazione che si stabilisce tra il lettore e lo scrittore che è molto strana e molto complicata e difficile da spiegare. Per me un grande brano di narrativa può riuscire o meno a trascinarmi e farmi dimenticare che sto qui, seduto in poltrona. (…) Mi sento non più solo — intellettualmente, emotivamente, spiritualmente. Mi sento umano e non più in solitudine e in una profonda conversazione piena di significato e con un’altra coscienza in narrativa e in poesia, in un modo che non credo sia possibile con altre arti”.
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Soglia di attenzione
Esperienza
Floch offre un modello di analisi sulla comunicazione che si basa sui diversi livelli di generazione di senso. Da un livello superficiale, in cui l’utente prende contatto con l’artefatto tramite i codici visivi e sonori, si arriva ad un livello profondo, in cui i valori della comunicazione vengono assimilati. Nel nostro caso il livello di superficie è dato dalla tecnica del papercut e dai suoni emozionali che abbiamo usato. Il secondo livello di cui prende coscienza l’utente è quello figurativo: si rende conto del tema, la paura; delle figure e delle azioni dei personaggi, come si muovono le luci degli occhi di Bu e come viene rappresentato; della scelta dello spazio angusto della macchina comunicativa e delle iperboli temporali che abbiamo usato condensando la narrazione in quattro momenti statici, le lightbox, e uno dinamico, la macchina comunicativa. Solo dopo l’utente entra nel livello narrativo, si rende conto del ruolo archetipale dei personaggi, dell’ordine dell’intreccio, nel nostro caso lineare, e della scelta del linguaggio usato fatto di suggestioni visive e rumori. A questo punto, nel livello profondo, l’utente prende coscienza dei valori e del messaggio della catarsi della paura. Per raggiungere questo risultato siamo partiti in sordina per arrivare al momento clou in cui la soglia di attenzione è al massimo. I nostri manifesti sono stati pubblicati in quattro step, dando informazioni poco alla volta, senza mai svelare la vera natura del personaggio o l’epilogo del racconto, arteficio, questo, capace di incrementare la curiosità delll’utente verso la nostra esperienza. Anche il sito comunica similmente: fa vedere nel tempo vari layer in parallasse, preparando l’utente al giorno dell’esposizione in cui avrebbe potuto provare l’esperienza. Nella fase di teasing abbiamo optato per una scelta azzardata, una scelta in cui già si ha il contatto con gli occhi che verranno mostrati nell’installazione, in un incipit in media res, cioè durante l’azione. Arrivati al momento dell’esperienza l’uso delle stesse tecniche di narrazione crea una coerenza espressiva capace di aumentare la nostra soglia di attenzione. Abbiamo delle lightbox in cui strati di carta intagliata rappresentano gli scenari narrativi sopra citati. Anche la macchina comunicativa parla lo stesso linguaggio: con l’aggiunta di suoni e luci, questa volta temporizzate, abbiamo optato per la stessa tecnica nella realizzazione della componente visiva. Il papercut diventa un elemento fondamentale per la coerenza stilistica del progetto, un elemento che enfatizza la nostra narrazione dandogli un continuum visivo e tecnico. La carta diventa così il significante del senso del nostro racconto: un materiale effimero per raccontare che le paure non sono mai perenni. Siamo passati da varie idee e materiali prima di giungere ad una soluzione, rendendoci conto che solo la sperimentazione ci avrebbe portato ad un progetto efficace.
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Esperienza
Livello di superficie Codici Visivi: Papercut Codici Sonori: Rumori emozionali
Livello figurativo Tema: Paura Figure: Personaggio “Bu” e personaggio in cui si riconosce l’utente Spazio: Allargato in una prima visione complessiva e poi delimitato nel metro e mezzo cubo della macchina comunicativa Tempo: Tempo contratto dalla visione delle scene statiche e dalla durata dell’esperienza
Livello narrativo Archetipi: Maschera (personaggio in cui ci si rappresenta), Animus ombra e Imbroglione Bu Modalità semiotiche: Assenza di linguaggio verbale, presenza di suggestioni visive e rumori Sequenza narrativa: Lineare
Livello profondo Messaggio: Catarsi della paura
Livelli di Generazione di Senso, Floch
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Esperienza
Pensare facendo Approccio al progetto
E se lo capovolgessi? Se cambiassi materiale? E se ingrandissi questa forma? Sono solo alcune delle semplici domande che un progettista si pone nel momento in cui si sporca le mani entrando in contatto personalmente con l’oggetto pensato. Un’intuizione, anche banale, non potrà mai essere realizzata se non viene prima testata. È qui che arriva la matita o, nel nostro caso, la carta. Spesso si concepisce la realizzazione fisica di un progetto come l’esecuzione lineare di un’idea preconcetta, che esiste già nella mente. Ma fare è anche un modo di pensare attivo, qualcosa che può essere realizzato partendo senz’altro da un particolare obiettivo, ma dandosi il privilegio di poter cambiare rotta in corso d’opera, a fronte di scoperte che rivoluzionano e modificano il progetto di partenza. Si tratta di una posizione che senza alcun dubbio facilita il verificarsi di innovazione. Questo non significa che sia consigliabile agire senza avere in mente un obiettivo preciso: anche quando il fare è sperimentale e aperto, osserva delle regole. La progettazione comporta sempre dei parametri, imposti dai materiali, dagli strumenti, dalle dimensioni e dal corpo fisico del produttore. Un esperto, però, troverà una soluzione al problema, sviluppando costantemente nuove possibilità all’interno del progetto. L’arte del Thinking by Making (pensare facendo) non si riferisce solamente ai processi creativi che implicano un elaborato fisico e materico, si tratta di un modo di concepire il lavoro come sperimentazione, provando a mettere in pratica un’idea per poterne verificare la consistenza, accettando il rischio dell’errore al fine di capire se un progetto può funzionare o meno.
Se non capisci i materiali con cui stai lavorando, non puoi costruire la cosa giusta, anche se la fai nel modo giusto. Non puoi costruire ciò che non puoi pensare. Richard Pope
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Esperienza
Il processo di realizzazione delle illustrazioni tridimensionali di questo progetto ha seguito uno sviluppo imprevedibile, numerosi cambiamenti e ragionamenti, frutto di una sistematica ricerca visiva e formale che ha permesso di giungere ad una perfetta sintesi tra caratteristiche, capacità del supporto e necessità narrative. Partendo dall’intento iniziale di realizzare delle illustrazioni che in qualche modo potessero ricreare delle situazioni di paura quotidiana, dove il protagonista si ritrova intimorito da strani attaccapanni, ombre sotto al letto o dietro ai vicoli, è nata l’esigenza di lavorare con un sistema cromatico tripartito formato principalmente da bianco e nero, intesi come luce ed ombra, e rosso, elemento di tensione per rappresentare gli occhi della presenza di Bu. Il risultato non sembrava sufficiente a fornire la tensione desiderata a causa della così netta dicotomia cromatica tra bianco e nero. Ci siamo quindi chiesti quali elementi potessero aiutare ad alimentare il timore nella nostra mente giungendo alla decisione di enfatizzare l’effetto realistico e l’indefinito. Questa piccola riflessione ha scatenato un ulteriore sviluppo nella realizzazione del progetto narrativo. Le scene rappresentate sono così divenute tridimensionali nel tentativo di ottenere delle vere ombre tramite una prospettiva più convincente da osservare e nella quale immedesimarsi. Nascono così le quattro lightbox e l’interno della macchina comunicativa, corrispondenti ad ogni scena della narrazione. Una luce posta dietro a più livelli di carta genera ombre reali che mescolano gli scenari e confondono le forme, nate non più da inchiostro, ma da taglierini.
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Alcuni passaggi della realizzazione delle illustrazioni cartacee delle lightbox
Esperienza
Dettagli di carta delle lightbox
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Esperienza
All’interno del mondo del paper craft, che identifica in generale oggetti tridimensionali fatti di carta, la tecnica da noi messa in pratica prende il nome di papercut, ovvero livelli intagliati e sovrapposti di carta sagomata, retroilluminata per creare ombre e fornire tridimensionalità. Le lightbox si presentano come parallelepipedi di 27 cm per lato e 21 cm di profondità, completamente nere tranne che per la facciata frontale dalla quale è possibile osservare le scene intagliate nella carta formate da una serie di livelli sovrapposti. Le scene complessive sono state progettate utilizzando Adobe Illustrator, per poter continuamente modificare le forme di ciascun livello in relazione a quelli sovra e sottostanti prima di arrivare al risultato desiderato. I livelli di ciascuna scena sono stati successivamente stampati con dei contorni molto leggeri in modo da essere visibili nella fase di taglio ma non essere evidenti in caso di eventuali sviste. Le luci provenienti dal fondo delle lightbox e dall’interno della macchina comunicativa proiettano fasci di luce e zone d’ombra sui livelli antistanti posti ad un centimetro di distanza l’uno dall’altro. Abbiamo scelto di utilizzare una carta molto semplice dalla grammatura leggera, 100 g, per non schermare eccessivamente la luce proveniente da dietro e dare più profondità alla scena.
Dettagli delle lightbox assemblate e retroilluminate
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Design o arte?
La più grande difficoltà che presenta un progetto del genere non risiede nella pazienza e precisione della realizzazione ma nel valore che s’intende restituire al concept iniziale attraverso un artefatto che deve diventare oggetto di design, non un’opera d’arte o, nel peggiore dei casi una decorazione priva di funzionalità, seppur realizzato alla perfezione. Trattandosi di design dell’esperienza la linea che ci separa dall’arte può rivelarsi molto sottile. Possiamo paragonare il risultato da noi ottenuto con opere del calibro dei Tunnel Books o delle installazioni di Andrea Deszo, come Sometimes in my Dreams I Fly, per quanto riguarda la tecnica utilizzata ma è necessario fare un appunto sui due diversi approcci. La narrazione da noi utilizzata tenta di accompagnare l’utente in un percorso mirato a far provare un tipo di esperienza chiara e progettata, mentre opere come quelle realizzate dalla Deszo partono da osservazioni e storie personali per poi essere proposte ai fruitori come oggetto di proprie riflessioni. Un’altro aspetto che è bene mettere a confronto è la progettazione della possibilità di implementare e riprodurre un artefatto di design, sebbene nel nostro caso si tratti di un prototipo. Spesso un oggetto d’arte è pensato come unico e non ha la possibilità di essere realizzato innumerevoli volte e di adattarsi a luoghi e contesti differenti.
Andrea Deszo Sometimes in my Dreams I Fly (2010)
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La macchina comunicativa Le dimensioni e la posizione della macchina comunicativa all’interno del percorso evidenziano la sua importanza: non è solo il primo elemento visibile, ma segna, grazie all’interazione audiovisiva, il fulcro dell’esperienza. Essa ridefinisce il rapporto tra noi e le nostre paure, permettendoci di prenderne coscienza al fine di esorcizzarle. La figura di Bu, sintesi visiva della nostre paure, viene svelata al suo interno permettendoci di relazionarci con le nostre angosce interiori. La nostra macchina impone questo confronto, che tendiamo troppo spesso a rimandare, creando un patto fiduciario con l’utente e mettendolo nelle condizioni di esplorare il proprio subconscio. Nel corso del nostro progetto abbiamo spesso cambiato rotta sulle tecniche rappresentative, ma la scatola è stata una costante che ci ha accompagnato in tutto il nostro percorso evolvedosi insieme alla nostra narrazione: un significante capace di modificare il suo significato in base al contesto generato. Per certi versi rappresenta uno di quei paradossi sulla generazione di senso che qualsiasi progettista deve affrontare almeno una volta nella vita: una versione del paradosso dell’uovo e della gallina per giovani semiotici. Nonostante le prassi progettuali consolidate in questi anni di studi ci chiedano di analizzare il contesto e i significati prima di generare i segni più adatti, la vita di un progettista non si riduce ad una routine di processi automatici in cui dato un input si genera conseguetemente un output automatico. Per tenere alta la sua componente creativa, ogni progettista ha bisogno di crearsi un bagaglio di segni e simboli che possono assumere significati diversi a seconda del contesto. In questo modo il segno non è più aderente al suo significato, ma viene decontestualizzato e riutilizzato rimanendo un elemento paradossalmente indefinito. Decidere di includere nel nostro progetto l’elemento della scatola avrebbe comportato il far fronte ad una serie di sfide progettuali su diversi livelli. Non si parla solo delle difficoltà logistiche, che già darebbero l’idea della scala di difficoltà affrontata, come trovare il luogo adatto dove poterci lavorare, il modo per trasportarla, la persona giusta a cui farla provare, ma anche del riuscire a preventivare tempi e costi di realizzazione dell’involucro, per poi gestire i contenuti che doveva racchiudere. Dal momento in cui è stato deciso di offrire all’utente un luogo in cui immergersi nelle proprie paure sottoforma di una scatola, sapevamo che abbandonare l’idea sarebbe risultato costoso, sia in termini progettuali che economici.
Vista esterna della macchina comunicativa
Esperienza
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Come precedentemente detto, il momento chiave della nostra user journey è rappresentato dalla nostra macchina comunicativa e, man mano che l’utente procede nella narrazione, consequenzialmente alla storia raccontata dalle nostre lightbox si genera un forte climax di tensione. Non solo la scatola cela il suo interno, la sua sostanza, ma impedisce anche di vedere l’ultima lightbox, quella dell’epilogo, creando un clima di mistero che si dissolverà solamente affrontando l’esperienza. Entrando ed immergendosi nella macchina comunicativa non ci si prepara solo ad un’esperienza rafforzata rispetto a quella delle lightbox, ma si affronta un cambio di ruolo divenendo il soggetto della storia. La scatola è un punto di convergenza tra due storie, la propria e quella raccontata. Al suo interno il livello narrativo e quello emozionale si fondono creando un’esperienza del tutto personale. La macchina comunicativa svela il concept del progetto: Bu non è più una minaccia di cui subiamo la presenza, ma si rivela innocuo, nient’altro che lo specchio della nostra immaginazione. L’idea di una scatola si è concretizzata nel tentativo di dare un luogo all’esperienza di cui abbiamo poc’anzi parlato. Avevamo bisogno di un contenitore che, in linea alla ricerca che avevamo effettuato, potesse ospitare un’esperienza audiovisiva complessa e che permettesse all’utente una presa di coscienza delle proprie paure, divenendo una perfetta metafora dei nostri timori. Un cubo, quindi, tanto definito e misurabile all’esterno quanto misterioso e cupo all’interno così come le nostre paure risultano chiare per chi le osserva dall’esterno, quanto imperscrutabili per chi le prova interiormente.
Vista esterna della macchina comunicativa
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Realizzazione
Nella prime fase l’esperienza era stata pensata come un semplice gioco di luci, dove Bu si sarebbe rivelato per quello che era in realtà. La metafora erano gli occhi: rossi e arrabbiati fintanto che Bu aveva il controllo su di noi, per poi trasformarsi in due semplici circonferenze bianche quando finalmente sarebbe stata rivelata la sua vera natura. Procedendo con l’avanzare del progetto e nel tentativo di rendere coerente tutta l’esperienza si è poi deciso di inserire all’interno della stessa box un sistema di fogli di carta simile alle lightbox. Le pareti, escludendone una alle spalle rispetto all’ingresso previsto, si aprivano lasciandoci tutta la libertà di creare un mondo all’altezza di quelli visti dall’utente prima d’ora. Quello che abbiamo quindi realizzato dentro alla scatola è il culmine del controllo che Bu esercita su di noi e che possiamo definire come il regno di Bu, un non-luogo della scatola e della nostra mente, indefinito ed impreciso, privo di ogni riferimento con la realtà, nel quale il nostro personaggio si può muovere liberamente e in cui l’utente è costretto a subirne la presenza, almeno fino alla fine, quando si accende la luce bianca, metafora della ragione, e tutto si rivela per quello che è: un costrutto della mente. Prima di dimensionare esattamente tutta la box dovevamo capire quanto spazio avrebbero richiesto tutte le varie componenti e quanto spazio invece era necessario per poter far muovere l’utente in maniera che non fosse limitato o disturbato (soprattutto nella fase di ingresso in cui sarebbe stato costretto a chinarsi per entrare) ma che al contempo fosse sufficientemente stretto ed angusto da creare un senso di disagio una volta all’interno. È stato quindi necessario prevedere nella scatola un’intercapedine che potesse ospitare prima le luci e successivamente anche i vari livelli di carta. Come primo passo abbiamo creato un modello scala 1:1, realizzato in cartone ondulato che ci aiutasse a renderci conto delle dimensioni di cui avevamo bisogno, inoltre dovevamo cercare di rimanere in grandezze ragionevoli, considerando che una volta realizzata la scaola avremmo dovuto trasportarla più volte. Abbiamo quindi deciso di creare uno spazio interno di 80 centimetri per lato con un’altezza di 1 metro esatto, così che all’esterno la scatola risultasse esattamente un metro cubo, considerando circa 10 centimetri di intercapedine, a cui poi va sottratto lo spessore del materiale utilizzato. La box è stata pensata per essere sopraelevata a circa 110 centimetri di altezza, permettendo l’ingresso dall’apertura sulla parete inferiore.
Alcune fasi di realizzazione della box
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Durante la fase di progettazione la scatola era stata studiata per essere appesa al soffitto, espediente molto scenografico che ci avrebbe permesso di creare una totale continuità con le lightbox. Purtroppo a causa di limiti oggettivi abbiamo dovuto optare per soluzioni alternative. Con l’aiuto di un falegname abbiamo quindi costruito due scatole in legno con relativo coperchio, ed alle pareti esterne invece è stata aggiunta una copertura per chiudere l’intercapedine nella parte inferiore. Le varie pareti erano dotate di spine e fori per essere assemblate in un secondo momento, permettendoci di intervenire e lavorare su ogni parte singolarmente.
Esploso della scatola e organizzazione dei layer interni
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ll passaggio da semplici occhi a delle vere e proprie lightbox non solo ci ha costretto riprogettare lo spazio all’interno della box, al fine di mostrare i fogli di carta, ma ci ha indotto a studiare un metodo per poterli sospendere all’interno della scatola, in modo tale che potessero risultare in perfetta continuità con le pareti. Volevamo che non si percepisse un vero e proprio confine tra la carta ed il legno, perciò abbiamo cercato di ricavare la più grande apertura possibile, senza andare a intaccare la solidità strutturale, riuscendo a raggiungere una grandezza di 70x70cm su ogni lato. Gli occhi che avevamo pensato non sono poi spariti, semplicemente sono stati ricavati dalla carta al posto che direttamente dal legno, e coperti da un ulteriore layer sul quale sarebbero stati proiettati.
All’interno dell’intercapedine, inizialmente concepita solamente per lasciare sufficiente spazio alla luce per diffondersi, abbiamo aggiunto un sistema di sostegno a cui appendere i layer
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Ingrandire così tanto il formato non è stato un problema strutturale solo per la box, ma anche per i fogli utilizzati per creare i layer. I fogli infatti dovevano essere più grandi dell’apertura sulla scatola, sia per aver abbastanza materiale per appenderli, sia per essere sicuri che anche con qualche errore di decentramento i fogli coprissero le aperture sulle pareti. Non potevamo aumentare la grammatura del foglio perché ciò avrebbe impedito un corretto passaggio della luce ma un foglio da 100gr/m2 poco più piccolo di un A0 risultava non sufficientemente rigido per permetterci di lavorare così liberamente come avevamo fatto con le lightbox. Prelevando così tanta carta da un foglio di quelle dimensioni avremmo rischiato di creare dei punti troppo fragili che non avrebbero retto una volta appeso. Nel disegnare le illustrazioni siamo stati attenti anche a questo aspetto. Progettando le illustrazioni volevamo creare un mondo indistinto, un mondo all’interno del quale Bu poteva essere qualsiasi cosa. Doveva essere un luogo recondito, lontano, perduto, esattamente come quegli angoli della coscienza in cui rinchiudiamo le nostre paure, dovevamo cercare di immaginarci quel luogo in cui sarebbe stata l’immaginazione a riempire di significato le forme che si sarebbero presentate alla vista. Un posto in cui, almeno apparentemente, non ci sarebbe stata alcuna possibilità per la luce della ragione. Ecco che allora prende forma un mondo in cui niente è realmente definito.
Illustrazioni vettoriali posizionate come all’interno della scatola
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Delle sole illustrazioni intagliate, per quanto belle, non sarebbero di certo bastate ad innescare le giuste reazioni, sapevamo che all’interno della box dovevamo offrire qualcosa in più rispetto a ciò che gli utenti avevano visto fino a quel momento dell’esperienza. È in questo istante che tutta la nostra ricerca su immagini e suoni si è rivelata necessaria, dovevamo essere in grado di sintetizzare tutto ciò che avevamo scoperto ed appreso. Prima di approfondire ogni senso, visivo e sonoro, dovevamo stimare la durata dell’esperienza. In prospettiva di un’esposizione dovevamo cercare di trovare il giusto compromesso tra la necessità di raccontare la nostra storia e non creare difficoltà e inagibilità, considerando che la macchina comunicativa sarebbe stata fruibile da una sola persona alla volta. Un minuto ci è sembrato un tempo adatto, sufficientemente lungo da permetterci di creare una narrazione ma abbastanza breve da poter avere un ricambio di utenti sostenuto. Per la costruzione dell’immaginario uditivo sarebbe stato Registrazione semplice affidarsi ad una delle decine di librerie online, le quali offrono suoni migliaia di suoni gratuiti per tutti i generi. Quando però ci siamo mossi in quella direzione per provare a ricreare l’atmosfera abbiamo capito che non era la modalità che volevamo perseguire, ci siamo quindi chiesti: “se tutto il nostro progetto ruota attorno alla quotidianità della paura, perchè i suoni che facciamo ascoltare non provengo da oggetti quotidiani?” Ci siamo immersi in una dimensione che ricorda il film di Nichetti, Volere volare (1991). Per creare un’ambientazione, abbiamo quindi preso una serie di oggetti quotidiani, una forbice, una spazzola, dei fogli di carta e abbiamo registrato i suoni che producono quando vengono utilizzati quotidianamente, sono stati poi post-prodotti per creare un contesto coerente. La scelta di registrare la maggior parte dei rumori, evitando l’utilizzo di suoni digitali predefiniti, richiama il concetto di analogico sul quale si è basato il nostro progetto. La concretezza e materialità dei tagli di carta caratteristici delle lightbox, è stata tradotta a livello sonoro con l’utilizzo di oggetti concreti per ricreare l’effetto che un suono digitale non è in grado di riprodurre. I suoni che accompagnano l’esperienza visiva dell’artefatto sono stati interamente registrati da noi con vari espedienti analogici. Abbiamo usato un registratore Tascam collegato ad un microfono ambientale, registrando tutto in un ambiente insonorizzato. Si è cercato di creare suoni anonimi e poco riconoscibili, ma che richiamassero sensazioni di suspense e che, accompagnati alle luci improvvise, potessero generare spavento nell’utente. I suoni sono stati quindi ricreati sfregando la carta, colpendo scatole di cartone, chiudendo ed aprendo delle forbici e trovando altri espedienti simili, come si ricreavano i suoni ambientali nei cartoni animati.
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Maurizio Nichetti, Volere volare (1991) Nel film il protagonista è un rumorista per lungometraggi animati.
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Esperienza
Esperienza sonora
L’utente che si immerge nella scatola, inizialmente viene introdotto nell’atmosfera generale. Egli si trova all’interno di un ambiente naturale simile ad una foresta indefinita. Quest’ultima, viene resa ancora più indeterminata dalla presenza di suoni nebulosi, astratti e non identificabili con qualcosa di concreto. I suoni tuttavia non risultano artificiali o meccanici ma suggeriscono allo spettatore che si tratta di una spazio naturale. Dopo aver osservato l’atmosfera circostante, l’introduzione di suoni simili a piccoli passi o al fruscio di un cespuglio inquieta e allarma l’utente inducendolo a percepire una presenza all’interno della box. Alcuni di questi rumori, inoltre sono caratterizzati da un volume più alto e da un’ introduzione più netta per creare l’effetto di jumpscare, ovvero di spavento improvviso con l’intento di generare maggior tensione. Il tono all’interno della box comincia a definirsi. La visione di uno spazio caotico e la presenza di luci rosse simili ad occhi,conferiscono all’ambiente un’atmosfera inquietante che la percezione sonora contribuisce ad accrescere, aumentandone il phatos. La presenza di piccoli rumori uniti ad una musica indefinita di sottofondo genera definitivamente la sensazione di essere immerso in una dimensione cupa, nebulosa, confusionaria, ma soprattutto non pacifica. L’utente inoltre, non è ancora in grado di identificare visivamente quale sia la minaccia, ma il tono grave e cupo definisce l’intento sinistro di questo personaggio. Alcuni suoni inoltre sembrano suggerire che il personaggio porti qualcosa con sé, come ad esempio l’inserimento di un rumore simile a quello di un coltello. Ormai certi della presenza di un personaggio nascosto, sarà necessario percepirne la posizione. La prossimità viene definita gradualmente. I piccoli passi iniziali, infatti, diventano a mano a mano più forti e di conseguenza avvertiti più vicini. E’ proprio nel momento di maggiore tensione visiva e sonora che il piccolo personaggio innocuo compare agli occhi dell’utente. Lo svelamento di una presenza pacifica viene espresso sia sul piano visivo che sonoro. L’introduzione di una luce bianca immerge l’utente in un’atmosfera pacata e mite che viene sottolineata ulteriormente dal cambiamento improvviso del suono: una musica calma e tranquillizzante si diffonde nella box sminuendo tutta la tensione avvertita precedentemente. Tutta la progettazione sonora dell’esperienza all’interno della scatola ha come intento quello di sottolineare il concept del progetto, secondo il quale la maggior parte delle volte la paura non è qualcosa di oggettivo bensì una sensazione soggettiva ed irrazionale che vive nella mente di chi la prova. I suoni confusi ed incomprensibili vogliono sottolineare come molte volte, nell’esperienza di vita quotidiana, siamo invasi da paure illusorie frutto della nostra immaginazione.
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Esperienza
Ascolto olofonico
Uno strumento estremamente importante nella progettazione del suono all’interno della box è stato l’utilizzo dei suoni olofonici. L’olofonia è una tecnica di registrazione e riproduzione del suono che ricrea le dinamiche dell’ascolto umano, immergendo l’ascoltatore in una realtà virtuale uditiva tridimensionale, quasi identica a quella reale. L’effetto acustico a 360 gradi permette infatti di trasmettere suoni con una nitidezza ed uno spessore reali. Nel nostro caso, l’ascolto olofonico è stato utilizzato per intensificare il potenziale immaginativo dell’utente in quanto, l’illusione acustica tridimensionale lo immette in un contesto ancora più avvolgente di quello ottenibile con la sola visione di immagini. Egli infatti si trova completamente al centro dell’evento sensoriale ed il suono, proveniente da ogni lato, crea l’illusione di espansione dello spazio. Questa totale immersione, ci ha permesso inoltre di generare uno stato confusionale nell’utente: l’ascolto dei diversi rumori arriva da ogni lato passando velocemente dall’orecchio destro a quello sinistro, dando la sensazione che il personaggio nascosto sia molto vicino ed in grado di muoversi velocemente da una parte all’altra della box.
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bu.
Esperienza
Luci
Altro componente fondamentale nel nostro progetto è l’utilizzo della luce che, in perfetta sinergia con l’audio, accresce la tensione emotiva e l’aspetto sensoriale della macchina comunicativa. Già dalla definizione di Bu avevamo deciso di limitarci all’uso di tre colori, nero, rosso e bianco. La luce ha permesso di creare proiezioni di ombre che prendono vita una volta cominciata l’esperienza ed è il mezzo che più veicola il nostro messaggio. Bu è di fatto un’ombra proiettata dalla luce, la differente illuminazione descrive la natura di Bu, o meglio, le sue intenzioni. La luce è l’elemento più pregno di significato in tutta la l’esperienza ogni suo cambio di stato, fino a raggiungere la sua stessa assenza, scandisce il ritmo della narrazione. Per illuminare tutte le pareti interne abbiamo quindi optato per dei led, che garantivano consumi ridotti e temperature di lavoro basse, ed inoltre erano sufficientemente sottili da essere posizionati senza risultare ingombranti. Li abbiamo quindi posizionati dietro agli occhi da illuminare e sulle cornici, attorno alla aperture, cosa che ci ha permesso di creare effetti ambientali su tutta la scena, che venivano poi enfatizzati dai suoni registrati.
Dettagli dell’illuminazione dell’esperienza nella box
Esperienza
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Sinestesie
Vista e udito, dopo essere stati ampiamente indagati, dovevano essere coordinati, creando un sistema unico che andasse oltre alla mera esperienza multisensoriale. “Tutti i prodotti e gli ambienti sono per l’individuo multisensoriali.” - scrive D. Riccò15 - “Quando manipolo un oggetto o entro in un ambiente, sia esso una discoteca o una chiesa, ne ricevo comunque impressioni olfattive, uditive, visive, ecc., pure se queste non sono dichiarate dal progettista. Il risultato ‘multisensoriale’ è dovuto piuttosto alla nostra natura di soggetti percipienti.” Il fine era quello di raggiungere un livello sinestetico, “il progetto sinestetico è caratterizzato, o almeno ambisce, ad une relazione coerente fra le sensazioni. Un oggetto, o un ambiente, sinestetico è il risultato di un processo progettuale”. Luci e suoni non potevano essere semplicemente riprodotti insieme, nella speranza che il risultato fosse soddisfacente. Anche perché sarebbe stato molto più probabile che alla fine, se non adeguatamente calibrate, le informazioni sensoriali non solo non avrebbero aggiunto alcun valore all’esperienza, ma sarebbero entrate in contrasto tra di loro, rischiando di rovinare una le qualità intrinseche dell’altra. La stessa Riccò definisce questo contrasto come illusioni interpercettive, nelle quali si miscelano dati sensoriali di diversi registri che che creano false aspettative l’uno sull’altro. Inoltre come anticipato dalla professoressa “progettare il coinvolgimento sensoriale di un prodotto significa prendere in esame tutte le qualità e considerare nel contempo i rimandi sinestetici di cui ognuna di esse è portatrice”. Dovevamo quindi sforzarci di prevedere le qualità sensoriali, non solo degli elementi attivamente in gioco, come la luce ed il suono sopra descritti, ma anche dell’ambiente circostante, le pareti, la carta su cui la luce veniva proiettata, la stessa box in cui il tutto prendeva vita. In questa fase si è rivelata fondamentale la ricerca svolta in precedenza, che ci ha permesso di stimare e capire, almeno con un certo grado di approssimazione, i rapporti sinestetici di ogni elemento in gioco. “Il mondo percettivo, nei suoi caratteri e relazioni osservabili, è cioè di dominio comune, una realtà la cui valenza è con evidenza intersoggettiva”, questo vuol dire, come dimostra L. E. Marks16 nei suoi esperimenti, che se chiedessimo ad un centinaio di persone quale forma/colore suscita un suono acuto nella propria testa, probabilmente avremmo cento risposte differenti, ma analizzando meglio il dato ottenuto scopriremmo con sorpresa che si tratta di quasi tutte immagini chiare ed appuntite. La ricerca effettuata ci ha consentito di generare non solo un immaginario iconografico, ma anche uno sinestetico, grazie ai quali potevamo riferici alle qualità di ogni elemento per costruire e sfruttare nuovi significati e immagini nella mente dell’utente. Questo ci ha permesso di mettere a fuoco esattamente su quali aspetti di luce e suono lavorare. Nonostante questi elementi fossero apparentemente pochi, una volta messi a sistema l’uno con l’altro potevano generare una quantità di significati quasi infinita: molte volte abbiamo dovuto infatti rivedere la quantità di led accesi in relazione al tono di un suono, o la loro posizione in relazione ad un determinato effetto sonoro.
15
Dina Riccò, professore associato presso il Politecnico di Milano e ricercatore in Disegno Industriale
16
Lawrence E. Marks, studioso di psicologia e professore presso la Yale University.
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Marshall McLuhan (1911-1980) sociologo, filosofo, critico letterario e professore canadese.
Esperienza
È però stato utile strutturare l’esperienza a partire dal dato spaziale, stabilire che la relazione principale fosse quella geografica, luci e rumori si sarebbero quindi presentati assieme indicando la presenza di Bu, un suono lontano quindi sarebbe corrisposto ad un’intensità minore della luce. Tutto ciò era volto a creare un momento altamente immersivo per l’utente. Per capire e approfondire le relazione tra suoni e luci abbiamo creato una sorta di storyboard che riassumesse tutte le scene guidando verso lo svelamento finale, per ognuna di queste abbiamo poi deciso i led che dovevano accendersi ed esplicitato la relazione con il suono, segnando anche la tipologia sonora necessaria, descrivendo l’effetto finale che volevamo ottenere. L’utente viene immerso in quello che McLuhan17 definirebbe medium freddo, cioè a basso contenuto di informazione. Sia nel caso della luce che del suono l’utente non ha accesso a informazioni in alta definizione, non ci sono schermi che riproducono immagini, ma tutto si fonda su semplici led che proiettano la luce su livelli di carta. Questo non solo crea l’atmosfera giusta, ma coinvolge attivamente l’utente. La mancanza d’informazioni complete porta inevitabilmente l’utente ad affidarsi ad altri sensi, nel nostro caso l’udito, rompendo così la supremazia dettata dall’occhio, e inducendolo ad affidarsi alla sua stessa immaginazione per creare completamenti uditivi e visivi, questo nella speranza che, grazie alla partecipazione dell’utente ognuno possa compiere un’esperienza unica, in relazione alle proprie paure.
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Componenti tecniche
Tutti questi elementi andavano gestiti e coordinati, ogni volta che qualcuno fosse entrato all’interno della box, l’esperienza avrebbe dovuto cominciare in maniera autonoma e concludersi sempre autonomamente. Inoltre tutto il percorso dalle prime lightbox fino a raggiungere la macchina comunicativa ed infine l’epilogo, è studiato per essere svolto personalmente e singolarmente, volevamo quindi che l’ingresso nella scatola avvenisse nel modo più fluido possibile, senza interruzioni di alcun genere. Abbiamo quindi optato per un controller come Arduino, non solo perché rispondeva a tutte le nostre esigenze, in maniera anche economica, ma perché si strutturava come una soluzione del tutto modulare e flessibile. Questo risulta fondamentale quando si entra in contatto per la prima volta con tecnologie del genere, è sempre difficile, infatti, riuscire a stimare tempi e risorse necessarie per completare i propri obiettivi. Essendo del tutto analfabeti per quanto riguarda le pratiche e le conoscenze necessarie non solo di Arduino nello specifico, ma anche di elettronica e programmazione in generale, una soluzione di questo tipo ci ha permesso di porci una serie di obiettivi. Ordinati per urgenza e priorità, per ciascuno di essi è stato possibile cercare differenti soluzioni che si avvicinassero man mano al prodotto finito ideale. Così facendo è stato possibile monitorare ogni avanzamento, ed una volta ottenuto un risultato accettabile procedere nella realizzazione. Siamo quindi partiti dal definire quale fosse il primo aspetto da trattare: suono e luci dovevano essere in sincrono, non una volta soltanto, ma decine di volte in una singola giornata, quella dell’esposizione. Per poter però iniziare a lavorare sulla coordinazione dei due elementi dovevamo prima imparare a gestirli singolarmente, ci siamo quindi concentrati su ogni singolo componente con l’intenzione di unirli successivamente. Per quanto riguarda le luci abbiamo optato per delle strisce led i cui vari elementi potessero essere indirizzati singolarmente. Altra peculiarità di queste luci è che sono vendute in strisce da 15, 30, 60 led che possono essere separate, per poi essere ricollegate tramite saldatura, questo ci ha permesso di posizionare i led liberamente nei punti voluti, calcolandone poi la distanza l’uno dall’altro per collegarli con dei fili di rame. I led sono controllati da Arduino tramite la neopixel library. Per riuscire a coordinare tutte le luci essi sono stati numerati univocamente, per ogni scena quindi sapevamo quali led accendere e in quale ordine. Le prime prove sono state effettuate su una striscia led ancora integra, così da essere sicuri che gli errori commessi fossero solo nella parte di programmazione e non in quella di saldatura e posizionamento. Abbiamo proceduto realizzando una parete alla volta per poi congiungere tutte le parti di codice. Per il suono invece dovevamo riuscire a salvare la traccia su una memoria esterna, collegarla ad Arduino il quale, al verificarsi di un determinato evento, ne avrebbe attivata la riproduzione. La scelta è ricaduta su un miniDFplayer, un lettore di file audio, tramite microSD, che supporta anche l’audio stereo. Come prima cosa ci siamo assicurati di riuscire a far dialogare Arduino e il player, l’evento scatenante sarebbe quindi stato la semplice accensione del controller.
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Esperienza
Per verificare che il player stesse effettivamente riproducendo il suono abbiamo saldato all’uscita audio un jack femmina, che ci permettesse di collegarci con delle cuffie, delle casse o un trasmettitore bluetooth. Una volta che audio e video funzionavano autonomamente abbiamo quindi provato a metterli assieme assicurandoci che lavorassero in sincronia. Così descritto, il processo può sembrare automatico e logico in ogni sua parte, purtroppo nella realizzazione pratica il percorso non è stato affatto facile; già solo identificare le componenti giuste ha richiesto diverse consultazioni online, nei forum, nei negozi specializzati e con amici e conoscenti appassionati del Do It Yourself. La successiva realizzazione ci ha poi messo davanti alla nostra inesperienza pratica nella gestione di questi sistemi, passando anche per il più classico degli errori: bruciare un componente provocando un cortocircuito. Per sintesi e fruibilità del testo non elencheremo tutti gli errori fatti durante la realizzazione dell’esperienza, chiediamo dunque a chi legge di tenere a mente che i passaggi da una fase all’altra della prototipazione non sono sempre stati così fluidi e semplici come descritti nel testo. Una volta uniti gli elementi principali di tutta l’esperienza ci siamo chiesti come questa potesse essere resa più immediata per l’utente. Abbiamo preso in considerazione due elementi che ne avrebbero innalzato la godibilità: il ricambio dell’utenza all’ingresso della macchina comunicativa, e la qualità del suono. Volevamo che il momento dell’ingresso all’interno della scatola avvenisse senza alcun intervento da parte nostra, questo anche perché ci avrebbe alleggerito notevolmente il compito durante l’esposizione, evitando che qualcuno di noi rimanesse a controllare la macchina comunicativa al fine di attivare il sistema. Il miglior modo per farlo era intercettare il momento d’ingresso di ogni utente: un sonar ad ultrasuoni modello srf05, posto all’interno dell’intercapedine, avrebbe tenuto costantemente monitorata la lunghezza della scatola e, rivelata la presenza di un soggetto, avrebbe attivato la riproduzione di suoni e luci. Per l’audio invece volevamo essere certi che il lavoro fatto in fase di produzione risaltasse anche durante l’esperienza, l’audio doveva essere quantomeno riprodotto in modalità stereo, avevamo quindi bisogno di cuffie, in quanto le casse non ci avrebbero permesso di raggiungere un risultato soddisfacente dato che non potevamo collegarci ad una presa di corrente. Ci è sembrato quindi ideale l’utilizzo di cuffie over-ear, collegate via bluetooth al player attraverso un trasmettitore. Una volta che il sistema era pronto e funzionante dovevamo montarlo sull’intera scatola, abbiamo ricavato un sostegno all’interno dell’intercapedine per tutta l’elettronica di controllo, e due fori sulla parete posteriore per permettere al sonar di lavorare correttamente. Per posizionare tutti i led abbiamo calcolato la distanza tra gli uni e gli altri per poi tagliarli e saldarli, ed infine attaccarli alla parete interna della scatola. Per evitare che un led ambientale illuminasse anche la scena adiacente abbiamo infine isolato ogni singola parete con delle maschere. Montato il tutto abbiamo collaudato il sistema per capire se avrebbe retto l’intera giornata della mostra.
Great ideas are nothing withou
e worth ut execution.
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Coclusioni
Conclusioni Il progetto ha avuto la possibilità di essere esposto realmente all’interno di uno spazio conosciuto nel mondo del design come il BASE di Milano. L’evento, che si è svolto interamente nel pomeriggio del 2 Marzo 2018, ha raccolto i progetti di tutti i dodici gruppi che hanno partecipato al corso lavorando per cinque mesi in modo analogo a noi, partendo però da parole differenti (altruismo, ansia, distrazione, dubbio, egoismo, indifferenza, intransigenza, perfezione, pietà, rispetto, vacuità). L’evento, chiamato Words Works ha invitato gli utenti a provare le macchine comunicative, i dispositivi e le esperienze interattive progettate dagli studenti, interpretando ogni parola, al fine di ottenere una maggiore comprensione della parola stessa.
Words Works Essendo a conoscenza dello scopo ultimo dell’artefatto realizzato, comparire all’interno della mostra, la fase progettuale ha dovuto tenere conto di alcune limitazioni fisiche e problematiche imposte dall’evento e dal luogo. Ciò non ha influito nella fase di ricerca e progettazione iniziale ma è stato tenuto presente durante lo sviluppo e la realizzazione della macchina comunicativa. Il soffitto del BASE, troppo alto, non ha permesso di appendere la box e lasciarla sospesa, è stata quindi realizzata una struttura portante poggiata al suolo, in legno e metallo, che non cambiasse la conformazione della scatola e permettesse allo stesso tempo l’ingresso degli utenti. Anche la luminosità dello spazio non ha favorito l’immedesimazione completa, possibile grazie ad un buio totale all’interno della box, quindi abbiamo posto due lembi di un tessuto elastico nero all’ingresso della macchina comunicativa, allo scopo di impedire il più possibile l’entrata della luce. Il collocamento dello stand all’interno dell’esposizione ha favorito l’attesa dei visitatori, in coda per provare l’esperienza, grazie ad uno spazio antistante che ha permesso di guardare il percorso nella sua interezza integrando l’osservazione personale con ulteriori spiegazioni e approfondimenti da parte nostra, quando richiesti. Questo tipo di approccio al progetto è stato per noi nuovo e assolutamente positivo poiché lavorare tenendo presente l’utente finale ed il luogo dove la propria realizzazione andrà a concretizzarsi fornisce sempre la possibilità di pensare in modo più concreto. Trovarsi di fronte a limitazioni reali e alla possibilità di poter verificare la riuscita del progetto in base agli obiettivi prefissati, oltre ad eventuali implementazioni che rilancino la nostra installazione in futuro si è rivelato un esercizio stimolante e coinvolgente.
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Conclusioni
Design is the art of planning, and the art of making things possible Paula Scher
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Bu. durante l’esposizione Words Works al BASE il 2 Marzo 2018
Coclusioni
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Coclusioni
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Coclusioni
Implementazioni Tecniche
Possibili scenari
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Max Giovagnoli autore e transmedia designer, pioniere italiano del transmedia storytelling
Oltre al piacere di poter esporre un proprio lavoro la mostra ci ha dato la possibilità di verificare la correttezza del progetto nella sua interezza, partendo dalla comunicazione dell’evento, come la macchina di Bu interagisce con lo spazio, fino ad arrivare alla comprensione del tema analizzato passando dalla narrazione. Uno sguardo critico verso il nostro lavoro ci ha permesso ad esempio di poter confermare la riuscita dell’esperienza sensoriale interna alla box, osservando le reazioni nei volti degli utenti. Tuttavia è emersa la necessità di dover implementare la comunicazione delle lightbox attraverso una descrizione sintetica della scena rappresentata, chiarendo ulteriormente il percorso proposto all’utente che spesso, affascinato dalla macchina comunicativa, ha voluto provarla prima di osservare il resto della narrazione. L’esperienza, implementata da tali modifiche, potrebbe essere riproposta in altri eventi e contesti, rendendola futuribile. Inoltre, creare storie e sotto-storie è un obiettivo che non abbiamo perso di vista, soprattutto durante la realizzazione delle lightbox, che aprono la strada a un universo di artefatti transmediali di cui si è utilizzato per ora una minima parte. La nostra narrazione non procede come un normale storytelling, ma piuttosto come uno storyworld, un mondo narrativo funzionale al progetto, ma che può essere declinato transmedialmente. Max Giovagnoli18 parla di universi narrativi, all’interno dei quali sono contenute tutte le declinazioni mediatiche possibili della narrazione. La creazione del nostro personaggio Bu è funzionale a questa transmedialità. Bu è un personaggio spreadable, come direbbe Jankins, che, con il doppio significato della parola inglese, voleva indicare sia la sua spalmabilità ovvero il suo adattamento ai vari media, che la sua diffondibilità, cioè la sua capacità di creare fandom e community che condividano il messaggio. Il nostro personaggio fa parte di una narrazione partecipativa che può filtrare tra canali autonomi ed è adatto a reinterpretazioni. Il nostro agire su un’emozione primaria comune a tutti come la paura crea possibilità di interazione tra gruppi di persone che sceglieranno di diffondere il nostro contenuto mediale. Bu potrebbe vivere in narrazioni parallele adattate a supporti mediatici.
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Coclusioni
Ecco che allora lo si potrà avere come fumetto, cartone animato, se non addirittura un gruppo social dove ci si confronta parlando delle nostre paure. Volendo si potrebbero creare centinaia di varianti, l’importante è essere coerenti con il messaggio ed il sistema dei valori individuato dal personaggio. Ogni contenuto mediatico potrà essere ripreso, magari anche essere modificato per essere condiviso. Sono molti i tratti comuni che potrebbero generare l’interesse del pubblico, la paura, infatti, è un’emozione primaria e l’aver utilizzato una tecnica rappresentativa particolare come quella del papercut potrebbe essere elemento attrattivo per molti.
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Riflessioni
Il percorso progettuale affrontato ci ha dimostrato l’importanza della realizzazione di obiettivi ben precisi e delineati e come sia fondamentale la coerenza con un brief iniziale per il raggiungimento di un risultato soddisfacente. Esprimere un concetto originale partendo da un tema tanto comune è stata una difficoltà di non poco conto: analizzare, studiare e selezionare le informazioni a noi più congeniali sul tema della paura è stato un processo di fondamentale importanza nella creazione di un concept che non fosse scontato. Si è indagato sull’arte, il cinema e gli aspetti sociali del tema proposto, facendoci capire che uno studio preliminare rappresenta le fondamenta sulle quali costruire un progetto ben strutturato. Nel brief ci è stato suggerito di costruire un’artefatto interattivo con mezzi analogici al quale abbiamo
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Riflessioni
cercato di adeguarci come meglio abbiamo potuto. L’uso di Arduino per gestire le tempistiche delle luci e dei suoni è stato l’unico espediente che uscisse in un certo qual modo dalle indicazioni iniziali. La realizzazione di ogni altra forma comunicativa all’interno del progetto ha comunque seguito quella logica: dall’uso di artefatti manuali fotografati per la realizzazione della campagna informativa, fino alla creazione di un contesto visivo costruito con carta e bisturi ricorrente in tutta l’installazione. La costruzione della macchina comunicativa è stato solo il culmine di un progetto a 360 gradi che ha affrontato la creazione di un brand, la sua divulgazione con una campagna comunicativa programmata sia nei tempi che nella scelta dei media e la costruzione di senso di un messaggio ben connotato.
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Riflessioni
Siamo stati in grado di capire quanto sia importante non sottovalutare nessun aspetto di un percorso progettuale di tale entità. L’obiettivo era diffondere un messaggio partendo da una parola e la costruzione della macchina comunicativa è stato solo il mezzo che ci ha permesso di farlo. Abbiamo capito che solo un approccio sistematico avrebbe potuto farci raggiungere un traguardo importante e soddisfacente. Siamo altresì consci che il confronto con professionisti competenti quali i nostri professori ha reso possibile l’evolversi delle nostre idee e il loro concretizzarsi. Ci siamo resi conto di quanto sia importante una concreta definizione dei ruoli all’interno di un gruppo di lavoro e di come sviluppare gli spunti creativi proposti da chi ci ha seguito.
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Riflessioni
Per questi motivi pensiamo che l’aspetto fondamentale del nostro progetto non sia stata la mera realizzazione di una macchina comunicativa, quanto l’apprendimento di tecniche di condivisione del lavoro e di un sistema progettuale efficiente. L’evolversi del concept ne è la dimostrazione: abbiamo imparato a vagliare varie soluzioni progettuali avendo il coraggio di stravolgerle in corso d’opera. Siamo partiti nel progetto come fossimo al buio e solo l’accostamento delle nostre idee è stato in grado di illuminarci nella creazione di un artefatto capace di generare apprezzamento ed un messaggio durante la sua esposizione.
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Ringraziamenti
Ringraziamenti A conclusione di questo percorso, intrapreso ormai quasi un anno fa, intendiamo riportare alcune riflessioni personali tentando di ringraziare chi ha seguito, non solo il nostro progetto, ma anche la nostra crescita didattica e personale. In primis il nostro ringraziamento va al professor Francesco Ermanno Guida, che ci ha sempre spronati, invitandoci costantemente al miglioramento al fine di realizzare un progetto che soddisfacesse innanzitutto noi stessi. Con il suo carisma è stato in grado di instillarci una forte passione, invogliandoci a sperimentare e ad apprendere dai nostri stessi errori. Grazie ai suoi insegnamenti ci ha trasmesso una nuova visione ed approccio alle tematiche del design, dandoci l’opportunità di sporcarci le mani, seguendo il principio dell’imparare facendo. Un ringraziamento va inoltre ad Andrea Braccaloni, Pietro Buffa e Giacomo Scandolara che ci hanno permesso di confrontarci costantemente con professionisti del settore al fine di rendere il nostro progetto sempre più realizzabile e completo. Ringraziamo inoltre Marcello Jacopo Biffi e Gabriele Donini per la loro disponibilità e attenzione verso ogni aspetto del progetto ed ogni dubbio legato ad esso e per averci offerto interessanti spunti visivi e di riflessione attorno alle tematiche trattate. Guardando al risultato ottenuto e ai mesi trascorsi possiamo senz’altro affermare di essere soddisfatti di aver compiuto questo percorso. Ci è stata data la possibilità di dare vita ad un’esperienza, completa in ogni sua parte, dalla fase progettuale fino alla sua effettiva realizzazione, e ci è stato inoltre permesso di prendere parte ad un’esposizione grazie alla quale abbiamo potuto osservare il nostro risultato calato in un contesto esterno al solo ambiente universitario. Vorrei ringraziare i miei genitori per avermi sempre sostenuta in questo percorso e per avermi sempre lasciata libera di scegliere e seguire quello che mi appassiona. I miei fratelli Giacomo, Pietro, Caterina e Mariagiulia per il loro interesse nonostante la lontananza. La pazienza e la voglia di fare del mio gruppo di progetto, nonché amici, e la possibilità di poter imparare qualcosa da ciascuno di loro: la precisione di Stecco, la costanza e la determinazione della Muna, lo sguardo attento di Matteo e la creatività di Ale. Ringrazio i miei amici di Porto che nei cinque mesi all’estero, mi hanno sempre aiutata a seguire questo progetto da lontano: Stefano per i suoi consigli da designer svizzero, Isabella per la sua compagnia nelle pause, Irene per il suo sostegno nelle giornate di studio in veranda ed infine Costanza per il suo entusiasmo e per la sua continua curiosità. Un grazie speciale va alle mie amiche in giro per il mondo (Benni, Luisa, Memme, Cate e Chiara) che, attraverso chiamate e messaggi vocali senza fine, sono sempre state un punto di riferimento nelle mie giornate. Per concludere ringrazio infinitamente tutti i miei amici in università che hanno contribuito a rendere speciale ogni singolo giorno passato in Bovisa.
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Ringraziamenti
In particolare le amicizie presenti sin dall’inizio: Muna (compagna fedelissima di questi 3 anni), Alice, Modo, Silvia, Giuli, Fede, Zanca, Bru, Cianci, Jessica, Mane, Maria, Dem; e quelle nate inaspettatamente più avanti: Andrea, Valentina, Marco, Sam, Simba, Josi e Bea. Teresa Cremonesi I miei primi pensieri vanno alla mia famiglia che ha avuto un ruolo fondamentale in ogni scelta che ho dovuto affrontare da quando ho preso in mano la prima matita, mi ha sempre sostenuta e valorizzata desiderando per me di poter trovare un luogo dove imparare e realizzare le mie aspirazioni senza censurare in alcun modo me stessa e la mia storia, guardando ad ogni mio progetto o elaborato come un vero capolavoro anche quando in me vinceva l’insoddisfazione. Non posso non ringraziare le persone con cui ho vissuto questo progetto e, con alcune, questi tre anni di università. Matteo, Lorenzo, Teresa e Alessio, seppur in modalità completamente differenti, mi hanno aiutata ad appassionarmi ancor più a ciò che studio puntando ad ottenere il massimo senza voler mai sacrificare l’amicizia nata tra noi. In loro ho trovato sicuramente dei compagni di studio e, cosa ancora più bella e sorprendente, degli amici. Sono proprio gli amici, davvero tantissimi per essere tutti nominati, e il continuo confronto con loro, ad avermi aiutata a mantenermi costantemente curiosa in università come in ogni aspetto della mia vita senza mai accontentarmi. Ringrazio tutta la Bovisa, dai più grandi che mi hanno accolta e accompagnata i primi anni a chi è arrivato da poco. Penso immediatamente a Sofia, Teresa e Ilaria che hanno iniziato insieme a me (è bellissimo vedere come sia maturata la nostra amicizia negli anni), Mariachiara e Teresa, non potranno mai capire quanto sia profondamente grata delle nostre differenze, Riccardo, Damiano e Carlo, che ho sempre seguito ed invidiato per le loro domande e il loro non essere mai quieti, Marta, Elena, Francesco, Chiara, Giulia, Antonino, Samuele e Caterina, che dimostrano la loro attenzione per me riprendendomi sempre durante le mie giornate. Non posso non ringraziare i Deca: Sofia, Cristina, Matteo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Maddalena, Paolo, Luca e Lucia; nonostante le diverse strade intraprese la vostra amicizia è divenuta un punto focale e un aiuto a vivere più intensamente la mia vita. Un pensiero finale va a Luca, sorpresa più inaspettata e bella di questi anni. La sua cura e l’amore per le cose belle mi colpisce sempre e ha cambiato il mio modo di trattare tutto ciò che ho di più caro. Chiara Munarin
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Ringraziamenti
Il mio primo pensiero va a chi non c’è più: papà e nonna mi hanno sopportato e supportato quando era difficile anche solo parlarmi. Un ringraziamento speciale va a mia madre che ha creduto in me e mi ha aiutato nella realizzazione di questo mio sogno. Non mi posso scordare dei miei fratelli, che hanno rinunciato a molto per permettermi di essere dove sono e che hanno curato i nostri affari nel paese di origine mentre ero a Milano. Vorrei ringraziare i professori che ci hanno seguito e formato facendoci capire l’importanza di una buona formazione ai fini progettuali. Infine un grazie speciale ai miei amici che hanno reso più leggero il mio stare lontano da cWasa e ai miei compagni con i quali ho condiviso i progetti che mi hanno fatto raggiungere questo traguardo. Alessio Federici Desidero innanzitutto ringraziare i miei genitori, che mi sono sempre stati vicini, incoraggiandomi nei momenti più difficili e supportandomi in ogni mia decisione, spronandomi a migliorare e a perseguire i miei obiettivi. Senza di loro non sarebbe stato possibile intraprendere questo percorso universitario e quindi raggiungere questo importante traguardo. Un ringraziamento speciale va a mio fratello, Daniele, che ho sempre guardato con ammirazione e che è sempre stato per me un punto di riferimento grazie alla sua bontà e comprensione. Ringrazio inoltre Giulia, la sua fidanzata, ed auguro ad entrambi il meglio per il loro futuro insieme. Sono grato anche ai miei parenti più stretti, i miei zii e mia cugina Valentina, i quali hanno svolto un ruolo importante nella mia crescita e nella mia maturazione. Inoltre desidero ringraziare il mio gruppo di progetto: Matteo, Chiara, Teresa e Alessio. Ho affrontato con loro un anno molto intenso, che ci ha portato a creare un legame che va oltre quello puramente accademico, un legame di amicizia che spero possa durare negli anni futuri. Un pensiero va a tutti i miei amici ed in particolare ad Antony, con il quale ho condiviso momenti significativi ed importanti, che hanno rafforzato man mano la nostra amicizia. Ringrazio Letizia, la mia fidanzata, per avermi sempre sostenuto, accompagnandomi in questo percorso, e per essere stata un esempio di costanza ed impegno. Con lei spero di poter condividere gli anni futuri e le esperienze più importanti della mia vita.In conclusione desidero dedicare il progetto e l’elaborato di laurea ai miei nonni Angelo e Bruno, che non ho potuto conoscere, alla nonna Gioconda, che è stata essenziale durante la mia crescita e alla nonna Piera, che a 96 anni potrà assistere al raggiungimento di questo mio importante traguardo. Lorenzo Destrieri
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Ringraziamenti
Questa è la parte in cui tento, almeno in parte ed in maniera simbolica, di restituire un poco dell’aiuto che mi è stato dato durante il mio percorso di laurea. Non posso elencare tutti quelli che mi sono stati di aiuto, se stai cercando il tuo nome qua sotto e non lo trovi, a te va il primo grazie. Mi sento obbligato ad iniziare dai miei compagni di gruppo, Lorenzo Chiara e Teresa, compagni di lungo corso oramai molto più che colleghi, e ad Alessio, new entry,W oltre a tutto quello che mi avete insegnato, grazie per avermi sopportato. Un pensiero particolare alla fam. Destrieri, di cui sono oramai mi sento figlio adottivo de-facto, a cui devo ancora una caffettiera, grazie Tiziana per la tua splendida cucina, grazie Enrico per il tuo expertise pressoché ingegneristico. A don Giorgio, che da tre anni a questa parte mi continua a ricordare Chi conta. Grazie a Davide, Stefano e Andrea, amici, quando necessario, siete riusciti a sopportare i miei peggiori umori con vero spirito di servizio. Alla cuginanza: insieme, la fatica, avete reso comprensibile; insieme tutto ottenibile o leggero è. Siete ispirazione quotidiana, oltre che amici veri. Ai miei fratelli e relative famiglie: Andrea che mi hai fatto capire cosa voglia dire la parola dedizione; Marco che mi hai insegnato a non accontentarmi e mi hai sempre spronato a ricercare il top di gamma; Pietro che senza la tua disponibilità ad accogliermi in ufficio non avrei mai cominciato questo percorso; Giulia che mi dimostri quotidianamente cosa vuol dire essere una e famiglia e Tommaso la tua forza di volontà è stata fuoco quando la mia vacillava. Grazie a tutti per avermi guidato nella quotidianità di questa famiglia, come ultimo tra di voi, per me siete sempre stati giganti, e a volte ingombranti, esempi. Spero di aver accorciato le distanze in questi anni. A mamma e papà(anche se sono convinto di non essere riuscito a spiegargli esattamente in che cosa mi sia laureato), che oltre a tutto, e non è poco, sono riusciti ed essere vero e sincero sincero metro di misura della mia vita, universitaria e non, e anche a Gianna, grazie per il tuo sguardo buono, senza il quale alcune cose non si spiegano proprio. Grazie per la famiglia che mi avete dato, dono della vita. Ad Alice per cui non basterebbe una pagina per ringraziarla, a te, semplicemente, grazie. Matteo Meschini