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Foto: REUTERS/Andrea Comas /courtesy of INSP - Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale -D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art.1, comma 1, LO/MI

L’INTERVISTA

EUGENIO FINARDI, QUARANT’ANNI DI MUSICA RIBELLE

la le del i s n e Il m

strada

LE STORIE DI MURA FATIMA E I SUOI SOGNI FINITI SOTT’ACQUA PER SEMPRE

www.scarpdetenis.it dicembre 2016 gennaio 2017 anno 21 numero 207

Notte al caldo al terminal partenze SONO IN AEROPORTO, MA NON PARTONO. SONO IN OSPEDALE, MA NON DEVONO ESSERE VISITATI. SONO NEI BANCOMAT, MA NON DEVONO PRELEVARE. IL VIAGGIO DI SCARP CON LE PERSONE SENZA DIMORA CHE CERCANO UN POSTO SICURO DOVE POTER DORMIRE IN INVERNO



EDITORIALE

Nell’incontro col venditore il senso di questo giornale

LA PROVOCAZIONE

Lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Ora risposte concrete e urgenti di Luciano Gualzetti direttore Caritas Ambrosiana

di Stefano Lampertico [

@stefanolamp ]

Quando ho l’occasione di raccontare al grande pubblico l’esperienza di Scarp de’ tenis, il suo progetto sociale ed editoriale, registro con piacere espressioni di positivo stupore. È accaduto anche poche settimane fa, quando, ospite della trasmissione del mattino di Rai Uno, ho potuto raccontare il nostro Scarp. Èun progetto che piace, che genera simpatia in chi lo incontra. E noi stiamo facendo di tutto per far sì che Scarp trovi tribune nuove dalle quali lanciare il proprio messaggio. Molto importante è l’incontro con il venditore. Con

uno sforzo notevole, in molte delle città nelle quali Scarp ha una propria redazione, siamo tornati sulla strada, con i nostri venditori in pettorina rossa. L’incontro con il venditore è il modo per “incocciare” nella sua storia. E così, senza trascurare lo straordinario impegno di vendita del giornale nelle chiese delle diverse diocesi, saremo di nuovo sulla strada nella prima settimana dopo l’uscita del giornale. A Milano abbiamo predisposto una dozzina di posta-

zioni fisse dove poter incontrare i nostri venditori e acquistare il giornale. A Napoli, a Firenze, a Vicenza, incontrerete i venditori di Scarpin strada e nei mercati cittadini. Un impegno “natura-

le”, verrebbe da dire, per un giornale di strada come il nostro che, come ricordo sempre, ha senso se esiste una correlazione diretta tra chi fa il giornale, chi lo vende e chi lo legge. Se si spezza il filo che lega questi tre soggetti, è evidente che si snatura il senso del giornale di strada. Cercateci allora. E seguiteci anche sui social, sulla pagina facebook, grazie all’account twitter, a Instagram.

Buon Natale a tutti i nostri affezionati lettori. E un augurio per un anno nuovo ricco di sogni e di strade da percorrere con le scarpe da tennis

Apriamo questo numero del giornale con un’inchiesta vecchio stile, che racconta storie di strada e di vita. Le storie di chi, ogni sera, si ingegna per trovare un riparo caldo nelle notti fredde dell’inverno. E così siamo stati all’aeroporto, nelle sale d’attesa dei pronto soccorso, nelle stazioni. Che sono, ancora e troppo spesso, il luogo privilegiato per una notte tranquilla. Quello che state per leggere è il nostro numero doppio. Nel nuovo anno torneremo con qualche novità. Intanto un augurio sincero di Buon Natale e per un nuovo anno ricco di sogni e di strade da percorrere insieme.

contatti Per commenti, idee, opinioni e proposte: mail scarp@coopoltre.it facebook scarp de tenis twitter @scarpdetenis www.scarpdetenis.it instagram scarpdetenis

La crisi è stata un terremoto sociale: ha aperto una faglia nella quale sono finiti quelli che avevamo definito “equilibristi”, ovvero le persone che stavano sospese sulla soglia della povertà. Oggi sono proprio loro, italiani ultra cinquantenni, che stanno facendo fatica a risalire il baratro nel quale sono caduti. Queste persone sono impaurite, hanno difficoltà a rientrare nel mercato del lavoro e per questo vanno aiutate a recuperare il reddito, come si sta iniziando a fare con i provvedimenti del Governo che valuteremo con attenzione. Poi ci sono i giovani che hanno lavori così precari e intermittenti che non riescono a sostenere i costi degli affitti, tantomeno accendere un mutuo, specie nelle aree urbane. Per loro andrebbe fatta innanzitutto una politica della casa all’altezza della situazione. La riflessione emerge dall’analisi dei dati contenuti nel Rapporto sulle povertà nella diocesi di Milano ed elaborati dall’Osservatorio diocesano delle povertà e delle risorse. Numeri, cifre che parlano chiaro perché frutto di un incontro. L’incontro quotidiano dei nostri operatori dei centri di ascolto con chi manifesta loro un bisogno. Nell’ultimo anno, sono aumentati in misura considerevole i gravi emarginati. La crisi che morde le famiglie si riflette nel numero degli italiani che si sono rivolti ai nostri centri. Sono loro a mostrare il disagio più acuto e la minore capacità di resilienza. E l’ultimo dato che, a noi di Scarp, interessa in particolare è allarmante. I senza dimora che si sono rivolti al nostro Servizio di Accoglienza Milanese sono aumentati del 21%. Le risposte, allora, diventano urgenti. Lo sono per Caritas. Debbono diventarlo anche per chi ha responsabilità a livello politico. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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SOMMARIO

L’inchiesta vecchio stile e la testimonianza dalla Finlandia Ci voleva un’inchiesta vecchio stile per aprire questo numero doppio che ci accompagnerà per tutto il mese di dicembre e gennaio. Un’inchiesta di respiro nazionale e che, come ci piace fare, racconta storie di strada. Siamo stati all’aeroporto di Linate a Milano, nelle corsie

degli ospedali di Torino e Napoli, insieme al popolo della strada, alle persone senza dimora che nella stagione fredda cercano un posto caldo dove poter dormire. L’accoglienza invernale, soprattutto nei grandi centri metropolitani, ha negli anni aumentato la propria offerta. Un impegno non da poco, quello degli enti pubblici, che hanno permesso a molte persone di trovare un riparo notturno. Ma non basta. Non è sufficiente. Un esempio? La linea 73 dal centro collega Milano al suo aeroporto cittadino, e la sera, accompa-

gna chi, proprio a Linate, ha trovato un tetto sotto il quale dormire. Più volte su questo giornale abbiamo raccontato come l’Housing First - una casa, come prima risposta - potrebbe essere la soluzione per togliere dalla strada il maggior numero di persone. La Finlandia, da questo punto di vista è un paese all’avanguardia. A Janne Hukka, caporedattore di Iso Numero, il giornale di strada di Helsinki, abbiamo chiesto di raccontarci l’esperienza finlandese. La rete internazionale dei giornali di strada serve anche per questo motivo.

«Ma questo Nencini, cos’ha, da sorridere sempre per niente? e mangia di gusto ’sto rancio puzzone! Ma è analfabeta, e per

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rubriche

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servizi

PAG.7 (IN)VISIBILI di Paolo Lambruschi

PAG.22 L’INTERVISTA Eugenio Finardi. Quarant’anni di musica ribelle

PAG.9 IL TAGLIO di Piero Colaprico

PAG.24 COPERTINA Senza dimora: una notte al caldo

PAG.11 PIANI BASSI di Paolo Brivio

PAG.32 L’INTERVENTO La via finlandese all’Housing First

PAG.13 LE STORIE DI MURA di Gianni Mura

PAG.34 DOSSIER Neet, l’esercito silenzioso dei senza futuro

pag.14 LA FOTO di Mike Blake/REUTERS

PAG.38 LA STORIA/1 Atletico Diritti: in campo siamo tutti uguali

PAG.20 LE DRITTE di Yamada

PAG.40 LA STORIA/2 Black Lions. Giocando per l’integrazione

PAG.21 VISIONI di Sandro Paté

PAG.42 MILANO Ada resiste, una bottega tra i grattacieli

PAG.55 VOCI DALL’AFRICA di Anna Pozzi

PAG.44 TORINO Fuori campo. La città che nessuno racconta

PAG.61 CALEIDOSCOPIO

PAG.47 VENEZIA Vincenzo e il cellulare. Far del bene ti salva la vita

PAG.65 SCIENZE di Federico Baglioni

PAG.48 VICENZA Unità di strada accanto a chi non può scegliere

PAG.66 IL VENDITORE DEL MESE

PAG.52 RIMINI Noi ed Ephrata ci siamo adottati PAG.56 VENTUNO Il Trattato commerciale transatlantico. Perché fa paura PAG.62 NAPOLI Giornalismo e sport. Incontro con Francesco De Luca

Scarp de’ tenis Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it

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Direttore responsabile Stefano Lampertico Redazione Ettore Sutti, Francesco Chiavarini, Paolo Brivio

Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli

Redazione di strada Roberto Guaglianone, Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Alessandro Pezzoni

Foto Insp, Reuters, Romano Siciliani. Stefano Merlini, Guido Harari Disegni Sergio Gerasi, Gianfranco Florio, Luca Usai, Loris Mazzetti


da

lla stra sile de

Il men

aforisma di Merafina La pace dei sensi La pace dei sensi e i sensi vietati, sempre Il tweet di Aurelio [Il bonazza

@aure1970 ]

(Merate on line) - Morto Filippo Gualtieri “il barbone buono”' che per tanti anni ha vissuto in piazza e sulle panchine del parco Innestava le rose. È molto più che abbastanza. Ciao Filippo.

? Sorride un po’ perso... magari a nessuno; r giunta, terrone!»

Cos’è Scarp de’ tenis è un giornale di strada noprofit nato da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe. È un’impresa sociale che dà voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione.

Dove vanno i vostri 3,50 euro

Soldato Nencini - tributo a Enzo Jannacci

Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Per contattarci

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TOP 15

Disoccupazione in Europa 1 2 3 4 5 6

Fonte: Eurostat, luglio 2016

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34 Progetto grafico Francesco Camagna Sito web Roberto Monevi Editore Oltre Soc. Coop. via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti

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Grecia Spagna Croazia Cipro Italia Portogallo Francia Slovacchia Lettonia Finlandia Lituania Irlanda Belgio Slovenia Bulgaria

Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Elcograf Spa Verona Arretrati Su richiesta al doppio del prezzo di copertina

23.2% 19.6% 13.0% 12.1% 11.5% 10.9% 10.3% 9.6% 9.5% 8.8% 8.8% 8.3% 8.2% 7.8% 7.8%

1.121.000 4.465.000 239.000 51.000 2.960.000 559.000 3.045.000 265.000 94.000 236.000 130.000 182.000 412.000 78.000 258.000

Direzione e redazione centrale - Milano Cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3 tel. 02.67479017 scarp@coopoltre.it Redazione Torino Via San Massimo 31/C, presso Spazio Laboratorio tel. 3200454758 scarptorino@gmail.com Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12 tel. 010.5299528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Verona Il Samaritano, via dell’Artigianato 21 tel. 045.8250384 segreteria@ilsamaritanovr.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38 tel. 0444.304986 scarp@caritas.vicenza.it Redazione Venezia Caritas Venezia, Santa Croce 495/a tel. 041.5289888 info@caritasveneziana.it Redazione Rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69 tel 0541.780666 rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Il Samaritano, via Baracca 150/e tel. 055.3438680 samaritano@caritasfirenze.it Redazione Napoli Cooperativa sociale La Locomotiva via Pietro Trinchera 7, tel. 081.446862 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Sud Caritas diocesana, Salita Corpo di Cristo, Teggiano (Sa) tel.0975 79578 info@caritasteggianopolicastro.it

Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 3 dicembre al 27 gennaio

www.insp.ngo dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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(IN)VISIBILI

Quante chiacchiere e balle urlate Sarà lunga la notte della ragione Per fortuna c’è ancora tanta generosità, voglia di rimboccarsi di Paolo Lambruschi le maniche in questo tempo Segnali preoccupanti dal vecchio, grande nord. impazzito che La Caritas Ambrosiana nel suo chiede di allargare sempre puntuale ed equilibrato i paletti della tenda rapporto sulla povertà rileva che sono aumentati i senza tetto a anche ai poveri Milano, peggiorata la situazione che vengono degli italiani dall’inizio della crisi da lontano e il problema della casa affligge un numero sempre maggiore di giovani.

Brutte notizie anche dal nordest, che da locomotiva del Paese si è trasformato da molti, troppi anni in un ronzino che va al piccolo trotto. Le persone accolte nelle 130 strutture delle Caritas diocesane prese in esame sono state 3.896 nel 2015, così come nel 2014 erano state 3.865. Per la maggioranza sono uomini di origine straniera, anche se l’incidenza delle persone immigrate diminuisce dal 73% del totale al 50%, a significare che nella popolazione straniera il turnover è maggiore. Se la parte più

ricca del Paese va a fondo, aumentano gli invisibili che sono sempre più giovani e aumenta la rabbia. Non è questa la sede per parlare di ricette economiche per il

scheda

Paolo Lambruschi è nato a Milano nel 1966. Lavora ad Avvenire, come capo degli interni, dopo essere stato per tanti anni inviato. Ha diretto Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Nel 2011 ha vinto il prestigioso premio giornalistico “Premiolino” per le inchieste sul traffico di esseri umani nel Sinai.

rilancio del Nord (governato da 20 anni sempre dai sedicenti nordisti, peraltro), di politica – ormai spesso ridotta a chiacchiere da osteria e a balle da far girare sui social media – e di welfare. Prendiamo atto che questo governo almeno sul versante assistenziale qualcosa per i poveri ha iniziato a fare. Punto. Mi pare più interessante soffermarci sul clima avvelena-

to che si respira contro chiunque stia vivendo una situazione di difficoltà e dell’ostilità montante verso chi li aiuta come risultato di precise scelte politiche. Vogliamo ricordare le aggressioni ai clochard, le intimidazioni e le proteste di piazza contro chi accoglie rifugiati e richiedenti asilo senza alcun rispetto e riguardo né per le persone da ospitare (spesso soggetti vulnerabili come donne e bambini) né per l’abito religioso di chi accoglie. Perché? Perché siamo troppo ignoranti e troppo vulnerabili davanti alle balle urlate che soffiano sulla rabbia e sulla paura. È così passato nella testa di molti, grazie ai social media e ai discorsi di odio degli imprenditori politici della paura che vi circolano e ad alcuni media (parlo di trasmissioni tv senza contatto con la realtà e quotidiani sfiatati che cercano di rilanciarsi facendo a chi le spara più grosse) il teore-

aiuta i poveri in fondo lo fa per lucro. Ma la realtà resta sana. Non tutti gli amministratori delle cooperative sono quelli coinvolti in mafia capitale, non c’è solo la gestione emergenziale che porta i prefetti a decidere in fretta le collocazioni – talvolta improvvisate e mal scelte, è vero – e non tutte le storie dei migranti accolti finiscono nella delinquenza, non tutti sono qui per rubarci qualcosa, dal lavoro al letto in dormitorio. E non ci sono scandali nelle storie nobili di chi apre dormitori in parrocchie magari semivuote, di chi usa seminari e asili parrocchiali deserti per dare un tetto e una serenità a chi ha perso tutto fuorché la vita in mare. C’è ancora generosità, voglia di rimboccarsi le maniche in questo tempo impazzito che chiede di allargare i paletti della tenda anche ai poveri che vengono da lontano. C’è tanta solidarietà, ma non fa rumore e il suono assordante dell’odio rischia di renderla invisibile. Sarà lun-

ga questa notte della ragione, ma non dimentichiamo la nostra storia, le nostre radici che ci dicono che aiutare gli altri è la via che vince. E su questa strada, con queste risorse morali, l’Italia non si perderà.

ma che chi accoglie specula sulla pelle dei migranti e ruba ai cittadini. O che chi dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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IL TAGLIO

Si specula sulla politica della paura E intanto, le periferie, soffrono Posso fare l’avvocato delle periferie? Per una volta, fatemi dimostrare una tesi. Questa. Le città impaurite, le periferie terrorizzate, le nostre case angosciate, restano così da tempo e così resteranno perché portano voti. Altrimendi Piero Colaprico

scheda

Piero Colaprico (Putignano 1957), giornalista e scrittore, vive a Milano dal 1976. È inviato speciale di Repubblica, si occupa di giustizia e di cronaca nera. Ha scritto alcuni romanzi, tra cui Trilogia della città di M. (2004), vincitore del Premio Scerbanenco. Una penna tagliente. Come questa rubrica che cura per Scarp.

ti, se cambiassero in meglio, temono i politici nelle stanze del bottoni, noi persone normali saremmo ancora meno interessati alla politica e diserteremmo le urne. Questo è quanto accade nel mondo intero, e non solo in via Padova a Milano. Ecco perché, se le persone belano come pecore, spunta immancabilmente qualche politico che bela più forte. Il lupo del crimine è sempre più spelacchiato e sdentato, ma è diventato un licantropo. Più finti licantropi ci sono, più i politici professionisti del farsi gli affari loro sorridono e chiamano cani che non mordono. Gli italiani stanno tornando un po’ più ottimisti rispetto al recente passato, ma denunciano la criminalità tra i principali problemi della vita quotidiana. È difficile misurare le sensazioni attraverso le statistiche, ma la matematica dei dati oggettivi esiste. La

curva dei reati è in un calo strutturale da molto tempo. Gli omicidi degli anni ’70 e ’80 sono un pallido ricordo, lo stesso per le rapine nelle banche e negli uffici postali: solo i furti restano costanti, e, talvolta crescono. Quindi, quando abbiamo paura, non abbiamo paura per la nostra vita, ma per la nostra borsa. E ci mancherebbe. Paura legittima. Paura indiscutibile. Ma, per una volta, possiamo domandarci seriamente se, come accade per l’influenza, questa epidemia di paura sia stata inoculata da un virus, e questo virus si chiami

Soffrono le persone, e soffrono le periferie. Ma perché? Per la paura? Oppure - e diciamola questa parola una volta per tutte – per l’abbandono? “parole a vanvera”? Analizziamo l’“allarme sicurezza” tornato a Milano a metà novembre. Aperture di tutti i telegiornali e dei siti internet per un dominicano ammazzato in strada da due suoi conoscenti; e per due filippini, feriti a coltellate da altri filippini. Tutti quanti giovani: tutti quanti privi del quid che una volta si chiamava “spessore criminale”. Gente di

strada. Di fronte a questi disperati schieriamo l’esercito. Come in Iraq, come in Libano. E se uno dice che “qualcosa non torna”, in questi allarmi, e in queste soluzioni, passa quasi per cieco, per un ottuso, per un nemico delle persone che soffrono.

Infatti. Soffrono. Le persone e le periferie. Ma perché? Per la paura? Oppure – e diciamola questa parola – per l’«abbandono»? Chi seriamente si è occupato di via Padova, negli ultimi vent’anni, sia da destra, sia da sinistra? Provate a domandarlo, se siete di Milano, alle tante persone

intelligenti e impegnate che là ci abitano, ci vivono, ci ragionano, si amano e si odiano. Il sindaco Beppe Sala è stato il primo in assoluto a organizzare alcune riunioni di giunta nelle periferie. Da destra lo “sfottono”, come se fossero passerelle, in realtà è stato il primo segnale concreto di una controtendenza. “Esserci” davvero. Ma quello che,

dal nostro piccolo ci si permette di dire, è che “esserci” significa portare nelle periferie non solo i controlli, i fucili d’assalto, le pattuglie, le divise, la faccia dura dello Stato, ma un “amico”. L’idea del poliziotto, del carabiniere e del vigile di quartiere è anche questa vecchia di decenni: ma possibile che non possa venire applicata? Possibile che questi giri – io stesso li ho visti, quindi so che esistono – siano sporadici, saltuari, così volatili? Ecco perché viene il sospetto che sia vero quello che il sociologo marxista (e un po’ marziano) Slavoj Zizek disse più o meno con queste parole: «Oggi le divisioni ideologiche sono scomparse e quindi il politico come fa a tenere la sua base elettorale? Promette che si occuperà di loro, che risolverà i loro problemi. E qual è il problema più grande delle persone? La paura. Così è nata la politica della paura». Ha ragione? Abbiamo ragione noi vecchi cronisti camminanti e non telefonanti? La sentenza sull’efficacia di questa politica della paura spetterebbe a chi abita nelle case popolari, ma queste giurie non sembrano di moda: il vecchio Pci se n’è accorto solo quando le plebi metropolitane – siamo questo? O no? – in massa votarono per la Lega di Umberto Bossi. Anni ’90. Siamo frattanto arrivati al 2016, sveglia ragazzi che state nelle stanze dei bottoni. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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PIANI BASSI

Servi inutili a 30 anni, tra minuscole e maiuscole

di Paolo Brivio

Le routine non sono per forza dannose: nella vita personale e familiare, così come nell’attività professionale e lavorativa, permettono di razionalizzare tempi, comportamenti, processi e risorse. Aiutando a centrare gli obiettivi, consentendo di evitare la dispersione di energie. Però la medaglia di ogni routine presenta una faccia plumbea: l’abitudine può spegnere, più o meno lentamente, la passione e la motivazione. E così capita che la forza ripetitiva di un sistema, la razionalità operativa di un’organizzazione, la comodità gestionale di una procedura possano rivelarsi non strumento, ma fine dell’azione. Sino a

soffocarne le ragioni, sino a far vacillare le condizioni di una relazione. Che diventano insostenibili sul versante dell’umanità, ancorché gestite sul versante dell’operatività.

l’autore Paolo Brivio, 49 anni, si è appassionato ai giornali ai tempi dell’università. E ha coniugato questa passione-professione con l’esplorazione dei “piani bassi” della nostra società. Direttore di Scarp dal 2005 al 2014, oggi fa il sindaco: pro tempore, perché rimane “giornalista sociale” in servizio permanente effettivo

Le “storie” fagocitate La dissociazione tra la prassi e le sue motivazioni e finalità profonde è

un dato di realtà, che si insinua in numerose vicende individuali e collettive, e che spesso si preferisce occultare. Perché riconoscerlo può far soffrire. E rivelare la necessità di un cambiamento. Che inevitabilmente costa. A livello emotivo. E comunque economico e organizzativo. Sono dunque da salutare come oneste e coraggiose, oltre che come previdenti, tutte le imprese che vedono impegnato un soggetto a pre-

venire, in ogni caso a evitare la deriva burocratica del “si è sempre fatto così, e si continuerà a fare così, perché conviene fare così”. Una prova l’ha data, anni fa, la Federazione italiana organismi per le persone senza dimora, quando decise di

modificare la sua sigla, giocando tra maiuscole e minuscole, da FIO.psd in fio.PSD. L’acronimo è rimasto quello che è: la base di un suono piuttosto cacofonico. Ma l’intenzione grafica era indice della (ahimé rara) consapevolezza che sono le persone biso-

A dicembre, anniversario di fondazione della Federazione italiana degli organismi per le persone senza dimora. Tre decenni con gli “ultimi” delle nostre città: il consolidamento della struttura non prevale sulla umanità di ogni singolo “portatore di bisogno”

gnose d’aiuto, con i loro dolori, e prima ancora con il loro essere uomini e cittadini, a giustificare l’esistenza e la prassi degli organismi d’aiuto, non viceversa. Noi giornalisti, in effetti, sappiamo bene quel che accade, quando si chiede “una storia” a un operatore sociale: spesso, nel racconto, la vi-

cenda umana finisce fagocitata dalle osservazioni su un servizio, o dalla rendicontazione di un progetto. Non è strano, né di per sé sbagliato (anzi è per certi aspetti confortante) che il professionista non separi il caso umano dal contesto organizzativo e gestionale che può risolverlo. A patto che gli ingranaggi dell’apparato d’aiuto non siano tanto rigidi, da condurre a forme di mancato rispetto, nei confronti dell’unicità inviolabile di ogni “portatore di bisogno”. E dunque eccolo qua, l’augurio

per fio.PSD, che a inizio dicembre festeggia trent’anni di attività: che sappia proseguire nel sacrosanto consolidamento della federazione, cui ha lavorato con successo negli ultimi anni, senza tornare a rovesciare il rapporto tra maiuscole e minuscole. Sono convinto che gli straordinari operatori di organismi grandi e piccoli, che ho conosciuto al lavoro accanto alle persone senza dimora in tanti luoghi d’Italia, sono d’accordo col senso profondo, non letterale, di quanto dice un antico Libro: e cioè che i

servi riescono tanto meglio nel proprio servizio, quanto più si riconoscono inutili. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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LE STORIE DI MURA

Fatima e i suoi sogni finiti sott’acqua per sempre

di Gianni Mura

Come se il mare fosse un gentiluomo: prima le donne e i bambini. Anche donne giovani, atlete: come nel 2012 la somala Samia Yusuf Omar, nata nel 1991. Nel 2008 aveva gareggiato sui 200 metri a Pechino, arrivando ultima ma applauditissima da tutto lo stadio. Faceva simpatia quella ragazzina magra, forse pochi immaginavano quanto le costasse fare sport in Somalia, quanto mare di dolore avesse attraversato. Smette di studiare quando il padre è ucciso al mercato di Bakara, il più esteso di Mogadiscio, dove lavorava. Si occupa dei sei tra fratelli e sorelle e nei ritagli di tempo corre. Una donna che fa sport non è ben vista in Somalia né dai governativi né dai miliziani di al-Shabaab. Samia è più volte fermata ai posti di blocco, minacciata di morte se non smette di correre. Così decide di andarsene, di passare il mare, forse in Italia troverà un allenatore che la prepari per i Giochi di Londra. Non ci arriverà. Affonda nel mare di Lampedusa.

Poche settimane fa, il 28 ottobre, è annegata Fati-

ma Jawara, nata in Gambia. Lei nel settembre 2012 era in Azerbaigian tra i pali della Nazionale di calcio Under 17, forse nemmeno aveva saputo di Samia, morta in aprile, certamente non ha letto il bel libro dedicato alla storia di Samia, Non dirmi che hai paura, scritto da Giuseppe Catozzella. Ma anche lei ha deciso che il suo futuro era in Europa. Ha potuto solo sognarla, l’Europa. Il gommone su cui

si era imbarcata s’è capovolto al largo di Misurata: 97 tra morti e dispersi, ma sappiamo che dispersi è solo un modo per dire che il cadavere non è stato recuperato. La notizia è stata data dalla federcalcio del Gambia (Gff), avvertita dall’intermediario cui si era rivolta la ragazza, pagando il viaggio che attraverso il Sudan e il Sahara l’avrebbe condotta a Misurata. In Libia solita attesa, solita angoscia, solito sfruttamento. Niente pallone, bisognava solo obbedire ai mercanti di carne umana. Ma tutto sembrava accettabile, perché garantiva un altro futuro, un’altra vita. Fatima, hanno sottolineato i commenti, non era una campionessa, e d’altra parte il calcio femminile in Gambia non è particolarmente diffuso.

Fatima Jawara, nel settembre 2012 era in Azerbaigian a difendere la porta della Nazionale di calcio del suo Paese, il Gambia. Il gommone su cui si è imbarcata s’è capolvolto al largo di Misurata: 97 tra morti e dispersi, ma sappiamo che dispersi è solo un modo per dire che il cadavere non è stato recuperato

scheda

Gianni Mura è nato a Milano nel 1945. Giornalista e scrittore. Su Repubblica cura la rubrica Sette giorni di cattivi pensieri, nella quale – parlando di sport, s’intende – giudica, con voti da uno a dieci, il mondo intero. In questa rubrica racconta invece le storie di sport che, altrove, faticherebbero a trovare spazio.

In Azerbaigian la quindicenne Fatima aveva incassato 27 gol in tre partite. Nell’ordine, 0-11 dalla Corea del Nord, 0-6 dagli Usa, 2-10 dalla Francia. Tanti gol, anche se due su calcio di rigore e tre su autorete delle compagne. Molti altri ne aveva evitati. «Era una ragazza di talento», ha dichiarato il presidente federale Lamin Kaba Bajo. «Un anno fa aveva parato un rigore in un’amichevole contro una squadra scozzese». E Choro Mbenga, allenatrice dei Red Scorpions e selezionatrice delle Nazionali giovanili: «Giocatrice di qualità e ragazza coraggiosa». Non era

una campionessa, ma che importanza ha? I sogni di chiunque, atleta o no, sono da rispettare, e da piangere quando finiscono sott’acqua per sempre, in quel mare che la follia e l’indifferenza degli uomini hanno trasformato in cimitero. Fatima è stata rispettata e forse pianta con un lutto al braccio dalle squadre femminili italiane di calcio e basket e da quelle maschili di calcio (serie C).

dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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Un muro lungo il confine tra Stati Uniti e Messico. In alcune zone della California e dell’Arizona già esiste. Corre lungo i deserti rocciosi, scorre sulle dune di sabbia e su ettari di terreno agricolo, dividendo città e talvolta anche famiglie. 14 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017


LA FOTO

REUTERS/Mike Blake

scheda

Uno dei più accesi argomenti di discussione, durante la recente campagna per eleggere il nuovo Presidente degli Stati Uniti è stato certamente il “muro” di divisione tra Usa e Messico. Che in realtà esiste già, in parte. Attraversa quattro stati dalla California al Texas, è lungo 2 mila miglia, ma per Trump non basta. (foto Reuters/courtesy of Insp)

Donald Trump lo vorrebbe allungare. Dalla sua parte ha gli americani che abitano sul confine tra i due Paesi. E vorrebbe che anche il Messico contribuisse alla costruzione del nuovo muro. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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IN BREVE

europa Rischio povertà stabile, ma troppo elevato di Enrico Panero Gli ultimi dati forniti da Eurostat stimano in 119 milioni le persone a rischio di povertà o esclusione sociale nell’Unione Europea, cioè il 23,7% della popolazione. I bambini e i giovani sono i più colpiti, con la povertà che incide sulle vite di 25 milioni di minori in Europa. Dopo tre aumenti consecutivi tra il 2009 e il 2012, fino a sfiorare il 25%, la percentuale di persone a rischio di povertà è dunque lievemente diminuita tornando al livello del 2008, ma da quell’anno di inizio crisi al 2015 il rischio di povertà è cresciuto in quindici Stati membri, con gli aumenti più elevati in Grecia (+7,6%), Cipro (+5,6%), Spagna (+4,8%), Italia (+3,2%) e Lussemburgo (+3%). Secondo la Commissione europea «il modo migliore per contrastare povertà ed esclusione sociale è promuovere crescita e occupazione», ma l’European anti poverty network (Eapn), piattaforma che rappresenta oltre 6 mila organizzazioni in 31 Paesi, denuncia: «Non si vedono proposte su come l’Ue garantirà che le politiche economiche e sociali abbiano un impatto sulla riduzione dei livelli inaccettabili di povertà e di esclusione sociale». L’Eapn ritiene che gli obiettivi sociali vanno troppo spesso a scapito delle priorità macroeconomiche e fiscali, mentre servirebbe una «efficace valutazione dell’impatto sociale» per prevenire le politiche che generano un aumento della povertà. Va definita cioè un’esplicita «priorità sociale», sostiene il network europeo, riconoscendo che «le politiche sociali e la protezione sociale in particolare sono un investimento e non un costo. Info www.eapn.eu

Bergamo. Richiedenti asilo, un laboratorio di serigrafia per raccontarsi Un gruppo di richiedenti asilo accolti a Bergamo ha seguito un corso alla Serigrafia Tantemani della città. Tra loro c’era Ibrahim che nel suo Paese, il Burkina Faso, faceva il serigrafo. Viste le sue capacità è stato lanciato un crowdfunding: questo permetterebbe di fare a Ibrahim un contratto di lavoro. Il crowdfundingnasce anche per sostenere una nuova edizione del progetto a cui potranno partecipare altri migranti. Perché la serigrafia? Questa tecnica grafica è stata uno strumento per

far raccontare ai richiedenti asilo qualcosa di sé. È questa l’idea alla base di “Innumerevoli”, il laboratorio serigrafico e narrativo rivolto ai richiedenti asilo accolti sul territorio di Bergamo. Ideato e realizzato dalla Serigrafia Tantemani (progetto della Cooperativa sociale Patronato San Vincenzo), il laboratorio è stato avviato in primavera in collaborazione con la Cooperativa Ruah e la Caritas diocesana di Bergamo. facebook www.produzionidalbasso.com

street art Il festival-concorso per giovani artisti Terzo concorso nazionale MArteLive, festival-concorso le cui selezioni si tengono su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo è quello di scoprire e favorire giovani artisti emergenti e promuoverne il lavoro sulla scena artistica contemporanea nazionale. Dal 2012 l’evento MArteLive è diventato la Biennale MArteLive www.labiennale.eu. La Biennale MArteLive è organizzata dall’Associazione Culturale Procult e da diversi anni offre una buona occasione di vetrina agli artisti emergenti. Le iscrizioni al concorso sono aperte fino al 31 gennaio 2017. Info www.labiennale.eu

on

off

La task force che restituisce un nome ai migranti morti in mare

Unicef lancia l’allarme per l’aria che respirano i bambini

Si chiama I diritti annegati il libro di Cristina Cattaneo e Marilisa D’Amico che raccoglie tutto il lavoro fatto in questi mesi da un team di esperti per identificare le vittime dei naufragi. Il 2016 è stato un anno nero per la macabra lista, si parla di oltre 4 mila vittime. Il libro, edito da Franco Angeli, analizza il meccanismo di identificazione delle vittime, messe a punto dal team di ricerca dell’Università di Milano, coordinato dalla stessa professoressa Cristina Cattaneo. Un lavoro straordinario, portato avanti dall’Italia, l’unico paese che ha costruito un protocollo per identificare i migranti che non ce la fanno a raggiungere la costa, anche se non esiste obbligo di identificazione dei cadaveri. Che ha implicazioni umanitarie, ma anche legislative: come il diritto a essere riconosciuti come orfani o vedovi. La task force è formata da tante realtà diverse. Finora però la parte economica l’ha sostenuta solo l’Italia.

Secondo l’Unicef, un bambino su sette nel mondo (300 milioni) vive in aree con i più alti livelli di inquinamento esterno: sei o sette volte più alto rispetto alle linee guida internazionali. Clear the Air for Children utilizza immagini satellitari realizzate dall’Organizzazione mondiale della sanità che mostrano le zone in cui questi bambini vivono. L’indagine ci dice che l’inquinamento è causato da fattori come emissioni da parte di veicoli, ampio uso di carburanti fossili, polvere, incendi di rifiuti. Il più alto numero di bambini a rischio vive nell’Asia del Sud. Al secondo posto, l’Africa. L’inquinamento all’interno e all’esterno delle abitazioni è legato alla polmonite e ad altre malattie respiratorie che causano la morte di circa un bambino su 10 sotto i cinque anni di età, rendendo l’inquinamento stesso uno dei principali pericoli per la salute di un bambino.

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[ pagine a cura di Daniela Palumbo ]

MIlano. La Ronda della Carità cerca volontari per Natale

Alla Fabbrica del Vapore di Milano capolavori in formato Lego

Alla Fabbrica del Vapore fino al 29 gennaio c’è l’arte in formato Lego di un ex avvocato di successo, Nathan Sawaya. Oltre 100 capolavori dell’arte rivisitati dall’artista americano che si è messo a giocare-creare con i Lego dando vita a vere e proprie sculture con i mattoncini giocattolo. La Venere di Milo, il David di Michelangelo, la Gioconda, l’Urlo di Munch: sono solo alcune delle opere reinterpretate dall’artista ed esposte alla Fabbrica del Vapore. E tutti a chiedersi: ma quanti mattoncini avrà impiegato per creare le sue creature? Oltre un milione di pezzi. The Art of the Brick, questo il nome dell’esposizione, ha girato in tutto il mondo e ovunque è stato un successo di pubblico. Una mostra per tutti, grandi e piccoli. Info www.fabbricadelvapore.org

pillole homeless

I prodotti made in carcere in centro a Torino

Napoli racconta i suoi senzatetto in un documentario

mi riguarda Un progetto di Microaccoglienza in Cascina Cuccagna a Milano L’Associazione Consorzio Cantiere Cuccagna risponde all’appello del Comune di Milano sull’emergenza migranti con il Progetto Cuccagna Solidale accogliendo nei locali della Cascina alcune donne profughe con i loro figli. Tredici persone in tutto, quante ne permette lo spazio. Il Progetto Cuccagna Solidale, realizzato in collaborazione con l’Associazione Il Gabbiano Onlus, e con il contributo di Milano Ristorazione che fornisce i pasti principali, consiste nel mettere a disposizione, spazi, risorse, competenze ed esperienze per ospitare nove donne migranti e quattro bambini di nazionalità somala ed eritrea per il periodo necessario a trovare una collocazione stabile, diversa dai centri di accoglienza straordinaria dove sono accolte appena arrivate a Milano. Il modello è quello della microaccoglienza diffusa che l’Associazione Il Gabbiano Onlus sta sperimentando in diverse province lombarde. La sfida è di “integrare” questo progetto di accoglienza all’interno della complessa e variegata realtà di Cascina Cuccagna.

Si cercano volontari per la Messa di Natale 2016. L’appuntamento è per il 24 dicembre alle ore 21 al mezzanino della metropolitana di Porta Venezia: la funzione sarà animata dai canti natalizi e a seguire ci sarà un rinfresco per le persone senza dimora, offerto da cittadini e volontari per un giorno - singoli, coppie, amici e famiglie - che a casa prepareranno del cibo. Quella voluta da Ronda della Carità è una Messa aperta a tutti coloro che lo desiderano, per testimoniare condivisione e attenzione a chi vive per strada. La Messa della vigilia di Natale è una tradizione per Ronda della Carità e solidarietà, che da anni condivide questo momento con i senza dimora, con i volontari, e con i cittadini che lo vogliono. Chi desidera partecipare come volontario a questa iniziativa, può prendere contatto con la sede dell’Associazione dal 12 al 21 dicembre, inviando una mail a eventi.rondacaritamilano @gmail.com

Senzatetto. Le loro storie sono state raccolte e raccontate nel documentario Napolinsieme: contro l’indifferenza. Il documentario è realizzato da Giampiero De Luca e Salvatore Polizzi e prodotto dall’Associazione Pensare-Fare e dai volontari di Napolinsieme. Nel documentario sono mostrate le modalità con le quali un gruppo di volontari scende in strada per dare solidarietà e aiuto concreto ai senza fissa dimora della città. I due registi hanno ascoltato le storie di chi in strada ci è finito, per mille motivi diversi. Loro stessi testimoniano la propria vita. Si finisce per strada per scelte sbagliate, perché si resta senza lavoro in un’età in cui è difficile ricollocarsi. Oppure perché in fuga dal proprio paese d’origine e senza alternativa nel posto in cui si arriva. A Napoli i numeri sempre in crescita. Sono 4 mila le persone assistite dall’associazione di volontari.

FreedHome-Creativi dentro. A Torino c’è il primo negozio dedicato ai prodotti made in carcere. Il punto vendita è di fronte al palazzo del Municipio. Il negozio è stato ristrutturato da detenuti e guardie penitenziarie. Al suo interno vengono distribuiti i prodotti di tredici aziende create nelle carceri italiane: accessori, oggetti di design e prodotti enogastronomici. A concedere i locali in comodato d’uso, all’interno di un edificio che fu progettato da Lanfranchi e Juvarra, è stato il comune di Torino. Della ristrutturazione, invece, si sono occupati direttamente detenuti e agenti penitenziari: per oltre due mesi hanno lavorato insieme, organizzando i turni e facendo avanti e indietro tra il carcere Lorusso e Cutugno e le vetrine del civico 2/C di via Milano.

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IN BREVE

C’è solo una strada, la casa Michele Ferraris Sembra ieri quando abbiamo iniziato l’avventura dell’Housing First. Il 1 marzo del 2014, la fio.PSD lanciava a Torino il programma nazionale di sperimentazione dell’Housing First e invitava i servizi che lavorano sulla grave marginalità a portare avanti progetti ispirati a questo approccio innovativo basato sull’inserimento diretto delle persone senza dimora dalla strada alla casa. Ci abbiamo creduto e con il Network Housing First Italia - 53 adesioni tra comuni, cooperative, mondo Caritas e fondazioni abbiamo dato una casa a oltre 500 persone che vivevano un grave disagio abitativo (persone senza dimora croniche, adulti soli, famiglie senza casa, padri soli, ex detenuti). I primi risultati, le buone pratiche ma anche le sfide verranno presentate e discusse di nuovo a Torino il prossimo 6 dicembre 2016 durante la Conferenza Internazionale Housing First promossa da fio.PSD che ha scelto un titolo provocatorio ma incisivo che ci porta dritti verso l’obiettivo: “C’è solo una strada: la casa”. Molti degli studiosi che ci hanno seguito in questi due anni di sperimentazione sociale insieme a enti e beneficiari racconteranno gli esiti dei 33 progetti pilota che si sono sviluppati nel Paese, da Acireale a Pordenone. Qualche risultato tra i più significativi: in Housing First la persona ritrova un luogo sicuro, stabile e intimo; la salute migliora riducendo così il ricorso a servizi sanitari; si riattivano i legami sociali e relazionali con amici e parenti; si riconquista un lavoro che ridà dignità e speranza ma, soprattutto, si riconquista la libertà nel momento in cui si lascia il programma perché si è raggiunta un’autonomia personale (e sono già in 30!).

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QUATTRO DOMANDE

Sulla Francigena, in cammino ritorna la speranza di Daniela Palumbo

Fabiano Gorla è un educatore della comunità Il Mulino, di Noviglio, gestita da Cooperativa Sette di Binasco che accoglie giovani “dipendenti”. A settembre è partito per sei giorni insieme a 52 persone. Tutti insieme a camminare sul tratto toscano della Via Francigena.

Un gruppo particolare, eterogeneo, che ha intrapreso il cammino con un intento pedagogico, trentacinque di questi sono infatti pazienti di comunità di accoglienza e servizi sanitari: persone che soffrono di dipendenza da alcol, droga o gioco d’azzardo. Dieci erano operatori degli stessi servizi da cui provengono i pazienti: educatori, psicologi, assistenti sociali. E otto alpinisti dell’associazione Alpiteam. I trentacinque pazienti, di età compresa tra i 22 e i 65 anni, hanno percorso 115 chilometri, dall’11 al 16 settembre. Come è nato il progetto? Tutto è cominciato quando noi operatori dei servizi pubblici e privati del territorio lombardo abbiamo cominciato a fare rete. Una volta al mese ci incontriamo per condividere esperienze, terapie, difficoltà. L’idea del cammino come esperienza di vita in comune ci piaceva ma ci spaventava anche. Ma alla fine è andata benissimo. Abbiamo scelto la Toscana per la bellezza del territorio, per la natura, ma anche per i luoghi di interesse storico. Come erano organizzate le giornate?

Ogni giorno, sveglia alle 5 e 30, mezz’ora di yoga o stretching, colazione e alle 7.30 partenza. Circa 25 chilometri al giorno, arrivo intorno alle 16.30. Durante il cammino leggevamo poesie, romanzi, con spunti di riflessione. Dopo le ore di cammino avevamo due ore tutte per noi. Prima di cena si tenevano degli incontri per parlare della giornata trascorsa e delle emozioni vissute. Il cammino ha mantenuto le promesse, gli intenti con i quali lo avete iniziato? Più di quello che ci si aspettava. Le difficoltà iniziali – la fatica, la convivenza – sono passate in fretta. Durante il cammino sono cominciate relazioni umane più profonde che nella quotidianità. C’è stato il racconto della propria vita fatto in maniera spontanea. Si sono creati rapporti di vicinanza profonda. Ci siamo resi conto che il cammino è uno strumento pedagogico fenomenale con il quale misurare la costanza, allenare il sacrificio e far nascere la dimensione della speranza e del desiderio di una nuova vita. Fabiano raccontaci l’utlima tappa e il momento dell’arrivo a Siena. In piazza del Campo c’è stata un’esplosione di gioia, per avercela fatta, l’emotività che si libera, operatori che volavano in aria, persone che si abbracciavano piangendo. Momenti che ti legano. Continuiamo a vederci, a stare insieme nelle domeniche invernali, camminando in montagna. Abbiamo sempre più pazienti che vogliono camminare con noi. Siamo già proiettati a unire il cammino al volontariato, il prossimo anno. Pensiamo alle zone terremotate e all’aiuto che possiamo portare.


IN BREVE

Cercate le pettorine rosse. La mappa milanese dei venditori di Scarp

In molti dei nostri affezionati lettori ci chiedono spesso dove poter trovare il giornale. Scarp è per natura e dna un giornale di strada. Sulla nostra pagina facebook settimanalmente pubblichiamo i luoghi dove, nelle diverse città italiane, è possibile acquistare la copia dai nostri venditori. Da qualche tempo Scarp, inoltre, ha rafforzato la sua presenza in strada. A Napoli, Firenze, Vicenza è possibile per esempio trovare i venditori in strada. A Milano, invece, Scarp sarà per una settimana in undici postazioni fisse per proporre ai lettori il numero fresco di stampa. Cercate allora il venditore con la pettorina rossa.

Dal 12 al 16 dicembre a Milano ci trovi in questi luoghi Piazza Cadorna (9-12) Stazione Garibaldi (16.30-19.30) Stazione Centrale (16.30-19.30) Regione Lombardia (11.30-14.30) Darsena (16.30-19.30) Piazza XXV aprile (16.30-19.30) Piazza Fontana (9-12 e 14-17) Piazza Duomo – Mondadori (14-17) Piazza dei Mercanti (11-14) Piazza della Scala – Galleria (9-12 e 14-17) Piazza Cairoli – Via Dante (9-12 e 14-17)

Anche Zagor ha la sua raccolta di figurine Anche Zagor, dopo il grande successo della collezione di figurine dedicata a Tex è in arrivo, in tutte le edicole, con la sua raccolta di figurine. Il mitico personaggio della Sergio Bonelli Editore nato dalla fantasia di Guido Nolitta (pseudonimo dello stesso Sergio Bonelli) e interpretato graficamente da Gallieno Ferri, infatti, arriva in edicola con una collezione Panini che prevede figurine e cards da custodire in un album. La collezione di “Zagor” si fregia anche di una esclusiva, una storia inedita di 16 pagine completabile con le figurine. Ovviamente una storia importante, con testi di Moreno Burattini e disegni di Walter Venturi.

LA STRISCIA

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LE DRITTE DI YAMADA

Santoka ci guida nel magico mondo degli haiku

Non sapevo nulla di questo librino finché non me lo sono trovato davanti in libreria. Non posso neppure dire di averlo comprato per la bellezza della copertina,anche se ritrae il volto di uno dei due viaggiatori del titolo – il monaco buddista giapponese Santoka –in una foto virata a un quasi-turchese, uno dei miei favoriti, tra i colori; per finire, nulla sapevo della scrittrice finché non ho letto qualche riga, decidendo poi di volere entrar meglio nel libro, a casa: è così che ho conosciuto Haiku e Sakè. In Viaggio con Santoka firmato da Susanna Tartaro, curatrice di Fahrenheit, trasmissione di libri e cultura di Radio3 e di un blog, Dailyhaiku, scoperto da poco. Mi capita, rimettendo un libro al suo posto, di occhieggiare qualche frase o un piccolo verso, così, per “salutarlo”. Faccio lo stesso con dei librini di haiku, ricevendone – alla lettura – un indefinibile benessere.

Il librino di Susanna Tartaro riesce nel duplice intento di dare gli strumenti per orientarci nella bellezza di questi piccoli componimenti poetici, e al contempo di dialogare con il suo mondo interiore, che

Il librino di Susanna Tartaro riesce nell’intento di dare gli strumenti per orientarci nella bellezza dei piccoli componimenti poetici giapponesi, e al contempo, di dialogare con il suo mondo interiore

il libro Haiku e Sakè. In viaggio con Santōka di Susanna Tartaro

mescola e rispolvera incontri, ricordi e sensazioni con un taglio essenziale trasparente ed empatico. L’amore per gli haiku, che l’autrice presenta come una sintesi “illuminante, semplice, cosmica” ante-litteram tra twitter e instagram, le è stato passato da un mo-

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Si può nascere in una famiglia di ’ndrangheta eppure scegliere una strada alternativa e rigettare la violenza? Si può amare un padre in carcere e riuscire lo stesso a prenderne le distanze, immaginando per sé un destino diverso? Sì, raccontano le pagine di Generazione Rosarno, viaggio di speranza in quella parte di Calabria che i clan più potenti considerano loro regno incontrastato. Serena Uccello Generazione Rosarno Melampo, euro 6

La sartoria speciale di Suor Rosemary La storia di suor Rosemary, ugandese, che da 15 anni offre alle ex bambine soldato la possibilità di ricominciare. Ha aperto una scuola, accoglie le ragazze e insegna loro un mestiere. Corsi di cucina e cucito. Fra cui borse, comprate dalle star di Hollywood. Cuciono insieme le linguette delle lattine per farne borse luccicanti e così “ricuciono gli strappi della vita”, racconta suor Rosemary. H.Nancy, W. Reggie Cucire la speranza Emi, euro 17,50

La cuccia del filosofo

[ a cura di Daniela Palumbo ]

testo e foto di Yamada

naco – Santoka, poeta di haiku (haijin)– vissuto tra il XIX e il XX secolo. Il suo primo haikuletto da lei dice così: «Cuscino di pietra / accompagno / nuvole». Eccolo l’autoritratto dello “spirito-guida” di Susanna Tartaro, espresso in tre righe (ku), nella rigida conta di sillabe (devono essere 17 in tutto, ripartite in 5-7-5), e con un rigo dedicato alla stagione (kigo). L’effetto magico degli haiku è tutto in un’altra parola da ricordarsi, kireji, ovvero “il ribaltamento concettuale espresso con l’ultimo dei tre ku”: l’uso sapiente del kireji offre al lettore il prestigio finale. Per tornare al monaco Santoka, “alta cima fiammeggiante”, “a dispetto del suo nome zen, dormiva spesso per terra, sotto le stelle, cullato dal canto dei grilli e con un sasso per cuscino”. Diviene monaco e viandante quasi per espiare dolori e insoddisfazioni della sua vita “precedente”. «Davanti, dietro / bagaglio pesante / che non posso abbandonare», si prende cura dei suoi fardelli, li tiene nelle sacche con gli altri suoi poveri averi: il taccuino, l’inchiostro, la ciotola per le elemosine e il cibo, e una bottiglietta per il sakè. Santoka cammina lungo il Giappone con bastone e cappello, contempla il mondo che gli si apre innanzi, consuma i suoi sandali di paglia, scrive haiku e beve sakè. L’alcol sfuma la disperazione e smussa gli spigoli che lacerano la sua anima: questa “imperfezione” – per niente zen – attira l’autrice che, sottobraccio, comincia a camminare con lui: principalmente per Roma, diffusamente dappertutto, nel tempo e nello spazio reciproci.

Generazione Rosarno

Guardando idealmente il mondo dalla cuccia di Snoopy, Saverio Simonelli riflette con leggerezza e ironia su temi capitali, dall’amicizia alla fede in Dio, dalla felicità alla paura di crescere. Il libro nasce nel ricordo del 13 febbraio del 2000 quando comparve l’ultima vignetta di Charles Schulz. AA.VV La cuccia del filosofo Ancora, euro 14


VISIONI

Massimo Zanichelli ha firmato la regia di Sinfonia tra cielo e terra (2013), F for Franciacorta (2015) e Generazione Barolo - Oddero Story (2016)

La pelle dell’orso Un film di altri tempi. Di Marco Segato, interpretato da Marco Paolini. Anni Cinquanta, racconta la storia di Domenico e di suo padre Pietro, perdente e umiliato. Pietro accetta una scommessa con il suo datore di lavoro: uccidere l'orso che minaccia il piccolo paese nelle Dolomiti, dove abitano. Il figlio parte con il padre e un chilometro dopo l'altro la distanza che li separa si fa sempre più sottile.

Nel documentario di Zanichelli c’è Il (vero) volto di Milano Gianni Mura, la regista Marina Spada, lo scrittore Giorgio Fontana no la fortuna di intercettare questo e l’artista Maia piccolo grande progetto audiovisi- Sambonet vo, ancora in cerca di un distributore raccontano la cinematografico, avranno la possibilità di fare un viaggio nello spazio nuova Milano e nel tempo. Grazie alle interviste cercando di capire realizzate per l’occasione e alla se è molto diversa splendida fotografia di Davide di Lernia, Il volto di Milano fa fare un da quella degli viaggio in una città che sta anni Sessanta

Nel bel documentario di Massimo Zanichelli, docente di cinema, saggista ed esperto di vino, ci sono tanti volti di Milano. Le persone che avran-

cambiando nella forma e nella sua composizione. Insom-

ma, questo è il momento in cui il milanese tipo si sta trasformando e il panorama che ha di fronte ancora di più.Come fa notare Giorgio Fontana, scrittore che ha scelto spesso Milano come ambientazione dei suoi romanzi, i locali di Brera con artisti provocatori descritti da Luciano Bianciardi non ci sono più. In effetti, anche i cabarettisti del Derby, se fossero ancora su piazza, non troverebbero palchi su cui esibirsi. Quella triade geniale che ha raccontato pregi e difetti dei milanesi durante gli ultimi anni, Dario Fo, Giorgio Gaber ed Enzo Jannacci, purtroppo oggi si può vedere solo in una

il film Il volto di Milano Regia: Massimo Zanichelli Anno di produzione: 2016 Durata: 55' Documentario, Italia

Docufilm sui bambini sfruttati in Cambogia Talking to the trees è un film denuncia sulla prostituzione minorile in Cambogia, prodotto, diretto e interpretato da Ilaria Borrelli. Una giovane fotografa parigina vola in Cambogia per raggiungere il marito. Qui scopre però che l’uomo ha rapporti sessuali con bambine del luogo e decide di salvarle per restituire loro l'innocenza dell’infanzia.

I giganti di Roald Dahl [ a cura di Daniela Palumbo ]

di Sandro Paté

gigantografia nella vetrina di una libreria in stazione Centrale. I giornalisti che hanno fatto grande il Corriere della Sera chissà come rimarrebbero vedendo il cartello gigante con la scritta “Affittasi uffici” in bella vista sulla sede storica di via Solferino. Molte situazioni, è ovvio, sono cambiate. Altre ne cambieranno finiti gli ultimi grattacieli. Eppure, come ci racconta l’artista visiva Maia Sambonet con parole davvero interessanti e affettuose per questa città che sta cercando la propria identità, «sembra una città un po’ tappata come se avesse sotto una forza che da qualche parte sta spingendo». Quasi ci fosse dietro l’angolo un anno zero o l’opportunità di ripartire. Come è accaduto durante il boom economico dei primi anni Sessanta, c’è il rischio che il miracolo non sia davvero per tutti. Per Marina Spada, documentarista milanese che ha dedicato a tanti concittadini alcuni geniali videoritratti come per il fotografo Gabriele Basilico, «Milano è un posto duro. Moltissime persone in questa città stanno scivolando verso la povertà e l’esclusione sociale». Per Gianni Mura che in città ha passato gli ultimi quarant’anni «Milano confonde la frenesia con l’efficienza». Il documentario di Massimo Zanichelli insegna a fare tesoro degli errori fatti nel passato e non dimenticare la propria storia. Ritratto di una città da non perdere.

Steven Spielberg incontra il GGG (Grande Gigante Gentile) immaginato dallo scrittore Roald Dahl e attraverso lui parla ai giovani del dolore e della sofferenza. E quando il GGG rapisce Sophie e la porta nella sua caverna, lei è spaventata dal misterioso gigante ma ben presto si rende conto che è dolce e amichevole.

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Finardi festeggia quarant’anni di carriera coronata da successi indimenticabili. Da Musica ribelle a La radio canzoni che hanno accompagnato migliaia di giovani

Eugenio Finardi Quarant’anni di musica ribelle di Daniela Palumbo foto di Guido Harari

Il cantautore milanese si racconta a Scarp: «Chi somiglia di più alla mia generazione, a come eravamo noi? È paradossale, ma è Papa Francesco. Capace di andare controcorrente» 22 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

Tutto è cominciato con il ritrovamento di un vecchio scatolone dove c’era l’Archivio Cramps. Ovvero, il materiale dell’etichetta discografica, la Cramps appunto, con la quale Eugenio Finardi ha iniziato la sua carriera di musicista. Dentro lo scatolone, fra l’altro, c’era tutta la registrazione dal vivo del suo primo disco, Sugo, del 1976. La canzone manifesto dell’album era Musica Ribelle. Da quei ricordi nasce il progetto 40 Anni di Musica Ribelle, che contiene i nastri originali dei primi cinque album di Finardi ma anche immagini inedite e testimonianze da cui traspare una visione esistenziale non solo di rabbia, ma anche di speranza verso un cambiamento sociale, che animava l’Eugenio di allora. «Avevo 22 anni e Lucio Fab-


bri, uno dei chitarristi – ci racconta il musicista – ne aveva 16. Eravamo dei ragazzini, eppure abbiamo creato qualcosa di nuovo, una via italiana al rock. Per me quello scatolone è stato come la madeleine di Proust. Ma anche l’occasione di un bilancio della mia vita. E tutto sommato, sono contento. Perché ho mantenuto tanto di quel ragazzo che urlava rabbia e cercava la speranza. Insomma, credo sempre nell’impegno di ciascuno per rispondere ai bisogni di chi è più fragile». Eri un cantautore antisistema. Oggi i cantautori usano più l’ironia, meno la rabbia. L’ironia va benissimo, anche perché noi esprimevamo anche una speranza, ecco se c’è una differenza fra noi e le generazioni dei nostri figli, sta nel fatto che noi eravamo convinti che ci saremmo riusciti a cambiare il sistema. Adesso nessuno ha più questa percezione. Tutto sembra ineluttabile, al massimo la rabbia viene declinata in demagogia, istanze populiste di destra. È una rabbia che non è propositiva, non ha prospettive di apertura verso il mondo, verso le persone. Oggi viviamo gli altri come rivali. Tornando ai cantautori di oggi l’arma migliore in questo contesto è proprio l’ironia. Mi piace moltissimo Silvestri, il miglior giocoliere di parole, ma anche Gazzé, Fabi, Capareza. Ma io in realtà sono un grande amante del pop, i miei artisti preferiti del passato, italiani, erano i Pooh. Certo, poi amo anche De André e Battiato. Insomma, nessuno ha voglia di rivoluzione oggi. È paradossale, ma colui che somiglia di più a come eravamo

La canzone di Franco è ispirata a un incontro con una persona che non vedevo da tanti anni e che ho ritrovato alla Casa di Accoglienza Enzo Jannacci di viale Ortles, a Milano

noi, è Papa Francesco. Qualche giorno fa ha detto che se i soldi che si spendono per salvare le banche, fossero spesi per salvare gli esseri umani, potremmo salvare il mondo, in sostanza. Questo oggi è controcorrente . Rivoluzionario. Ti ha cambiato la nascita di Elettra? Certamente sì. Mia figlia è una donna di 34 anni, down. La sua diversità ha cambiato il mio impegno su degli ideali astratti in una battaglia quotidiana per la difesa dei diritti dei più deboli, della giustizia in sostanza. Ma sono cambiato anche nel modo di rapportarmi con gli altri, con i miei collaboratori, con tutti. I figli sono anche la proiezione di noi stessi. Li vediamo come coloro che riusciranno a realizzare ciò che noi non siamo riusciti a fare, invece la diversità ti pone di fronte all’accettazione dei nostri

L’INTERVISTA figli e degli altri, per come sono e non per come vorremmo che fossero. Per me è stato un cambiamento fondamentale. Ma oggi mi guardo intorno e vedo che si fa molta fatica a proiettarsi nella vita di un’altra persona. Penso ai migranti, facciamo fatica a cercare di immaginare cosa può essere stato il loro disagio per accettare tutto quello che gli accade in questi viaggi maledetti, per poi essere trattati come li trattiamo noi. Padre bergamasco, mamma americana, cantante lirica. Vivi in Italia ma hai sempre sentito forte l’identità americana. Una volta ho chiesto a uno psichiatra ungherese scappato in Canada, quale fosse la differenza fra gli europei e gli americani. Lui mi rispose: gli europei chiedono sempre: Perché. Gli americani chiedono sempre: Perché no? È uno dei temi della mia vita. Ho fatto tante esperienze... immersioni subacquee, mi sono rotto una caviglia col parapendio per imparare a volare. Ma ma anche musicalmente, a un certo punto ho abbandonato Finardi e ho cominciato a fare il fado portoghese, il blues, la musica spirituale, la musica classica contemporanea. E a tutti quelli che si chiedono, ma per-

scheda Eugenio Finardi è nato a Milano il 16 luglio 1952. Figlio d’arte, fin dall’età di nove anni ha dimostrato una grande propensione verso la musica, incidendo un disco di canzoni per bambini. A livello professionale inizia la carriera musicale negli anni Settanta, esibendosi come cantante rock in diversi gruppi. Ad oggi ha pubblicato oltre trenta album, di cui quattro live e nove raccolte dei suoi brani più celebri.

ché? Non c’è altra risposta. Perché no? Eugenio che ricordi hai dell’infanzia? Giocavamo in strada. Sembrava un po’ il romanzo dei ragazzi della via Pàl. Noi della stessa via eravamo una banda che combatteva, per modo di dire, contro l’altra banda che erano i ragazzini della strada parallela. Poi alla fine siamo diventati amici. Però la strada dove nascevi era un segno di identità. Naturalmente eravamo tutti maschi nella banda, femmine e maschi non stavano mai insieme a quell’età. Avevamo 10 anni. C’è una bellissima canzone nel tuo ultimo album, del 2014, Fibrillante. Si chiama La canzone di Franco. È una storia vera? È ispirata a una persona che ho incontrato pochi anni fa e che oggi vive a Casa Jannacci, in viale Ortles, a Milano. Ero con mia figlia Elettra. Eravamo a pranzo fuori. Usciamo e si avvicina un uomo: “Eugenio ciao, come stai? Non mi riconosci?”. Effettivamente il volto non mi era nuovo. Mi metto a parlare, era una persona che lavorava nel mondo della musica, negli anni Ottanta, quelli che accompagnavano i cantanti per il mondo. Faceva la vita degli artisti: grandi alberghi, soldi, alcool e droga. Fino a che la moglie lo ha lasciato, portandosi via la figlia. Lui nel frattempo è caduto sempre più giù. Con la vita che si avvitava su se stessa. Ed è finito in strada. Gli chiesi se avesse rivisto la figlia. “Non la vedo da 4 anni. Lei crede che io sia in Africa a lavorare per un’associazione che lotta contro la povertà. Non voglio che mi veda così”. La canzone di Franco nasce da quell’incontro.

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COPERTINA

Sono almeno una cinquantina i senza dimora che passano la notte all’aeroporto milanese di Linate, luogo caldo e sicuro in cui la loro presenza, purchè discreta, viene tollerata

Se guardi bene li riconosci, anche se cercano di non dare nell’occhio. Li trovi negli aeroporti, nei pronto soccorso, sugli autobus in servizio notturno. Ma anche in qualche bancomat, sui treni parcheggiati o in qualche stazione di provincia. Sono i forzati del sonno, alla ricerca di un posto caldo e sicuro dove passare le notti invernali. E che nei dormitori o nei rifugi non ci vogliono andare. Per vergogna. Ma anche per paura. Viaggio di Scarp tra gli irriducibili della strada

Una notte al caldo 24 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017


dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

di Francesco Chiavarini foto di Stefano Merlini

Scende una pioggia leggera da ore. Non fa ancora freddo a Milano in questo lunedì sera di novembre inoltrato. Ma l’umidità entra nelle ossa. Stefano mi aspetta puntuale come ci eravamo detti al cellulare, alle 20, sotto il porticato di San Carlo al Corso, la chiesa rotonda nel centro della città, dove predicò padre Davide Maria Turoldo il prete della resistenza. Berretto di lana, giacca a vento, blue jeans. Viso perfettamente sbarbato. Il trolley e una borsetta da viaggio accanto. Lo si scambierebbe per un turista in visita, se non fosse per la sua parlata strascicata e il suo accento, due tratti inconfondibilmente milanesi. Stefano, 57enne, da 5 anni vive in strada, dopo aver perso prima il lavoro in un’azienda di trasporti («no, non è stata la crisi, è che ho fatto una

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cazzata»), poi entrambi i genitori nell’arco di un solo anno e infine la casa, un appartamento a Niguarda dove viveva coi suoi venduto ad un poco di buono che al momento del rogito è sparito. «Ciao, come è andata oggi?» «Che vuoi. Con la pioggia è tutto più complicato. Non si sa dove andare», si schiarisce la voce. «C’è chi si rintana in biblioteca, ma io non ci riesco a stare fermo lì per ore. Così mi sono fatto cinque corse avanti e indietro sulla 94, giusto per stare riparato e cercare di farmi passare questa maledetta tosse». Ci accomodiamo sul basamento delle colonne, il più possibile all’interno del colonnato per evitare di bagnarci e aspettiamo non si sa bene chi e che cosa. Nel frattempo sull’altro lato della piazza un gruppetto si attrezza già per la notte: coi cartoni costruisce delle casupole appoggiate alla facciate

della chiesa. Ad un certo punto sbuca un tizio, capelli bianchi annodati in un codino, sigaretta che pende dalla bocca. Si chiama Alessandro ed è una celebrità in questo mondo, perché i giornali hanno raccontato la sua storia: «l’ex broker di Borsa che ha scelto la strada», hanno scritto. «’Sti stronzi che rovinano sempre tutto, vanno a chiedere da mangiare quando ci sono ancora i clienti e così quello si scoccia ed ora non ce n’è più per nessuno», sbotta. Gli “stronzi” sono i rumeni. E quello che si è seccato è il barista all’angolo che a fine giornata, invece di buttarli, i panini che non sono stati consumati, li allunga ai senza tetto. «Ma bisogna saperglieli chiedere», insiste. «Non come questi qui che invece non capiscono niente: io alzerei un muro, altro che accoglierli», s’indigna e poi,


VERONA

Vivere in strada da tossicodipendente: «Le notti al freddo non finiscono mai» I posti vicini alle toilette sono i più gettonati. Sono in molti a evitare i dormitori pubblici in inverno perchè troppo affollati e poco controllati

Mi presento: ho 51 anni, e da 19 anni faccio parte della categoria dei senza dimora. Come mi chiamo poco importa. La mia storia è uguale a quelle di tanti altri. Prima, come tutti, avevo anch'io una famiglia. Faccio parte, e questo da molto più tempo ancora, (dal 1980) di un'altra categoria di persone: quella dei tossicodipendenti. Ho quasi sempre vissuto ai margini della società. Vivevo alla giornata tra un espediente e l'altro, non c'era nulla di importante e significativo nella mia vita, tranne forse l'eroina. Ho dormito per tanto tempo sotto i portici del centro di Verona in estate, mentre d'inverno ho cambiato più di una casa abbandonata, il mio rifugio d'elezione, insieme a tanti altri. Erano sempre case sporche, senza comodità alcune, però, avevano un materasso vero al posto del giaciglio di cartoni. Certo, in questi luoghi sinistri, oscuri, la notte bisogna sempre stare attenti. Nell'ultimo posto, in cui sono rimasto per tre anni, la notte mi chiudevo il portone d'ingresso alle spalle con un catenaccio pesante che avevo trovato là. La mattina quando me ne andavo chiudevo con un lucchetto americano grande, di quelli di acciaio puro. Durante i lughi inverni, scaldarsi era impossibile, non essendoci né un camino né corrente, e così, dopo aver camminato tutto il giorno in città per scaldarmi, giunto al rifugio mi infilavo sotto 3 o 4 coperte, avvendevo una candela se c'era e leggevo qualche pagina per addormentarmi e dimenticare tutta la mia vita. Per via dei topi non potevo tenere del cibo e per mangiare contavo sulle mense dei poveri cittadine oppure se avevo soldi una pizza o un panino andavano benissimo. C’è chi pensa ancora che vivere per strada sia una scelta. Una scelta che non augurerei al mio peggior nemico [S]

pontifica: «Vedi, io uso sempre questa metafora: l’Italia è come una madre che a furia di dare da mangiare a tutti, non ha più soldi per sfamare i suoi figli». «Bravo, hai ragione, fuori tutti», interviene un altro con accento rumeno. «Ma come fuori, scusa, anche tu allora?» gli obietto. «Ma no, che c’entra. Io sono europeo. Fuori tutti, vuol dire i neri», replica. I panini della Ronda Poi ad un tratto la piccola folla si muove. Stefano mi fa cenno di seguirlo. Giriamo l’angolo della galleria, seguendo il profilo dei portici e sbuchiamo in via cardinal Martini. Sotto l’Arcivescovado è arrivato il camper della Ronda della Carità. I volontari distribuiscono coperte e cibo a una quarantina di persone, rumeni, bulgari, molti

Il dormitorio? Per carità. Viale Ortles con il piano freddo si riempie, da 500 passiamo a 800, ma i bagni sono sempre quelli. E poi non c’è controllo. Ci sarebbero i dormitori privati, ma puoi starci solo per un certo periodo e io ne ho già usufruito

italiani e qualche donna. Stefano prende un sacchetto con un panino al salame, un plumcake, e un bicchiere di tè. Per la cena siamo a posto. Ora possiamo pensare a dove passare la notte. «Il dormitorio? Per carità. Viale Ortles con il piano freddo si riempie come un uovo, da 500 passiamo a 800, ma i bagni sono sempre quelli. E poi prendono tutti, non c’è controllo. Ci sarebbero i dormitori privati, ma puoi starci solo per un certo periodo e io ne ho già usufruito», risponde. E allora? La fermata della 73, la navetta che congiunge il centro di Milano all’aeroporto di Linate è lungo corso Europa. La raggiungiamo in un attimo. Stefano finisce la sigaretta, spegne la cicca per terra e saliamo. «Vuoi un biglietto?». «No grazie, sono a posto, ho la tessera annuale dell’Atm, ogni anno faccio domanda a gennaio, una

volta sì e una no me la danno: è la regola. Tra i passeggeri c’è anche una coppia che sembra trascinarsi dietro una casa: tre valigie avvolte nel cellophane, un borsone, e una gabbietta con dei conigli. «Sono due bulgari», fa scuotendo la testa, e «dico che sono un problema, ma mica perché sono razzista. La ragione è semplice. Con tutto quello che si portano appresso danno nell’occhio. A Linate ci lasciano stare, la polizia fa finta di niente, ma fino ad un certo punto, non devi disturbare i clienti. È normale che sia così. L’anno scorso quando si è scoperto che i clochard dormivano qui, una mattina hanno mandato addirittura i militari dell’esercito a cacciarci fuori. Poi le acque si sono calmate e siamo tornati, ma bisogna stare attenti». Dormire alle partenze Alle 22 nella sala degli arrivi, sono già una trentina i passeggeri in partenza per nessun luogo, mentre gli impiegati stanno per finire il turno. C’è chi si è sistemato lungo corridoi, vicino alle toilette, i posti che pare siano i più ambiti. Altri bevono e chiacchierano sui tavolini in attesa di sistemarsi al piano di sopra, alle partenze, dove si può rimanere tranquilli fino alla riapertura del check-in attorno alle 5.30. L’ultimo volo, è quello da Roma, e atterra alle 23.10. Dopo di allora agli “arrivi” chiude anche il bar e ci si può stendere tra i tavolini perché tolgono le sedie. Stefano apre il trolley, tira fuori il sacco a pelo, e lo srotola. Con il giaccone si fa un guanciale. Ripiega nella borsa i pantaloni e si infila sotto la coperta con il maglione. «Pensi che esageri, ma più tardi accendono il condizionatore, dicono che è per far circolare l’aria, ma secondo me è perché vogliono che ce ne andiamo. Facciano quello che vogliono, io mi copro e resisto». All’una, passano gli assistenti a chiudere con i lucchetti gli ingressi. Li riapriranno solo alle 5. Da quel momento chi è dentro è dentro, chi è fuori e fuori. A quell’ora parte anche l’ultima corsa della navetta che mi riporta in centro. Sul bus penso che il 25 marzo quando arriverà il Papa a Milano saranno loro, i viaggiatori che non partono mai, a dargli il benvenuto. E certamente il santo Padre li saluterebbe volentieri, se qualcuno non li avrà fatti sloggiare prima. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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COPERTINA

NAPOLI

Ospedale Cardarelli, luogo sicuro che offre tutti i servizi In questo mite autunno napoletano sono una quindicina le persone senza dimora che vivono spostandosi fra i padiglioni della cittadella ospedaliera Antonio Cardarelli. È una presenza discreta che si mimetizza spostandosi di giorno fra padiglioni, mensa, supermercato e bar mentre la notte si concentrano nella grande sala d’attesa del pronto soccorso. È facile confondersi fra le migliaia di persone che popolano i 21 padiglioni: ci sono i lavoratori, ci sono i ricoverati e le persone che accedono ogni giorno per le visite specialistiche, ci sono i familiari dei pazienti ricoverati e le persone che si rivolgono al pronto soccorso - centomila l’anno e fino a trecento interventi in 24 ore-. Tra questi numeri c’è anche Giovanni. Molte cose di sé non le ricorda con esattezza (o preferisce non dirle); si presenta in ordine, non ha ancora 65 anni, è italiano, dice di non avere una famiglia. Di mattina, quando è bel tempo dorme su una panchina vicina al reparto di chirurgia. Tra mezzogiorno e l’una va in mensa dove gli addetti o i medici che lo conoscono gli offrono il pranzo. Dice che si mangia bene, quando c’è la pasta al forno è contento. È pulito ma non rivela per paura di controlli e rimproveri dove va a lavarsi, lascia capire che ha più di un amico nei reparti che gli dà una mano mentre i vestiti glieli regalano in tanti. Anche Giovanni ha i suoi malanni e periodicamente viene ricoverato. «Queste persone hanno patologie importanti – spiega Loredana Marchisano, psicologa al punto nascita –: stare qui li fa sentire riparati non solo dalle intemperie, li rassicura trovarsi in un posto dove possono essere curati subito in caso di malore. Conoscono le persone, ascoltano vari casi, a volte danno indicazioni e come persone informate dei fatti si sentono utili». Anche per Giovanni è così: se lo incontri di mattina ti racconta gli accessi della notte, ti dice degli incidentati, gli infartuati, qualche “sparato” in un regolamento di conti della camorra. E sono in molti a farselo raccontare. Laura Guerra

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Tra i posti sicuri per dormire anche i pronto soccorso, sugli autobus che fanno servizio tutta la notte. Ma anche i bancomat o le piccole stazioni di provincia

Dormire in strada, nonostante tutto di Generoso Simeone

In tanti non sfruttano i posti letto dei piani freddo: perche temono di essere derubati o di subire violenze

Con l’arrivo della stagione invernale riaprono i centri di accoglienza spesso allestiti nell’ambito dei cosiddetti piani freddo. Nonostante l’aumento dei posti disponibili sono diverse le persone che non usufruiscono dell’ospitalità in queste strutture. Perché la domanda rimane superiore all’offerta. Oppure perché molti temono di essere derubati o di subire minacce e violenze in dormitorio. Oppure vedono quei luoghi di scarsa igiene e dove è alto il rischio di contrarre malattie. E così gli homeless che restano fuori dal circuito dell’accoglienza istituzionale continuano a trascorrere le notti in strada. L’alternativa è cercarsi luoghi riparati o al caldo come stazioni, aeroporti,


MILANO

Ospedale Policlinico, dove l’accoglienza strutturata non si farà più «Troppi problemi. Ma non neghiamo mai un aiuto agli “storici”» Il Policlinico di Milano è uno di quei luoghi, caldi e sicuri, scelti da diversi homeless per passarci la notte. E anche per trascorrerci qualche ora della giornata. Tanto che la direzione dell’ospedale e l’associazione dei volontari, nel 2014, hanno varato un progetto di ospitalità e presa in carico più ampia. Nella chiesa sconsacrata sita all’interno della cittadella ospedaliera è stato così allestito un piccolo centro di accoglienza. Iniziativa ripetuta anche nel 2015 coinvolgendo la fondazione Progetto Arca. Per i clochard 20 posti letto, colazione e cena, fornitura di indumenti e biancheria, kit per l’igiene personale e assistenza, accompagnamento e orientamento ai servizi territoriali. Tutto bene? No, perché quest’anno l’esperienza non sarà ripetuta. «La presenza di queste persone dentro l’ospedale - spiega Marco Giachetti, presidente della Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico di Milano ha creato un’emergenza sanitaria. Perché frequentavano gli stessi luoghi dei degenti, alcuni con patologie importanti e delicate come la fibrosi cistica. Per due anni abbiamo attuato un progetto di accoglienza pensando che uno spazio dedicato potesse risolvere il problema oltre a dare loro una sistemazione dignitosa e la possibilità di agganciarli per avviare percorsi di integrazione». Invece non ha funzionato. «La presenza dei senza dimora in ospedale - spiega

Giachetti – è aumentata ben oltre i 20 posti del centro di accoglienza. Ci siamo ritrovati con sacchi a pelo, avanzi di cibo e siringhe negli scantinati e, soprattutto, con alcuni problemi di sicurezza ed episodi spiacevoli di molestie e comportamenti aggressivi. Per tutelare i malati dell’ospedale abbiamo deciso di interrompere l’esperienza». Dopo l’inverno l’emergenza è rientrata anche se l’ospedale ha continuato a essere frequentato da homeless. «Sì, ma sono pochi - conferma Marco Giachetti - e li conosciamo tutti. La situazione ora è gestibile. Se con l’arrivo della stagione fredda le presenze dovessero aumentare ci rivolgeremmo al Comune per trovare una soluzione. Siamo disponibili a farci aiutare da altre strutture per capire se c’è un modo migliore per affrontare la questione». Da Progetto Arca la valutazione dell’esperienza è positiva. «Delle 20 persone accolte - spiega Alberto Sinigallia, presidente della fondazione Progetto Arca - 12 hanno iniziato un percorso di reinserimento sociale finalizzato all’autonomia lavorativa e abitativa. L’ospedale e i suoi sotterranei erano un rifugio di senzatetto anche prima dell’accoglienza in chiesa». [gs]

PANORAMA

ospedali. Esperienze di questo tipo si segnalano un po’ ovunque in Italia. Spesso si tratta di ricoveri davvero improvvisati o di sistemazioni che, pur nella precarietà, denotano una certa ingegnosità. A Rimini, ad esempio, la stazione ferroviaria è chiusa da mezzanotte alle cinque del mattino, ma non sono pochi coloro che trovano alloggio dentro ai vagoni dei treni dismessi. Nonostante l’umidità anche la costa viene sfruttata con le barche ormeggiate sul molo, le cabine del litorale e le colonie e le case abbandonate sulla spiaggia. In una grande città come Napoli, invece, i rifugi più utilizzati rimangono la stazione centrale di Piazza Garibaldi e le fermate della metropolitana, in particolare quella del museo archeologico delle linee 1 e 2 lasciate appositamente aperte dal Comune. Il pronto soc-

corso dell’ospedale Cardarelli è un altro luogo frequentato nelle notti d’inverno mentre altri si aggregano in posti meno caldi e sicuri come ex scuole, vecchie caserme o chiese chiuse al culto. In tanti al pronto soccorso A Padova i siti caldi più battuti sono il pronto soccorso e la stazione, che però nelle ore centrali della notte chiude. Allora i clochard girovagano per la città e rientrano in stazione quando riapre. Lo scorso inverno alcuni stranieri senza dimora avevano occupato delle stanze di un hotel, in zona termale, chiuso a causa della crisi. Ex alberghi e case abbandonate, così come il pronto soccorso dell’ospedale e la sala d’attesa della stazione ferroviaria sono i luoghi scelti anche dai senzatetto di un’altra città di mare come Sanremo. A Pisa, lo scorso anno si è

A Rimini anche la costa viene sfruttata con le barche ormeggiate sul molo, le cabine del litorale, le colonie e le case abbandonate sulla spiaggia. A Catania si dorme negli uffici abbandonati delle Poste, a Milano si dorme anche sugli autobus notturni

creata una vera e propria emergenza scaturita da un elevato numero di homeless, circa 30, che passavano la notte al pronto soccorso. Una sera è accaduto un eclatante fatto di violenza, che ha costretto la Prefettura a disporre lo sgombero dei locali e che ha portato ad allestire due container in un grande parcheggio sterrato. Quest’anno invece le segnalazioni arrivano dall’aeroporto Galilei e, in particolare, dai posti auto coperti. A Catania i luoghi caldi più frequentati in queste notti di inizio inverno sono l’aeroporto Fontanarossa, gli ospedali Garibaldi e Vittorio Emanuele e gli ex uffici di Poste Italiane di viale Africa. La situazione della città siciliana è definita drammatica dalla Caritas locale a causa della poca disponibilità nelle strutture e dell’aumento delle persone che vivono in strada. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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COPERTINA Laddove ci sarebbe la possibilità di essere accolti negli appositi centri, come a Brescia, sono ancora tanti i senza dimora che scelgono ricoveri precari. La stazione ferroviaria, le case e le automobili abbandonate, i cantieri, le caserme dismesse, i garage condominiali non utilizzati e i complessi industriali sono i luoghi dove si sistemano gli homeless. Chiudiamo questo rapido giro d’Italia con Milano dove si stimano circa 3 mila senzatetto. Qui diventano casa svariati spazi anche impensabili. Alcuni clochard trovano riparo in cantine o soffitte vuote, altri allestiscono addirittura tende da campeggio in parchi e giardini pubblici. Diventano dimore anche case occupate, autobus in servizio notturno e i piccoli locali degli sportelli bancomat. Prima che le stazioni chiudano qualcuno si infila dentro i vagoni dei treni non utilizzati. Altri raggiungono l’aeroporto di Linate, altri ancora cercano di dormire nei pronto soccorso degli ospedali.

Sono oltre 50.700 le persone senza dimora in Italia, in aumento rispetto alle 47.648 stimate nel 2011

Tra i rifugi notturni delle “vite tangenziali” di Enrico Panero

Troppi pochi posti per poter dormire tutti al caldo. Ma c’è anche chi rifiuta i dormitori perché non vuole lasciare i propri animali o vuole stare da solo 30 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

Corso Tazzoli, periferia sud di Torino, ore 22 di una sera autunnale. Il freddo inizia a farsi sentire. Da un lato lo stabilimento Mirafiori ex Fiat, ora Fca; dall’altro una ventina di persone in fila lungo il marciapiede. Siamo all’esterno di una delle case comunali di prima accoglienza notturna. Ancora un’ora e gli operatori comunicheranno chi può entrare e chi no. Ad alcuni sarà assegnato un posto letto in un’altra struttura, allora inizieranno un lungo viaggio attraverso la città con autobus che passano ogni mezz’ora. Altri resteranno fuori. Può succedere di avere il posto in dormitorio una notte su due, su tre, anche una su sei nei periodi di grande affluenza. E allora che si fa? Se non c’è posto neanche nei dormitori del privato sociale ci si deve arrangiare.

Sempre meno negli ospedali «Si va principalmente nelle sale d’attesa dei pronto soccorso ma a discrezione e per bontà dei guardiani che ti lasciano stare lì

i numeri Sono oltre 50.700 le persone senza dimora in Italia, in aumento rispetto alle 47.648 stimate nel 2011. La stima arriva dall'Istat sulla base di coloro che nei mesi di novembre e dicembre 2014 hanno utilizzato almeno un servizio di mensa o di accoglienza notturna in uno dei 158 comuni italiani in cui è stata condotta l'indagine. Si tratta per lo più di uomini (85,7%), stranieri (58,2%), con meno di 54 anni (75,8%) con basso titolo di studio (solo un terzo raggiunge almeno il diploma di scuola media superiore)


Pendolari senza dimora In passato anche le stazioni ferroviarie erano un rifugio notturno per persone senza dimora, ora sono scattati i divieti. «Qualcuno va ancora a Porta Nuova – dice Giancarlo, volontario Caritas e Croce Rossa –, ma le nuove panchine hanno sedili con poggia braccio, per cui non ci si può coricare. C’è chi bivacca a Porta Susa, poi però a dormire si sistema nei cunicoli dove passano le tubature dell’aria calda». La difficoltà di sistemazione nelle stazioni principali della città ha creato anche casi di pendolarismo: «Alcuni salgono sui treni e si recano nelle stazioni della cintura di Torino o appena fuori, dove c’è meno affluenza, più tranquillità e meno controlli, per poi tornare in città la mattina» spiega Veronica, impegnata nei servizi di strada comunali.

TORINO

su una sedia fino alle 6 del mattino: dormi male, ma al caldo e non rischi aggressioni, ci sono i bagni e le macchinette del caffè – racconta Renato, 61 anni e 6 mesi in strada». Oggi è diminuita la tolleranza ed è aumentata la vigilanza, per cui ciò è possibile solo presso gli ospedali Mauriziano e Martini. C’è allora chi cerca di addentrarsi nelle strutture ospedaliere, reparti, anfratti, cortili, ma sono pochi casi isolati. Spesso è la stanchezza a condizionare le scelte, come spiega ancora Renato: «Prima delle 23 non sai dove andrai a dormire e sei in strada dalle 7 del mattino. A una certa ora c’è l’abbattimento: sei stanco, non ce la fai ad attraversare la città e allora vai all’ospedale, sui vagoni, nei camion aperti di frutta e verdura. È dura, ancor di più quando piove o fa freddo».

Te ne freghi di tutto Con l’emergenza freddo si aggiunge poi una struttura al parco della Pellerina: «Un po’ esplosiva come situazione, non è comodo, ci sono brandine tipo amaca e viene fatto entrare chiunque, in qualsiasi stato si trovi; ma se hai bisogno di dormire ci stai» osserva Alberto, 51 anni e alcuni periodi in strada. «Spesso sei così stanco che te ne freghi di tutto e di tutti – racconta Elvis, 28 anni e 5 mesi in strada –. Qualche volta mi sono “spento” seduto alla fermata dell’autobus, il corpo si ferma ma la mente no. Mi è capitato di dormire negli spazi dei bancomat, altre volte sui treni fermi, ma si rischiano multe. Ho dormito anche nei giardini pubblici, riparandomi dal freddo sotto lo scivolo dei bambini». C’è poi chi rifiuta i dormitori, per mantenere spazi di indipendenza, perché non vuole avere rapporti con altri, per problemi psicofisici, perché ha animali da cui non vuole separarsi o perché coppie che non vogliono dividersi: in questi casi i circa 18 chilometri di portici di Torino offrono riparo. Ma, sottolinea Renato, «il giaciglio è l’ultima cosa, è tutto il sistema che ti avvilisce», quello che Alberto definisce «lo scollamento dalla società, per cui ti senti di vivere una vita tangenziale».

GENOVA

Accoglienza protetta in Ospedale: a Il Basilico si dorme e si guarisce Quando il Conte varcò la soglia de Il Basilico certamente non credeva che sarebbe rimasto più di un giorno. Persona di notevole cultura, toni garbati, avvezzo alla frequentazione di salotti prestigiosi, ma ormai da tempo in strada, non avrebbe probabilmente retto la permanenza nella struttura di convalescenza protetta. Ma, complici le condizioni precarie di salute, una buona accoglienza da parte degli educatori, una prospettiva di inserimento in una “casa” più stabile, lo scetticismo andò giorno dopo giorno dissolvendosi. E crebbe negli stessi operatori la consapevolezza, grazie anche ad altri casi analoghi, dell’importanza e dell’efficacia de Il Basilico. Un luogo gestito da Fondazione Auxilium all’interno dell’ospedale San Martino di Genova. Ogni anno viene messa a disposizione per tre mesi una porzione del padiglione dieci, ormai dismesso da reparto ospedaliero e ristrutturato appositamente per ospitare la nuova struttura. Il punto di partenza è proprio l’esperienza di Auxilium che, è giunta a definire alcuni capisaldi. Primo: il forte collegamento tra la condizione di indigenza e la morbilità è ampiamente documentato. Secondo: la dimissione ospedaliera, successiva alla fase acuta della malattia, rende più complessa la condizione di vita di chi non ha casa o vive in situazioni alloggiative precarie. Terzo: la necessità di usufruire di un periodo di riposo, di seguire una dieta regolare, di mantenere sotto controllo i parametri vitali, di assumere una terapia e non esporsi a condizioni che porterebbero al riacutizzarsi della patologia. Quarto: questa situazione, riscontrabile tutto l’anno, è aggravata nei mesi invernali, dove si registra una maggiore incidenza delle malattie da raffreddamento. L’obbiettivo principale è quindi quello di migliorare la qualità di vita delle persone in condizione di povertà urbana estrema. E provare ad avvicinare il sistema sociale e quello sanitario, ottimizzando l’utilizzo delle risorse. L’accoglienza a Il Basilico di una persona che necessita di convalescenza permette infatti la riduzione del periodo di ricovero ospedaliero e la riduzione dei ricoveri ospedalieri impropri, basati su fattori sociali e non strettamente sanitari. Tutto questo ha come scopo l’incentivazione della presa in carico nelle strutture sociali di persone che, normalmente, sfuggono ai canali ordinari di accoglienza. La struttura aprirà a dicembre, periodo individuato anche per garantire la piena attività durante le festività natalizie. Questo momento risulta infatti particolarmente difficile per le persone senza dimora: gli aspetti simbolici che richiamano alla famiglia e più in generale ai legami sociali acuiscono, nelle persone più fragili e socialmente ai margini, il senso di abbandono e di solitudine. Il Basilico è in grado di ospitare 15 persone (uomini e donne), inviate dagli ospedali genovesi, in camere a due, tre o quattro letti. Dispone di un’infermeria e una stanza comune/refettorio. E l’ospitalità è condizionata dal rispetto di alcune regole che sono presentate all’ospite al momento del suo ingresso. La cosa importante è che ogni persona, al termine del periodo di convalescenza, viene accompagnata verso una sistemazione alloggiativa adeguata. Come il Conte. Che ora è in una struttura del Comune, dove i suoi bisogni vengono integralmente accolti. Stesso discorso per Tino, che da anni spingeva un pesante carrello per le strade di Genova, ricolmo di oggetti d’ogni sorta: ora può finalmente riposare, e guardare i suoi bei vecchi film in bianco e nero. E così anche per Franco: dopo una vita raminga, costellata da problemi di salute, ora ha un po’ di pace, nella sua camera in affitto. Stefano Neri dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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Grazie alle politiche di Housing First oggi in Finlandia nessuno più dorme in strada. A destra nel riquadro Janne Hukka, autore di questo pezzo

Finlandia L’Housing First? Importante ma non risolutivo di Janne Hukka (caporedattore di Iso Numero, giornale di strada di Helsinki) - trad. Sabrina Montanarella

In Finlandia ormai nessuno più dorme in strada, grazie a una campagna governativa che ha puntato tutto sull’Housing First. Ma l’immigrazione pone nuove sfide per il welfare 32 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

La Finlandia è uno dei pochi Paesi europei che ha cercato di ridurre seriamente il problema degli homeless adottando l’Housing First come politica nazionale. Trovare un riparo in un Paese del nord come la Finlandia è davvero indispensabile. La stagione fredda, da ottobre a maggio, è lunga, buia e molto dura. La temperatura media durante l’inverno scende sotto i 20-25 gradi. Cosa mai portò i nostri avi a migrare in questo clima così ostile ancora ci è ignoto. Nonostante lo scenario, l’homelessness è molto radicata nella società finlandese ma un’ampia collaborazione di rete tra i diversi partner, è stata la chiave


che ha portato alla risoluzione. Dopo la seconda Guerra mondiale oltre il 10% della popolazione finlandese perse la casa a causa delle vaste aree di terra che la Finlandia dovette cedere all’Unione Sovietica. Negli anni successivi, grazie ad alcuni decreti governativi e a prestiti agevolati per l’edilizia, più di 400 mila sfollati ebbero nuovamente una casa. Una casa prima di tutto La “crisi” abitativa ebbe inizio nel 1960 quando la Finlandia si trasformò, in poco più di un decennio, da società prevalentemente agricola a società urbana. E nonostante il massiccio intervento dello Stato (in quel periodo fu costruito circa il 25% dell’intero patrimonio edilizio) non si riuscì a soddisfare la richiesta di alloggi. Nel 1987, anno considerato come lo zenith dello Stato assistenziale e sociale finlandese, una persona su cento non aveva un tetto sopra la testa. Diciottomila persone, su una popolazione di 5 milioni di abitanti, non aveva una casa. Da allora sono state intraprese alcune azioni significative. Al 2008 il numero degli homeless si era dimezzato anche se rappresentava ancora il 45% del totale. La politica dell’Housing First si basa sull’idea che una casa stabile sia una priorità, da risolvere prima di qualsiasi altro problema. Le modalità per avere una casa non sono complesse, i servizi sociali fanno da garante e da supervisore. Per poter portare a termine una così estesa rete di politiche per la casa, occorre che la collaborazione tra il gli enti governativi centrali, quelli regionali, locali, del non profit o del privato sociale, sia molto stretta e funzionale.

L’homelessness sta diventando sempre più un problema legato all’immigrazione. Negli ultimi anni infatti il numero dei senza dimora è aumentato da alcune centinaia a oltre 1.500 persone

L’INTERVENTO

fare, i finanziamenti all’Housing First non hanno subito tagli considerevoli. Uno dei motivi è di ordine fiscale, in quanto viene ampiamente finanziata senza essere tassata: lo Stato prende le risorse finanziarie necessarie tramite Ray, una società pubblica che ha il monopolio delle slot machine, e che stanzia circa 50 milioni di euro direttamente per il programma di Housing First. Le cifre sono considerevoli, se si pensa che ogni anno il finanziamento di Ray per i programmi sociali e sanitari ammonta a centinaia di milioni di euro. Lo Stato inoltre garantisce prestiti a basso tasso per l’edilizia popolare.

Fondi dal gioco d’azzardo Lo Stato gioca un ruolo fondamentale nella distribuzione dei fondi ai governi locali che, a loro volta, collaborano con enti del non profit o con il privato sociale nella costruzione di alloggi di edilizia popolare. Nonostante l’attuale go-

verno di destra abbia tagliato considerevolmente le risorse destinate al wel-

Grande importanza viene data al mantenimento di un corretto equilibrio nei quartieri misti tra gli appartamenti di proprietà privata, quelli di edilizia popolare e gli appartamenti in affitto di proprietà della municipalità. Tutto ciò è di grande aiuto per il programma di Housing First nel processo di reintegrazione dei senzatetto nella società. A Helsinki, tutti i grandi progetti edilizi (come ad esempio Jätkäsaari, Kalasatama e Arabianranta) sono stati concepiti secondo queste direttive. Infine, il programma di Housing First è giustificato dai risparmi che genera. Da stime recenti, è stato dimostrato che

scheda Iso Numero è il giornale di strada si Helsinki. La rivista, che esce quattro volte all’anno con una tiratura di circa 12 mila copie, costa cinque euro. Ogni venditore ottiene dalla vendita tre euro. Il resto viene utilizzato per coprire i costi di produzione. Nel 2013 con la vendite di Iso Numero sono stati distribuiti circa 80 mila euro di guadagni tra centinaia di rivenditori.

togliere una persona dalla strada fa risparmiare allo Stato circa 15 mila euro all’anno in costi sociali e sanitari. Sono in molti ad ammettere che l’Housing First ha portato a una rivoluzione nel modo in cui viene affrontato l’argomento homelessness. L’obiettivo è quello di non avere più senza tetto. Negli ultimi anni la Finlandia è stato l’unico Paese dell’Unione europea in cui l’homelessness è in diminuzione. Il nodo immigrazione Tuttavia, il successo del programma è minato dal lato mutevole dell’homelessness. Ci sono ancora circa 7 mila senza fissa dimora e circa l’80% di loro vive con parenti o amici.

La cifre mostrano che l’homelessness sta diventando sempre più legato all’immigrazione; nel 2008 il numero d’immigrati senza dimora era nell’ordine di poche centinaia di persone, attualmente sono oltre millecinquecento. Il rigoroso regime di controllo del flusso di immigrazione ci dice che questi numeri aumenteranno inevitabilmente nei prossimi anni, alcuni richiedenti asilo saranno respinti, ma altri sceglieranno comunque di rimanere. Recentemente gli stranieri senza permesso di soggiorno, tra cui molti giovani e anziani rom provenienti dall’Europa orientale, sono stati allontanati dai centri di emergenza di Helsinki che aprono quando la temperatura scende a meno 10 gradi. Sfide come queste devono essere raccolte e risolte al fine di continuare il successo che la Finlandia ha ottenuto nel combattere l’homelessness.

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DOSSIER

Neet L’esercito silenzioso dei senza futuro di Daniela Palumbo

Tre milioni 421 mila: sono i giovani tra i 15 e i 34 anni che, secondo l’Istat, al 1 gennaio 2015 non studiavano, non lavoravano, non erano impegnati in alcun percorso di formazione. Il 79,7% di loro sono italiani 34 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

Storie di ragazzi rimasti indietro. Che si raccontano con difficoltà e qualche diffidenza. Dall’indagine (che è anche un libro) a cura di Caritas Italiana e dell’Università del Salento, “Nel paese dei Neet” – acronimo di Not in education, employment or training – e cioè quei giovani “parcheggiati”, che né studiano, né sono impegnati in alcun tipo di lavoro riconosciuto. Raccontiamo la vita di Tina, 20 anni, e Andrea, 21 anni. Queste storie sono tratte da esperienze di shadowing, una metodologia qualitativa che mira ad analizzare gli spazi di vita quotidiana. Tina: vent’anni. Vive in un piccolo paese del Centro Italia. Conosce da tempo Laura, operatrice Caritas, ma all’inizio dell’osservazione è chiusa e diffidente. Poi si rilassa, emerge il contesto di vita. I genitori sono separati, lei soffre perché non ha rapporti decenti con nessuno dei due. Ha la licenza media, e dopo due bocciature alle superiori ha abbandonato la scuo-


L’INTERVISTA

L’Italia si conferma patria dei Neet Gaspani: «Mancano progetti mirati»

Anni di poca attenzione al futuro dei giovani e la diffusione di forme contrattuali atipiche hanno fatto levitare il numero dei Neet

Tina ha 20 anni e vive in un piccolo paese del Centro Italia. I genitori sono separati, lei soffre perché non ha rapporti decenti con nessuno dei due. Ha la licenza media, e dopo due bocciature alle superiori ha abbandonato la scuola. Avrebbe voluto fare la parrucchiera ma non è riuscita a intraprendere neppure quel percorso

la. Avrebbe voluto fare la parrucchiera ma non è riuscita a intraprendere neppure quel percorso. Non dice il perché, ma fa intendere che sia a causa del malessere che vive con i genitori. Infatti, ammette che non si sono mai interessati al suo percorso scolastico e, per loro, faceva poca differenza che lei continuasse o meno gli studi. Poche esperienze di lavoro, terminate. Ha fatto la commessa e la rappresentante di prodotti cosmetici. Al momento dell’indagine Tina abita con la nonna paterna perché la madre ha problemi d’instabilità mentale; il padre convive con una donna, molto spesso ̀e fuori per lavoro e Tina non tollera di vivere con la sua nuova compagna. Ha una sorella sposata, con la quale è in buoni rapporti, ma che vede di rado perché vive lontano dal paese. Tina vive in una piccola comunità dove il senso di appartenenza è molto forte, ma anche in un contesto di deprivazione sociale e culturale che le sottraggono lo sguardo di speranza sul futuro, di cui avrebbe bisogno. Due sono i momenti forti che l’operatrice ha vissuto con Tina. La convocazione del tribunale per lei e la sorella, a causa della denuncia della madre di Tina nei confronti del padre per il mancato mantenimento delle figlie. La ragazza non avrebbe voluto andare in tribunale. Si sente usata e abbandonata dai genitori. Sempre presente è invece la nonna paterna, fondamentale per Tina. L’ulti-

Neet: mammoni e fannulloni? No, esclusi. E il nostro Paese detiene il primato. L'ultimo dato Istat – secondo trimestre 2016 – racconta che sono il 22,3% del totale dei giovani. Uno su cinque. Eurofound, la Fondazione per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro in Europa, ha condotto una ricerca sui Neet europei, presentata all'interno del convegno di Milano svoltosi il 3 e 4 novembre scorso, organizzato dall'Istituto Toniolo di Milano, Università Cattolica e Fondazione Cariplo. Su 95 milioni di giovani in Europa, 13 appartengono alla categoria Neet. E un terzo dei 13 milioni è a rischio di completa esclusione sociale. Inoltre, lo stesso rapporto ci svela che i giovani con più basso livello di istruzione hanno due volte più probabilità di entrare nella categoria; le donne hanno il 60% in più di possibilità di diventarlo. Nel nostro Paese il costo di questa esclusione sociale corrisponde al 2% del Pil, 36 miliardi di euro. Al convegno si è parlato anche del perché per i Neet è così difficile immaginare il futuro: con Fabio Gaspani, del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale all'Università Bicocca. Lo abbiamo intervistato. «Negli ultimi decenni l’immagine del futuro come campo aperto di possibilità tende ad offuscarsi per tutti. Per i Neet si affievolisce la capacità di padroneggiare gli avvenimenti e tende a venir meno l’idea di progetto. A ciò si accompagnano aspettative decrescenti e frustrazione riguardo alla possibilità di raggiungere la propria posizione all’interno della società. I giovani più svantaggiati presentano ancor meno prospettive di speranza. Sentono forte l'impotenza riguardo la capacità di divenire protagonisti delle proprie vite. In tal senso il presente si configura spesso come un tempo fine a se stesso, da vivere alla giornata». La scuola che ruolo ha nell'incremento dei Neet? In realtà, il numero di giovani che raggiunge il livello d’istruzione secondario è in aumento, così come la quota di quelli con educazione terziaria. Eppure l’acquisizione di un titolo di studio elevato non si traduce sempre in un miglioramento delle opportunità di successo nel lavoro. È certo che l’abbandono scolastico e il conseguimento di livelli di istruzione non elevati aumentano le probabilità di disoccupazione e risultano associati con la precarietà lavorativa e i bassi salari. Occorrerebbe intercettare i giovani a rischio di marginalità progettando interventi mirati di inclusione. Interventi non solo da parte dei sistemi scolastici, ma di concerto con gli altri organismi preposti e le famiglie. Perché deteniamo questo primato? Alti tassi di disoccupazione e inattività sono anche nelle fasce d’età adulte. Stiamo pagando il prezzo di anni di poca attenzione verso il futuro dei giovani, di diffusione di forme contrattuali atipiche in assenza di una sostanziale riforma del sistema di welfare, di debole collegamento tra sistemi didattici e mondo del lavoro e, in generale di carenza di politiche attive. Basti pensare che, ad esempio, nel Regno Unito, è presente una forte tradizione di studi riguardanti il rapporto dei giovani con il mercato del lavoro. Daniela Palumbo dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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DOSSIER mo episodio, al centro per l’impiego. Tina non vorrebbe andare, è costretta dalla zia. Lei e Laura aspettano ore e poi vengono ricevute da una psicologa che alla fine le suggerisce di iscriversi a Garanzia Giovani, il programma per la collocazione dei giovani nel mondo del lavoro. Ma Tina ha deciso che non andrà: «Ancora non riesco a credere che sono venuta qui a perdere tempo. Bisogna essere sinceri e realistici, chi va avanti sono solo i raccomandati, i figli di papà, non di certo io». È questo lo sguardo sul futuro di Tina. Andrea che vive il presente Andrea, 21 anni. Il suo è un percorso fortemente rappresentativo dell’universo Neet: istruzione ferma alla terza media. Bocciature, perché in classe dà fastidio e non studia mai. «Non ci so stare sui libri, è inutile». Andrea in seguito alle bocciature viene contattato da un istituto di formazione che offre un’alternativa alla scuola, gratuitamente. Accetta di andare solo perché gli dicono che lo pagheranno, nel periodo di stage. Ma Andrea vorrebbe un mestiere e guadagnare, senza passare dai libri. Alla fine, si ritrova a casa. Ha solo la percezione del presente. La madre è molto presente, quasi ossessiva, vive solo per lui perché il padre non c’è. È una ragazza madre. Ma questa figura impedisce al ragazzo di crescere. Quando viene realizzato lo shadowing, Andrea passa il suo tempo alla Caritas diocesana. Un piccolo impegno di volontariato, qualche servizio per la chiesa, la domenica serve la messa. E intanto le giornate passano con le chiacchiere fra coetanei, una partita a calcetto, ping pong, carte. La parrocchia però ha il merito di impedirgli di restare impigliato nella rete di criminalità che in quel contesto è molto alto fra i giovani e i meno giovani.

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I principali problemi dei Neet riguardano povertà e occupazione. I problemi lavorativi sono più pressanti tra gli italiani: il 60%, contro il 42% degli stranieri

Neet stranieri, due volte invisibili di Marta Zanella

Sono 578 mila, uno su cinque, i Neet stranieri. Sono i più penalizzati perché tagliati fuori dalla società a causa della crisi economica

Due volte invisibili. I Neet sfuggono facilmente a statistiche e conteggi, nonostante in Italia ormai la loro sia diventata una generazioneesercito. I dati Istat hanno calcolato che nel 2015 le persone di età compresa tra i 15 e i 34 anni fuori da ogni circuito produttivo o formativo erano 3 milioni 421 mila: il 22,3% del totale dei giovani italiani. Poi, tra questi 3 milioni e mezzo, ci sono loro, i giovani Neetstranieri: ragazzi arrivati qui da un altro Paese, oppure quelli di seconda generazione, nati in Italia da genitori immigrati. Sono 578 mila: uno su cinque. Doppiamente invisibili perché spesso le difficoltà che questi ragazzi incontrano in questa fase della loro vita vengono ricondotti al loro essere stranieri, e non alla loro condizione di Neet come accade ai loro coetanei italiani. È proprio su questa fascia di giovani che la ricerca Nel paese dei Neet. Rapporto di ricerca sui giovani Neet in condizione di povertà ed esclusione sociale, presentata a novembre da Caritas Italiana e Università del Salen-


3.421.000

1.749

Il numero di Neet in Italia al 1 gennaio 2015 secondo una ricerca effettuata dall’Istat

Numero di Neet che lo scorso anno i centri di ascolto Caritas hanno intercettato e studiato

IL PUNTO

Tre milioni di ragazzi perduti. Serve un nuovo tipo di welfare Tre milioni 421 mila: sono i giovani tra i 15 e i 34 anni che, secondo i dati Istat, al 1 gennaio 2015 non studiavano, non lavoravano, non erano impegnati in alcun percorso di formazione. Il 79,7% di loro sono italiani, per il 20,3% di origine straniera (nati all'estero, oppure in Italia da genitori immigrati). I centri di ascolto Caritas hanno intercettato e studiato un campione di 1.749 giovani Neet in condizioni di povertà e disagio sociale. Dall'indagine Nel paese dei Neet. Rapporto di ricerca sui giovani Neet in condizione di povertà ed esclusione sociale risulta che, tra questi giovani appartenenti a famiglie in difficoltà e transitati dai centri di ascolto alla fine del 2015, il 77,4% del campione ha cittadinanza straniera, e per la maggioranza si tratta di maschi (56,2%). Tra i Neet stranieri, il 4% ha la laurea, mentre 3 su 4 hanno un titolo di studio di licenza media inferiore o più

basso. Il 37,4% di loro è sposato, c'è un 3,1% di separati e divorziati, mentre la maggioranza – il 56,7% - è celibe o nubile. Il 27,7% dei Neet stranieri del campione Caritas vive con i genitori, mentre il 23,8% ce la fa da solo. I principali problemi dei Neet riguardano povertà economica e occupazione. I problemi lavorativi sembrerebbero essere più pressanti tra gli italiani: oltre il 60%, contro il 42% degli stranieri. Anche le difficoltà economiche sono segnalate dal 63% degli italiani, rispetto al 46,4% degli stranieri. In realtà, è diverso il contesto: nel caso degli italiani i problemi si concentrano attorno alla sfera dei bisogni primari (reddito, casa e lavoro), mentre nel caso dei ragazzi stranieri si osserva una situazione sociale e di problematiche più complessa e variegata. [mz]

LA STORIA

to, cerca di fare chiarezza, entrando nella vita e nella quotidianità di oltre 1.700 ragazzi che si sono rivolti ai centri di ascolto Caritas negli ultimi tre mesi del 2015. Tra loro, 1.354 sono stranieri, il 77,4 % del totale. Famiglie in difficoltà «Questo non significa che i Neet stranieri siano in maggioranza rispetto ai Neet italiani. Il nostro è un campione particolare, che non rispecchia l’intera popolazione italiana, come nel caso dell’Istat, ma la popolazione in sofferenza economica e sociale, e cioè le persone che si rivolgono ai centri di ascolto Caritas – precisa Walter Nanni, responsabile del centro studi di Caritas Italiana e coautore del Rapporto –. Significa quindi che il 77,4% dei Neetche vengono da famiglie in forte difficoltà economica sono di origine straniera». C’è anche una sorta di percezione sociale per cui un Neet italiano viene riconosciuto per la sua condizione mentre un Neet straniero viene considerato per il suo status di straniero. «È legato al fatto che il termine Neet è percepito come sinonimo dell’altro, più pittoresco, di bamboccione, e lo si lega all’immagine

Le ragazze straniere nel campione Caritas sono il 33,9% del totale dei giovani intercettati. Molte di loro contribuiscono all’economia di casa lavorando nella piccola attività di famiglia, e molto spesso lo fanno in nero: non risultano occupate ma, di fatto, lo sono

del giovane italiano che non ha voglia di studiare che, piuttosto che accettare un lavoro al di sotto delle proprie aspettative, resta a casa senza fare nulla – spiega Nanni –. Nel caso dei giovani stranieri, invece, prevale l’aspetto della disoccupazione legata allo status di immigrato». In pratica, l’essere straniero è un’etichetta che prevale su qualunque altra. Stranieri, quindi penalizzati Ma chi sono questi ragazzi, e perché non fanno niente? «Nel caso degli stranieri, possiamo distinguere due situazioni – ci illustra Nanni –. Quelli che hanno frequentato la scuola dell’obbligo nel proprio Paese, e sono arrivati in Italia dopo, in genere erano studenti che andavano mediamente bene ma che dopo il percorso migratorio sono stati spinti dai genitori a lavorare per un bisogno economico della famiglia, in genere poco interessata alla formazione dei figli». Ma anche nel caso di chi ha studiato qui fin da piccolo, la scelta di mollare gli studi per andare a lavorare ha portato, alla fine, a non avere né l’uno né l’altro. «Qui, più che la spinta della famiglia, pesa di più uno stato di confusione e incertezza le-

gato all’identità e al percorso migratorio». In ogni caso, la grossa differenza è con i Neetitaliani, che spesso sono in questa condizione perché hanno alle spalle percorsi scolastici fallimentari, con interruzioni, bocciature, scarso interesse, e esperienze lavorative interrotte in modo critico, o addirittura non accettate. Gli stranieri invece ci provano, ci hanno provato, ma spesso sono rimasti tagliati fuori dalla crisi economica. C’è anche chi, tecnicamente, risulta essere fuori dal giro, ma tutto sommato un lavoro ce l’ha. È il caso delle ragazze straniere, che nel campione Caritas sono il 33,9% del totale dei giovani intercettati: praticamente uno su tre. Molte di loro contribuiscono all’economia di casa lavorando nella piccola attività di famiglia, e molto spesso lo fanno in nero: non risultano occupate ma, di fatto, lo sono. Quello in cui i “ragazzi in panchina” stranieri, però, non sono penalizzati, sono i rapporti sociali: «Hanno buone reti e un buon capitale sociale. Ciò dimostra che anche in situazioni di povertà è possibile avere livelli positivi di socialità e appartenenza». dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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Alcuni atleti dell’Atletico Diritti festeggiano dopo una vittoria. Nella foto a fianco una sfida in terza categoria

Atletico Diritti «In campo siamo tutti uguali» di Stefano Ferrio

Da ghetto a gruppo, strada lunga sulla carta. Si fa più presto “sul campo”, visto quanto un campo da calcio ha bruciato i tempi per trasferire da un ghetto a un gruppo i giocatori della squadra Atletico Diritti, iscritta al campionato di Terza categoria, dove milita in uno dei gironi di Roma. Con la particolarità – ecco come il luogo coatto lascia posto a uno spazio libero – di far indossare la stessa maglia rossa a profughi extraeuropei, ex detenuti e studenti universitari.

La squadra, che partecipa al campionato di terza categoria mette assieme ragazzi sbarcati a Lampedusa, stranieri provenienti da altre parti del mondo, persone coinvolte in percorsi post-carcerari e studenti dell’università di Roma 3

“Risultati”: un posto fisso a suo modo luminoso nelle zone medio-basse del torneo, una frequentazione abituale con la meglio gioventù romana dotata di scarpe chiodate, una salubre moltiplicazione di incontri e amicizie. Oltre a gol, che quando piovono dal cielo, vengono conservati a futura memoria, come il pallonetto all’incrocio dei pali con cui, nella scorsa stagione, il laureando-fantasista

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Luca Di Mauro seppe farsi grandiosamente perdonare, e per l’eternità, di alcune, precedenti battute a vuoto. Nessun miracolo Nessun miracolo. Solo buona volontà, magari profusa con più abbondanza del solito. Questa la spiegazione che arriva dalla presidente di Atletico Diritti, Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone, l’associazione nata per i diritti da garantire all’interno del sistema penale italiano. «La squadra nasce due anni fa – racconta Susanna –, in seno a una polisportiva ideata dentro Antigone con lo scopo di favorire relazioni e occasioni di socializzazione a chi vive nel disagio. E, grazie al contributo dell’associazione Progetto Diritti, nasce in modo intelligente, perché mette assieme ragazzi sbarcati a Lampedusa, stranieri provenienti da altre parti del mondo, e persone coinvolte in percorsi post-carcerari, con il cruccio, speriamo provvisorio, di non avere ancora ottenuto i permessi per i detenuti dei cinque istituti di pena romani. A questi giocatori, grazie a un’illuminante intuizione del rettore Mario Panizza, si sono subito uniti studenti dell’università di Roma 3 così da fare squadra fino in fondo. Atletico Diritti diventa

scheda Stefano Ferrio, (Vicenza, 1956) giornalista e scrittore. Ha cominciato a scrivere per il Giornale di Vicenza, Il Gazzettino, L’Unità e Diario. Ha pubblicato Il profumo del diavolo (Marsilio, 2004), Impressioni di settembre (Aereostella, 2010), La partita (Feltrinelli, 2011) e Fino all'ultimo gol. Una squadra, un torneo, la storia del calcio (Feltrinelli, 2014). È la voce narrante della Paltan Blues Band

In spogliatoio, in campo, ma anche fuori, le sfide sono incessanti. Come risolvere i problemi burocratici e produrre l’oceano di carte richieste dalla Figc per gli stranieri allora davvero rappresentativo, non tanto di un quartiere o di un’associazione, ma di un parte viva e sfaccettata della realtà in cui viviamo». Va da sé che, proprio perché non rappresentativa di un quartiere o un’associazione, Atletico Diritti è fatta apposta per essere tifata da tutti i romani. Come pretende da par suo er capitano della squadra, scritto alla romana per il semplice motivo che si chiama sì Daniel Abrham e viene dall’Africa, ma ha anche trascorso in Italia 37 dei suoi 46 anni, dove arrivò bambino come profugo etiope, prima che fosse riconosciuta l’indipendenza dell’originaria Eritrea.

«Si capisce perciò che ho le radici qui, e tengo la Roma nel cuore» racconta Daniel, autotrasportatore con residenza nel rione di Pigneto, dove vive con la compagna Cristiana e i loro due figli. E, ce ne fosse biso-

gno, chiarisce: «Ho un autentico culto di Totti, perché è più di un fuoriclasse. È un esempio di atleta, che a 40 anni gioca ancora in Serie A, ed è uno dei pochi giocatori-bandiera rimastici. Proprio perché condivido una passione totale con un’infinità di altri tifosi che sono invece nativi di qua, troverei naturale che sempre più romani sostenessero questa nostra, ma in realtà, loro squadra» è la finale tirata di somme da parte del capitano. Per valutare la bontà delle sue

LA STORIA

parole gli appassionati romani possono ammirare l’Atletico Diritti in tutte la partite casalinghe, che la squadra disputa al campo della polisportiva De Rossi, zona circonvallazione Appia, mentre per gli allenamenti basta recarsi al più centrale impianto XXV Aprile, in quartiere Pietralata. Entrambe le sedi vanno a meraviglia per incantarsi il giusto di fronte alle storie, prima ancora che alle prestazioni, degli uomini allenati da mister Domenico Blasi, rappresentante sindacale con un debole per le cause “non perse” del pallone.

Amici in campo e fuori In spogliatoio, in campo, ma anche fuori, le sfide sono incessanti. Come risolvere i problemi burocratici del portiere venezuelano Wilson, compilare l’oceano di carte richieste dalla Figc per gli stranieri, finalizzare ai tre punti la classe di Milton, bomber di Capoverde, inseguire il documento che manca per far giocare Ibrahim venuto dal Mali. Per fortuna arrivano dal cielo miracoli come la palombella riuscita una volta nella vita a Mauro Di Luca. Cose che si vedono solo nell’Atletico Diritti di Roma.

LA SCHEDA

Qui si allena anche la Liberi Nantes, tante le protagoniste del calcio popolare Lo stesso impianto del XXV Aprile impiegato dall'Atletico Diritti per gli allenamenti serve anche alle sgambate e alle partitelle in famiglia di Liberi Nantes, squadra di migranti forzati, costretti cioè a espatriare a causa di motivi politici. Si parla perciò di giovani di Togo, Guinea, Etiopia e altri Paesi africani in balia di dittature e guerre civili. Questo sodalizio, a cui il regista Francesco Castellani dedicò tre anni fa il documentario “Black Star, nati sotto una stella nera”, ha a suo tempo scelto di schivare le trappole burocratiche imposte dalla Figc per i propri campionati, optando invece per il gioco “free”, limitato a sole amichevoli e manifestazioni non-agonistiche, utili comunque a promuovere un'idea o una qualche campagna. Atletico Diritti e Liberi Nantes sono due delle squadre che rappresentano Roma all'interno di un cosiddetto “Calcio Popolare” italiano sempre più ricco di adesioni ed eventi: decine di meravigliose storie sparse in tutta la penisola. Se ne trova traccia anche nel sito di Liberi Nantes. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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Black Lions Giocando per l’integrazione di Stefania Marino

Si chiama Black Lions ed è una squadra formata da richiedenti asilo ospiti nel centro di accoglienza di Sicignano degli Alburni, in provincia di Salerno. L’idea è quella di presentare questi ragazzi, che vengono da Paesi diversi, come persone. Non numeri 40 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

Una squadra di calcio composta solo da richiedenti asilo. Accade in provincia di Salerno dove alcuni migranti ospiti di un centro di accoglienza sono diventati i protagonisti di una bella esperienza di integrazione. La squadra si chiama Ac Black Lions e si fregia di un logo costituito da un leone con una criniera caratterizzata dai colori panafricani: rosso, verde, giallo e nero. L’idea era nell’aria già da qualche mese. Nel centro di accoglienza di Sicignano degli Alburni, infatti, i calci ad un pallone hanno sempre fatto parte della scenografia quotidiana. «Tra di loro ce ne sono alcuni molto bravi». Dicono gli operatori. Valutazione confermata da Domenico Rosolia, il mister come tutti i ragazzi lo chiamano, che in un pomeriggio di settembre ha accettato la sfida non solo di allenare 21 ragazzi ma anche di condurli in campo per affrontare il campionato di


LA STORIA luoghi comuni di un’accoglienza “passiva” fatta solo di vitto e alloggio. «È attraverso iniziative del genere - ha detto Don Vincenzo Federico – che sperimentiamo sui territori la vera integrazione». I Leoni Neri, durante la presentazione, hanno preso la parola. Ognuno di loro, ha detto il proprio nome, l’età e il paese di provenienza. Molti hanno aggiunto anche un “grazie” per l’opportunità concessa. Per chi li ha fatti sentire persone e non numeri.

A sinistra foto di gruppo per atleti, allenatore e dirigenza dei Black Lions. A destra un momento della partita d’esordio vinta per 4 a 2

Di Africa nell’Ac Black Lions ce n’è tanta. Nei momenti in cui si allenano, due volte a settimana, sul campo di Buccino dove disputano anche le partite in casa, è un vociare di lingue diverse. Si intrecciano italiano, inglese, francese e dialetti vari

terza categoria. La sfida delle sfide per uno che fa correre i ragazzi sui campo di calcio dal 1981. Una nazionale africana «Mi sembra di allenare una nazionale di calcio africana». E di Africa nell’Ac Black Lions ce n’è tanta. Nei momenti in cui si allenano, due volte a settimana, sul campo di Buccino dove disputano anche le partite in casa, è un vociare di lingue diverse. Si intrecciano italiano, inglese, francese e dialetti vari. Il gioco del calcio però pare essere il loro unico linguaggio. E si comprendono bene. L’8 novembre, a Padula, si è svolta la presentazione ufficiale della squadra. Nell’auditorium della parrocchia Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, c’erano loro, i Leoni neri. Sono tutti richiedenti asilo arrivati in Italia tra 2015 e 2016. Qualcuno è sbarcato a Salerno, qualcuno in Sicilia per essere poi trasferito qui in Campania. Accompagnati dal mister Rosolia, da dirigenti e collaboratori (Giuseppe Paglino, Raffaele Romanzi, Alvaro D’Ambrosio, Onofrio Russo, Antonio Romanelli). Il progetto Black Lions nasce grazie al sostegno degli enti gestori della struttura di accoglienza, l’associazione Il Sentiero, le cooperative Tertium Millennium e L’Opera di un Altro, da anni impegnati sul fronte immigrazione. Un progetto dal grande impatto sociale finalizzato a promuovere la socializzazio-

ne e l’integrazione con i territori e le comunità. Alla presentazione hanno preso parte anche il vescovo della diocesi di Teggiano-Policastro, monsignor Antonio De Luca, Vincenzo Faccenda, presidente della Figc di Salerno, il sindaco di Padula, Paolo Imparato e il primo cittadino di Sicignano degli Alburni, Ernesto Millerosa. Istituzioni, privato sociale, Chiesa, rappresentanti del mondo sportivo, insieme per testimoniare una buona pratica. Per debellare i

Esordio vittorioso La prima partita del campionato di terza categoria, girone D, i Black Lionsl’hanno disputata il 19 novembre a Buccino. Con le loro divise nere e verdi hanno fatto ingresso in campo e hanno affrontato la squadra Monte Pruno Roscigno. Foto di gruppo con dirigenti e accompagnatori e poi il via fischiato dall’arbitro. Sugli spalti a fare il tifo ci sono i compagni del centro di accoglienza con cui condividono da mesi l’attesa di un futuro, le difficoltà, le sofferenze dall’essere lontani dalla propria terra e dalla propria famiglia. Finisce 4 a 2 per i Black Lions. Una vittoria che ha un sapore particolare.

LA SCHEDA

Una vera nazionale africana, tutti sognano una vita migliore Muntari, Sara, Tijan, Demba, Yakuba, Karamba, Tumani, Christian, Dodou, Kanteh, Jallow, Abdou, Baboucarr, Jerreh, Oumarou, Issah, Ebrima, Lamin, Moustapha, Marcus, Babou, Tunko, George. Sono questi i nomi dei giocatori della squadra dei Black Lions. Dovranno disputare ben ventuno partite del campionato di terza categoria girone D contro squadre del territorio del Vallo di Diano, degli Alburni e dell’Alta Valle del Sele. Oltre a loro, c’è Sekouna che oltre ad essere il capitano della squadra è anche il mediatore che all’interno della struttura di accoglienza ha il compito di facilitare il dialogo e le relazioni tra i migranti e gli operatori. Sekouna è della Guinea ed è arrivato in Italia nel 2011 durante il periodo dell’Emergenza Nord Africa. I giocatori dell’Ac Black Lions sono di età compresa tra i 19 e i 28 anni e provengono tutti dall’Africa SubSahariana. Vengono dal Senegal, dalla Guinea, dalla Nigeria, dal Gambia, dal Niger, dalla Costa d’Avorio e dal Ghana. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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Ada resiste, una bottega tra i grattacieli di Alberto Rizzardi

Dietro il bancone della Tecnoelettrica Comoretto dal lontano 1943 c’è sempre lei: Ada 89 anni splendidamente portati. Oggi è aiutata dal figlio: «Non è facile ma, finché possiamo e ci divertiamo, andiamo avanti» 42 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

È vero, Milano è cambiata molto negli ultimi anni, inevitabilmente: la nebbia, el nebiun, è solo un lontano ricordo, Milan e Inter parlano ormai cinese e i Navigli, da zona popolare dall’animo verace, son diventati cuore della movida. Esistono, però, ancora frammenti di una Milano antica che resiste. E per trovarli, a volte, non bisogna neanche sforzarsi più di tanto. Siamo in corso Como: qui, dove un tempo c’erano botteghe di artigiani e piccoli negozi di alimentari, ora, sotto i grattacieli che hanno ridisegnato lo skyline di Milano e all’ombra del bosco verticale di Boeri, è tutto un fiorire di locali e boutique di moda, dove passa la gente più cool e si tengono gli eventi più in. Ma c’è un luogo dove il tempo sembra essersi fermato: la Tecnoelettrica Comoretto. Già il nome e l’insegna scaldano il cuore. Dietro il bancone, dal 1943, sempre lei: Ada Comoretto, classe 1927, 89 anni splendidamente portati. A Milano la signora Ada è arrivata ragazzina, da


MILANO

A sinistra Ada e il figlio Roberto al bancone della Tecnoelettrica Comoretto. Qui sopra una veduta esterno del negozio, sempre lì dal lontano 1943

Mio padre diceva che il cliente si deve sentire a casa, va conquistato e bisogna parlarci. Io sono della vecchia scuola: non guardo come il cliente è vestito o se entra per prendere solo un fusibile o metri di cavi. Lo saluto, gli chiedo come sta e se ha risolto il problema che aveva: la gente questo lo percepisce

Riva d’Arcano, provincia di Udine, con la famiglia in cerca di un futuro migliore. Ha studiato all’Umanitaria: ricamo, cucina, un po’ di tutto. Poi, quando lei aveva 16 anni, il padre apre la Tecnoelettrica Comoretto: emporio elettrico, come recita il volantino ancora oggi. E dietro il bancone finisce anche la giovane Ada. Mestiere che non amavo «Non mi piace questo mestiere, dissi a mio padre – racconta – anche se, all’epoca, c’era poco da scegliere: tutti dovevano darsi da fare». La risposta? «Tel fee istess, lo fai lo stesso». Semplice. E lei così ha fatto, andando avanti da sola dopo la morte del padre. I capelli si sono fatti bianchi, ma lo spirito è sempre lo stesso, così come quel grembiule azzurro, perfettamente stirato, che indossa con disinvoltura: «Non è un vezzo – spiega – ma una forma di rispetto e garbo nei confronti del cliente». A Milano c’è un detto: “se non c’è da Comoretto, non c’è da nessuna parte”. E, in effetti, qui c’è un po’ di tutto: il negozio oggi è anche un rivenditore Tim e ospita qualche prodotto moderno, ma il grosso restano lampade e lampadine, spinotti, fusibili, interruttori, pile, trecce, cavi in tessuto di 140 tonalità diverse. «Provi a contarle – mi sfida – son 140». Mi fido, visto che sa tutti i prezzi a memoria. Entra tanta gente alla Tecnolelettrica Comoretto: elettricisti e manutentori da ogni parte di Milano e pure dall’hinterland, mandati qui frettolosamente da altri rivenditori che certe cose non le trattano più;

clienti abituali e nuovi della zona, giovani e attempati, esperti e non. È un piccolo microcosmo la Tecnolettrica Comoretto, c’è una strana e bella magia: «Molti sostengono che qui sia un paradiso – confessa la signora Ada –. Mio padre diceva che il cliente si deve sentire a casa, va conquistato e bisogna parlarci. Io sono della vecchia scuola: non guardo come il cliente è vestito o se entra per prendere solo un fusibile o metri di cavi. Lo saluto, gli chiedo come sta e se ha risolto il problema che aveva la volta prima: la gente questo lo percepisce. E poi qui tutti danno una mano: se entra un giovanotto alto, chiedo a lui di prendere il prodotto che gli serve in alto sullo scaffale» . Tre gradini all’interno del negozio: la signora Ada e il figlio Roberto li percorrono decine e decine di volte: ogni giorno, dal lunedì al sabato, mattina e pomeriggio. Le difficoltànon mancano: gli esercenti della zona hanno sofferto molto per i cantieri che hanno ridisegnato l’area, da un lato il parcheggio e la risistemazione di piazza XXV aprile, dall’altro la costruzione dei grattacieli. Molti hanno gettato la spugna: «La sosta è diventata impossibile – racconta Roberto – noi avevamo tra

i clienti gente che veniva qui con il furgone, ora non si può più e questo ci ha penalizzato molto». Si resiste: a fatica, ma si va avanti. Di avversità, d’altronde, i Comoretto ne hanno affrontate tante: pochi mesi dopo aver aperto il negozio, per esempio, Milano fu bombardata dagli alleati, con macerie in tutta la città, specie in zona corso Como, a due passi dalla stazione Garibaldi, area chiave da colpire con le bombe. L’emporio rimase in piedi: ha resistito, così come resiste oggi alle lusinghe della moda, che vorrebbe appropriarsi di questo spazio. Non se ne parla. Non è facile ma resistiamo «Non è facile – ammette la signora Ada – ma, finché possiamo e ci divertiamo, andiamo avanti». Uscendo dal negozio, osservo sulla parete il calendario di una banca che, per ogni mese, ospita un personaggio, in versione cartoon, che ha fatto la storia di Milano: è novembre (il mese del compleanno della signora Ada, il 5), c’è Arturo Toscanini. Penso che su quel calendario ci potrebbe stare benissimo anche lei. Mentre rimugino, mi sento toccare un braccio: «Vedo che porta gli occhiali – mi dice in milanese –. Tenga, è un piccolo omaggio per essere passato». È un piccolo portachiavi con annesso cacciavite. «Se lo mette nel mazzo di chiavi, però, lo stringa ogni tanto, sennò lo perde» mi consiglia. Se non è magia questa.

CURIOSITÀ

Ada protagonista alla Fondazione Prada

La storia di Ada e della Tecnoelettrica Comoretto è diventata anche la protagonista alla Fondazione Prada di Milano. L’artista americano Theaster Gates, infatti, ha trapiantato un negozio di ferramenta di Chicago dentro la Fondazione per denunciare la continua sparizione di negozi che contengono la “conoscenza umana” e ha invitato Ada a una public speech. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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Fuori campo La Torino che nessuno racconta di Enrico Panero

A Torino è attivo un laboratorio di scrittura e comunicazione per persone senza dimora che nasce su iniziativa della Caritas diocesana dall’esperienza e dal progetto sociale di Scarp de’ tenis. Per raccontare un’altra città 44 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

Fuori campo è il nome di un nuovo laboratorio di espressione e comunicazione per persone senza dimora o in difficoltà socio-economiche, nato a Torino nell’ottobre scorso su iniziativa della Caritas diocesana. Scarp de’ tenisè alla base di questa nuova esperienza, perché Caritas Torino ha affidato proprio al gruppo di lavoro torinese legato al giornale di strada l’ideazione e la realizzazione del laboratorio, che si inquadra quindi nell’ambito del progetto sociale di Scarp. Il laboratorio ha una duplice funzione: rappresenta una tappa del percorso di reinserimento socio-lavorativo per le persone partecipanti e dà loro la possibilità di esprimere potenzialità e capacità che le difficoltà della vita hanno in qualche modo congelato o addirittura soffocato. La forma di espressione scelta


TORINO

A sinistra alcuni dei partecipanti al progetto Fuori campo. Qui sopra una delle foto prodotte nell'ambito del laboratorio

Una visione Fuori campo perché si racconta quello che normalmente non rientra nel campo visivo dei media: osservazioni e letture sono fatte da persone che “guardano il campo” dal di fuori, non per propria scelta

da Fuori campo è la comunicazione e l’oggetto è la città di Torino: in pratica, si intende osservare la realtà cittadina e fornire chiavi di lettura inedite, perché espresse da persone che normalmente non hanno la possibilità di farlo. Attraverso la produzione di immagini fotografiche, foto con didascalie o brevi testi, articoli, commenti e interviste, reportage, brevi video e montaggi si utilizzano i media nuovi e tradizionali per “fare comunicazione” sociale, non concorrenziale o necessariamente alternativa ma piuttosto complementare, cercando di andare oltre i luoghi comuni e gli stereotipi. Una visione appunto Fuori campo, sia perché si intende osservare e leggere ciò che normalmente non rientra nel campo visivo e nell’inquadratura dei media, sia perché queste osservazioni e letture sono fatte da persone che, secondo una metafora sportiva, non sono protagoniste e guardano “il campo” dal di fuori, non per propria scelta. Dare dignità alle persone «Con l’attività del centro diurno La sosta per persone senza dimora, aperto nel 2013, abbiamo capito, anche su sollecitazione di alcune persone che lo frequentavano, che erano gradite opportunità per manifestare le proprie capacità – spie-

ga Carlo Nachtmann, vicedirettore di Caritas Torino –. Ad un primo laboratorio di bricolage si sono così aggiunti laboratori di serigrafia, di fotografia e ora questo laboratorio di comunicazione, tutte iniziative che intendono “dare voce” a coloro che “non hanno voce” nella società. È un modo diverso di dare dignità a persone che solitamente vengono mantenute ai margini perché considerate inadatte». Attraverso le varie forme di espressione proposte, invece, queste persone hanno modo di portare alla luce il loro sentire e le loro capacità, e con Fuori campo di comunicarle all’esterno. «Questo dovrebbe sensibilizzare la società e contribuire alla formazione di una diversa consapevolezza rispetto alle persone senza dimora – aggiunge Nachtmann –. Cosa che rientra pienamente nel mandato di Caritas, che non è solo assistere ma anche osservare e animare per innescare processi sociali». Occasione per essere attivi Ma cosa pensano di questo laboratorio i diretti interessati? «Dopo circa un anno e mezzo nel mondo dei senza fissa dimora e senza lavoro è la prima vera occasione concreta di rientrare, in punta di piedi, tra le persone “attive” – dice Gabriele –. È un’opportunità di poter guardare in modo non banale ad alcune problematiche sociali,

e anche un bel modo per tornare ad occuparmi un po’ di me stesso». Renato si dichiara «entusiasta per questa nuova avventura: la chiamo così perché alla mia età (61 anni), con una non trascurabile esperienza, è cosa nuova. Mi sento, non per retorica, un privilegiato a prendere parte ad un progetto bello e utile, che mi dà la sensazione di rimettermi in carreggiata, sentirmi vivo, parte di qualcosa di importante». Marco ritiene centrale poter esprimere un punto di vista diverso, «perché credo che guardando da diversi punti si ha un quadro più completo, e cercare di comprendere le cose nella loro completezza non può che migliorare la qualità della società e automaticamente della nostra vita». Fuori campo è una «forma nuova, interessante e provocatoria di lettura della vita dei senza dimora: non solo nell’immagine più dolorosa e inquietante della classica iconografia clochard, ma in quella altrettanto logorante e drammatica delle vite a progetto e delle esistenze a breve scadenza e a continuo trasferimento – sostiene Alberto –. Per me è anche una pausa di utile approfondimento per rivedere alcuni momenti del mio passato in relazione al presente e al futuro, non senza qualche inquietudine tra i ricordi e la vertigine dell’attuale». info.fuoricampo@gmail.com

IL PROGETTO

Nasce La Voce fuori campo: una pagina sul giornale diocesano Il laboratorio Fuori campo è partito da subito con una produzione comunicativa concreta e visibile: il settimanale della diocesi di Torino La Voce e il Tempo ha infatti deciso di pubblicare periodicamente una pagina interamente pensata, gestita e realizzata dai componenti del laboratorio. Così, da dicembre ogni primo numero del mese del settimanale diocesano ospita La Voce fuori campo, una pagina che intende fornire una lettura diversa e inedita della città. www.lavocedeltempo.it dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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VENEZIA

Una veduta dell’ospedale SS. Giovanni e Paolo di Venezia dove è stato curato Vincenzo

Vincenzo e il cellulare se far del bene ti salva la vita di Michele Trabucco

Si direbbe: è stato un caso, o la Provvidenza, o la professionalità di un medico, o la solidarietà nel bisogno, o forse tutte le cose insieme che hanno permesso di salvare due vite in un momento solo. Vincenzo è uno storico venditore di Scarp de’ tenisVenezia, affetto da una malattia polmonare cronica. Per chi vive in strada, purtroppo, è facile cadere nelle problematiche croniche di queste malattie ed è spesso costretto a ricorrere alle cure dei pronto soccorso soprattutto quando comincia il freddo.

Un gesto di solidarietà verso un ragazzo pakistano ricoverato ha evitato una grave complicanza. Far bene? Fa bene

Vincenzo aveva conosciuto i medici ed infermieri del reparto e del pronto soccorso dell’ospedale SS. Giovanni e Paolo di Venezia, per la sua forza d’animo e le sue grandi doti di public relation. Amicizia in corsia Così durante uno dei suoi ultimi ricoveri Vincenzo aveva fatto amicizia con un paziente pakistano, vicino di letto, con cui aveva subito attaccato bottone, come soltanto lui sa fare. Dopo qualche giorno passato nella stessa camera si erano lasciati salutandosi con affetto e augurandosi di guarire presto entrambi. Nel modo migliore. Da quell’incontro del tutto casuale ne è nata una semplice amicizia, come spesso accade tra persone sole e nel bisogno. Per questo motivo Vicenzo, ogni tanto

andava a trovare questo ragazzo, del tutto solo a Venezia e affetto da malattia cronica per salutarlo e fare due chiacchere. Nell’ultima visita lo aveva trovato molto triste: gli avevano rubato il cellulare. Era l’unico strumento che aveva per tenere i contatti con familiari e amici rimasti a casa e poteva rasserenarsi guardando le centinaia di foto durante le lunghe ore sul letto in ospedale, per sentire in qualche modo l’affetto dei familiari e amici lontani. Unico modo per sentirsi meno solo. «Così – racconta Vincenzo – ho deciso di chiedere agli amici della Tana e del bar che io frequento a Venezia, di fare una colletta per comprare un nuovo cellulare all’amico pakistano. Mi sembrava una cosa semplice ma importante». Detto fatto, in poco tempo Vincenzo ha raccolto quasi 300 euro per comprare uno smartphone tutto nuovo. Salvato per caso «Volevo portarglielo di persona – continua Vincenzo – e così mi sono organizzato un giorno per andare durante l’ora di visita. Arrivato in reparto ho incrociato il primario che mi ha guardato un po’ perplesso chiedendomi: «come stai Vincenzino? Non hai una bella siera» (in veneziano significa una bella faccia che sprizza salute ndr). In effetti avevo il respiro pesante e non stavo benissimo. Così il medico mi ha invitato ad una visita di controllo, e vista la gravità del mio stato di salute, mi ha fatto ricoverare immediatamente». Quella visita ha salvato Vincenzo da una grave complicanza, e forse da qualcosa di ben peggiore e ha ridato speranza e nuova serenità all’amico pakistano, che ora con il suo nuovo cellulare può continuare a mantenere i contatti con i familiari e gli amici rimasti in patria.

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Unità di strada: accanto a chi non può scegliere di Cristina Salviati

Passare una notte in strada insieme al Gruppo condivisione di strada della Caritas diocesana di Vicenza. Tanti incontri con persone che non vogliono farsi curare: «Dobbiamo solo stargli vicino, fargli capire che c’è qualcuno che tiene a loro» 48 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

Uscire di notte con il Gruppo condivisione di strada della Caritas diocesana vicentina significa fare tanti incontri. Di solito sono persone conosciute, ma stasera, alla stazione dei treni c’è Luigi (i nomi sono di fantasia). «Come ti chiami?», gli si chiede dopo i primi saluti, e lui con una battuta in dialetto veneto: «Forte, quando son lontan, ma i me ciama pian se son visino». Luigi ha settantadue anni ed è senza pensione, nemmeno la sociale. Così gli vengono chiesti i dati per una verifica all’Inps. Luigi non ha certo paura di dormire per strada e mentre sorseggia un po’ di tè caldo rinvanga con nostalgia i lunghi pellegrinaggi a zonzo per la penisola: «Giravo con Rolf, il mio cane, sempre a piedi, da nord a sud. Quando entravo al supermercato lasciavo Rolf di guardia alla roba e nessuno osava avvicinarsi. Bei tempi quelli. Ogni tanto con la fionda si riusciva a catturare una gallina che poi si arrostiva all’aperto». Adesso però Luigi ha paura, non si riconosce più nella nostra società,


VICENZA

Sono ancora molte le persone che dormono per le strade di Vicenza. Cinque unità di strada cercano di prendersi cura di loro

Rolf se ne è andato da tanto tempo. Si sente solo e spaesato. Anche se dorme in strada Luigi è molto curato, i capelli bianchi puliti e legati a coda di cavallo, è ben vestito e tiene la sua roba ordinata nel portapacchi della bicicletta. «Forse è senza residenza così è incappato in quel caos burocratico che ti butta sempre più giù», commenta il gruppo mentre si dirige a Campo Marzio per vedere se Gianni ha voglia di chiacchierare un po’ oppure se ha freddo e gli si può offrire un bicchiere di tè caldo. Valerio che odia tutti Invece il gruppo incappa in Valerio che ce l’ha con il mondo intero, si arrabbia, inveisce contro le comunità, i ricoveri notturni, i volontari e gli operatori. E’ alterato dal vino e non si muove dal suo giaciglio di fortuna, però tira fuori un braccio da sotto le coperte, e prima di mangiare la sua girella al cioccolato la “rinfresca”, per far capire che non gli serve niente di caldo, sta bene così. Invece, la rabbia di Valerio è dovuta al fatto che le gambe gli fanno molto male. Mentre parla il volto si contrae per le fitte continue. Non ne vuole sapere di andare dal dottore, anche con i medici ce l’ha. Ma come si convince una persona che si è lasciata andare totalmente a farsi curare? L’unica speranza è continuare ad andare a trovarlo, fargli capire che qualcuno che tiene a lui c’è, e potrebbe aiutarlo a stare meglio. Così avanti con le merendine, i biscotti e il tè caldo. Da qualche tempo le uscite notturne del gruppo si

sono fatte più intense. Il numero delle persone che a Vicenza dorme nei parchi, sotto i portici o in altri ripari di fortuna sembra aumentato. In realtà le facce sono più o meno sempre le stesse. Eppure lo scorso anno a quest’epoca girovagando per il centro storico e per la stazione non si facevano così tanti incontri. È come se gli invisibili abitatori della città notturna avessero deciso di uscire allo scoperto. Come se ci cercassero: una sfida, siamo qua, come mai non ci vedete?

Bisogna cambiare il punto di vista. Dare vita a spazi d’incontro nella “normalità”, come al bar o in biblioteca, dove però chi progetta possa essere presente, per ascoltare e poi dare voce ai reali bisogni di chi è costretto a stare in strada

Rigenerazione urbana All’ultimo incontro sulla vulnerabilità organizzato dai servizi sociali del Comune si è formato un gruppo di discussione attorno al tema della rigenerazione urbana. «Bisogna cambiare il punto di vista – si dicevano i partecipanti –. Dare vita a spazi d’incontro nella “normalità”, come al bar o in biblioteca, dove però chi progetta possa essere presente, per ascoltare e poi dare voce». Luigi, una vita passata in strada, non si riesce a pensarlo preso in carico dalle istituzioni, per mano come un bimbo di tre anni. Probabilmente basterebbe poco, una spinta per sbrogliare l’inghippo burocratico che l’ha trascinato nel nulla cosmico della strada. Poi continuerebbe la sua vita un po’ anarchica, senza gravare su nessuno, anzi, se lo incontrate al bar sarebbe proprio lui con i suoi racconti, o Valerio con le sue sparate ironiche a rendere la vostra giornata un po’ diversa dal solito.

LA SCHEDA

Cinque unità di strada all’opera per cercare di “coprire” i bisogni Le unità di strada a Vicenza sono cinque: quella del Comune che esce con la Croce Rossa il martedì e il venerdì, quella della Papa Giovanni XXIII che esce il giovedì, quella della Caritas che esce il lunedì e infine nelle zone frequentate dalle prostitute l’UdS antitratta della cooperativa Equality. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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aforismi

POESIE

di Emanuele Merafina

Poeta fatto uomo Io, poeta fatto uomo. Cuore di bambino in mezzo al cielo. Volavo tra le stelle ed il mistero. Chiedendomi se poi era vero. Lasciavo giù il brutto della vita, nascondendo i miei anni fra le dita. Credevo che l’amore fosse pane, e ne mangiavo tanto fino a scoppiare. Ma si capiva bene che il mondo era cambiato. Si vedeva dal colore del cielo, era scuro e non più chiaro. L’orgoglio sopraggiungeva sopra ogni uomo facendolo diventare sempre più assassino. Ma io, poeta fatto uomo, mi distinguevo, credendomi un bambino. Fermando la mia crescita in ogni poesia, diventava trasparente la vita mia. Ma no, non e così. Me ne sono accorto anch’io. Mentre camminavo sbagliavo strada e chiedevo aiuto a Dio. Sono uomo, con questo orgoglio che è peccato. E pure se un giorno l’ho barattato per un amore che ormai è volato. Lui rimane mio. Adesso mi guardo e penso: no, questo non sono io. Arrogante, violento, prepotente a volte buono. Prima ero un poeta. Adesso sono un uomo. Fabio Schioppa

Ricordi Sono rimasti là nell’ombra, in quel profumato giardino i miei sogni di bambino. Sono rimasti nel caldo sole, tra l’aspro odor dei pini e il ronzio della api sui fiori. Sono rimasti là i ricordi di un tempo senza ritorno, cullati da tremolanti rami e da fruscii di foglie senza vita coperte ora dalla brume d’inverno che pallido sole morente, quasi carezza e invano tenta di scaldare scoprendo nel suo lento giro volti segnati, occhi senza splendore, cuori trafitti da dolori della vita non più protetti da muri d’amore. Gaetano “Toni” Grieco

Le ali La gioia e l’amore sono le ali per le più grandi imprese Momenti Vi sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo

Metafora Dolce e minuta ecco la bionda che il cuore d’amore inonda. I tuoi occhi di cielo catturan gli sguardi al tuo fianco vorrei svegliarmi tardi. E quando canta il fresco vento l’anima stanca porgerti contento. Offrirti un suono che non si confonda ed aspettar che come un’eco risponda. Un cuore il tuo cenno aspetta dovesse cent’anni restare a vedetta. Ma se ogni volta che cade foglia si esaudisse una voglia la nostra vita sarebbe spoglia soltanto all’amore non sbarriamo la soglia, perché nel momento che muore il nostro sentimento nasce anche il nostro pentimento eppure siamo insieme ma così lontani da non riuscire a vederci. Ferdinando Garaffa

Notte di cristallo Eccomi, in questa notte di cristallo avvolta nel sintetico tepore, a enumerare sfere sull’abete. Meticolosa valuto dimensioni e cromie decori e lucentezza. L’agile, ordine sparso dei globi scintillanti. Ognuno un flash ciascuno un fotogramma. Lo sguardo, complice quasi li accarezza come propizi lumi di Aladino. Io vago, scalza, per memorie e pianto angeli e candele. La manoL’idea nella mano Quindi, le dita ansiose e delicate. di dei unpensieri. giovane volontario Sciolgo piano il gomitolo di Arianna che, dolce, come sempre, della Rondamidella carità Milano: riporta a queidi Natali dove tu mi aspetti.

una App contro lo spreco alimentare Aida Odoardi dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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Noi ed Ephrata ci siamo adottati di Angela De Rubeis

Bianca e Paolo nel 2010 hanno intrapreso la lunga e qualche volta complicata strada dell’adozione internazionale. Nel 2013 in Etiopia hanno incontrato la loro figlia Ephrata. «È stato il dono più grande che potessimo ricevere. Ci ha cambiato la vita. Io, Paolo ed Ephrata ci siamo adottati» 52 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

Bianca Festa e Paolo Magotti, oggi poco più che quarantenni, nel 2010 hanno intrapreso la strada dell’adozione internazionale. Avvocato lei, web master lui nel 2013 hanno incontrato in Etiopia la loro figlia, Ephrata. Bianca ci racconta la storia della sua famiglia. «Ci abbiamo impiegato un po’ di tempo prima di maturare l’idea di avvicinarci al mondo dell’adozione. Ci siamo sposati nel 2007 e nel 2010 avendo fortissimo il desiderio di avere dei figli che non arrivavano, abbiamo capito che il “disegno” per noi era diverso. La nostra famiglia non sarebbe stata quella che tradizionalmente viene immaginata, ma delineata da strade, terre a noi sconosciute, incontri, sguardi che ci avrebbero poi cambiato radicalmente la vita». È stato difficile? Ci aspettavamo qualcosa di diverso. Il percorso per arrivare a nostro figlio si è circondato di burocrazia e lunghi tempi di attesa. Il percorso per arrivare all’adozione è molto faticoso, anche psicologicamente.


RIMINI iniziale e il saldo al termine della pratica adottiva. Ci sono enti strutturati, altri fondati sul volontariato. Ci sono enti che operano in più Stati ed altri che operano solo in un Paese.

Avere l’idoneità non è cosa da poco. Due belle foto di Bianca, Paolo e la piccola Ephrata. La nuova famiglia è nata nel 2013 grazie all’adozione internazionale

Bisogna avere una sorta di patente da genitori... Per prima cosa, con l’Ausl, si comincia un percorso di analisi e formazione che analizza diversi aspetti personali e di coppia. A questo punto la coppia può presentare domanda al Tribunale dei Minori inviando la richiesta d’idoneità all’adozione Internazionale e la dichiarazione di disponibilità all’adozione nazionale. A questo punto è il tribunale a pronunciarsi... Dopo l’udienza, che viene tenuta al Tribunale dei Minori di Bologna, la coppia è inserita nelle liste di attesa dell’adozione nazionale nelle quali resterai iscritto per tre anni dall’udienza; per l’adozione internazionale, invece, ti viene notificato dopo qualche mese un decreto di idoneità che ti permetterà di poter scegliere (entro un anno dalla notifica dello stesso) un ente a cui affidare un mandato per l’adozione internazionale. E qui che si apre una seconda fase: la scelta dell’ente... In Italia ce ne sono sessantadue autorizzati (non ce ne sono a Rimini, ndr). Gli enti variano tantissimo tra loro per metodi, strutture e Paesi in cui operano. Prima di scegliere l’ente è importante girarne un po’ perché la coppia si faccia un’idea di come sono e come operano. C’è chi richiede il pagamento integrale delle pratiche, altri che chiedono vari fondi spese o un piccolo fondo spese

I costi dell’adozione sono spesso considerati un punto dolente... Anche i costi variano da ente ad ente e da Paese a Paese. Tutti gli enti devono per legge indicare i costi sul proprio sito. Pratiche, bolli, traduzioni, il lavoro dei Tribunale, del procuratore, la permanenza di tuo figlio nell’istituti, il personale degli istituto, i vaccini, i pannolini, il cibo, le cure e tutto ciò che tuo figlio ha ricevuto nel tempo in cui non era con te, deve essere pagato. A voi come è andata? Abbiamo incontrato 5 enti valutando tanti Paesi. Ma il mio cuore sapeva dall’inizio che mia figlia era in Africa. Per varie circostanze incontrai Efrem, un bimbo etiope. Il mio cuore fece un salto. Fu la risposta a tutti i nostri dubbi. L’ente che ci

Mia figlia è nata il giorno in cui per la prima volta io e mio marito andammo in una parrocchia a chiedere di sottoscrivere un sostegno a distanza per dei villaggi colpiti da una grande carestia che il Centro Aiuti per l’Etiopia si era preso l’impegno di aiutare attraverso le donazioni

avrebbe potuto aiutare era a Verbania. Il Centro aiuti per l’Etiopia onlus (Cae) è un ente diverso da quelli che avevamo visto fino ad allora. Costituito quasi esclusivamente da volontari, tutti genitori adottivi, che una volta fatto il percorso di adozione restano legati alla terra dei propri figli. Una terra affascinante, complicata e bisognosa. Anche noi abbiamo deciso di aiutare. Laggiù è nata vostra figlia... Ephrata è nata in Etiopia. Non posso che piangere ripensando a quando ci venne comunicato che era stato fatto l’abbinamento. Quel nome ci sembrò impronunciabile, ma solo dopo qualche ora divenne ciò di più dolce le mie orecchie avessero mai sentito. Poi siamo andati in Etiopia. Il primo viaggio è di tre giorni ed è finalizzato a conoscere quel figlio abbinato da lontano mai visto neanche in foto. Il secondo viaggio, ad Areka, è durato circa 10 giorni. Il 24 dicembre del 2013 ci venne data la piccola. Un grande dono... È stato il dono più grande che potessimo ricevere. Ci ha cambiato la vita. Io, Paolo ed Ephrata ci siamo adottati e attraverso questo percorso riusciamo ad avere la possibilità tutti i giorni di aiutare coloro che sono più in difficoltà, facendoci sentire utili nella consapevolezza che qualsiasi cosa facciamo per i bambini che vivono lì e che hanno gli stessi occhi di nostra figlia. Cosa ti senti di dire a chi rinuncia all’adozione per paura delle difficoltà? Dico di non arrendersi, perché quel tempo che sembra così lungo è il tempo necessario per arrivare a tua figlia. Mia figlia è nata il giorno in cui per la prima volta io e mio marito andammo in una parrocchia a chiedere di sottoscrivere un sostegno a distanza per dei villaggi colpiti da una grande carestia che il Centro Aiuti per l’Etiopia si era preso l’impegno di aiutare attraverso le donazioni e le Sad. In quei villaggi ci siamo stati meno di un anno dopo. È anche questo non può essere un caso ma un segno di Dio. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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VOCI DALL’AFRICA

Issa, l’acrobata che era spazzatura: «Oggi insegno ai bambini a volare»

di Anna Pozzi

scheda Anna Pozzi, giornalista e scrittrice, si occupa da molti anni di questioni legate all’Africa, continente in cui ha vissuto e a cui ha dedicato numerosi reportage. L'ultimo libro Mercanti di schiavi (San Paolo, 2016) - racconta le storie di coloro che sono costretti a lasciare le proprie case, finendo nelle mani di trafficanti e sfruttatori.

«Mi chiamavano chocora, che vuol dire “spazzatura”. Come gli altri bambini di strada di Nairobi. E un po’ si capiva. Eravamo sempre conciati da far paura. E poi, mica ci facevo più caso. Dopo un po’ ci si abitua. Era diventato un nome come un altro. Ma il mio nome è Issa. E non sono più un bambino di strada». Oggi Issa ha vent’anni ed è orgoglioso di essere uno degli acrobati e contorsionisti più apprezzati di Nairobi, la capitale del Kenya. Con esperienze anche in Olanda e Italia. Ora in strada ci va per esibirsi e per avvicinare i tanti altri ragazzi che continuano a viverci. Sono circa 50 mila solo a Nairobi. Alcuni sono nati addirittura in strada: figli di ragazzine spesso vittime di abusi. È un mondo parallelo e allo stesso tempo consustanziale quello della strada a Nairobi. È dentro ed è fuori. Issa ci è finito da piccolissimo, prima nel suo villaggio, poi nella grande capitale. «A dieci anni – racconta –la strada ti sembra solo libertà. Ma è una grande illusione. Se ci penso adesso, vedo che l’unica certezza in strada è l’imprevisto. E la violenza, la fame, il freddo. In strada mi hanno fatto sentire spazzatura, qualcosa da usare e gettare via». Il talento di Issa Issa, però, aveva un talento. Qualcosa che apparteneva alla sua natura, quasi senza accorgersene. I suoi muscoli, le sue articolazioni erano particolarmente flessibili, al punto da riuscire a fare movimenti impossibili ad altri bambini della sua età. E poi adorava gli artisti e gli acrobati che si esibivano in strada e nelle piazze. Cercava di riprodurne i movimenti,

Quando mi concentro, il mio corpo striscia e vola, è un serpente e un uccello. Non è più l’inferno della fame, la miseria, la vergogna verso tutto e tutti. Verso di me, soprattutto. Vergogna di esistere, di trascinarmi in un sottomondo al limite dell’umano. Oggi mi sento vivo. Sono uscito dall’abisso e guardo il cielo. Non scappo più. Volo.

Issa durante uno delle sue esibizioni dimostrative per le vie di Nairobi

ma si sentiva goffo e inadeguato. Però vedeva che la gente si fermava volentieri a guardarlo e magari gli dava una monetina. Insomma, Issa aveva capito che poteva rimediarci qualcosa per sopravvivere. C’è voluto tempo, brutte esperienze e molta determinazione perché quel talento grezzo diventasse un’arte. C’è voluto soprattutto James. Un incontro in strada James e Issa si sono conosciuti in strada. Perché la strada era la casa di Issa e James era un acrobata di strada. James è anche membro dei i Nafsi Africa uno dei primi gruppi di acrobati e giocolieri che un missionario italiano, padre Kizito Sesana, ha creato all’inizio degli anni Novanta, coinvolgendo i ragazzi di strada del suo Kivuli Centre, alla periferia di Nairobi. Issa, invece, è la star e l’allenatore di un gruppo di piccoli acrobati, sempre nato dall’iniziativa di Kizito, il Koinonia Acrobatic Team. «Ci ho messo un po’ a rendermi conto che la mia vita stava cambiando –ricorda Issa –. Non è stato facile e tornare a scuola, ad esempio, è stata molto dura. Ma al Kivuli Centre mi hanno aiutato a portare avanti la passione e a coltivare il mio talento». Issa oggi non solo è molto bravo, ma ha anche un grande carisma e una vera passione nell’insegnare la sua arte ad altri bambini. «Certe volte –racconta –è come se il mio corpo fosse altro da me. È una sensazione bellissima. Quando mi concentro, il mio corpo striscia e vola, è un serpente e un uccello. Non è più l’inferno della fame, la miseria, la vergogna verso tutto e tutti. Verso di me, soprattutto. Vergogna di esistere, di trascinarmi in un sottomondo al limite dell’umano. Oggi mi sento vivo. Sono uscito dall’abisso e guardo il cielo. Non scappo più. Volo». dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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VENTUNO

Il Trattato commerciale transatlantico Perché fa paura Per il governo americano e quello europeo il trattato di libero scambio favorirà la ripresa dell’economia. I detrattori, invece, raccontano di quanto pericolosi siano gli effetti sulle economie locali e sull’ambiente. E Trump che ne pensa? di Andrea Barolini

Ttip è una sigla con la quale, in futuro, ciascuno di noi potrebbe dover familiarizzare. Significa Transatlantic trade and investment partnership, ovvero Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti. Si tratta

di un accordo di libero scambio, che coinvolge gli Stati Uniti e l’Unione europea. Presentati come potenziale volano di opportunità per le imprese e le economie delle nazioni che ne faranno parte, è in realtà osteggiato

scheda

Ventuno come il secolo nel quale viviamo, come l’agenda per il buon vivere, come l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. Ventuno è la nostra idea di economia. Con qualche proposta per agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno.

con forza da molti - società civile in testa - per le conseguenze sociali e ambientali che potrebbe produrre. Il Ttip, noto anche come Tafta Transatlantic free trade agreement, termine coniato dai suoi detrattori, è stato lanciato all’inizio del 2013 da Barack Obama e dai dirigenti dell’Unione europea José Manuel Barroso e Herman Van Rompuy, con il sostegno degli allora 27 (ormai 28) Stati membri. L’obiettivo è di libe-

ralizzare al massimo il commercio tra le due sponde dell’Atlantico, in particolare attraverso

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INFO

Con Donald Trump alla Presidenza l’approvazione del Ttip resta più incerta Sono finora tredici i cicli di negoziati che sono stati effettuati tra la Commissione europea e il dipartimento del Commercio americano dal momento in cui fu lanciato il progetto Ttip, nell’estate del 2013. Secondo quanto filtra dal segreto delle discussioni, per ora l’accordo è ancora lontano. Su numerosi temi rimane aperto il conflitto. La pressione dell’opinione pubblica, largamente scettica sul trattato, almeno in Europa, ha portato la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker, a promettere maggiore trasparenza. Tuttavia, i testi principali restano inaccessibili. Il termine dei negoziati, inizialmente previsto per la fine del 2015, non arriverà prima degli ultimi mesi del 2017, forse anche più tardi. In termini tecnici, ammesso che dal punto di vista politico si ottenga un accordo, per far sì che il Ttip entri in vigore occorrerà l’ok dei 28 governi europei, il via libera del Parlamento europeo e la ratifica dei Parlamenti nazionali. Sapendo che c’è chi, come la Grecia di Alexis Tsipras, ha già fatto sapere: «Noi non ratificheremo mai questo tipo di accordo». L’elezione di Donald Trump alla presidenza americana, inoltre, potrebbe far mutare repentinamente le carte in tavola: gli Usa potrebbero cambiare del tutto atteggiamento, dal momento che il miliardario si è dichiarato in campagna elettorale contrario al Ttip.


una riduzione dei diritti doganali e eliminando le “barriere normative”. Ovvero armoniz-

avrebbero particolari problemi, se non quello di abituarsi ad un fanale di colore diverso dal solito. In altri casi, però, le cose si complicano. E molto. In Europa, infatti, nu-

zando le leggi che regolano la produzione e la vendita all’ingrosso e al dettaglio dei prodotti commercializzati nelle due aree. Ad esempio, una regolamentazione più stringente in materia di ecologia, stabilita dall’Ue per un determinato prodotto, può comportare dei costi supplementari per le aziende americane che vogliano esportare le loro merci. Prendiamo però alcuni

esempi concreti, che possano chiarire meglio di cosa stiamo parlando. Negli Stati Uniti le luci della retromarcia delle automobili sono obbligatoriamente di colore ambrato, mentre, come noto, in Europa sono bianche. Ciò impone alle case automobilistiche di produrre differenti modelli in ragione del mercato di riferimento. Ora, se le regole fossero armonizzate, le aziende potrebbero eliminare un costo (e magari – ma questo dipende ovviamente dalle scelte strategiche –diminuire i prezzi totali dei veicoli), mentre i consumatori non

Gli effetti concreti del trattato? Un esempio. In Europa gli Ogm non sono consentiti. Negli Usa invece il ragionamento è inverso. Provate a immaginare le conseguenze sui mercati

merosi governi hanno deciso – applicando quello che si definisce “principio di precauzione” –di non autorizzare le colture di prodotti geneticamente modificati (Ogm). Negli Usa, invece, il ragionamento è stato inverso: si consente di mettere tali prodotti sul mercato e ci si riserva di ritirarli a posteriori, qualora dovessero emergere problemi. È proprio su questo punto che si sono concentrate le prime critiche all’ipotesi di accordo: il rischio, hanno spiegato i detrattori europei, è di ritrovarsi con polli lavati con il cloro, mucche nutrite con aggiunte di ormoni e altri metodi che nei nostri Paesi sarebbero vietati. Questioni talmente delicate da convincere i dirigenti del Vecchio Continente a garantire che no, fino a questi eccessi non si arriverà. Il problema è che bisogna credere loro sulla parola, per-

ché – altro punto particolarmente contestato – i negoziati sono stati svolti sin dall’inizio in grande segretezza. Ma non è tutto: nel mirino c’è anche il metodo scelto per regolare eventuali contenziosi. Chi dovrà,

in altre parole, fare giustizia se un’azienda dovesse andare oltre rispetto alle regole? Ebbene, fin dagli anni Cinquanta per casi di questo tipo esiste uno strumento, chiamato Investor-State Dispute Settlement (Isds), che consiste in una sorta di “giustizia parallela”, un arbitrato ad hoc per le dispute commerciali. Il problema è che, a causa del margine di manovra concesso a questi “arbitri”, negli ultimi anni l’Isds ha rappresentato più che altro un’arma per le multinazionali per attaccare il diritto interno dei singoli Paesi, in materia ambientale, ma anche sanitaria e sociale. Sul sistema giudiziario è in corso una riflessione per una possibile riforma, ma per ora la situazione è decisamente a favore delle aziende private: basti pensare che gli Stati non possono adire l’Isds. Inoltre, i negoziatori del Ttip prevedono di instaurare dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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VENTUNO un Consiglio di cooperazione internazionale, che dovrebbe occuparsi di proseguire lo sforzo di armonizzazione legislativa. I promotori del trattato assicurano che si tratterebbe di un organismo consultivo. Ciò che è chiaro è che, in ogni caso, avremmo a che fare con un istituto non eletto e non controllato se non in modo del tutto indiretto dai Parlamenti. Più in generale, chi

Chi critica il Trattato critica il Ttip sottolinea come sottolinea la sua “base ideologica” sia il liberismo economico. E che come la sua base non si tratti di altro se non dell’anideologica ticamera della fine dei servizi pubsia liberista. blici europei. «Numerosi accordi siCon rischi pesanti mili al trattato transatlantico, adotaltrove – ha commentato il sul mantenimento tati quotidiano francese Le Monde –, della qualità hanno in effetti teso a “spezzettare” i servizi pubblici, aprendo alla cone dell’efficienza correnza». Infine, se il novero delle nei servizi materie “liberalizzabili” è stato finopubblici ra indicato esplicitamente in una “li-

Paul Magnette “Golia” contro i giganti Canada e Usa

sta positiva” dall’Ue, da qualche tempo l’Europa ha adottato il principio americano della “lista negativa”, cioè delle materie escluse. Si fa un elenco di quelle che restano appannaggio degli Stati nazionali: su tutto il resto, è possibile in teoria che grazie al Ttip si abbia carta bianca. E se qualcosa venisse “dimenticato” (volontariamente o meno), le conseguenze potrebbero essere pesanti. Tutto ciò dovrebbe garantire delle ricadute economiche positive, ma che la stessa Commissione quantifica in 119 miliardi di euro. Di qui al 2027. Da dividere per tutti i 28 Paesi Ue. Poca roba insomma, ad un prezzo molto alto. Il che ha fatto parlare senza mezzi termini di «regalo agli americani».

Il secondo più importante accordo commerciale in discussione in Europa, dopo il Ttip, è il Ceta, ovvero il Comprehensive Economic and Trade Agreement, che tradotto diventa Accordo Economico e Commerciale Globale. Come per il trattato tra Usa e Ue, questo – che coinvolge l’Europa e il Canada – punta a liberalizzare gli scambi commerciali tra le due aree in questione, con – tra le altre cose – l’eliminazione del 99% dei dazi doganali. Nel

corso del mese di ottobre sui termini dell’accordo si è discusso molto, soprattutto grazie a un uomo, Paul Magnette, presidente socialista della Vallonia (regione-Stato del Belgio). Secondo il sistema di

Per più di un anno il presidente della Vallonia è riuscito a bloccare l’accordo di libero scambio commerciale tra Europa e Canada 58 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

governo della nazione europea, il parlamento regionale deve esprimersi su un trattato come il Ceta, e il suo giudizio è vincolante a livello nazionale. Per più di un anno il “governatore” vallone ha dato battaglia contro l’accordo: ha spiegato che «è stato negoziato tra il 2009 e il 2015 dalla Commissione senza che que-

Nel novembre del 2015 a Berlino, gli attivisti del movimento contrario agli accordi commerciali previsti dal Ttip, hanno consegnato a Martin Schulz presidente dell’Europarlamento più di 3 milioni di firme raccolte tra i cittadini dell’Unione

sta ci abbia in alcun modo informati». Poi, nell’estate del 2015, «ci siamo ritrovati con un testo di 1.600 pagine. Abbiamo chiesto informazioni complementari nel settembre del 2015. Ce le hanno date, parzialmente, solo il 6 ottobre 2016. Questo metodo non è accettabile». Una posizione dura, che è stata superata solamente il 30 ottobre, dopo un primo voto contrario arrivato il 10. I

valloni avevano spiegato che il testo rischia di colpire il modello agricolo locale, nonché i diritti dei lavoratori, il sistema sanitario e le norme a protezione dei consumatori e dell’ambiente. Senza dimenticare gli arbitrati, che secondo i parlamentari della regione belga avrebbero potuto schiacciare il loro potere legislativo. Per concedere il proprio ok, infatti, la Vallonia ha

ottenuto modifiche non di poco conto, a cominciare da quella secondo la quale le dispute commerciali saranno sottoposte ad una giurisdizione interamente pubblica.


SCHEDA

Paul Magnette, il ministro-presidente della Vallonia, 45 anni, è un appassionato di Pier Paolo Pasolini, a cui ha dedicato qualche mese fa un libro di analisi letteraria

Inoltre, dovrà essere effettuata una valutazione, a intervalli regolari, degli impatti socio-economici e ambientali dell’applicazione provvisoria del Ceta. Mentre la Corte di giustizia dell’Unione europea dovrà pronunciarsi sulla compatibilità con le regole comunitarie del tribunale che si dovrà occupare della risoluzione delle controversie tra multinazionali e Stati. Se i governi hanno firmato il trattato, in ogni caso, mancano ancora molte ratifiche parlamentari. Alcune non pongono problemi: in Germania, ad esempio, sia i socialdemocratici che i conservatori sono favorevoli (a dire no sono solo la sinistra e i verdi), quindi il sì arriverà senza difficoltà. Ma in Austria la situazione è molto più complessa, con il solo partito conservatore Oevp a sostenere l’accordo. In Ungheria, poi, la posizione del presidente Victor Orban non è ancora chiara, mentre nel Lussemburgo una vasta mobilitazione popolare si è sollevata contro il Ceta. Anche il futuro del trattato euro-canadese, insomma, appare incerto.

Per i valloni l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada rischiava di colpire il modello agricolo locale, i diritti dei lavoratori, il sistema sanitario regionale e le norme a protezione dei consumatori e dell’ambiente

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INCONTRI

LABORATORI

AUTOBIOGRAFIE

CALEIDOSCOPIO

Nonostante gli anni di esperienza in strada Lisa prefersice che sia la musica a parlare per lei piuttosto che il suo aspetto

Lisa che non si piega alle leggi del precariato Lisa ha i capelli corvini e una chitarra acustica. È nata a Milano ma si reputa cittadina del mondo. E il mondo lo ha girato davvero. A 17 anni visita Cuba e ci resta per tre mesi. L’anno successivo si reca in Messico, poi in Mozambico, in Urss, in Jugoslavia e in Egitto. Anche il suo percorso di studi è esemplare: dal liceo Parini alla laurea in lettere classiche, con lode, all’Università Statale di Milano. Poi si trasferisce in Grecia. Qui mette radici, riprende a studiare e si diploma in chitarra e pianoforte al conservatorio di Atene e si specializza in restauro all’Accademia di Belle Arti di Atene. La Grecia diventa la sua seconda casa: a Spetses, isola incantevole, conosce Nikos, un restauratore e con lui inizia una nuova esperienza lavorativa. Con la crisi, i contratti di restauro finiscono così torna a Roma, dove lavora come supplente in un liceo. Poi molla tutto e torna a Milano. «In un certo senso ho riacquistato la mia libertà –spiega sorridendo –non mi piego alle leggi del precariato». E inizia a suonare, spaziando Antonio Vanzillotta da Joan Baez ai Beatles, dai Pink Floyd a John Dowland e allietando i passanti infreddoliti. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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PAROLE

Napoli e il calcio, quando lo sport è strumento di riscatto sociale

Francesco De Luca è cresciuto professionalmente seguendo da inviato gli anni d’oro del Napoli di Maradona

Francesco De Luca, cronista nato con Maradona Francesco De Luca è il caporedattore sport de Il Mattino di Napoli. Cinquanta anni, sposato con una collega, ha iniziato negli anni Ottanta, il periodo del Napoli di Maradona, al Corriere dello Sport. «Maradona era il più grande di tutti – ci ha raccontato – ma non era molto disciplinato: non sapevamo mai se si sarebbe presentato agli allenamenti così, per sentirlo, noi giornalisti eravamo costretti a lunghi appostamenti». Per poter avere le notizie sicure Francesco ha passato serate intere, ma anche notti, sotto casa del campione argentino anche perché, all’epoca non esistevano internet o telefonini e si doveva correre a un telefono pubblico o di persona al giornale per fare un buon lavoro. «Se oggi faccio questo lavoro – prosegue De Luca – lo devo proprio a Diego perché quando c’era lui il Napoli era un club seguitissimo e i giornali dovevano scrivere tutto quello che lui faceva e diceva. Vivere il momento dello scudetto è stata per me una grande scuola professionale ma anche di vita, fondamentale per la mia carriera». Ora, però, quei periodi sono finiti anche per lui. «Da quattro anni – racconta – , cioè da quando sono diventato caporedattore sono costretto a rimanere in redazione a coordinare il lavoro degli altri. Questo mi dispiace, anche se non mi sfugge il rapporto forte che ancora esiste tra la squadra e la città: il giorno dopo una partita si parla solo del Napoli e di Sarri». De Luca ci ha raccontato la sua giornata che inizia molto presto con la lettura dei giornali per confrontarli con il suo e vedere come sono riportate le notizie e se ci sono dei “buchi” (notizie non riportate) presi o dati. «Le giornate sono lunghe – conclude – e possono finire anche a mezzanotte. Scrivere e controllare da quattro a sei pagine ogni giorno non è semplice. Ma io amo Giuseppe Scognamiglio questo lavoro». 62 Scarp de’ tenis dicembre 2016 - gennaio 2017

PAROLE

Giornalismo e famiglia: pensiero arduo Speravo di sbagliarmi. Invece, quando ho chiesto a Francesco De Luca del rapporto di un giornalista sportivo con la famiglia, mi ha confermato tutte le difficoltà incontrate da chi deve stare sempre sul campo. Lui è uno della vecchia scuola, si è fatto le ossa on the road. È in forza a Il Mattino di Napoli dagli anni ‘80 e, prima di diventare redattore capo, se ne è fatti di chilometri seguendo il Napoli di quel folle di Diego Maradona. Tempi duri. Tempi nei quali una famiglia era un pensiero arduo, un pensiero però cercato, voluto e attuato con Emanuela, anche lei giornalista. La data del loro matrimonio recita 7/7/07;chissà cosa si sono promessi… Bruno Limone

Napoli è una città fuori dalla norma. Una città esagerata. Piena di cultura, storia, creatività, passione, valori. Tutto questo c’è nell’anima dei miei concittadini. Tra i tanti fenomeni ho scelto di parlarvi della passione sportiva. Tutta l’Italia, e anche all’estero, sanno del grande attaccamento dei napoletani alla squadra. Una passione smodata? Difficile dare una risposta. È un fenomeno complesso. A Napoli il calcio è ossigeno, è nutrimento interiore. Ho chiesto al riguardo il parere a Francesco De Luca. Francesco ha risposto che vede a Napoli un interesse per il calcio maggiore che altrove per tanti motivi. In una città afflitta da mille problemi, con una qualità di vita forse appena sufficiente, nonostante le grandi potenzialità, è normale cercare una valvola di sfogo. Il calcio rappresenta un sollievo a tanti affanni. È gioia, è amore. C’è un evidente bisogno di aggrapparsi a qualcosa. La sua risposta mi trova pienamente d’accordo. È giusto, legittimo amare il calcio, purché - questa è una mia idea –, la passione non si trasformi in una dipendenza e non si arrivi a caricarla di significati che non le appartengono. Mi riferisco al riscatto sociale, all’impegno per ottenere e conquistare una vita civile. La vittoria sportiva deve trasmettere entusiasmo e buonumore. Ma non può risolvere i problemi. Giuseppe del Giudice


NAPOLI

«Lo sport è ancora luogo di valori» parola di cronista sportivo Da inviato alle Olimpiadi di Rio 2016, Francesco De Luca ha potuto vedere e raccontare la solidarietà tra atleti Francesco De Luca è stato l’inviato de Il Mattino alle Olimpiadi di Rio 2016. Io, che non seguo molto il calcio, ne ho approfittato per fare qualche domande sulle gare di ciclismo, uno degli sport che preferisco. Volevo conoscere qualche retroscena. Ad esempio qualcosa in più sull’incidente di Nibali e su quello capitato alla ciclista olandese Van Vleuten. «Alle Olimpiadi i tempi sono molto rapidi – racconta De Luca – e le gare si susseguono in tutte le specialità. Purtroppo c’è sempre poco spazio per approfondire tematiche che meriterebbero ben altri spazi. Però, come sempre in queste occasioni, sui campi di gara si sono viste fratellanza e solidarietà tra atleti. Un caso su tutte è quello delle due mezzofondiste Nikki Hamblin e Abbey D’Agostino che, dopo essere cadute in gara, sono arrivate all’arrivo insieme e a braccetto per poi essere riammesse dal comitato olimpico alla gara dei 5 mila metri. Altra storia che mi piace ricordare è quella di Peppe Vicino, atleta di canottaggio del “quattro senza” italiano, che rischiava di saltare l’appuntamemto olimpico a causa di una situazione familiare delicata. Però, grazie all’aiuto del Coni, non solo è riuscito a gareggiare ma anche a conquistare una medaglia». Ricordo di Siani Ma non abbiamo parlato solo di sport. Visto che lavora a Il Mattino, stesso giornale in cui lavorava Giancarlo Siani – del quale da pochi giorni era caduto il 31esimo an-

niversario della morte – ho voluto sapere se lo ha conosciuto di persona. «In quel periodo lavoravo altrove – racconta De Luca – ma ero molto amico della sorella. Quando arrivò la notizia della tragica uccisione di Giancarlo non sapevo come dirglielo». Francesco De Luca considera Gianni Mura (che scrive su Scarp) uno dei suoi maestri ed è cresciuto con gli insegnamenti di Antonio Corbo. Ci ha detto molte altre cose interessanti. Grazie Francesco di essere venuto a trovarci. Massimo De Filippis

PAROLE

Un professionista serio che non liscia il lettore «Un lavoro che amo. Non potrei farne a meno» Il Mattino, giornale di antica tradizione, conosciuto e apprezzato in molte città del Centro-sud ha sede in via Chiatamone. Esci da quella redazione, attraversi la strada, e annusi la salsedine; qualche volta il mare bagna Napoli. Francesco De Luca, il capo dello sport a Il Mattino, recentemente è stato uno degli inviati alle Olimpiadi di Rio. Naturalmente, scrive del Napoli. Il calcio, in effetti, è il suo pane quotidiano. Quando si scrive di calcio, spesso si cade nella retorica, nell’esaltazione del gesto pedatorio, si enfatizza, si fa del terrorismo cronacale perché bisogna accontentare quei tifosi che, il sabato si sentono allenatori e il lunedì dotti giornalisti o allenatori. In effetti, molti giornalisti sportivi, questo fanno, trascurando l’etica professionale. Francesco De Luca non appartiene a questa bislacca categoria. Non fa del giornalismo accomodante. L’ho letto diverse volte, l’ho trovato critico, ma con la dovuta intelligenza. Insomma, un giornalista di cui ti puoi fidare, anche se a volte le opinioni possono essere discordanti. Francesco, lavora a Il Mattino dal 2004, dodici anni di appartenenza, in precedenza ha lavorato al Corriere dello Sport. Il suo maestro, oso dire il suo mentore, è stato Antonio Corbo, oggi a La Repubblica. I buoni maestri a questo servono. Ti formano. Ho voluto chiedere a Francesco quali sono i suoi interessi extra sportivi. «Di tempo libero, in effetti, ne ho ben poco – dice De Luca –. Quando posso mi dedico alla lettura di un libro, una passeggiata rilassante, un buon film». Non è certo di voler fare il giornalista sine die, ma quando l’ha detto, sul suo volto è apparsa una dolce bugia. In effetti, perché dovrebbe lasciare via Chiatamone, la sua scrivania, le arrabbiature, le gioie e i dolori sportivi? Non avrebbe senso. Il giornalismo è un mestiere che va accudito, salvaguardato. Francesco, ne sono certo, questo farà. È stato un incontro assai gradevole, appagante. Francesco, parla e soprattutto ti ascolta senza spazientirsi. Per me l’incontro più Aldo Cascella bello che Scarp mi ha regalato fino ad oggi. dicembre 2016 - gennaio 2017 Scarp de’ tenis

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CALEIDOSCOPIO

Amore sbagliato Amore sbagliato, amore sognato. Se avessi avuto più amore e pazienza, l’amore avrebbe trionfato. Il mio cuore è abbandonato alla solitudine, che un altro amore illumini il mio cuore. Dove sono finiti i sogni che con la realtà sublime era la vita con risonanze armoniche. Aspettare l’amore è un’inquietudine che rende la solitudine un’amara tristezza, ma con la forza dell’amore di se stessi ci si ritrova a contatto con un’immagine solare, tutto meraviglioso. Amore sbagliato, così amore ritrovato basta attendere come una lucertola al sole l’anima si riempie di calore da espandere a chi incontri. Io aspetto teneramente un soffio di pace con un amore ritrovato. C’è sempre un amore sbagliato e un amore inaspettato. Luigi Armanni

Addio a Giorgio, un uomo buono L’abbraccio della città di Como di Salvatore Couchoud

Non era propriamente quello che si dice un’istituzione ma, a Como, Giorgio Bignami (nella foto)lo conoscevano tutti e la notizia del suo decesso – e soprattutto il modo in cui questo è avvenuto –ha lasciato l’amaro in bocca a tanti. Giorgio aveva solo 52 anni ed era un senza dimora da quando aveva perduto il posto ai servizi cimiteriali della città. La sua particolarità, e la ragione per la quale era familiare a tutti, è che girava per la città con quattro cani legati a una cordaguinzaglio. Non chiedeva elemosine, non importunava nessuno. Anzi, si fermava spesso e volentieri per consentire ai bambini di passaggio di indirizzare qualche carezza ai fidati compagni a quattro zampe. Quattro cani per strada, proprio come nella canzone di Francesco De Gregori. E ai quali è rimasto fedele sino alla fine, in un modo che lascia persino esterrefatti. Da tempo malato, come ha confidato un amico homeless, “accusava forti dolori allo stomaco e diceva di stare male”, Giorgio si era voluta-

Il vostro mostro Son il vostro mostro e ogni dì ve lo dimostro Rimango sempre più stupito però penso d’aver capito? Perché do amore e non orrore? O una di queste altre cose? Sembro uno zombie? Dalla faccia? Son contro? La caccia? Ho le ali sto con tipi leali amo gli animali? Non voglio regali? Sicchè sapete che fo? Vò a viver con codesti brutali squali animali serpenti anche se son feroci e letali son sempre superiori dei cosiddetti esser (dis)umani. Giovanni Ricciardi

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mente tenuto lontano da visite ambulatoriali e ricoveri ospedalieri, perché era terrorizzato dall’idea che gli portassero via i cani e li rinchiudessero in un canile, preferendo sopportare i dolori in loro compagnia, al riparo della tenda che si era allestito sotto il portico dell’ex ristorante Fish House in via Carso. Una mattina di metà ottobre un amico lo ha trovato morto sotto quella stessa tenda, mentre i quattro cani abbaiavano nel tentativo di risvegliarlo. Una storia triste, senza dubbio, che tra l’altro ha per protagonista un “uomo buono”, secondo la testimonianza unanime di quanti lo hanno conosciuto, della gente comune come degli ex colleghi del Cimitero Maggiore. Ma anche una storia a suo modo istruttiva, dal momento che al funerale di Giorgio c’era una folla di persone di ogni estrazione sociale. Segno che anche a Como si stia rivisitando l’immagine tradizionale del senza dimora? Se così fosse potremmo dire che Giorgio, dopo la testimonianza di amore per i suoi inseparabili compagni di viaggio, ci avrebbe impartito una seconda salutare lezione, che è quella di andare oltre tutti gli stereotipi e le letture fasulle della realtà.

Canto di luce Angelo Splendente se sorridi e mi abbracci con le candide ali, se mi avvolgi di piume e gocce lacrimali, e mi canti melodie delle luci Stellari allora nella notte mi riecheggi nel più calmo dei mari per risorgere al primo mattino Aurora mi appari a fianco all’Altissimo intoni i tuoi canti. Perciò Tu sei senso d’Amore e per questo m’incanti. Mino Beltrami


CASA DELLA CARITA’

Compito dei custodi sociali è monitorare le condizioni dei residenti, fornendo sostegno a chi vive in condizioni di disagio

Progetto custodi sociali: gli angeli del condominio di Valentina Rigoldi

scheda Quello dei custodi sociali è uno degli interventi che la fondazione Casa della carità di Milano porta avanti all’interno del progetto Scegliere insieme la strada di casa, attivo dal 1° gennaio 2015 e realizzato in collaborazione con i Servizi sociali del Comune di Milano e promosso insieme a C.R.M. cooperativa sociale, Comin cooperativa sociale di solidarietà e Fondazione Arché per offrire una serie di servizi alla domiciliarità nelle case popolari dei Municipi 2 e 9 di Milano.

Abbraccio, affetti, generosità, normalità, rifugio. Sono alcune delle parole che i residenti dei caseggiati popolari di via Palmanova, via Tarabella e via Cesana a Milano hanno suggerito agli studenti della Naba, la Nuova accademia di belle arti, per ridisegnare e arricchire gli androni delle loro palazzine. Questo progetto, denominato Local Words, fa parte di una più ampia iniziativa realizzata dalla stessa Naba, in collaborazione con gli assessorati alle Politiche Sociali e alla Casa del comune di Milano, Metropolitana Milanese, casa delle associazioni di Zona 2, Comitato inquilini, Centro di aggregazione giovanile e custodi sociali. Il progetto si è concretizzato in una settimana di lavoro condiviso nei cortili, culminato in una grande festa, durante la quale sono stati inaugurati tre progetti di riqualificazione. Oltre a Local Words, grazie a

Open Courts si proverà a sviluppare una rete sociale all’interno degli spazi comuni, attraverso per esempio il booksharing. Con Atolli, invece, sono state realizzate alcune piattaforme mobili per creare uno spazio dinamico nel punto di unione dei tre cortili: il parco giochi. «Il progetto è piaciuto molto ai residenti. Ad essere apprezzato è stato soprattutto il contesto di allegria in cui si è realizzato e la possibilità di “riappropriarsi” di alcuni spazi», commenta Jean Pierre Orrù, operatore della Casa della carità e coordinatore per la Fondazione del progetto dei custodi sociali. «È un’iniziativa importante, per favorire la socializzazione tra inquilini e la creazione di una rete tra i caseggiati e le persone che li abitano o li frequentano – aggiunge –. Previsti interventi educativi per bambini, ragazzi e famiglie, interventi socio-assistenziali rivolti ad anziani e disabili, interventi di aiuto familiare e custodia sociale».

SCIENZE

Metodo Di Bella: pseudo cura che non guarisce e ha distratto fondi Forse avrete sentito parlare della terapia Di Bella, un metodo attraverso il quale sarebbe possibile guarire da vari tipi di cancro, senza chemioterapia e senza effetti collaterali. La storia però è molto più complicata e purtroppo non ha un lieto fine. Tutto nasce dal medico Luigi Di Bella che per decenni studia il cancro e analizza i risultati sui suoi pazienti. Nel 1997 scoppia un caso mediatico perché un pretore obbliga un’Asl pugliese a somministrare il mix di farmaci del metodo Di Bella gratuitamente. Tantissimi malati di cancro vengono a conoscenza del metodo e si affidano al medico, tanto che nel 1998 il Ministro della Sanità, per “volere del popolo”e nonostante le bocciature a livello scientifico, fa partire una sperimentazione a spese dello Stato. Purtroppo la sperimentazione si rivela un fallimento: pressoché tutti i pazienti muoiono e non c’è nessun caso di miglioramento, né prova che il metodo sia efficace. Eppure sono tanti coloro che difendono tale metodo e che lo ritengono affidabile. Com’è possibile? Di Bella era una persona pacata e gentile, tanto da guadagnarsi la fiducia di molte persone in difficoltà. Il fatto che fosse un medico ha portato poi a pensare che non fosse un ciarlatano. Purtroppo, però, già da anni i colleghi avevano segnalato le grandi lacune del metodo e il clamore mediatico, assieme alle promesse di guarigione (impossibili da verificare), hanno attirato sempre di più persone malate e disperate, in cerca di cura e sostegno. Purtroppo, però, questo metodo non ha alcuna efficacia a livello scientifico e far partire una sperimentazione senza alcun dato disponibile si è rivelato fallimentare. Non solo perché ha messo in pericolo tante persone, ma anche perché ha sottratto soldi ed energie a ricerche che hanno il potenziale per portare a una cura. Federico Baglioni

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Le persone in stato di difficoltà a cui Scarp de’ tenis ha dato lavoro nel 2015 (venditori-disegnatori-collaboratori). In 20 anni di storia ha aiutato oltre 800 persone a ritrovare la propria dignità

IL VENDITORE DEL MESE

George sorride poco in strada anche perchè non sa spiegarsi molto bene in italiano. Ma non molla.

George Dalla Nigeria per le figlie: «Scarp mi aiuta a non mollare» di George Omosame Ede

info

La redazione di Scarp de’ tenis Vicenza è partita nel 2008 e mediamente dà lavoro a sei o sette venditori. Nella prima metà dell’anno ha venduto 4,300 copie grazie anche alla collaborazione delle 38 parrocchie in diocesi e dei cinema e teatri di Vicenza

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VICENZA

Mi chiamo George e sono un venditore di Scarp de’ tenis da quasi un anno ormai e, lo devo ammettere, all’inizio non ero così convinto di questo lavoro. Poi però mi sono buttato e ho deciso di vivere fino in fondo quest’avventura. E ora ho imparato a cavarmela bene, anche se Cristina, responsabile della redazione di strada di Vicenza, e gli altri venditori mi dicono sempre che dovrei sorridere di più. Ci provo, anche se non mi riesce facile; quando poi le persone che incontro non mi salutano nemmeno mi esce una smorfia, un bel sorriso falso. È più forte di me. I primi tempi a Scarp sono stati davvero difficili, perché non parlo bene l’italiano. Spiegare alla gente il senso del progetto di Scarpe imparare quello che dovevo dire è stato complicato. Sono in Italia da nove anni ed è strano che io non sappia ancora bene la lingua, ma un insieme di fattori mi ha portato fuori rotta: soprattutto il fatto che, mentre andavo a scuola,

ho pensato che l’inglese e l’italiano fossero molto simili, così ho preso sottogamba gli studi. Quando mi sono accorto che l’italiano richiedeva più impegno e più concentrazione era troppo tardi. In famiglia era arrivata la prima delle mie tre figlie, e ho dovuto lasciare la scuola per accettare tutti i lavoretti che riuscivo a trovare. Quello che mi servirebbe ora è un lavoro stabile, ma il mio sogno è molto più grande. Il mio Paese è la Nigeria, dove ho potuto studiare e ottenere la laurea in business administration. Vorrei però conseguire anche la specializzazione e completare i miei studi. Naturalmente ritorna fuori lo scoglio della lingua italiana che prima o poi, se voglio davvero realizzare il mio sogno, dovrò imparare alla perfezione. Oggi le mie bambine hanno sette, sei e cinque anni, quando mi vedono uscire la sera con il pacco di giornali non dicono niente, ma la mattina dopo, al risveglio cominciano le proteste: «Sei andato a vendere i giornali invece di giocare con noi». Però, sotto sotto, sono contente. Perchè, alla fine, sorrido.




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