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numero 178 anno 18 febbraio 2014

3 00€

de’tenis

Spedizione in abbonamento postale 45% articolo 2, comma 20/B, legge 662/96, Milano

il mensile della strada

www.scarpdetenis.it

ventuno I giochi faraonici dello zar

I rosari

Vite grame di venditori di profumi

L’abusivismo, nel commercio dei fiori, minaccia un intero settore economico. Ma la vendita su strada è anche un incubo per chi la realizza: guadagni minimi, debiti pesanti, l’ombra del racket Milano Città di comitati Como Pasti per diecimila Torino Gelida occasione Genova Rom, dialogo non facile Verona Sparisce l’invisibile Vicenza Invitati nella “stanza” Rimini Affare nudo Firenze Marial ha scelto Napoli Il genio non va offeso Salerno Scuola di carità Catania Arriva Mizzica!


L’ETICA HA MESSO RADICI FORTI NON MANDARE IN FUMO

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editoriali

Il tiro al piccione che prepara il declino Paolo Brivio

I

l tiro al piccione Europa è sport popolare, da un po’ di anni in qua. Ha fatto proseliti da quando la crisi dell’euro ha contribuito a mettere in ginocchio – nel continente – persone, famiglie, economie, paesi. Ed è uno sport che promette di premiare, a fine maggio, in occasione del voto per l’europarlamento, chi lo propaganda con maggior foga e scaltrezza: un discreto, forse persino un robusto fascio di partiti e rappresentanti politici, granitici nel rivendicare retrocessione di poteri a popoli e stati. La questione nasconde un inquietante paradosso. Siccome, si strepita, l’Europa è in mano a banchieri, finanzieri e burocrati, bisogna svincolarsene: uscire dall’euro, riprenderci sovranità. Ma sarebbe più onesto, e storicamente fondato, notare che se l’Europa sbaglia politiche (intestarRoberto Davanzo dendosi su un’austerità che, per garantire disciplina contabile, apparecdirettore Caritas Ambrosiana chia recessione economica e malesseri sociali) e presenta deficit di legittimazione democratica (governata com’è da élite non elette), molto lo si deve ai veti, ai freni, alle convenienze (e all’avarizia ideale) oppoorse è un’impressione, ma da un po’ di sti da molti governi e schieramenti, nell’ultimo ventennio, alle scelte tempo mi sembrano aumentati i venditoche avrebbero dovuto costruire un continente con istituzioni più sori di rose. Se fino a qualche mese fa te li rilide, efficaci, trasparenti e rappresentative. Prima si sgambetta l’Eutrovavi la sera a girare da un locale all’altro a offrire ropa, poi la si accusa di non correre abbastanza: geniale esempio un fiore alla componente femminile dei tavoli dei di come si imbocca la via di un nevrotico declino. clienti, da un po’ di mesi si piazzano anche all’uscita Starci, in Europa, e domandare ancora più Europa, per modidelle chiese, nei giorni feriali, durante le messe veficarne politiche e destino: non è ingenuo eurottimismo. È che rinspertine. Difficile immaginare che non ci sia dietro una tanarsi nei patri confini equivale a soccombere, non solo in terqualche strategia. Ovvio, di sfruttamento. mini di competizione economica. Lotta all’esclusione sociale, Allora è inutile illudersi: la crisi colpisce anche il governo della finanza, promozione di uno sviluppo equo e somondo dell’immigrazione, benché questo mostri spirito stenibile: un singolo paese, tanto più se bloccato e corrotto di adattamento, elasticità e “resilienza”. Cioè capacità di ricome l’Italia, ormai non ha la forza di leggere fenomeni e afmettersi in gioco, malgrado fallimenti, insuccessi, débâcle. frontare sfide di caratura globale. E malgrado lo faccia in modo ben più dinamico degli italiaSiamo reduci da un gennaio incoraggiante. In un mese, ni. Certo, qualche straniero è rientrato al paese, vista la malparlamento di Strasburgo e commissione di Bruxelles hanparata di questi anni. Ma anche a questo proposito non è il cano fatto alcune cosette passate inosservate ai più, ma infiso di illudersi: prima di mandare a monte un progetto migranitamente più capaci, in prospettiva, di migliorare la nostra torio, prima di ammettere che il sogno è svanito, uno le provita di quanto riuscirà a fare la più splendida legge elettoraverà tutte pur di rimettersi in carreggiata. Anche a costo di vendere l’anima al diavolo, anche a costo di mettersi nelle le che le camere italiche dovessero mai riuscire a votare: è mani di furbacchioni e sfruttatori. stata approvata una risoluzione sull’homelessness che sanE allora eccoli lì, davanti alle chiese o tra i tavoli di un ricisce principi e indica a organismi comunitari e stati aderenti storante: gentili, sorridenti, cortesi, profumati... ma sfrutprecise linee di contrasto del problema; è stata messa a puntati. Chissà, di quei pochi euro che ti chiedono per una roto una disciplina (aggiornamento della direttiva Mifid) che molsa, quanti ne devono consegnare ai propri caporali. Chisti considerano la più efficace congegnata su scala globale, dal sà quanto riescono a portare a casa dopo una serata di manifestarsi della crisi dei derivati in poi, per contrastare le spevendita, rigorosamente esentasse. Chissà quanto dovreculazioni finanziarie; sono stati delineati per il 2030 obiettivi di mo attendere, prima che tutte queste sacche di illegalità riduzione delle emissioni inquinanti che, per quanto perfettibili, diffusa vengano prosciugate. confermano l’Ue nel ruolo di avanguardia planetaria nella batLa crisi non colpisce solo l’ambito economico. C’è taglia contro i mutamenti climatici. un mondo di diritti non riconosciuti che in tempi di vacInsomma: anche oggi, nel momento più grigio della storia che magre finisce per lievitare. Tranquilli: la questione dell’Europa unita, c’è materia per rintuzzare lo scetticismo. non riguarda i tutelati e consolidati, ma i marginali e gli Uniti si progredisce, anche in coesione, giustizia, qualità delesclusi. Davvero ci siamo rassegnati a tollerare che la nola vita: se criticare i conduttori attuali è più che lecito, smonstra civiltà produca – come in una qualsiasi attività indutare il veicolo che ci deve guidare nel futuro è vagamente striale – “pezzi di scarto”, uomini a perdere… autolesionista.

Profumati, ma sfruttati

F

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sommario Scarp Italia

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L’inchiesta Incubo rosa: storie di venditori p.8

Cos’è

La testimonianza

È un giornale di strada non profit. È un’impresa sociale che vuole dar voce e opportunità di reinserimento a persone senza dimora o emarginate. È un’occasione di lavoro e un progetto di comunicazione. È il primo passo per recuperare la dignità. In vendita agli inizi del mese. Scarp de’ tenis è una tribuna per i pensieri e i racconti di chi vive sulla strada. È uno strumento di analisi delle questioni sociali e dei fenomeni di povertà. Nella prima parte, articoli e storie di portata nazionale. Nella sezione Scarp città, spazio alle redazioni locali. Ventuno si occupa di economia solidale, stili di vita e globalizzazione. Infine, Caleidoscopio: vetrina di appuntamenti, recensioni e rubriche... di strada!

dove vanno i vostri 3 euro Vendere il giornale significa lavorare, non fare accattonaggio. Il venditore trattiene una quota sul prezzo di copertina. Contributi e ritenute fiscali li prende in carico l’editore. Quanto resta è destinato a progetti di solidarietà.

Redazione centrale - milano cooperativa Oltre, via degli Olivetani 3, tel. 02.67.47.90.17 fax 02.67.38.91.12 scarp@coopoltre.it Redazione torino associazione Opportunanda via Sant’Anselmo 21, tel. 011.65.07.306 opportunanda@interfree.it Redazione Genova Fondazione Auxilium, via Bozzano 12, tel. 010.52.99.528/544 comunicazione@fondazioneauxilium.it Redazione Vicenza Caritas Vicenza, Contrà Torretti 38, tel. 0444.304986 - vicenza@scarpdetenis.net Redazione rimini Settimanale Il Ponte, via Cairoli 69, tel 0541.780666 - rimini@scarpdetenis.net Redazione Firenze Caritas Firenze, via De Pucci 2, tel.055.267701 scarp@caritasfirenze.it Redazione napoli cooperativa sociale La Locomotiva largo Donnaregina 12, tel. 081.44.15.07 scarp@lalocomotivaonlus.org Redazione Catania Help center Caritas Catania piazza Giovanni XXIII, tel. 095.434495 redazione@telestrada.it

L’approfondimento Dopo i cinquanta, come si riparte? p.18

L’inchiesta

Come leggerci

Per contattarci e chiedere di vendere

Sudafrica: strade arcobaleno, orfane di Madiba p.15

Aiuti alimentari: nuovi programmi, pacchi a rischio? p.22

Scarp città Milano La città dei Comitati, partecipare si può p.28 Arrivano i nonni, la saggezza fa scuola p.34

Torino Gelido inverno, sei un’occasione p.40

Genova Rom: sgomberi, e poi? Il dialogo non è facile p.42

Verona La Locanda è bella, l’invisibile sparisce p.44

Vicenza I padroni della notte invitati nella “stanza” p.46

Rimini Nuda proprietà, affare per tutti? p.48

Firenze Francesca, al battesimo c’eravamo tutti p.50

Napoli Il “genio” sfonda, ma non va offeso p.52

Salerno Tutti a scuola. Di carità p.54

Catania “Mizzica”, lettura su tre ruote p.56

Scarp ventuno Dossier Sochi: I giochi da faraone di Vladimir lo zar p.60

Immigrati Tempo di crisi, vacillano i diritti p.64

Caleidoscopio Rubriche e notizie in breve p.69

scarp de’ tenis Il mensile della strada Da un’idea di Pietro Greppi e da un paio di scarpe - anno 18 n. 178 febbraio 2014 costo di una copia: 3 euro

Per abbonarsi a un anno di Scarp: versamento di 30 € c/c postale 37696200 (causale AbbonAmento SCArP de’ tenIS) Redazione di strada e giornalistica via degli Olivetani 3, 20123 Milano (lunedì-giovedì 8-12.30 e 14-16.30, venerdì 8-12.30), tel. 02.67.47.90.17, fax 02.67.38.91.12 Direttore responsabile Paolo Brivio Redazione Stefano Lampertico, Ettore Sutti, Francesco Chiavarini Segretaria di redazione Sabrina Montanarella Responsabile commerciale Max Montecorboli Redazione di strada Antonio Mininni, Lorenzo De Angelis, Roberto Guaglianone, Alessandro Pezzoni Sito web Roberto Monevi Foto di copertina Massimo Fiorillo Foto Archivio Scarp, Stefano Merlini, Disegni Luigi Zetti, Elio, Silva Nesi Progetto grafico Francesco Camagna e Simona Corvaia Editore Oltre Soc. Coop., via S. Bernardino 4, 20122 Milano Presidente Luciano Gualzetti Registrazione Tribunale di Milano n. 177 del 16 marzo 1996 Stampa Tiber, via della Volta 179, 24124 Brescia. Consentita la riproduzione di testi, foto e grafici citando la fonte e inviandoci copia. Questo numero è in vendita dal 9 febbraio all’8 marzo 2014



anticamera Aforismi di Merafina IL FREDDO Il freddo fuori è quel calore dentro di noi ABITUDINE La nostra assenza è più presente UN GRANDE ABBAGLIO L’illusione d’essere illuminati

Farfalle

Tram numero 5

Gioia di neve bianca di attimi fanciulli. Netta come i loro pensieri fresca come il ridere d’argento lieve come i piccoli passi. Il tuo candore è tale alle ingenue domande al libero vagare della mente piccina. Nastri di gelo timide farfalle con rara grazia scivolate a terra recando benedette alla memoria la struggente novella di dolcissimi inverni. Aida Odoardi

Di mattina sento il tuo tintinnare metallico e mi metti allegria. Le tue ultime linee mi fanno compagnia e mi danno la buona notte. A questa nostra città, spesso grigia e anonima, dai un tono di colore e la tua figura longilinea è degna delle migliori sfilate di moda. Ti prego, non scomparire!

Silvia Giavarotti

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dicembre 2013 - gennaio 2014 scarp de’ tenis

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INCUBO ROSA di Paolo Riva ed Ettore Sutti foto di Massimo Fiorillo

«Ce l’hai la fidanzata? Sarà mica allergica ai fiori anche lei?!?». Ashane scherza. La butta sul ridere, pur di conquistare qualche nuovo cliente. É la fredda sera di un week end di gennaio e lui cammina con il suo mazzo di rose da vendere per il corso di Porta Ticinese, a Milano, zona di ristoranti e locali. Sono le nove e mezza e in tasca ha pochi spiccioli che conta sul palmo della mano, sconsolato. Sarà l’effetto della crisi che intacca il potere d’acquisto degli italiani, sarà che San Valentino è ancora lontano, sarà che nelle coppie moderne i fiori non tirano più come una volta: fatto sta che gli affari non vanno per il verso giusto, per lui e i suoi colleghi.

8. scarp de’ tenis febbraio 2014


Vengono da Bangladesh o Sri Lanka. Fuori dai locali cercano di piazzare un fiore in cambio di spiccioli. I “rosari” provano a ripagare così i debiti contratti per arrivare in Italia. Scarp li ha seguiti. In un mondo chiuso e omertoso. Dietro, l’ombra del racket febbraio 2014 scarp de’ tenis

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Incubo rosa

La protesta

Fioristi sul piede di guerra: «L’abusivismo ci sta uccidendo» «Il nostro settore sta morendo e nessuno fa nulla. Sono anni che denunciamo a tutti i livelli l’abusivismo selvaggio, controllato dal racket, che intacca la nostra categoria. Senza risultato. Sa cosa ci rispondono i politici? Meglio che vendano i fiori, piuttosto che rubare... Le sembra un argomento questo?». Carlo Sprocatti, presidente di Federfiori, federazioni di Confcommercio che riunisce i fioristi italiani, è scoraggiato. «Ormai quasi il 30% del mercato è in mano agli abusivi – continua Sprocatti – che fanno tutto alla luce del sole. E guardi che non stiamo mettendo sul banco degli imputati quei ragazzi che la sera girano per la città a vedere qualche rosa. Ma tutto quello che c’è dietro. Sono ben altri gli interessi e le persone che muovono questa porzione di mercato. Ma nessuno sembra proccuparsene. Il nostro è un mercato povero, per carità, ma il settore raccoglie oltre 20 mila aziende, quasi tutte piccole o piccolissime, per un totale di oltre 30 mila addetti. E quando a fine anno un negozio è costretto a chiudere, questo significa che una famiglia, che ha sempre lavorato onestamente e seguendo le regole, finisce in strada. Mentre gli abusivi continuano, impuniti, a vendere esentasse. Le sembra accettabile questo?». La catena dei fiori abusivi parte all’interno e all’esterno dei mercati all’ingrosso, dove i fiori vengono venduti anche a chi non ha partita Iva. Il secondo livello sono i venditori ambulanti senza regolare licenza. Si tratta dei famosi furgoncini, che vendono mazzi di fiori a prezzi stracciatissimi. Il terzo, e ultimo, livello è quello dei “fiorai”, ambulanti del Bangladesh o pachistani che vendono rose accontentandosi di pochi spiccioli. «Non c’è nulla di improvvisato – continua Sprocatti –, ma si tratta di una vera e propria struttura criminale, rigidamente organizzata, che genera milioni di fatturato. In Italia tutti possono vendere fiori: onlus, agricoltori, soggetti che non hanno la competenza per farlo, abusivi. Questo perché non esiste un sistema di controllo né, tantomeno, una legge di riferimento che individui e determini i soggetti che possono espletare tale attività. Con la regione Lombardia stiamo provando a mettere nero su bianco una normativa che, in qualche modo, colmi queste lacune. Ci diamo ancora sei mesi di tempo. Poi inizieranno le proteste. Anche estreme. Non ci stiamo a morire in silenzio...».

Ashane è uno dei “rosari”, nomignolo usato a volte in modo dispregiativo, altre in maniera persino affettuosa. Soprattutto tra i più giovani, indica l’esercito di venditori ambulanti di rose diventati ormai presenza fissa per le strade della Penisola, dalle grandi città fino ai centri medi e piccoli. Eppure ciascuno di loro ha il suo nome, la sua nazionalità e la sua storia. Ashane, per esempio, ha 31 anni e viene dallo Sri Lanka. Khodokar invece è un diciannovenne del Bangladesh, mentre Abdul è un suo connazionale appena diventato maggiorenne. Tutti si ritrovano con un mazzo di fiori di scarsa qualità in una mano, poche monete nell’altra e tanti pensieri in testa. Per nulla positivi. D’altra parte, se

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la migrazione fosse un gioco in scatola, il lavoro di venditore ambulante di rose sarebbe una casella che tutti cercano di evitare, come quelle iniziali, sulle quali si finisce perché si è fatto un punteggio scarso coi dadi, oppure come la prigione, che costringe a perdere tempo prezioso. O ancora come la penalità, che obbliga a tornare indietro e ricominciare da capo.

Lavoro “di ingresso” in Italia «Occupazioni come questa – spiega Francesco Carchedi, docente di sociologia alla Sapienza di Roma ed esperto di migrazioni – sono il primo passo di molti cammini migratori classici». Un lavoro accessibile, insomma, che si può fare con poca esperienza e preparazio-

ne. «La vendita di fiori è per molti il primo impatto con il nostro paese – concorda Pedro Di Iorio, del Servizio accoglienza immigrati di Caritas Ambrosiana –, soprattutto per quei migranti che fanno più fatica ad imparare la lingua e non hanno tempo per studiarla. È, comunque, un buon modo per cominciare subito a guadagnare qualche soldo, per ripianare i debiti contratti per il viaggio. Penso a chi arriva dal Bangladesh, per esempio, ma anche dal Pakistan». Khodokar viene proprio da Dacca, la capitale. L’ha lasciata pochi mesi fa e oggi divide casa, a Milano, con altri immigrati, provenienti da India e Pakistan. Sono in dieci, ma quanto paghino non è dato sapere: il suo italiano è ancora troppo stentato. Abdul invece parla molto meglio. «Sono arrivato qui che avevo 15 anni – ricorda –. Ora ne ho 18 e sto ancora vendendo rose: non va bene. Così non va proprio bene».

Si acquistano all’Ortomercato Complice la crisi, anche lui non riesce a trovare reali alternative a questo lavoro e quindi non gli resta che avviarsi due o tre volte a settimana sulla strada che porta all’ortomercato di Milano, una grande area ai margini della città, dove si vendono anche fiori e piante all’ingrosso. I privati possono acquistare il martedì, il giovedì e il sabato. Chi è in regola con i documenti entra dai cancelli principali, per tutti gli altri diverse inchieste hanno documentato l’esistenza di ingressi alternativi. Una volta dentro, i grossisti difficilmente chiedono il permesso di soggiorno ai loro clienti. Le rose che di solito vengono offerte alle coppiette a passeggio costano al venditore tra i 40 e gli 80 centesimi di euro. Considerato che in strada, pur di piazzare un fiore, Abdul scende velocemente dai 2,50 euro chiesti inizialmente fino a 1,50 – 1 euro, è facile capire la sua frustrazione. «La mattina, compriamo all’ortomercato e poi passiamo ogni sera in giro a vendere, ma i guadagni sono sempre più scarsi». E non sempre finiscono nelle tasche dei venditori. Angelo De Florio, presidente dell’associazione Villaggio Esquilino, che dal 1998 lavora con la comunità bengalese di uno dei quartieri più multietnici di Roma, da tempo denuncia l’esistenza di gruppi organizzati che gestiscono parte di questo mercato. «Il fenomeno – spie-


l’inchiesta


Incubo rosa


l’inchiesta Da Africa e India

Sfruttamento e danni ambientali: produttori veloci, con tante spine... A prima vista è solo un fiore. Ma dietro una rosa c’è tutto un mondo. E molte spine. I suoi petali, belli e delicati, nascondono spesso lunghi viaggi, sfruttamento di manodopera sottopagata, ingenti danni ambientali… Parlano, a chi sa guardare oltre, di un enorme business, fatto anche di soprusi e ingiustizie. La gran parte delle rose che finiscono sul mercato italiano vengono, infatti, prodotte in Kenya e sempre più in Etiopia. Due paesi che continuano a garantire una manodopera a basso costo e condizioni di lavoro non protette. E, al contempo, una grande efficienza. Una rosa coltivata nella Rift Valley o su un altipiano etiope arriva veloce nei supermercati e dai rivenditori italiani in sole 24 ore dopo essere stata recisa, passando per Amsterdam, centro di smistamento mondiale dei fiori recisi. Oggi, però, il Kenya potrebbe perdere il primato di principale produttore ed esportatore africano di rose e fiori recisi. Il progressivo aumento dei costi di produzione e l’incertezza sul rinnovo degli accordi tra la Comunità dell’Africa orientale (Eac) e l’Unione europea sta spingendo i grossi importatori di fiori ha rivolgere il loro sguardo altrove, in particolare a Etiopia, appunto, e India. L’Etiopia, in particolare, non solo dispone di molta acqua per le vaste piantagioni, ma soprattutto si avvale di una manodopera pagata pochissimo. Le frontiere dello sfruttamento, dunque, si stanno spostando da un paese all’altro, laddove il mercato intercetta le condizioni di deregolamentazione più favorevoli al proprio tornaconto. Lo stesso vale per l’India, dove tra il 2012 e il 2013 il volume d’affari delle esportazioni floreali è cresciuto del 23% e le previsioni per il biennio 20142015 puntano a raddoppiare questa cifra. Nello stesso periodo – come riferisce la rivista The Eastern Africa – in Kenya i costi di produzione sono cresciuti in media del 30%, principalmente per gli aumenti nel costo del lavoro, dell’elettricità, dei fertilizzanti e del carburante. Inoltre, gli operatori del settore pagano 41 tipi di tasse diverse e gli organismi che regolamentano il commercio sono ben tre. Ecco perché già da alcuni anni l’industria dei fiori sta spostando le sue immense serre dalla Rift Valley ai fertili altopiani dell’Etiopia, per sfruttare una favorevole situazione ambientale e politica. E soprattutto l’abbondanza di manodopera a bassissimo costo. Anna Pozzi ga De Florio – l’'abbiamo osservato qui a Roma all’inizio degli anni Duemila e poi credo si sia sostanzialmente esteso in altre zone del paese, seguendo le stesse dinamiche. All’interno della comunità bengalese esistono clan, non necessariamente di natura criminosa, che tendono a riproporre anche qui in Italia il modello piramidale e parentale della società d’origine e che, attraverso intermediari, garantiscono tutto il necessario ai nuovi arrivati, dietro il pagamento di cospicue somme di denaro». Sono dinamiche che si replicano abbastanza spesso tra i migranti. «Lo stesso – aggiunge Di Iorio – capita anche tra le badanti dell’Europa dell’est. É ormai

modalità diffusa che una donna appena arrivata dia il suo primo stipendio alla collega che le ha trovato il posto». Una tesi plausibile anche per il professor Carchedi, che però ci tiene a fare alcuni distinguo. «Qualsiasi catena migratoria tende a far arrivare parenti ed amici nei luoghi dove i connazionali già emigrati si sono stabiliti. È valso per noi italiani in passato e vale oggi per chi arriva da Bangladesh o Sri Lanka. Altrettanto frequente è anche il pagare per ottenere servizi illegali, come l’organizzazione del viaggio o i documenti validi per l’ingresso nel paese. Possiamo parlare di un vero e proprio racket, però, solo quando i migranti si trovano a dare febbraio 2014 scarp de’ tenis

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Incubo rosa soldi per un ipotetico lavoro. Che spesso viene promesso nel campo della ristorazione o della manifattura, e invece poi si rivela essere la vendita di fiori per strada. I veri casi di sfruttamento, che sicuramente esistono, sono quelli in cui i venditori non sono autonomi perché hanno qualcuno, spesso un connazionale intermediario, che fornisce loro la merce e lascia loro solo parte degli incassi. Quel che è importante è non fare di tutta l’erba un fascio. Il fenomeno esiste, le proporzioni sono difficili da calcolare, ma ciò non vuol dire che l’intera comunità bengalese sia in questa condizione, né tantomeno che tutti i venditori di rose siano vittime del racket». Difficile articolare un discorso complessivo, insomma: il fenomeno sfugge a ogni tipo di lettura. Anche le Forze dell’ordine, pur avendo bene in mente la situazione, hanno pochissimi dati su cui basarsi. Spesso i ragazzi che vendono in strada sono l’ultimo anello della grande rete degli abusivi, che vendono fiori per strada – un grande cartello, che tocca ormai tutta la penisola – e che stanno mettendo in ginocchio il settore. Ma se sul fenomeno dell’abusivismo organizzato – quello dei furgoncini e delle “api” che si incrociano in quasi tutte le città, per intenderci –, stanno indagando diverse procure, la vendita “al dettaglio” fatta da questi ragazzi avviene al di fuori di qualsiasi controllo. Difficile dire chi è vittima del racket e chi no. Khodokar e Abdul, viste le loro storie, potrebbero anche esserlo. Il caso di Ashane, invece, sembra diverso.

Un mercato molto fluido «In Sri Lanka – racconta il giovane, mentre srotola la sciarpa che ha in testa per coprirsi dal freddo e si riposa un attimo – abitavo in una cittadina vicina a Colombo. Dista dalla capitale più o meno come Gallarate da Milano». Ashane mostra una buona padronanza della lingua e una discreta conoscenza della geografia. D’altra parte è nel nostro paese da più di sei anni, ormai, e pensava di essersi lasciato alle spalle certe fatiche. «Quello del venditore ambulante – prosegue Carchedi – è uno dei cosiddetti lavori rifugio, perché si intraprende quando il salario di un altro posto non è più sufficiente o quando proprio non si hanno alternative. Sono situazioni che nei momenti di crisi tendono logica-

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mente ad aumentare, così come crescono i rischi, per chi aveva intrapreso un percorso migratorio positivo, di ritrovarsi a ripartire da un livello ben più basso di quello raggiunto». Infatti, Ashane, un lavoro migliore in Italia l’aveva trovato. «Facevo il lavapiatti in un ristorante e guadagnavo fino a 550 euro al mese. Potevo anche permettermi di tornare a casa, a trovare mia moglie – aggiunge aprendo il portafoglio con la foto della compagna e il permesso di soggiorno –. Ho tutti i documenti a posto, eppure non riesco a trovare nient’altro».

E sopravvivere vendendo rose non è facile, anche con un affitto da 100 euro al mese in un appartamento in condivisione con altri nove connazionali. «Stasera ho fatto solo 55 centesimi. Nei ristoranti e nei bar di solito non si può entrare e fuori rispondono sempre di no». Che fare, allora? Ashane non si vuole dare per vinto. «Domani – dice determinato – cambio. Li compro dai cinesi in Porta Garibaldi e mi metto a vendere cartine, filtri e accendini». Sperando che gli italiani non siano allergici anche al fumo...

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Strada arcobaleno orfana di “Madiba” La scomparsa di Mandela, le elezioni di primavera: il Sudafrica secondo “The Big Issue”. Parla Trudy Vlok, manager del giornale degli homeless di Città del Capo

di Paolo Riva «Pur sapendo che Madiba era arrivato da tempo alla fine dei suoi giorni, la sua morte è stata per tutto il paese una realtà ben più dura di quanto avessimo immaginato. Al tempo stesso, i giorni che hanno portato alla sua sepoltura sono stati un momento agrodolce, quasi schizofrenico: da un lato c’era la tristezza per il lutto, dall’altro la gratitudine nei confronti di una persona tanto straordinaria e la volontà di celebrarla come meritava». Come tutti i sudafricani, lo scorso 5 dicembre Trudy Vlok (nella foto, in mezzo a due venditrici) ha ricevuto la notizia della scomparsa del padre della “nazione arcobaleno” Nelson Rolihlahla Mandela (detto Madiba, dal nome della sua tribù Xhosa) mentre era al lavoro, nella palazzina bianca a due piani che ospita la sede di The Big Issue South Africa, a Città del Capo. prescindere da questo, però, il legame Trudy, una donna bianca di mezza età, è più grande tra la sua figura e il nostro da anni tra i responsabili dell’organizzaprogetto sta nella condivisione di certi zione non governativa che pubblica ideali. Mandela è passato alla storia per ogni tre settimane un giornale di strada, aver combattuto in favore di uguaglianfonte di sostentamento per centinaia di za, dignità e diritto di scelta: esattamenpersone, proprio come Scarp de’ tenis. te i valori che stanno alla base del nostro «Madiba è stato sulla nostra copertioperato. Ad accomunarci è lo stesso sina per ben tre volte. L’ultima nel 2011, stema di principi». per l’edizione speciale che prepariamo alla fine di ogni anno. Era stato il testimonial di quel numero e l’aveva forteNato sotto il mandato di Mandela mente sostenuto – spiega Trudy –. A The Big Issue South Africa ha visto la lu-

ce diciassette anni fa. A quell’epoca Mandela era nel pieno del suo mandato da presidente, l’unico, cominciato dopo aver vinto nel 1994 le prime elezioni libere nella storia del paese con l’Anc e, soprattutto, dopo essere stato liberato nel febbraio 1990, al termine di 27 anni di prigionia. «In quel periodo – ricorda Trudy – c’era un forte sentimento di speranza e fiducia nel futuro. Confidavamo nella nostra capacità di cambiare. Pensavamo di poter fare la diffe-

I venditori: «Siamo qui in piedi, come uomini liberi, grazie a Madiba» Il database di The Big Issue South Africa contiene i nomi di 422 venditori, di cui circa 350 escono ogni giorno in strada a Città del Capo per vendere il giornale e guadagnarsi da vivere. Per salutare il padre del Sudafrica moderno, oltre a una caricatura dell’ex presidente (a destra), la redazione ha deciso di dare la parola proprio a loro. La prima a esprimere le sue sensazioni è Stella Philips, 64 anni, che si dice ancora «eccitata pensando al giorno della sua liberazione». Le fa eco Danisile Rodolo, 51 anni: «Ero presente quando venne fatto uscire di prigione: il momento più bello della mia vita». Per Leslie Collins, invece, Mandela ha impedito lo scoppio di una guerra civile nel paese e per questo «lo rispetto molto». Bonganinkosi Namathelana, invece, era un bambino quando l’apartheid finì. Oggi ha 28 anni e ricorda quando il nuovo presidente visitò la zona orientale

di Città del Capo dove vive. «Allora le strade erano sterrate: dopo la sua visita vennero asfaltate. Non erano promesse vuote le sue, si preoccupava davvero dei problemi delle persone, per questo ha dato speranza. Ora che se ne è andato, ho timore per il futuro perché il paese sta perdendo i principi e l’integrità per cui Mandela ha lottato». Il ricordo che Zamikhaya France preferisce è invece la Coppa del Mondo di rugby, vinta a Johannesburg nel 1995 dagli Springboks, la nazionale sudafricana da sempre sostenuta dall’élite bianca, sotto gli occhi di Mandela. «Fu un evento che unì il paese e mi ha fatto definitivamente innamorare del presidente». Il cinquantenne Shadrack Rolihlahla, infine, si dice devastato dalla morte dell’ex presidente: «Come se fosse morto mio padre. Mi ha reso orgoglioso di stare qui in piedi, oggi, come un uomo libero. È solo grazie a Madiba che posso farlo». febbraio 2014 scarp de’ tenis

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La strada arcobaleno orfana di “Madiba” renza e far sì che ciascuno potesse beneficiare dei miglioramenti che avremmo fatto come paese. Guardando indietro, penso che un’atmosfera di questo tipo sia stata fondamentale per consentire al movimento dei giornali di strada di arrivare anche qui». La versione sudafricana, infatti, nasce sul modello di The Big Issue britannico, il primo giornale di strada in assoluto, inventato nel 1991 da Gordon Roddick e John Bird. Trudy, pur cominciando a lavoraci come dipendente solo nel 1999, è stata coinvolta fin dai primi passi del progetto, come cittadina impegnata nel sociale e volontaria. «Importare anche in Sudafrica progetti sociali avviati in Europa – riflette – non sarebbe stato nemmeno pensabile durante l’apartheid. Con la segregazione razziale, i nostri venditori non avrebbero potuto mischiarsi con il resto della popolazione per instaurare un rapporto con gli acquirenti e vendere loro il giornale. Non avrebbero nemmeno potuto frequentare la maggior parte dei luoghi in cui lavorano». Oggi, invece, a vent’anni esatti dal

trionfo di Mandela alle elezioni del 1994, chi indossa la pettorina di The Big Issue è libero di muoversi per tutta Città del Capo, a prescindere dal suo colore della pelle. La rivista, che inizialmente usciva una volta al mese, oggi va in stampa ogni tre settimane per garantire un salario maggiore a chi la distribuisce, in un paese in cui il numero dei disoccupati ha toccato nel 2013 la cifra record di 4.700.000, praticamente un quarto dell’intera forza lavoro. In un contesto del genere, a guadagnarsi da vivere grazie a The Big Issue non sono solo persone senza dimora, ma anche gli abitanti delle tante baraccopoli che circondano i grandi centri urbani del paese.

Servono dei cambiamenti «Dalla fine dell’apartheid a oggi – riflette Trudy – non ho visto grandi cambiamenti nelle esistenze delle persone con le quali lavoriamo. I mutamenti nei quali speravamo non si sono materializzati. Attenzione, non voglio essere disfattista. Democrazia e uguaglianza di diritti sono state conquiste epocali per tutti i cittadini sudafricani, ma la realtà

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la testimonianza Il giornale

The Big Issue chiede aiuto per non smettere di aiutare The Big Issue South Africa è edito da un’organizzazione non governativa che pone al centro i suoi venditori e la loro crescita dal punto di vista formativo e lavorativo, con l’obiettivo di fornire loro un sostegno economico e la possibilità di entrare nel mercato del lavoro. Il prezzo di copertina della rivista è 20 rand, circa 1,30 euro, di cui più della metà va nelle tasche dei venditori. Complessivamente, da quando è uscito il primo numero del giornale nel 1997, The Big Issue calcola che i suoi venditori hanno guadagnato oltre 15 milioni di rand. La maggior parte dei costi operativi dell’organizzazione sono coperti da donatori nazionali e internazionali, ma al momento le casse del giornale piangono. «È un problema comune a molte ong locali e le cause sono diverse – spiegano al giornale –. Da un lato, i fondi che le aziende private investono in progetti di sviluppo, grazie a una legislazione sull’impresa sociale molto avanzata, sono nettamente diminuiti, a causa di un rallentamento della nostra economia. Dall’altro, i fondi di provenienza internazionale si dirigono sempre più spesso verso altri stati, in condizioni di maggiore bisogno». E così, dopo tanto sostegno dato, ora è il giornale a chiederlo. Sul suo sito, da alcuni giorni, è possibile leggere un appello della redazione: «The Big Issue ha bisogno del tuo aiuto». Per garantirlo è sufficiente digitare www.thundafund.com/bigissue#sthash.91Xe0XxZ.dpuf ed effettuare una donazione. Anche dall’Italia.

quotidiana e la qualità della vita della fasce più deboli non sono poi così diverse rispetto a un ventennio fa». Un dato, tra i tanti, conferma le parole di Trudy in modo inequivocabile: i valori dell’indice di Gini, lo strumento statistico più usato per misurare le disuguaglianze sociali. In una scala in cui zero rappresenta l’equilibrio perfetto e cento il massimo negativo, il Sudafrica ha come ultimo risultato rilevato dalla Banca Mondiale un desolante 63,2, peggiore anche del 59,3 datato 1993. E questo nonostante gli interventi governativi non siano certo mancati. Da quando l’Anc guida il paese, prima con Mandela poi con Thabo Mbeki per due mandati, infine col presidente attuale, Jacob Zuma, sono state costruite 3,1 milioni di case per indigenti, l’acqua corrente è stata portata all’88% della popolazione e la corrente elettrica all’80%. E il tasso di scolarizzazione è migliorato, nel periodo iniziale dopo l’apartheid. «Nel corso dei primi anni di gover-

no, l’Anc si è molto impegnato per colmare l’immenso divario tra ricchi e poveri – riflette Trudy, precisando che lo fa a titolo personale –. L’eredità più importante di quel periodo però credo siano la riconciliazione, il perdono e la volontà di costruire una sola nazione. Credo che questi valori siano stati il più grande regalo che Madiba abbia fatto al Sudafrica: ci ha messo nelle condizioni di diventare una democrazia vera, reale. Infatti abbiamo una costituzione splendida, il problema è che fatichiamo a metterla in pratica. Oggi dobbiamo ancora affrontare le sfide sociali proprie di un paese iniquo e malgovernato. Le difficoltà che viviamo, a mio parere, sono dettate da una sostanziale mancanza di volontà politica: i nostri leader non hanno la forza di realizzare i cambiamenti di cui il paese ha bisogno». Se anche il resto della popolazione sudafricana sia d’accordo con il duro giudizio che Trudy dà della classe politica di Pretoria, lo si scoprirà nei prossimi

mesi. Tra aprile e maggio, il Sudafrica sarà chiamato alle urne. Il controverso presidente in carica Zuma nell’ottobre scorso ha dichiarato che «l’Anc vincerà le elezioni». E probabilmente ha ragione, ma la situazione rimane complessa. E Mandela? In un quadro che pare tanto fosco, che fine hanno fatto l’esempio e gli ideali di una delle figure più luminose della storia contemporanea? Dove si trova la sua eredità nel Sudafrica che ha appena lasciato? «Credo che la scomparsa di Madiba inciderà sulle prossime elezioni nella misura in cui i sudafricani, ricordandolo, penseranno a quali tipi di leader vogliono e a quali, di conseguenza, sceglieranno una volta entrati ai seggi. La memoria di ciò che ha rappresentato per tutti noi potrebbe far diventare l’elettorato più esigente». Oppure, potrebbe rafforzare, in un momento di difficoltà, la posizione dell’Anc. Fare previsioni credibili, con la data delle votazioni e i candidati ancora da definire, è difficile. Quel che è certo, invece, è che la presenza di Mandela è forte nella volontà di Trudy, e di tanti come lei, di continuare il proprio lavoro con entusiasmo. A fianco dei poveri.

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Rimanere senza lavoro in età adulta: un dramma per mezzo milione, oggi in Italia. Molti faticano a uscirne. Anche sul piano psicologico

Dopo i cinquanta come si riparte? di Stefania Culurgioni Avere 55 anni, e improvvisamente perdere il lavoro. Trovarsi a casa, dopo trent’anni di professione, a mandare curricula e cercare di piazzarsi di nuovo. Sentirsi esclusi dalla società, espulsi, vecchi. Troppo giovani per andare in pensione, troppo avanti con l’età per competere con un trentenne. Provare vergogna per non avere un’occupazione, per doversi piegare ad accettare mansioni sottopagate e meno prestigiose. Chi sono gli uomini e le donne “maturi” che stanno vivendo in Italia questa situazione? Quanti sono? E come reagiscono? Il fenomeno è sempre più attuale: con la crisi economica e la chiusura di molte realtà produttive o del terzo settore, sono aumentati anche i professionisti o i lavoratori non specializzati lasciati a casa. Massimo Cirri, conduttore radiofonico della trasmissione Caterpillar e psicologo, considerano lavoratori anziani gli over 49 anni, ha appena scritto un libro rac55 fino a 64 anni. E bisogna dire che la cogliendo le storie di quelli che, in Italia, improvvisamente restano disoccupati. Segno che il tema è vivo e sta cominciando a diventare molto serio. Stando all’ultimo censimento realizzato dall’Istat, la popolazione in età tra i 50 e i 74 anni si attesta sui 16,9 milioni di persone, ovvero il 28,3% del totale della popolazione italiana, e tra loro gli over 50 che sono rimasti disoccupati sono circa 500 mila (a fronte di una disoccupazione totale di 2 milioni 744 mila persone). Numeri in crescita, dato che nel 2011 i disoccupati “anziani” erano circa 350 mila. Solo che nel 2031 si prevede che la popolazione sopra i 50 anni supererà il 35%. Tra loro, viene naturale chiedersi, quanti saranno i “disoccupati di mezza età”? E che futuro avranno, considerando che non potranno ancora contare sulla pensione?

Difficile trovare un nuovo lavoro Emilio Reyneri è professore di sociologia del lavoro all’Università Bicocca di Milano e ha appena scritto un libro con Federica Pintaldi, ricercatrice Istat, edito da Il Mulino e intitolato Dieci domande sul mercato del lavoro in crisi: «Anzittutto una premessa – avverte –: si

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Troppo giovani per la pensione. Troppo qualificati, quindi costosi, per essere competitivi. Ed esperti di lavori che non esistono più... percentuale di persone occupate, in questa fascia, è molto aumentata in


l’approfondimento questi anni, non solo per l’effetto costrittivo delle riforme pensionistiche, ma anche perché vi stanno entrando persone più istruite, e le persone più istruite lavorano più a lungo. Detto questo, il fenomeno di chi ha quell’età e il lavoro l’ha perso si sta facendo rilevante. In Italia riguarda ancora, statisticamente, una minoranza, circa il 5 % del totale delle persone presenti nella fascia d’età considerata. Ma chi si ritrova in quella nicchia è in una condizione difficile, perché il lavoro rischia di non trovarlo più». Lo stato di disoccupazione, insomma, per chi ci casca dopo i 50 anni è molto più lungo, e per diversi motivi: «Da un lato, un 50enne disoccupato è esperto di una professione che non esiste più – continua Reyneri –: pensiamo alle professioni impiegatizie, di catalogazione, di segretariato, oggi sostituite dall’informatica, dalle mail, dai tablet. D’altro canto, avendo in Italia un sistema retributivo che premia l’esperienza, si troverebbe a competere con un trentenne che accetta di prendere molti meno soldi di lui. Solo che il trentenne magari è da solo, lui invece ha figli, mutuo e genitori a carico».

Il racconto

Paola combatte il tempo vuoto: «Scrivendo ho reagito, ora aiuto» Il tempo senza lavoro equivale a finire in mare aperto senza saper nuotare. Tanti lavoratori dell’Agile ex Eutelia hanno finito per rischiare di affogare. Ma è una situazione generalizzata, nel nostro paese, in un’epoca in cui si assiste a un processo di cambiamento veloce delle politiche del lavoro, senza eguali nella nostra storia. Paola Fontana, 50 anni, è una delle protagoniste di Il tempo senza lavoro, il libro di Massimo Cirri (vedi pagina successiva). Lei ha vissuto la depressione e il sentirsi svuotata, inutile, di troppo... senza lavoro. Eppure, grazie anche ai gruppi di auto-aiuto, ha avuto la forza di ripensarsi nel mondo in modo diverso. «Quando mi proposero i gruppi e di scrivere ciò che si provava nel tempo vuoto – racconta Paola – ho accettato perché ero in crisi, dovevo assolutamente fare qualcosa per uscirne. Paradossalmente il tempo libero perde il suo valore, quando non si ha un’occupazione. Quando c’è il lavoro si fanno salti mortali per trovare il tempo di fare le cose che si amano. Ma quando è mancato il lavoro, il tempo libero è diventato un tempo vuoto: non si ha voglia di fare niente, tutto diventa privo di valore e interesse. Io l’ho sperimentato: era come se avessi perso la mia collocazione sociale. Si ha la sensazione di non essere mai nel posto giusto nel momento giusto, senza ruolo nella società. È l’inizio del precipizio. Io avevo bisogno di reagire...». Dopo i gruppi di auto-aiuto e la scrittura, Paola si è talmente appassionata al progetto da decidere di farlo diventare un lavoro. «A me è servito tantissimo il progetto con i gruppi di auto-aiuto condotto in azienda: mi sono resa conto che non ero sola, poco a poco ho cominciato a riemergere. Poi ho avuto la fortuna di andare in giro per l’Italia, insieme a Massimo Cirri e Corrado Mandreoli, per presentare il libro e raccontare queste storie. Mi sono resa conto di quante persone sono nella mia stessa condizione. Allora ti viene voglia di fare qualcosa, di aiutarli a resistere, a darsi un’altra possibilità. Ho deciso di studiare il progetto e mi sono iscritta di nuovo all’università. Ho frequentato un corso di perfezionamento postlaurea, economia civile e mondo non profit. La mia tesi è stata proprio sui gruppi di auto-aiuto e sulla possibilità che un progetto come quello che ho sperimentato io possa diventare un intervento standardizzato di politica attiva per il lavoro. Oggi siamo riusciti a far partire un progetto finanziato dalla provincia di Monza e Brianza: l’idea è di lavorare sul benessere psicologico delle persone e sul recupero delle condizioni che permettono ai lavoratori di cercare di realizzare un nuovo progetto di vita, un percorso di lavoro magari molto diverso da quello che avevano prima». [d.p.]

Tante i professionisti “a spasso” Fabio Latino è responsabile della raccolta fondi della Fondazione Sacra Famiglia onlus, ente sociosanitario con sede in provincia di Milano, che accoglie anziani e disabili gravi. Di recente l’ente si è trovato nella necessità di cercare un grafico: «Dopo quattro giorni avevamo 400 curricula – racconta –: un dato impressionante, soprattutto perché analizzando questi cv ci siamo resi

conto che buona parte di questi candidati erano non solo persone di una certa età, ma anche con una discreta esperienza alle spalle, che si trovavano senza lavoro. Professionisti di ottimo livello, sui 50 anni d’età, con storie professionali molto interessanti alle spalle, ma interrotte bruscamente a causa della crisi. Il reinserimento per loro è difficile: la concorrenza è altissima, ci sono tantissime persone in cerca di febbraio 2014 scarp de’ tenis

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Senza lavoro, dramma over 50 lavoro e molti con grande esperienza. E d’altro canto ci sono giovani disposti a essere pagati anche molto meno». Mara Torriani ha 33 anni e lavora nel settore delle risorse umane di una società lombarda che apre in Italia centri odontoiatrici. «Di recente – racconta – ho pubblicato l’annuncio per un lavoro come receptionist a Milano. In due ore sono arrivati circa 600 curriculum, in tre giorni oltre tremila. Moltissimi di persone over 50. Per legge non possono esse-

re messi limiti, ma certo l’età pesa sulla scelta. Quelli ritenuti buoni da una prima scrematura erano forse solo 50».

Dove ricollocarsi? In questo quadro nero, una piccola luce accende forse qualche speranza. È una ricerca fatta da Randstad, multinazionale che si occupa di selezione del personale. Fabio Costantini è responsabile di Randstad Solutions e ha spiegato che, dal 2008 al 2012, quando si è trattato di

fare assunzioni “over 50” «le figure professionali più richieste erano quelle non qualificate: addetti alle pulizie, conduttori di veicoli, manovali nell’edilizia e nell’artigianato, qualche operaio specializzato. I comparti che richiedono più figure di lavoratori over 50 sono quelli delle costruzioni e il turistico-alberghiero. E c’è pure un piccolo segmento riservato alle high skill, le professioni che richiedono competenze dirigenziali intellettuali e tecniche».

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«Mutamenti violenti, il dolore va condiviso» Massimo Cirri, voce di Caterpillar (Radio2), psicologo e scrittore: un libro sui lavoratori ex Eutelia, e sull’auto-aiuto come atto politico di Daniela Palumbo Avere un posto di lavoro equivale ad avere un posto nel mondo. Esordisce così Massimo Cirri, nel suo libro Il tempo senza lavoro (a destra, la copertina del libro), nel quale racconta la disperazione di una generazione, quella dei cinquantenni, che oggi paiono costituire una zavorra per il mondo del lavoro: perché costano di più, in contributi e scatti di anzianità, e dunque vengono tagliati, asportati, liquidati. Una generazione che senza il lavoro si sente orfana di dignità. Massimo Cirri è di quella generazione, ha 49 anni e di lavori in verità ne ha tre: è conduttore della fortunata trasmissione radiofonica di Radio 2 Caterpillar (per tanti anni è stato a Radiopopolare); da 25 anni tutte le mattine va al lavoro al Dipartimento di salute mentale del servizio sanitario nazionale, a Milano, dove fa lo psicologo; infine, quando capita (la sera) scrive i testi teatrali con Lella Costa. In effetti, a ben guardare, ne ha anche un quarto, di lavoro, perché in tutto questo riesce anche a scrivere libri. Il tempo senza lavoro, edito da Feltrinelli, è l’ultimo. Un Manager senza scrupoli la spolpano di libro esemplare, più di tanti saggi, nel quel che resta e poi la chiudono. Allora raccontare il dolore di chi, dopo aver dain tutta Italia, nelle vari sedi, un gruppo to tanto alla propria professione, si ridi lavoratori e lavoratrici che non sono trova senza più un posto nel mondo. molto avvezzi a fare lotta sindacale perché sono impiegati, funzionari, manager, dirigenti, tutti con una grande proCome nasce il libro? fessionalità e tanti anni in azienda, si arDalla vicenda dei dipendenti dell’Agile rabbiano molto e la occupano. Ottenex Eutelia, azienda informatica, erede gono che venga commissariata e dell’Olivetti, che a un certo punto disottratta a questi imprenditori, che verventa proprietà di una famiglia di imranno condannati in primo grado dai prenditori italiani che la distruggono.

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tribunali italiani. Dopo nove mesi di occupazione continuano a fare riunioni e assemblee tutti insieme. Però molti lavoratori cassintegrati si accorgono che altri colleghi stanno male. Stanno male di testa, moralmente, alcuni sono molto depressi, altri hanno brutti pensieri, come quello di farla finita perché con poco stipendio e in cassa integrazione qualcuno comincia a pensare: “Io non sono niente senza il mio lavoro”. A quel punto cosa è accaduto? Fra loro c’è Corrado Mandreoli, un sindacalista di quelli che credono ancora che il proprio mestiere sia anzitutto al servizio dei lavoratori, e in assemblea propone che si inizi a tirarlo fuori, quel dolore, insieme agli altri. Mi chiama come psicologo per dialogare con gli ex dipendenti. All’inizio le assemblee sono mute. È difficile cominciare a dire che senti di aver perso la dignità... Ma poi una donna spezza il silenzio: il suo è un gesto importante, un gesto politico. Questa persona a un certo punto piange, davanti a tutti, è disperata perché non sa che farsene del suo tempo senza lavoro. Dopo di lei anche gli altri cominciano a tirare fuori il dolore. E le assemblee si trasformano in gruppi di au-


l’approfondimento Cose belle e brutte: elencare è sopravvivere Paola Fontana (vedi articolo alla pagina precedente) è anche autrice, nel libro di Cirri, del “Decalogo”: un breviario di sopravvivenza al tempo senza lavoro, che l’ha aiutata a tirarsi fuori dalla palude della depressione. Elenco delle cose belle che questa storia mi ha portato  L’occupazione dell’azienda  La partecipazione di tanti  Le manifestazioni come quando ero giovane  L’amicizia con colleghi che neanche sapevo chi fossero  Le mangiate e le bevute al presidio  La Fiom  L’arresto dei manager  La fine di tre anni di agonia lavorativa  La prospettiva di un’attività lavorativa molto diversa  Scoprire nuovi modi di dare valore al tempo  La gioia di mio figlio quando mi vede fuori da scuola  La rabbia che fa reagire Elenco delle cose brutte che questa storia mi ha portato  Tre anni di agonia lavorativa  Il senso di tradimento degli amici che si sono salvati il culo  Non avere più il mio stipendio  La fine del lavoro  Il timore di non essere più capace  La perdita di controllo  La frustrazione di stare a casa  La rabbia che si scarica dove non dovrebbe  Dieci chili di troppo

to-aiuto. Capiamo che queste storie non sono solo di pochi, sono storie collettive, di una generazione che stanno buttando via. E si pensa di scriverle, perché restino, per aiutare chi è solo e non riesce a gestire la sofferenza. La Scuola Holden di Torino aiuta i dipendenti a raccontare, a mettersi in gioco nella narrazione, mettendo a fuoco il tempo del non occupato. È da questo lavoro tutti insieme che nasce il libro. Cosa è diventato il lavoro in Italia? Un diritto? Un favore? Un miraggio? È e dovrebbe restare un diritto. Il valore fondamentale alla base della nostra costituzione. Ma è anche il luogo che è cambiato di più in pochi anni. Ho paura di quando inizieremo a contare i morti lasciati indietro. Oggi il lavoro in Italia è ancora legato all’identità della persona. Noi diciamo: io “sono” ragioniere, non io “faccio” il ragioniere. Senza lavoro non esistiamo. Eppure è sopravvenuta una situazione di fluidità eccessiva, di eccessiva liquidità per dirla alla Bauman, in cui il lavoro non è più ritenuto, a torto, imprenscindibile nella vita di una persona. Oggi il lavoro è sotto-

posto a troppi cambiamenti, in troppo poco tempo... Dovranno trovare un punto di equilibrio, sindacati, imprese, lavoratori, stato. Perché questo andazzo non è più sostenibile dalle persone. Da psicologo incontra tante forme di disperazione. Cosa distingue chi perde il lavoro? È una disperazione nuova: non eravamo abituati, come macchina sociale, a fronteggiare tutto questo. Essere senza lavoro, in Italia, era un’esperienza minorita-

ria e oggi è diventata di massa, con una velocità inaccettabile. Purtroppo non ci sono risorse collettive in grado di contenere questo fenomeno, non c’è stato sociale e non ci sono meccanismi di solidarietà collettivi, aiuto morale e psicologico. Questo dolore collettivo viene sempre più vissuto in solitudine, come fosse una colpa. L’essere senza lavoro è vissuto come vergogna, non una responsabilità sociale. Ma qualsiasi dolore vissuto in solitudine diventa più grave, e genera voglia di smettere di essere, di farla finita. Da soli siamo più fragili. Invecchiamo meglio, si allunga il tempo di vita. Eppure, a un tratto, si accorcia il tempo di lavoro. Siamo una società schizofrenica? Sì, lo siamo diventati. Stiamo vivendo un cambiamento violentissimo. Qualche giorno fa, alla Rai, ho mangiato insieme a colleghe giornaliste di 40 anni, che hanno contratti a tempo determinato: devono vivere insieme, perché non ce la fanno con lo stipendio a prendere una casa da sole. C’era pure un tecnico, aveva solo otto anni più di loro e raccontava che era entrato in Rai quando aveva 20 anni. A quell’epoca ha avuto subito anche la casa: era l’azienda che te la trovava, perché c’erano le cooperative, c’erano meccanismi sociali forti. E allora riflettevo come fra quelle donne e il tecnico non ci fossero che otto anni di differenza d’età! Questo cambiamento veloce e violento ci ha resi soli: è una battaglia fra poveri, quella che ci stanno facendo combattere.

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AIUTI ALIMENTARI

Nuovi programmi, “pacchi” a rischio? L’Europa cambia regime di erogazioni. Meno fondi per l’Italia: governo e realtà caritative studiano alternative. Ma la fame non aspetta...

Dal Pead al Fead: cambia una consonante, cambia il sistema delle erogazioni. Il nuovo regime è corretto. Ma intanto, come si risponde ai bisogni di milioni di poveri? Il sostegno di ogni giorno Raccolta e distribuzione: nel fotoreportage di Massimo Fiorillo, in queste pagine, il grande e quotidiano lavoro svolto dalle parrocchie di Sesto San Giovanni (Milano), per erogare aiuti alimentari a decine di famiglie

Sostegno vitale, rete capillare 4 milioni le persone che, in Italia, nel 2013 hanno ricevuto aiuti alimentari; in Europa sono state 18 milioni

più di 15 mila i punti di erogazione degli aiuti in Italia (centri d’ascolto, parrocchie, comunità, mense, ecc)

10 milioni lo stanziamento, in euro, disposto dal governo italiano per compensare, nel 2014, i minori stanziamenti Ue; le associazioni ne chiedevano 35

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servizi di Alberto Rizzardi e Marta Zanella fotoservizio Massimo Fiorillo Cinque anni di crisi economica, che hanno messo in ginocchio un numero elevatissimo di persone, in Italia e in Europa. Che hanno allungato le code davanti alle mense dei poveri, formate ormai da persone e famiglie di quello che una volta era considerato ceto medio. Che hanno fatto lievitare il numero di pacchi viveri distribuiti, ogni mese, da centri di ascolto e altri enti caritativi. E che, per contro, ora vedono l’Europa riformulare il sistema dei sussidi, ridimensionando i fondi a disposizione degli aiuti strettamente alimentari. Dall’inizio del 2014, è andato in pensione il Pead, il Programma per la distribuzione di derrate alimentari agli indigenti, attivato dall’Unione europea nel 1987, quando l’allora presidente della Commissione europea, Jacques Delors, nelin stato di bisogno (nell’intera Ue, in tol’ambito della Politica agricola comune, tale, sono 18 milioni le persone che riistituì questa iniziativa per gestire le eccevono questo sostegno al reddito). cedenze agricole dell’epoca aiutando i Ma da gennaio 2014, appunto, le cocittadini europei più svantaggiati. Nel se sono cambiate. Una sentenza della corso degli anni, esigenze e risorse soCorte di giustizia del 2011, su istanza di no cambiate, portando a modificare il Germania e Svezia, ha stabilito la chiuPead, in modo che le risorse alimentari sura del Pead a dicembre 2013. Spinta frutto di eccedenza, sempre meno nuda paesi che finora hanno maggiormerose, fossero integrate con prodotti mente beneficiato del Pead, Italia capoacquistati sul mercato. fila, la Commissione europea ha istituiIn Italia, il Pead è stato attuato per to, in alternativa, un Fondo di aiuti euvent’anni dall’Agea, l’Agenzia per le eroropei agli indigenti (Fead). Fondo innogazioni in agricoltura, che agisce per vativo, peraltro: per la prima volta conto del ministero delle politiche agril’Europa affronta la necessità di politicole, alimentari e forestali tramite sette che sociali integrate per far fronte al enti caritativi riconosciuti: Associazioproblema della povertà, tema finora tone Banco Alimentare di Roma onlus, talmente delegato alla competenza dei Caritas italiana, Comunità di Sant’Egisingoli stati membri. Ma è una misura dio, Croce Rossa Italiana, Fondazione che ha anche ricadute preoccupanti, Banco Alimentare Onlus, Fondazione nell’immediato, e che ha messo in alBanco delle Opere di Carità e Associalarme le realtà che quotidianamente si zione Sempre Insieme per la pace. Queoccupano di lotta alla povertà. ste sette realtà nel 2013 hanno suddiviso i prodotti alimentari tra oltre 15 mila Un effetto immediato strutture territoriali, che a loro volta li Intanto, il passaggio dal Pead al Fead hanno distribuiti a 4 milioni di persone vuol dire una netta diminuzione dei


l’inchiesta

fondi, esattamente il 30% in meno: se fino al 2013 erano stati 3,5 i miliardi di euro stanziati dall’Ue per gli aiuti alimentari, la nuova misura prevede un pacchetto di finanziamenti da 2,5 miliardi di euro per il periodo 2014-2020. Inoltre questo fondo non sarà più dedicato esclusivamente agli aiuti alimentari, ma dovrà comprendere diversi interventi di sostegno al reddito, che riguardano anche alloggio, salute, abbigliamento e accoglienza, per esempio. Infine, secondo la riforma, la principale responsabilità nell’attuazione dei programmi dipenderà dai singoli stati: i paesi membri che richiederanno il finanziamento dovranno presentare piani governativi sulle strategie di welfare da concordare in sede europea.

Tornando agli aiuti alimentari, le associazioni italiane riconoscono che essi non risolvono strutturalmente i problemi degli indigenti. Ma certo hanno un effetto di sostegno immediato. Il confronto con il governo è aperto, per abbreviare i tempi del cambio di regime. Ed evitare che vi siano periodi non coperti da erogazioni, che mandino in tilt la rete degli aiuti.

Entro aprile o maggio «La programmazione finanziaria settennale europea ha cambiato le regole di sostegno in questo ambito, e quello che si vuol mettere in atto è proprio il modello che auspichiamo: non solo aiuti alimentari, ma un mix che comprende diverse azioni di inclusione, for-

mazione, avviamento al lavoro – commenta Francesco Marsico, responsabile dell’area nazionale di Caritas Italiana –. Ma poiché questa riscrittura di regole a livello italiano non sarà semplice né immediata, gli svantaggi non sono pochi. Si rischia di interrompere il pur flebile flusso di aiuti sin qui assicurato, prima di arrivare a far partire il nuovo fondo». Per questo, già molti mesi prima che il Pead venisse chiuso, gli enti caritativi italiani hanno chiesto che la dotazione del nuovo fondo destinata all’Italia fosse utilizzata per sostenere uno specifico programma di distribuzione di prodotti alimentari e non a una gamma di interventi più ampia; che l’erogazione dei fondi fosse attivabile nel più breve tempo possibile; che il governo italiano alzasse dai 5 inizialmente previsti a 35 milioni di euro il Fondo nazionale di aiuti alimentari agli indigenti. Il governo ha accolto parzialmente questa richiesta, e a dicembre lo stanziamento è stato innalzato a 10 milioni. Dall’Europa, intanto, arriveranno circa 85 milioni annui, invece dei 100 forniti in precedenza dal Pead. «La legge di stabilità 2014 ha trovato un correttivo meritorio. Capiamo che in questo periodo di difficoltà per la finanza pubblica individuare queste risorse sia già qualcosa – osserva Marsico –. D’altronde 35 milioni di euro avrebbero garantito un passaggio morbido e tranquillo dal vecchio Pead al nuovo Fead, mentre questi 10 garantiranno un periodo cuscinetto di un paio di mesi, e impongono al governo di attuare il passaggio al nuovo piano in maniera tempestiva. Se riuscirà a farlo entro aprile o maggio, bene; altrimenti, se l’accesso alle risorse del nuovo regime, provenienti da Europa e Italia, saranno disponibili dalla seconda parte dell’anno, per un cospicuo periodo la situazione rischia di farsi grave». Che dieci sia meglio di zero, lo penfebbraio 2014 scarp de’ tenis

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Aiuti alimentari: nuovi programmi, “pacchi” a rischio? sa anche Andrea Giussani, presidente della Fondazione Banco Alimentare onlus, che cerca di fare buon viso a cattiva sorte. «Intanto stiamo continuando a ricevere, per circa due mesi, ancora le code 2013 del Pead. A livello nazionale, lo stanziamento-ponte di 10 milioni, dato che si partiva da zero, è comunque un buon risultato. Noi faremo il possibile per utilizzare questi fondi al meglio. Certo, non bastano e per questo non ci fermeremo. Senza indulgere al lamento fine a se stesso». Circola, a quanto pare, un velato ottimismo guardando al futuro prossimo: «Dopo le difficoltà pesanti degli ultimi mesi – continua Giussani – qualcosa è cambiato, grazie a un animato movimento a livello di opinione pubblica e di politica. Restano, tuttavia, ancora dei nodi aperti, in primis quello della definizione delle normative di distribuzione. Ma volendo essere ottimista, in Italia abbiamo delle facilitazioni rispetto al resto d’Europa, perché c’è una rete efficace, viva e già testata da anni nel volontariato e nel sociale. Se ci si poggerà su questa base, potremo essere i più efficaci a livello europeo. Certo, i numeri dell’indigenza alimentare sono molto pesanti e quel che impressiona di più è l’aumento di anno in anno, sinonimo di una valanga in corso». Sul fatto che sia necessario cercare altre soluzioni e che il futuro delle politiche sociali non sia certo nel pacco vi-

veri, si esprime con chiarezza Francesco Marsico. «Nessuno contesta che la soluzione ai problemi dell’impoverimento siano il lavoro e misure efficaci di inclusione. D’altra parte, i beni alimentari sono un’evidente forma di sostegno al reddito delle famiglie. Finora tale strumento ha rappresentato una sorta di reddito minimo “in natura”, certamente insufficiente, ma coesivo e capillare, grazie alla diffusione delle reti territoriali di aiuto. Senza contare che i beni alimentari sono uno strumento che permette di creare un legame con i servizi sociali, pubblici e privati, al di là dell’aiuto pratico in sé. Certo, vorremmo politiche di inclusione sociale e di coesione avanzate e davvero risolutive. Ma non è il momento giusto: i tempi di sofferenza delle famiglie non sono quelli della ripresa economica, né di compiute riforme del welfare». Insomma, su questo chi lavora con i poveri conviene: in questo momento non si devono interrompere i flussi di beni alimentari.

Dall’indignazione all’opera Una delle chiavi per il futuro, per Giussani, potrebbe essere nel recupero del cosiddetto “spreco”. «Che esista è noto. Ci fermiamo però spesso alla mera indignazione, dando addosso alla società consumistica; l’esperienza di tante strutture caritative dice che si può passare dall’indignazione all’opera, e provare a trasformare lo spreco in aiuto».

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L’ex locomotiva s’è messa in moto:

Sesto San Giovanni è stato tra i primi comuni ad aderire al progetto Last minute market. C Basterebbe passare qualche ora a Sesto San Giovanni per notare come la crisi abbia colpito duramente anche una città che fu locomotiva dell’Italia industriale. Ma il territorio non si è arreso, e moltiplica le iniziative per aiutare le persone in difficoltà, sempre più numerose. Dal 2009, per esempio, è attivo il progetto Last minute market, nato all’Università di Bologna nel 1998 da una ricerca di Andrea Segrè, che mette a tema e cerca di organizzare il recupero di beni alimentari rimasti invenduti nel circuito produttivo e commerciale, per destinarli a enti e associazioni attivi nel sostegno ai bisognosi. Dopo un periodo di sperimentazione, oggi a Sesto sono coinvolti svariati punti vendita di quattro grandi catene di supermercati, due panifici e un caseificio. «Sesto San Giovanni è stato il primo comune lombardo ad aderire all’inizia-

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tiva – spiega Silvana Tondi della Società di San Vincenzo de’ Paoli –. Abbiamo avuto in dono un vecchio furgone per recuperare i beni alimentari, soprattutto frutta e verdura, ma anche cibi confezionati (pane, salumi, latticini). Dal lunedì al venerdì i nostri volontari e quelli delle sette parrocchie coinvolte nel progetto ritirano i prodotti dai supermercati convenzionati, distribuendoli a circa 30-35 famiglie». Con questo sistema, nel 2010 furono recuperati circa 25 mila chili tra pane, frutta e verdura, nel 2011 oltre 33 mila chili, nel 2012 oltre 40 mila chilogrammi, con un ulteriore incremento


l’inchiesta

Como

«Pasti a quasi diecimila, allo studio nuove soluzioni» Messa alle strette dal giro di vite dell’Unione europea in materia di aiuti alimentari agli indigenti e preparata a ricevere, nei prossimi mesi, minori scorte dall’Agea, la rete della solidarietà comasca è in piena mobilitazione per individuare le soluzioni più opportune per fronteggiare quella che minaccia di tradursi in un’ulteriore indesiderata emergenza, in un contesto – quello lariano – già penalizzato dall’esiguità delle risorse e da qualche cronica carenza sul piano strutturale. Per Andrea Tabarelli, responsabile della cooperativa “Incroci” che gestisce la mensa serale del Don Guanella, «è in corso un dialogo a tre voci tra la mensa vincenziana, l’Ozanam e la nostra associazione per allestire un piano di recupero che coinvolga la grande distribuzione e la parte più sensibile della popolazione, magari organizzando una colletta alimentare supplementare, che possa garantire la prosecuzione della distribuzione, nella nostra provincia, dei 648 mila chili di alimenti che annualmente somministriamo a oltre 9.400 persone. Ma stiamo anche studiando la possibilità di partecipare al bando della Fondazione Comasca, che ha già stanziato un contributo di 150 mila euro per finanziare progetti di utilità sociale agganciati al tema del fabbisogno alimentare straordinario». Al momento la strada che appare più percorribile sembra quella tracciata dalla Fondazione, il cui presidente Giacomo Castiglioni, in occasione della recente presentazione ai media del bando, non ha lesinato le critiche alla politica dei tagli, rimarcando «quanto sia umiliante per Como dover adottare strumenti di questo tipo per assicurare un pasto ai bisognosi», sottraendo fondi ad altre funzioni. «Viene da chiedersi – ha aggiunto Castiglioni – per quale motivo, se l’Ue ha soppresso un programma di riutilizzo delle eccedenze alimentari che aveva ben funzionato a causa del venir meno dei presupposti che lo avevano reso attuabile (vale a dire la riduzione delle giacenze di magazzino nel settore agroalimentare), non si sia trovato il modo di rimediare con un contributo monetario, finalizzato all’acquisto delle derrate non più reperibili attraverso i vecchi canali». Un quesito stimolante. Al quale ci si attende risposte dal governo. Salvatore Couchoud

gli aiuti, impegno quotidiano

Comune, parrocchie, aziende: molteplici interventi, raccolte ed erogazioni tutti i giorni nel 2013. Ma non finisce qui. Sempre con il supporto di Last minute market e grazie alla collaborazione tra comune, Sodexo (gestore delle mense comunali) e San Vincenzo de’ Paoli, nel 2012 è partita anche l’iniziativa “Un pasto solidale”: la mensa dei dipendenti municipali accoglie a pranzo persone in temporanea difficoltà economica, offrendo accesso gratuito al self service al termine dei turni dei dipendenti.

Ultimamente, il tutto esaurito «Al momento non possiamo ospitare più di venti persone al giorno – spiega Tondi – e negli ultimi tempi abbiamo

avuto il tutto esaurito». Tra i tavoli molti disoccupati, pensionati, donne single con figli a carico, stranieri, ma anche tanti italiani e, sempre più spesso, qualche famiglia intera. Nei primi cinque mesi furono serviti circa 1.400 pasti, saliti fino ai 5 mila nel novembre scorso. «Al momento riusciamo a garantire agli ospiti primo, contorno, pane e acqua, ma speriamo, in un futuro non troppo prossimo, di poter inserire anche un secondo. E poi cerchiamo di non dare solo e semplicemente un pasto, ma anche accoglienza e sostegno. Qualche volontario siede accanto agli ospiti, pranza con loro, ascolta le loro storie e

questo rende più familiare lo spazio e più sopportabile un’esperienza sicuramente non facile da affrontare». A metà gennaio, infine, grazie a un accordo con la prefettura, è partito anche un programma sperimentale di raccolta delle eccedenze agricole italiane: il primo passo ha portato a Sesto oltre ventimila chili di frutta arrivati dalla Sicilia, che sarà suddiviso tra alcune parrocchie dell’hinterland. «Non sarà facile coordinare il tutto – conclude Tondi – ma i numeri di un esperimento simile condotto in Emilia Romagna e la sensibilità sestese ci dicono che questa può essere la strada giusta».

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Aiuti alimentari: nuovi programmi, “pacchi” a rischio?

Le mense se la cavano, ma come saranno garantiti i pacchi viveri? Preoccupazione generale. Anche a Cagliari...

«Abbiamo scorte? Fino a fine febbraio...» I numeri della fame sono in vertiginoso aumento. Ovunque. Nelle metropoli e nei territori di provincia. In continente e sulle isole. E celano volti di persone, famiglie e storie di povertà, che soffrono allo stesso modo, indipendentemente da latitudine e longitudine. A Cagliari, la mensa della Caritas diocesana di via Sant’Ignazio, da gennaio a ottobre 2013, ha distribuito oltre 13 mila pasti, con una media di circa 500-600 al giorno tra colazione, pranzo e cena; nel 2006 i pasti offerti ogni giorno erano 220. In crescita anche gli assistiti dalle altre mense attive in città e provincia: quella del Buon Pastore, nel quartiere San Benedetto, serve 120-130 pasti quotidiani; quella parrocchiale di Elmas circa 80 al giorno; numeri simili nella più recente mero di stranieri ed è ormai costante la Mensa del viandante di Quartu Sant’Epresenza dei cosiddetti “nuovi poveri”: lena. In più, l’Ordine dei Cavalieri di divorziati, persone che hanno perso il Malta ogni domenica organizza una lavoro, anche qualche nucleo familiare. mensa per 30-40 persone. Ma sono ancora molti coloro che non «Fino a qualche mese servivamo soriusciamo a intercettare». prattutto italiani – spiega Andrea NicoPerò all’emergenza e al disagio si rilotti, della Caritas diocesana di Cagliari sponde con solidarietà e capacità di –. Negli ultimi tempi è aumentato il nucoordinarsi e unire le forze. «Abbiamo

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una gestione strutturata per distribuire alimenti, abbigliamento e altro – spiega Nicolotti –. Gli alimenti, alla mensa diocesana, arrivano per il 60-70% da donazioni private e li condividiamo con altre realtà di assistenza, tra parrocchie e associazioni». Una rete di aiuto articolata in mense e distribuzioni di sostegno a circa 1.500 famiglie. Una rete che ha il suo cuore pulsante nel Centro diocesano di assistenza, dove fino a dicembre l’80% degli alimenti distribuiti arrivava dal programma europeo Pead, tramite l’agenzia Agea.

Accordi da stipulare «Fino a fine febbraio – specifica Nicolotti – verranno distribuiti i residui degli alimenti del Pead, ma da marzo ci ri-


l’inchiesta troveremo con l’80% di prodotti in meno in magazzino». Per aggirare l’ostacolo, ci si è mossi da tempo: «Intanto a Cagliari – afferma Nicolotti – gestiamo un progetto alimenti, promosso dall’Onu, per il riutilizzo sociale di alimenti non più vendibili. Poi stiamo cercando di stipulare accordi e convenzioni vantaggiose con potenziali fornitori nella filiera agroalimentare, sulla scia di quanto fatto con una grande azienda alimentare, che l’anno scorso ha donato a Caritas 66 mila scatolette di tonno».

Il recupero dei pasti cotti A volte vengono coinvolti anche i privati cittadini, come la scorsa estate, «quando le dispense della mensa erano a zero e abbiamo lanciato un appello». È così partito il progetto “Abbattiamo la fame”, che sta raccogliendo fondi (ad oggi oltre 31 mila euro) e ha consentito l’acquisto, tra gli altri, di un abbattitore termico per recuperare cibi cotti prodotti in eccesso dalle mense locali (quelle di scuole e ospedali), altrimenti sprecati. «Grazie al recupero di questi pasti cotti e non consumati, contiamo di erogare tra i 200 e i 300 pasti in più al giorno – chiosa Nicolotti. – Oggi la situazione è critica e i problemi sono tanti, ma se alla solidarietà si unisce la corresponsabilità, si può creare qualcosa di vincente. La solidarietà da sola non serve, crea assistenzialismo. Va stimolata anche la corresponsabilità. Nel nostro piccolo, cerchiamo di farlo».

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Rimini

Volontari nell’incertezza, solo le mense non rischiano Si dice preoccupata Maria Carla Rossi, presidente dell’associazione di volontariato “Madonna della Carità”, che per la Caritas diocesana segue le attività della mensa e degli aiuti alle famiglie. «Sino a marzo aspettiamo, ma non posso negare incertezza, e soprattutto preoccupazione». Gli aiuti alimentari provenienti da Europa e governo italiano potrebbero ridursi drasticamente, e così, insieme alle altre Caritas emilianoromagnole, quelli di Rimini stanno cercando di mettere insieme le forze e fare pressione a livello nazionale, per avere informazioni certe sulla fornitura di aiuti alimentari nei prossimi mesi. Anche perché quello che succede in Caritas si ripercuote poi sulle parrocchie, che utilizzano gli alimenti per aiutare le persone in difficoltà capillarmente, nel territorio. A Riccione e Cattolica sono attive due mense parrocchiali, alle quali nel capoluogo si aggiungono quella di Santo Spirito e quella gestita, appunto, direttamente dalla Caritas diocesana. Antonio Giustini, responsabile della Caritas di Cattolica, teme una «vera e propria mancanza di ossigeno. Il 50% del cibo che serviamo in mensa è rappresentato dai prodotti Agea. E altrettanto ne utilizziamo per confezionare i pacchi alle famiglie». A Cattolica, nel 2013 sono stati serviti 15.278 pasti e consegnati centinaia di pacchi. «Ora aspettiamo di capire. Da marzo rischia di non arrivare più nulla; ancora non abbiamo bene in mente come e dove andare a prendere il cibo che ci serve ad aiutare molte famiglie in grave difficoltà». Anche Giorgio Galavotti, responsabile della Caritas di Riccione, manifesta preoccupazione. «Per la mensa siamo abbastanza coperti – osserva –, dato che dal territorio arrivano molti aiuti. Anche grazie a una convenzione con la Coop, al sostegno del mercato ortofrutticolo e di tante piccole botteghe, bar e panifici riccionesi, riusciamo a spendere dai 2 ai 3 mila euro per tenere aperta una mensa che eroga oltre 3 mila pasti l’anno. Su quel fronte sono tranquillo». A preoccupare, piuttosto, sono i 200 pacchi al mese distribuiti a famiglie bisognose, e l’incertezza che li avvolge. Ma c'è anche chi non si preoccupa troppo. O meglio, cerca di fare i conti con quello che ha, ritenendo che gli intoppi – che ci saranno, è sicuro – saranno minimi. A Rimini, alla Mensa Santo Spirito – che eroga qualcosa come 52 mila pasti all’anno –, Romolo Corbelli (coordinatore della mensa) cerca di diffondere ottimismo. La mensa del capoluogo della Riviera dall’Agea preleva infatti solo il 30% dei prodotti che utilizza per i poveri. «In realtà – precisa Corbelli – la mensa, storicamente, si regge sulle gambe delle donazioni di grandi supermercati del territorio, ristoratori, piccole botteghe e bar di città. Un sistema che funziona e che non ha mai fatto mancare il cibo, sino dall’apertura della mensa, in via della Fiera. I prodotti di Agea sono invece fondamentali per le 200 famiglie che ogni 15 giorni vanno a prendere la busta della spesa. In assenza di questi prodotti, sarà difficile continuare a garantire il servizio». Angela De Rubeis febbraio 2014 scarp de’ tenis

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milano Nei quartieri, circa 80 realtà esprimono le istanze dei cittadini. I temi cambiano: meno ansia di sicurezza, più voglia di qualità

La città dei Comitati, partecipare si può Torino Gelido inverno, in fondo sei un’occasione Genova Campi rom sgomberati, il dialogo non è facile Verona La Locanda punta al bello, gli “invisibili” spariscono Vicenza I padroni della notte invitati nella “stanza” Rimini Vendite in nuda proprietà, davvero un affare per tutti? Firenze La scelta di Marial: al battesimo c’erano tutti Napoli Le nostre parole: il “genio” sfonda ma non va offeso Salerno Tutti a scuola. Di carità. Mentre la povertà aumenta Catania Ape-Scarp: arriva Mizzica, per letture su tre ruote

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di Daniela Palumbo Comitati di quartiere a Milano: si cambia. L’inversione di tendenza è cominciata da un paio di anni, i sintomi di questa stagione nuova per la cittadinanza attiva li aveva riccamente documentati il sociologo Aldo Bonomi in una ricerca, datata 2011, dal titolo: Le domande inascoltate di Milano, apparsa sul Sole 24 Ore. A distanza di un paio di anni o poco più (il 2014 è appena iniziato...) le tendenze di cui parlava il sociologo si sono affermate, diventando vie maestre per i comitati cittadini: circa un’ottantina di soggetti urbani. «Avevo condotto una ricerca simile negli anni Ottanta, cercando di interpretare questo fenomeno sociale – spiega il sociologo, che ha fondato e dirige l’istituto di ricerca Consorzio Aaster –. Confrontando le attese, la composizione sociale dei comitati, le priorità, le modalità di azio-


scarpmilano ne dei gruppi, oggi possiamo tirare le somme e attestare le differenze sostanziali determinatesi in un ventennio di attività dei comitati. Anzitutto è cambiata l’agenda delle priorità. Negli anni Ottanta i comitati erano diffusi quasi esclusivamente sulle vie commerciali: erano i commercianti a promuoverli, a volte insieme ai residenti. Il loro progetto era legato a tre elementi: legge, regole e sicurezza. Ad animarli era la piccola borghesia milanese».

Oggi tutto è cambiato Nell’agenda delle priorità dei comitati, le istanze securitarie permangono, ma non sono più la spinta principale. «Oggi altri temi (qualità della vita, ambiente, degrado dei quartieri) sono in cima all’attivismo dei comitati – prosegue Bonomi –. La domanda di sicurezza e ordine non è scomparsa, ma si declina all’interno del concetto di qualità della vita. Inquinamento ambientale, fumi tossici, movida esasperata, discariche abusive, poca attenzione delle istituzioni per il quartiere: su questi temi si incentrano oggi le richieste di ascolto dei cittadini, esigenze che hanno al centro la questione del rispetto delle regole e dell’esercizio dei controlli, di fatto latitanti».

La “pasionaria”

Fabiola, novella Don Chisciotte: «Il degrado non è normale...» «Una volta c’erano i cittadini che scendevano in strada con la fiaccolata e i cartelli che chiedevano risposte. Oggi abbiamo voglia di fare noi, abbiamo capito che è il fare dal basso che cambia la qualità della vita. Abbiamo capito che è inutile delegare alla politica, incapace di risolvere i problemi. Significa aspettare risposte che non arriveranno». Fabiola Minoletti è la pasionaria del comitato Abruzzi Piccinni, dal 2006 militante attiva. Ha iniziato per un problema di prostituzione in viale Abruzzi. In parte hanno risolto: meglio, la prostituzione si è spostata in altri luoghi della città. Il comitato Abruzzi ha deciso poi di “adottare” una parte della via, dal civico 1 al 38. Sono 38 palazzi, 76 serrande di commercianti. Monitorano il piccolo degrado urbano, le piccole discariche, i graffiti, i pali della segnaletica che stanno colando a picco, insomma si prendono cura del territorio che vivono. Come? Fabiola è diventata una referente del sito comunale “Progetto Ambrogio”, finalizzato a ottimizzare i tempi di intervento del comune di Milano. Le segnalazioni riguardano gli interventi nel territorio in materia di sicurezza stradale, decoro, pulizia, manutenzione di strade, parchi e marciapiedi. La procedura si dovrebbe attivare per mezzo di una segnalazione fatta attraverso i vigili di quartiere, il Bus InfoMilano, alcuni comitati di quartiere e associazioni che hanno aderito al progetto. Dato che i primi due sono latitanti (chi ha più visto i vigili di quartiere? O il bus InfoMilano?) ci pensa Fabiola Minoletti del comitato Abruzzi. «Mi sono resa conto che la voglia di fare è tanta da parte del cittadino: a Milano c’è gente che vuole dare, che ha competenze e strumenti culturali per farlo, ma senza un orientamento poi ci si disperde. Bisognava canalizzare questa risorsa civica, perché le persone non sanno cosa fare, a chi rivolgersi per segnalare graffiti, buche, discariche, carcasse di macchine e biciclette abbandonate. La burocrazia amministrativa è una giungla che scoraggia. Allora io me ne prendo carico. Gli altri comitati sanno che sono a disposizione per segnalare ad Ambrogio le cose che non vanno. Nel tempo ho attivato una serie di rapporti con i settori amministrativi competenti e lavoriamo bene con Amsa, polizia locale e diversi interlocutori comunali. Tranne il settore della viabilità e segnaletica stradale. Quando un cittadino mi segnala i pali stradali inclinati, gli dico subito che occorrono almeno 18 mesi per cambiarlo o aggiustarlo. Assurdo, ma è così». Fabiola ha fatto per tanti anni la ricercatrice di marcatori tumorali all’Istituto dei Tumori di Milano. L’impostazione scientifica le è rimasta dentro. Tutto ciò che intraprende lo porta avanti con dedizione e studio. Così è stato per i graffiti. Fabiola ha analizzato il fenomeno, ha inseguito chi imbratta i muri, i palazzi e le vie della città. Oggi conosce tutti i gruppi di graffittari, sa chi agisce in un determinato quartiere e quali sono le modalità dell’attacco. E quando i cittadini si riuniscono per ripulire gli imbrattamenti, lo fanno a spese proprie; forse anche per questo si sentono anche un po’ Don Chisciotte. L’attivissimo comitato di quartiere Le Terrazze, in zona 5, ci ha costruito anche uno slogan: “Don Chisciotte non s’abbatte e i graffiti alle Terrazze oggi combatte”. «Abbiamo perso il concetto di bene pubblico, di comunità, ma noi ci stiamo lavorando... Quando ci ritroviamo tutti insieme – racconta Fabiola –, con grande partecipazione, a pulire i muri della città o a prenderci cura di un pezzo di terra, ci dà gioia: sai che stai donando per la tua città, che sei di esempio per i tuoi figli, che altrimenti vivrebbero nell'idea che il degrado sia una condizione normale. Ci sono persone che arrivano con torte, caffè: diventa un evento aggregante. Per molti, avere una causa che unisce, allontana la solitudine». Per segnalazioni: fabiola.minoletti@associazioneantigraffiti.it febbraio 2014 scarp de’ tenis

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scarpmilano Anche sotto il piano della forma-comitato ci sono novità interessanti. «C’è un mutamento della composizione sociale – spiega Bonomi –, che valorizza le nuove professioni: i comitati spesso sono composti da soggetti appartenenti ai ceti medi terziari. Il centro si svuota, restano gli uffici, le persone vanno a popolare i quartieri di media periferia. Lì ritroviamo professionisti, avvocati, medici, giornalisti, ingegneri, le nuove figure del web, i giovani laureati. Spesso sono loro ad animare i comitati. Ma io non le chiamo neppure più periferie, sono ormai qualcosa di diverso. Prendiamo Quarto Oggiaro: è lo snodo fondamentale per l’accesso all’Expo. In relazione alle nuove funzioni che acquisisce, cambia la geografia urbana delle metropoli».

Voglie di vita tranquilla Qualità della vita, traffico e ambiente, rispetto delle regole, degrado dei quartieri: le priorità sono diventate altre rispetto a qualche anno fa, quando le battaglie dei comitati erano tutte legate “all’invasione” degli stranieri, alla lotta contro l’abusivismo, alla richiesta di presidiare il territorio da parte delle forze dell’ordine. «La stagione dei rancorosi, come li chiamo io, sta tramontando. Oggi c’è la voglia di costruire momenti collettivi, di essere comunità, non ci si mobilita più contro l’immigrazione. C’è un clima diverso in questi raduni. C’è la voglia di essere comunità di cura, di essere operosi, di prendersi la responsabilità del territorio. È chiaro che tutta questa pro-

liferazione e il nuovo attivismo sono indicatori sociopolitici importanti. Perché svelano la crisi profonda della dimensione di rappresentanza della politica. Il suo fallimento. La nuova giunta comunale tenta di rincorrere i temi che i comitati dei cittadini mettono nero su bianco: c’è un andare incontro e un cambiamento nel linguaggio, ma nelle risposte spesso rimane la lontananza. Tutta la politica ha un problema di dimensione partitica. Così com’è, fa fatica a essere un volano per i comitati». Magari i cittadini che operano nei comitati saranno i nuovi politici del futuro. Qualcuno lo spera. Ma Bonomi è scettico: «Sarei molto cauto su questo fronte. Di fatto ora ne svelano la crisi. È vero che alcuni temi dei comitati stanno dentro il Movimento 5 Stelle, o nel dibattito interno al Pd, ma in realtà vale per i comitati quello che si dice per la rete: quest’ultimo è un potente mezzo, ma da sola non basta a costruire rappresentanza politica, perché non sostituisce il territorio, la comunità, il viso a viso».

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Il coordinamento

Roghi, discariche, movida, rumori: «Controlli assenti, vince il lassismo» Il Coordinamento dei comitati milanesi si è costituito agli inizi degli anni Novanta, per collegare e dare più forza all’attività di denuncia e di proposta di molti comitati sorti spontaneamente in città. Oggi il Ccm raggruppa una sessantina di comitati. I temi centrali dell’iniziativa dei comitati riguardano i beni primari di una comunità: la sicurezza e la fruibilità del territorio, il degrado ambientale e la promozione di nuovi valori civici. Il coordinamento fa parte della vecchia guardia e la sicurezza resta un valore prioritario. «Ci sono problemi annosi che si sono incancreniti a Milano – spiega il segretario, Isidoro Spirolazzi –, la cui soluzione non decolla proprio per mancanza di controlli da parte delle istituzioni proposte. Uno dei problemi gravi che attanaglia questa città sono i roghi tossici. A Quinto Romano, Santa Giulia, via Selvanesco in Gratosoglio, Villa Certosa, Rogoredo. È l’estrema periferia adiacente ai comuni di prima fascia: qui si insediano discariche abusive e commercio di rame che, per essere estratto dai cavi elettrici, necessita di essere bruciato, ma la combustione crea roghi di diossina. La situazione è gravissima. A questo “commercio” sono dediti non sono solo accampamenti rom, ma anche diversi italiani. E poi ci sono le discariche abusive, dove si brucia di tutto. Nelle periferie a questi problemi se ne aggiunge un altro, altrettanto grave: l’abbandono in cui versano tante case popolari. Si moltiplicano gli alloggi sfitti, preda della criminalità e di occupazioni abusive incontrollate, in un clima di degrado ambientale che rende quei luoghi inaccessibili». Un altro tema eterno è la movida. «I quartieri a ridosso del centro – Ticinese, Sempione, Valtellina, Piave, Garibaldi, Isola – sono invasi da rumori molesti, traffico, suoni assordanti. Noi diciamo da anni che basterebbe che il comune effettuasse i sacrosanti controlli per far rispettare le regole. Non chiediamo che chiudano gli esercizi, ma che si mettano in regola. Invece c’è lassismo, nessuno si assume responsabilità, ti ascoltano e poi non fanno nulla».

30. scarp de’ tenis febbraio 2014

Graffiti molesti? Cleaning a scuola Fabiola Minoletti, insieme ad altri cittadini, ha fondato l’Associazione nazionale antigraffiti. Dal 2008 a Milano esiste il progetto “Milano Quartiere Pulito”, con tre obiettivi: fare opera di sensibilizzazione tra i cittadini con eventi di clean-up e “adozioni” di vie; acquisizione di dati sul fenomeno del writing vandalico, per elaborare strategie di contrasto; un programma di educazione, proposto alle scuole, sulle motivazioni e le conseguenze del writing vandalico, abbinato a mini-cleaning con studenti. Dal 2008 al 2013 i cleaning organizzati a Milano sono stati 17. Fabiola ribadisce che pulire serve: «Il numero dei nuovi imbrattamenti nei territori puliti è molto basso. Ci sono ad esempio aree ripulite che sono state imbrattate “solo” dopo sette mesi, come alle Terrazze, o al Gratosoglio, pulito ad aprile 2013 dal comitato Le Terrazze (comitatoleterrazze@gmail.com) e per la prima volta imbrattato nuovamente a novembre 2013».


Tetraedro


Hanno girato l’Italia. Comprato un’edicola. Attrezzato un alloggio. Tutto per curare Annamaria. E renderla autonoma

Il tarlo di Agata: «Domani cosa posso fare per lei?» di Leonardo Pedroni Ha all’incirca 70 anni. Sorride quando mi presento e le spiego per quale motivo ho chiesto di incontrarla. È una signora molto alla mano, Agata Pisano. O Nuccia, come la chiamano tutti. Possiede un’edicola assieme al marito, Antonio Pesce, in corso Sempione angolo via Ezio Biondi. Edicola ottenuta comprando la licenza dal vecchio proprietario, decine di migliaia di euro. «Sono i soldi della mia liquidazione – afferma fiero il marito –: ho deciso di investirli, è meglio così, creda a me. E ora le spiego il perché». Agata però lo blocca subito «Devi andare in banca Antò, non ricordi più? Ci parlo io con il signore». Nuccia e Antonio hanno quattro figli. Agatino di 43 anni, Francesca di 40, Andrea di 32 e la più piccola, Annamaria, di 30. È di quest’ultima che Agata mi vuole raccontare. La storia di Annamaria. La loro storia, dell’intera famiglia. Della partenza dalla Sicilia, molti anni fa, alla ricerca di un posto migliore dove far crescere la figlia. Annamaria, infatti, è nata con un cromosoma in più: ha la sindrome di down.

Pellegrinaggio sanitario «In Sicilia non potevamo proprio restare, l’assistenza e le cure che abbiamo trovato laggiù non erano soddisfacenti – attacca Nuccia –. Non volevamo quel futuro per nostra figlia. Dovevamo cercare altro. La prima volta che abbiamo ascoltato il parere di uno specialista ci ha detto che le cure sarebbero cominciate dai 7 anni. “E fino ad allora?”, ho chiesto. “Niente signora, se la tiene a casa e non possiamo far nulla”». Nuccia comincia a tremare: è rabbia quella che la scuote, vecchia rabbia, al ricordo di quei giorni. «Mi sono sentita impotente, ma è durato poco. Ho preso mia figlia e urlato a quel medico che lui poteva pure aspettare, io non avevo tempo da perdere». Da allora è cominciato il loro lungo viaggio. La famiglia si è stretta attorno alla piccola Annamaria, l’hanno sostenuta in tutto e si sono dichiarati pronti a fare qualsiasi sacrificio per lei.

32. scarp de’ tenis febbraio 2014

I Pisano, così, hanno cominiciato a viaggiare su e giù per l’Italia, passando da una clinica all’altra, da un medico all’altro, da una cura all’altra. Agata non si accontentava, voleva dare di più a sua figlia, la possibilità di vivere come tutte le ragazze della sua età. Finalmente trovarono quello che cercavano, la città giusta dove crescere la bambina: Milano. Era il 1987, e dopo un primo periodo di prova da parte del padre, tutta la famiglia si trasferì all’ombra della Madunina. «La sanità qui è il top per mia figlia – dichiara la signora –. Personale sanitario squisito, medici, infermieri, educatori. Tutto funziona nel modo giusto. Prima avevamo conosciuto il peggio della sanità italiana, truffatori, approfittatori e incompetenti».

Annamaria è cresciuta bene a Milano, amata e protetta. Ma non solo. Le hanno insegnato ad affrontare la vita di tutti i giorni. Ma Agata voleva darle ancora di più, e l’occasione si è presentata nel 2012, con il programma “Progettami”, finanziato dal comune e dalla Fondazione Cariplo. Nell’ambito di una sperimentazione di cinque giorni a settimana, la “piccola” dei Pisano ha convissuto in un appartamento con altre due ragazze disabili come lei. Seguite da un educatore che le ha assistite al pomeriggio e alla notte, hanno avuto piena libertà di azione: hanno cucinato, lavato, stirato, sono andate a fare la spesa. «Un sogno – dice oggi commossa Agata –, che si avverava. La possibilità che aspettavo da anni. Rendere mia figlia indipendente e responsabile delle proprie azioni. Solo questo chiedo come ultimo desiderio alla mia vita. Non voglio nient’altro, non ho altri progetti». Il programma è durato tre mesi. Annamaria si è disperata quando tutto è finisce. E così ai genitori è nata l’idea di osare. Con la liquidazione del padre, ormai andato in pensione, la famiglia ha comprato la licenza di un edicolante in corso Sempione (angolo via Ezio Biondi) e ha cominciato a vendere giornali. Gli affari vanno bene, per fortuna. Molte altre edicole hanno dovuto chiudere in questi anni. La loro resiste. Comprato un piccolo appartamento, ci sono andati a vivere con Annamaria. Gli altri figli ormai sono grandi e sistemati.

Non delegate il bene dei figli «Ci siamo lanciati, abbiamo osato – dichiara orgogliosa Agata –. E abbiamo


scarpmilano fatto dei lavori nel nostro vecchio appartamento, adattandolo perché possano viverci quattro persone, ognuna col proprio bagno in camera. Abbiamo voluto replicare l’esperienza di quei tre mesi. Questa volta, però, vogliamo dare un futuro definitivo a nostra figlia». Sono passati molti mesi da allora. L’appartamento è pronto, i lavori sono finiti, ma le autorizzazioni tardano ad arrivare. «Non solo i permessi, ci mancano anche dei fondi che il comune di Milano dovrebbe erogare come parte attiva al nostro progetto. Aspettiamo, sento che il 2014 sarà l’anno giusto. Ho sempre vissuto – conclude Agata – con una domanda nella mia testa: “Domani cosa posso fare per lei?”. Questo mi ha tenuto attiva in tutti questi anni. A genitori come noi vorrei dire: non delegate a nessuno, per il bene dei vostri figli. Agite sempre in prima persona. Siate pazienti, i risultati arriveranno e vi ripagheranno dei sacrifici. È l’unico consiglio che posso dare. Fateli provare, fateli vivere. Non abbandonate la speranza di vederli come parte attiva della società».

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Giornalai per amore Antonio e Agata Pisano nella loro edicola di corso Sempione (angolo via Ezio Biondi)

in cartellone

FEBBRAIO 2014

sabato 8 febbraio ore 20.30 domenica 9 febbraio ore 16.00

La Vie en Rose... Chansons

su canzoni di Charles Aznavour – Jacques Brel – Edith Piaf e altri ancora solisti e corpo di ballo del Balletto di Milano

sabato 15 e 22 febbraio ore 20.30 domenica 16 e 23 febbraio ore 16.00

W Verdi

balletto in due atti su musica di Giuseppe Verdi ideazione: Carlo Pesta solisti e corpo di ballo del Balletto di Milano

IL NUOVO PALCOSCENICO DELLA DANZA Via Fezzan 11 20146 Milano Biglietteria aperta da martedì a sabato Orari: 11.30-14.00 e 16.30-19.00 Informazioni: tel 02 42297313 Contatti: biglietteria@teatrodimilano.it ci siamo anche noi, vieni a trovarci!

sabato 1 marzo h 20.30 domenica 2 marzo h 16

Folklore e Nozze di Sangue

Teatro danza su musiche popolari testi di Federico Garcia Lorca Direzione Artistica di Aldo Masella

sabato 8 e 15 marzo h 20.30 domenica 9 e 16 gennaio h 16

Soirée Ravel... Bolero

balletto in due atti musica di Maurice Ravel solisti e corpo di ballo del Balletto di Milano


Silvana, Max e altre storie: over 60 negli istituti per l’infanzia

“Arrivano i Nonni”, la saggezza fa scuola di Simona Brambilla

“Arrivano i Nonni”: attraverso laboratori, workshop e lezioni i nonni milanesi tramandano il loro sapere ai più piccoli. Un tempo nonni e nonne erano considerati i saggi, i detentori della memoria storica e sociale della comunità; oggi questa categoria di persone è spesso penalizzata e messa ai margini dalla società, considerata quasi un peso. Per contribuire a superare questa impostazione culturale e sociale, da un paio d’anni Terna e Arci Milano, con il supporto della Fondazione Sodalitas e la supervisione dello Sda Bocconi school of management, hanno lanciato un progetto orientato a valorizzare la nuova longevità della società italiana, come preziosa risorsa per la collettività. Ed è nato così “Arrivano i Nonni”. Nel 2013, il programma è stato svolto in circa 50 scuole materne in cui ho potuto condividere le mie camilanesi e ne hanno beneficato oltre pacità – continua Silvana –. Credo che 1.500 bambini e famiglie. Il progetto vala cultura “diversa” di cui è portatolorizza esperienza, talenti e abilità delle re un nonno possa costituite l’occapersone “diversamente giovani”, come sione per bambini ed adulti di allarpatrimoni unici e preziosi da trasmettegare i propri orizzonti e superare re, in modo ludico-educativo, ai futuri barriere culturali. La relazione che si talenti, i bambini, con la loro inespeè instaurata con i bambini mi ha rienza e la loro voglia di apprendere. permesso di crescere ancora, nonostante l’età, e assaporare la gioia e le Silvana costruisce fiabe opportunità del sorriso e dell’affetSilvana è una signora di 67 anni, che a to di un bambino». partire dal 2012 ha fatto la volontaria in una scuola materna della sua zona. «Mi ha incuriosito la possibilità di poter enMax, “teacher” a 60 anni trare nel contesto scolastico per offrire Il progetto “Arrivano i Nonni” prouna nuova opportunità sia ai bambini duce effetti positivi sia per i nonni che a me – racconta la signora Silvana –. sia per i bambini. Tutto ciò è conferHo deciso di mettere a disposizione le mato anche da Max, un nonno sesmie capacità e le mie esperienze affisantenne che, come Silvana, ha dedandomi all’Arci, che mi ha indirizzato ciso di prendere parte al progetto presso la materna Sant’Abbondio». Doprestandosi all’insegnamento della po avere incontrato la dirigente e il collingua inglese ai bimbi della scuola legio delle educatrici, è partito un promaterna di via Oglio a Milano. getto che ha coinvolto Silvana tre ore al «Le soddisfazioni personali – giorno per una o due volte la settimana. racconta Max – consistono princiPartendo dalla lettura di un racconto o palmente nel rapporto che si inuna fiaba, nonna Silvana e i bambini di staura con i bambini, che arrivano a tanto in tanto costruiscono insieme, percepire il “nonno” non come un con materiali di riciclo, i personaggi più estraneo, ma come una figura famiimportanti o altri elementi del racconto. gliare; anzi, compatibilmente con le «Questo lavoro mi ha permesso di caratteristiche e la personalità di entrare in un contesto socio-educativo, ogni bambino, molti di loro arriva-

34. scarp de’ tenis febraio 2014

no a manifestare evidenti segni di gratificazione. Il plus, per i bambini, consiste proprio nel rapporto che si instaura col nonno. L’eventuale apprendimento, che è ovviamente diverso da bambino a bambino, è comunque subordinato, a mio parere, al rapporto che si riesce ad instaurare tra diverse generazioni. Questa dinamica ritengo possa valere anche per attività diverse da quella che propongo io». “Arrivano i Nonni” è progetto che si declina in effetti in diverse attività, tutte


scarpmilano

Il progetto

Laboratori in decine di istituti, anziani e piccoli stringono legami

però dedicate ai più piccoli. Vi sono infatti nonni e nonne artisti per creare con tempere, acquarelli e creta; nonni atleti per giocare e imparare come fare attività motoria; nonne danzatrici per ballare in cerchio e imparare a stare insieme; nonne creative per realizzazioni con stoffe e lane e tutti i materiali di riciclo; nonni costruttori per la creazione di giocattoli con gli oggetti di tutti i giorni... Insomma: tanti nonni per tanti bambini. All’insegna della condivisione che fa crescere.

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Una buona occasione per trasmettere ai bambini, in modo ludico e spontaneo, la storia, la memoria e i valori di cui gli anziani sono portatori: è “Arrivano i Nonni”, il progetto che si propone di mettere in relazione persone “diversamente giovani”, con la loro esperienza e le loro capacità, e i bambini, con la loro inesperienza e la loro voglia di apprendere. «Arrivano i Nonni – spiegano da Arci Milano, ente che insieme a Terna ha voluto il progetto –, parte dalla ricerca, la selezione e la formazione di volontari in età anziana, e li propone quindi alla scuola aderente al progetto che si trova più vicina alla loro abitazione, aiutandoli ad avviare una relazione continuativa e duratura con i bambini e gli educatori». Non avendo nessun rapporto di parentela con i bambini che frequentano, i volontari diventano poi “i nonni di tutti”, una preziosa risorsa collettiva per le scuole e gli educatori. «I nonni mettono a disposizione una o più mattine a settimana per tramandare ai bambini mestieri “in via di estinzione”, storie e racconti di vita, o per condividere un proprio talento. La loro presenza nelle scuole materne vuole dunque fornire ai bambini preziose relazioni in più, continuative e durature, e al contempo dare agli adulti coinvolti una possibilità di inserimento sociale che doni loro nuovi legami affettivi, secondo una prospettiva di servizio, ovvero sperimentando l’opportunità di essere utili, protagonisti, attivi, nella crescita di bambini, cittadini e adulti del futuro». Il programma “Arrivano i Nonni” ha ricevuto importanti riconoscimenti durante lo scorso anno. È infatti stato scelto e citato nel “Modello psicopedagogico scuola dell’infanzia” del comune di Milano, in quanto progetto capace di creare o rafforzare il legame tra il sistema scolastico e le realtà sociali esterne. “Arrivano i Nonni” è stato inoltre uno dei tre progetti scelti e analizzati dall’Università Cattolica di Milano nella ricerca “Prendersi cura tra le generazioni”, in quanto caratterizzato da uno stile d’intervento improntato alla relazione, occasione per generare capitale sociale. Il successo di questo programma è deducibile anche dai numeri registrati nell’anno appena concluso: 16 sono i nonni e le nonne che hanno portato i laboratori nelle scuole, 27 i nuovi nonni che hanno fatto richiesta per partecipare al progetto, 50 le scuole dell’infanzia che hanno aderito all’iniziativa, 14 le scuole che hanno avuto la possibilità di ospitare i laboratori dei nonni volontari e 1.500 i bambini coinvolti. febbraio 2014 scarp de’ tenis

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Quali politiche per l’Unione futura? Voci raccolte in diversi paesi

Citycom, l’Europa secondo i suoi cittadini di Stefano Lampertico

Il programma Europe for Citizens promuove la cittadinanza europea attiva, ovvero il coinvolgimento diretto dei cittadini e delle organizzazioni della società civile nel processo di integrazione europea, sostiene progetti finalizzati allo sviluppo di un’identità europea fondata su comuni esperienze storiche e culturali, la valorizzazione del pluralismo, lo scambio di esperienze fra cittadini di diverse aree geografiche, il dialogo interculturale e la reciproca conoscenza. All’interno di questo programma, il progetto “Citycom – Cityzens commissions for Europe 2020” intende informare e coinvolgere i cittadini sulle prospettive politiche, economiche e sociali dell’Unione europea. Con lo scopo di stimolare un dibattito pubblico sulle principali politiche europee nell’ambito della Strategia europa 2020, e promuovere la partecipazione alla costruzione di un’Europa più integrata, democratica, solidale e aperta al mondo, arricchita dalle proprie diversità. Capofila del progetto, la spagnola Promoción Educativa Sociedad Cooperativa. Trai partner la francese Association Jean Monnet, i bulgari di European Information Centre, i polacchi di Polska Fundacja im. Roberta Schumana, gli svedesi di Serus ekonomisk förening e, per l’Italia, Fondazione Caritas Ambrosiana. ulteriormente diminuito l’entusiasmo della popolazione rispetto all’integrazione europea, anche nei paesi normalTappa conclusiva a Milano mente più europeisti. Per questo oggi è Il progetto prevedeva nel suo percorso più che mai necessario mantener vivo quattro diverse attività e tappe: attival’interesse rispetto all’Unione europea, zione di commissioni di cittadini; moper risolvere insieme gli squilibri ecomenti di informazione, dibattito e fornomici e sociali e ricominciare a sognamulazione di proposte sulle politiche re un futuro europeo con una visione europee; raccolta delle raccomandazioche vada oltre il futuro prossimo e i bini dei cittadini e dei rappresentanti delsogni contingenti, così come, 50 anni fa, la società civile; Schuman Parade, ovveavevano saputo fare i padri fondatori, ro una manifestazione a Varsavia e un all’inizio del cammino d’integrazione. evento per diffondere i risultati del progetto. Il percorso ha avuto la sua tappa Quali strategie per il lavoro? conclusiva a Milano, su un tema speciNella tappa conclusiva di Milano, in un fico, quello dell’occupazione e del lavoseminario tenuto presso la sede di Cariro. Con una particolare riflessione sulle tas Ambrosiana, proprio nell’ambito del strategie europee di lotta contro la diprogetto europeo Citycom, in collabosoccupazione. Con la crisi economica è razione con la Rappresentanza a Mila-

36. scarp de’ tenis febbraio 2014

no della Commissione europea e con l’Ufficio di informazione a Milano del Parlamento europeo, è stata riservata una particolare attenzione al tema del lavoro, declinato nell’ambito della strategia Europa 2020. Nel corso del seminario sono state presentate la proposta del “Pacchetto europeo per l’occupazione” e le misure europee per contrastare la disoccupazione giovanile. Il quadro poi si è completato e integrato con la presentazione dei dati sull’occupazione e sulla situazione attuale del mercato del lavoro in Italia e in alcuni paesi europei. Il seminario è stato infine l’occasione per discutere dei possibili sviluppi futuri, a partire dalle raccomandazioni che i cittadini hanno elaborato nell’ambito del progetto Citycom. I diversi partner hanno infatti raccolto e presentato le osservazioni dei gruppi di cittadini delle diverse realtà europee coinvolte. Qualche esempio? Più strategia di integrazione tra politiche di welfare e politiche di occupazione regolare nella cura e assistenza alle persone; più misure concrete per favorire l’ accesso delle donne al mercato del lavoro attraverso l’attivazione di servizi a supporto del lavoro femminile, quali i servizi per l’infanzia e per l’assistenza agli anziani; più investimenti nella green economy per produrre crescita e sviluppo riducendo la dipendenza energetica; più investimenti nelle politiche sociali e nel welfare come volano per la creazione di nuova occupazione, coniugando obiettivi di coesione sociale, contrasto alla povertà, assistenza e lavoro.

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Homeless sotto un palazzo. Finale triste. L’unico possibile?

Un lucido cancello, non si poteva fare altro? di Marta Zanella

Quello che resta, a chiudere questa vicenda un po’ triste, è un cancello nuovo e lucido. Un simbolo al contrario del Natale che stava arrivando, installato nell’atrio di un palazzo di via Pirelli, vicino alla stazione Centrale, separazione netta tra chi ha il diritto di stare dentro, in casa propria, e chi dà fastidio, e deve stare fuori. L’inizio della storia risale all’estate 2010, «durante i mondiali di calcio in Sudafrica», ricordano bene gli inquilini del palazzo di via Pirelli 27. Allora, proprio di fianco al loro portone di ingresso, nel portico antistante alla sede sfitta di una banca, avevano iniziato a radunarsi alcuni senza dimora. Una decina di persone, provenienti dall’Europa dell’est, che bivaccavano nell’androne la notte e si davano i turni durante il giorno perché restasse sempre qualcuno a custodire le loro cose: cartoni, qualche coperta, sacchi a pelo e poco altro. biamo cercato di indirizzarli ai centri di «Da quando si sono sistemati lì, soaiuto, se volessero di posti ce ne sono. no iniziati i problemi», sostiene VincenMa quando sono i senza dimora a rifiuzo Guani, custode del palazzo da cinque tare l’aiuto, noi non possiamo obbligaranni. Nessuno, in realtà, racconta di dili – conferma Magda Baietta, presidensagi vissuti in prima persona, ma il fastite della Ronda –. Sono uomini che si ardio è cresciuto nel tempo. «E anche la rangiano a vivacchiare, ogni tanto tropaura – ammette il custode –. Quando i vano qualche lavoretto e non vogliono condòmini escono, spesso questi uomiin nessun modo essere aiutati. Abbiamo ni li avvicinano, chiedono qualche solcontinuato la nostra presenza portando do, e gli anziani si spaventano». qualche coperta, una bevanda calda, A lui, racconta Guani, problemi seri qualcosa da mangiare». non ne hanno mai dati. «Al mattino andava bene, ci potevi anche parlare, ma poi lungo la giornata iniziavano a bere, e verso il pomeriggio e la sera erano sempre ubriachi. Ho dovuto chiamare la polizia più volte per sedare risse che scoppiavano tra di loro».

Qualche condòmino racconta però altri episodi, tra cui un’aggressione verbale al tabaccaio vicino, che si era rifiutato di regalare delle ricariche per il cellulare. Quando le telefonate dei condòmini all’amministratore sono diventate una costante, lui ha proposto una soluzione. E così all’ultima assemblea di condominio hanno deliberato di mettere un cancello per chiudere l’area del portico e risolvere, la situazione. Non tutti sono stati d’accordo. «È il metodo che non condivido – ha protestato Giovanna Ghidetti, un’abitante del palazzo –. Per quanto il loro modo di vivere non somigli al mio, non mi hanno mai dato fastidio. Quello che mi chiedo è se non si poteva proprio trovare un’altra soluzione: abbiamo speso oltre 5.800 euro per questo cancello, possibile che non si potessero usare quei soldi per aiutare quelle persone a trovare un’alternativa al nostro portico?».

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Nessuno è riuscito ad aiutarli Hanno cercato anche di fare qualcosa, raccontano i condòmini, non se ne sono disinteressati completamente. Ricordano una ragazza incinta, che ha vissuto lì per un periodo. Avevano chiamato la Caritas e lei aveva accettato di farsi aiutare. Ma con gli altri non si è mai potuto fare niente. La Ronda della carità e della solidarietà li incontrava regolarmente, ogni venerdì sera, sotto il “loro” portico. «Abfebbraio 2014 scarp de’ tenis

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storie di via brambilla Da Triboniano a una casa Aler: l’integrazione dei rom non è un miraggio

Lucan e l’occasione buona: «Anche noi sappiamo inserirci» di Paolo Riva

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A SIGNORA MARIA, QUASI TRE ANNI FA, non aveva idea di chi sarebbero stati i suoi nuo-

vi vicini di casa. «Quando sono arrivati – spiega – ho bussato alla porta, mi sono presentata e ho detto loro che se avevano bisogno di qualcosa potevano chiedere a me. Non sapevo da dove arrivassero e, onestamente, da come si sono comportati fin dai primi giorni, pensavo prima stessero in un’altra casa». E invece no. L’appartamento di fianco al suo era stato assegnato a una delle famiglie che erano appena uscite, con l’accompagnamento della Casa della carità, dal campo rom regolare di via Triboniano, chiuso nel maggio 2011 per i lavori in vista dell’Expo. «I primi giorni eravamo un po’ a disagio – ricorda Lucan, il capofamiglia –. Al campo eravamo insieme a parenti e amici, mentre qui è diverso. Poi, in qualche settimana, ci siamo abituati. Anche perché in Romania non vivevamo certo in palazzi, ma nemmeno nelle baracche. Sono cresciuto in una casa di campagna, non di lusso, ma con acqua e luce». L’inserimento nel quartiere è stato graduale, ma positivo, aiutato dagli operatori della Casa della carità. «Jean Pierre e Nadia ci hanno seguiti per la burocrazia, per il lavoro e per la scuola dei ragazzi», continua Lucan, che ha due figli, un maschio che sta finendo le elementari e una femmina che le ha appena iniziate. Ed è una grande amica proprio della signora Maria. «Fin dall’inizio mi sono trovata molto bene con tutta la famiglia, soprattutto con lei – dice Maria, mentre la bambina le abbraccia le gambe –. Viene da me dopo la scuola, ci facciamo compagnia giocando insieme. E fa i capricci quando la mamma la viene a prendere: a volte dorme persino da me». Quella socialità che, seppur in condizioni pessime, al campo esisteva, la famiglia di Lucan pian piano se l’è ricostruita anche nel nuovo quartiere. Ora lui prende il caffè col portinaio e sua moglie porta il pane fatto in casa da lei agli inquilini del secondo piano. E se il loro è un esempio di un percorso sicuramente ben riuscito, non è di certo il solo. Il Triboniano ospitava infatti oltre 600 persone, rom provenienti dall’ex Jugoslavia e dalla Romania. Più di cinquanta nuclei famigliari entrarono nel progetto della Casa della carità: ad alcuni di loro venne assegnata la casa popolare secondo graduatoria, altri trovarono un affitto, uno riuscì addirittura a comprare un appartamento ottenendo un mutuo, una ventina sono stati inseriti in abitazioni Aler fuori graduatoria (perché non abitabili) date in affitto e ristrutturate dalla Casa della carità. L’allora ministro dell’interno Roberto Maroni, autore del piano per l’emergenza nomadi decretata dal governo e dichiarata anni dopo illegittima dal Consiglio di Stato, affermò che quelle case non sarebbero mai state assegnate ai rom, nonostante gli accordi già firmati col comune. Ne nacque una battaglia legale: alla fine, a vincerla furono le famiglie, che oggi in quelle case si sono rifatte una vita. «Tutti – conclude Lucan – pensavano che i rom avrebbero combinato chissà cosa. Invece abbiamo dimostrato se ci viene data un’occasione, anche noi siamo in grado di inserirci nella società».

Insieme alla moglie e ai figli, è inserito bene nel quartiere. La piccola torna da scuola, e bussa alla signora Maria...

www.casadellacarita.org

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38. scarp de’ tenis febbraio 2014


Tetraedro


torino

Gelido inverno, sei un’occasione Il piano anti-freddo del comune supera la logica dell’emergenza. Rafforza i servizi per gli homeless, per favorirne l’integrazione di Vito Sciacca Il sopraggiungere della stagione invernale assume una rilevanza drammatica per tutti coloro che sono costretti a vivere in strada. Ogni anno le cronache riferiscono di persone senza tetto morte assiderate: se trascorrere una notte gelida all’aperto è un’esperienza spiacevole per chiunque, condizioni di salute precarie magari aggravate dall’abuso di alcolici – assunti nell’erronea convinzione di scaldarsi – possono avere conseguenze nefaste, quali la contrazione di gravi patologie polmonari fino alla morte per assideramento. Per scongiurare questi pericoli, da parecchi anni il comune di Torino, come altri in Italia, ha programmato piani d’intervento per fornire un riparo notturno a tutti coloro che non riescono ad accedere alle case d’ospitalità notturna presenti in città. L’aspetto più appariscente di questi provvedimenti è la presenza in un parco cittadino di alcuni moduli prefabbricati forniti di letti, sorta di dormiIn un grande giardino fiorito, torio provvisorio cui si può accedere senza particolari formalità: strutture e da molto verde attorniato, procedure non dissimili da quelle impiegate in occasione di catastrofi natu- spiccava da lontano un miglio, rali. Tuttavia esistono altre strategie, un candido, delicato giglio; meno visibili ma non meno importanin tutta la sua delicatezza ti, poste in campo nel periodo invernanotavo tutta la sua purezza le da soggetti “non addetti ai lavori”.

Candido Giglio

Il nuovo piano invernale Il comune di Torino quest’anno ha adottato un approccio differente rispetto agli anni precedenti, a cominciare dal nome: il termine “Emergenza freddo” non rispecchia la realtà, dal momento che le condizioni climatiche invernali di Torino non costituiscono certo una novità inattesa. Il nuovo “Piano invernale”, come viene chiamato attualmente, è animato da una filosofia differente, che considera la situazione un’opportunità, piuttosto che un’emergenza cui rispondere: è l’occasione per agganciare persone fragili, che solitamente non accettano di avere contatti con i servizi sociali. «La città – spiega il dirigente del ser-

40. scarp de’ tenis febbraio 2014

facendo eco al candore della tenera Marinella, immacolato fiore. Marinella, dolcissima, pudica, giovane donna, Marinella, che il suo essere assomiglia molto alla Madonna. Mr Armonica

vizio “Prevenzione fragilità sociali e sostegno agli adulti in difficoltà” del comune di Torino, Uberto Moreggia – è stata particolarmente attenta alle esigenze dei senza dimora, stanziando nell’ultimo bilancio 300 mila euro che, aggiunti a quelli assegnati dalla prefettura, portano a circa mezzo milione di euro la cifra destinate a far fronte ai bisogni del periodo. Non si è trattato soltanto di aumentare i posti letto, ma di rafforzare la rete già esistente, intensificando gli interventi di tipo educativo». Sul fronte dell’ospitalità, il comune ha riallestito dai primi di dicembre la


scarptorino struttura ubicata nel parco della Pellerina, capace di 120 posti (espandibili a 170, in condizioni climatiche particolarmente avverse) e sono stati assegnati contributi per l’attivazione di un ulteriore punto, in una zona il più possibile centrale, utilizzabile come riparo diurno per evitare lunghe permanenze in strada. Inoltre sono state aperte due strutture capaci di 40 posti letto: presso un ex padiglione del Cottolengo e in uno stabile comunale in via Reiss Romoli. Da ultimo sono stati incrementati i posti letto in tutti i dormitori cittadini preesistenti, nei quali l’orario di apertura è stato anticipato alle 19.

Più socialità, meno emergenza Ma, come detto, quest’anno il comune ha operato con una strategia differente: «È stato potenziato il lavoro educativo di prossimità – prosegue Moreggia –, ovvero il lavoro in strada, raddoppiando il servizio di “boa” notturna, che ha il compito di contattare persone che dormono in strada e accompagnarle, se lo desiderano, in una struttura; anche l’orario di servizio è stato prolungato, (dalle 18,30 alle 2). Ma, soprattutto, sono state incrementate le ore di accompagnamento e di educativa nei dormitori, al fine di potenziare il lavoro di

I progetti

Sosta, birreria e Opportunanda: c’è un tetto anche di giorno... Anche il volontariato e il privato sociale sono tra i protagonisti del nuovo “piano invernale” del comune di Torino. Nel piano sono infatti previsti contributi per chi opera a vario titolo con le persone senza dimora, gestendo asili notturni o centri diurni, al fine di consentire un ampliamento delle prestazioni. Di questo clima di sinergia tra volontariato e settore pubblico, è emblematico il lavoro del centro diurno “La Sosta” di via Giolitti 40, gestito da Caritas e Sermig in locali di proprietà del comune e amministrati da Atc (Agenzia territoriale casa). Inaugurato nel febbraio 2012, il centro, che vanta un’affluenza media giornaliera di 80-100 persone (che nella prima parte dell’inverno hanno toccato punte di 120 presenze), ha avuto fin dall’inizio un obiettivo chiaro: non limitarsi a essere un luogo di permanenza temporanea, ma garantire la socializzazione, mettendo a disposizione una rete di sostegno per aiutare le persone nella ricerca di lavoro, casa e reinserimento sociale. Un’altra struttura nata in seguito agli stanziamenti comunali è il centro diurno di via San Domenico 6F. Situato in un locale Arci e gestito dall’associazione “Terra del Fuoco”, presenta alcune particolarità. Innanzitutto nell’aspetto, che è quello di una birreria, cosa che, spiega la responsabile Mari Rizzo, è stata voluta per far sì che gli ospiti possano godere di un locale in cui sentirsi a loro agio; aperto dal 20 dicembre fino al 20 marzo tutti i giorni dalle 14 alle 20, oltre che ospitalità e supporto fornisce cena dalle 17,30 alle 18, orario imposto dalle ore di apertura dei dormitori. I pasti, oltre che dal Banco alimentare sono forniti dalla Croce Rossa di Settimo Torinese e trasportati dal servizio consegna pasti del comune. Un’altra particolarità è data dalla tipologia di utenti: prevalentemente italiani, tra essi spicca un’alta percentuale di donne. Non va inoltre dimenticata l’associazione “Opportunanda,” di via Sant’Anselmo 12, che gestisce uno storico centro diurno aperto dalle 8,30 alle 11,30, che nei mesi invernali vede quasi raddoppiare il numero delle presenze. Da ultimo, una raccomandazione. Se doveste notare qualcuno che dorme all’addiaccio, telefonate alla centrale operativa della polizia municipale (011.4606060) o contattate l’ufficio comunale “Adulti in difficoltà” (adulti@comune.torino.it), affinché la persona sia contattata dagli operatori della “boa” e le venga proposto il pernottamento in una struttura. Un gesto semplice, ma che potrebbe salvare una vita. V.S.

contatto e accompagnamento delle persone verso altre risorse». Non va dimenticato inoltre l’ambulatorio socio-sanitario “Roberto Gamba”, aperto in via Sacchi 49 dal lunedì al sabato, dalle 15,30 alle 18,30: in esso, oltre a supporto medico e docce, sono presenti educatori che possono indirizzare l’utente verso le risorse disponibi-

li, spesso contattandole nel territorio. Anche in questo caso sono state aumentate le ore d’apertura. Riguardo al problema degli anziani senza dimora, infine, si prevede di porre in atto iniziative volte a sottrarli in maniera definitiva alla vita di strada, spesso incompatibile con le loro condizioni fisiche, oltre che con la loro età.

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febbraio 2014 scarp de’ tenis

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genova La situazione dei rom, dopo la recente chiusura del campo di Prà. Si studiano progetti di integrazione, tra molti ostacoli

Sgomberi, e poi? Il dialogo non è facile di Paola Malaspina Le immagini, a colori, sgranate, campeggiano sugli spazi web della cronaca locale: la fila di baracche nel quartiere di Genova Prà, estrema propaggine a ponente della periferia cittadina; i volti rassegnati, arresi, di uomini, donne e bambini. Sono le famiglie rom del campo di Prà, oggetto dell’ultimo sgombero da parte dell’amministrazione cittadina, obbligate a lasciare una sistemazione – quella dell’area suburbana – che ormai non presentava più alcun margine di accettabilità dal punto di vista dell’igiene e della lamiera, ancor più pericolose da quesicurezza. sto punto di vista rispetto alle tradizioSono immagini che fanno male, e nali roulotte». seguono di poco più di un mese ad alUna riflessione, questa, alla base tre, peggiori, risalenti a un brutto epidelle scelte immediatamente successisodio di cronaca: l’incendio colposo di ve, primo fra tutte lo sgombero del un altro campo, dietro il mercato ortocampo di Prà, una decisione senz’altro frutticolo di Bolzaneto, che solo per un non facile, ma ritenuta necessaria dalcaso fortunato non ha causato feriti. l’autorità comunale per fronteggiare le prime emergenze, legate al freddo e alEmergenza freddo e salute la sicurezza delle persone presenti in «Quella dei rom a Genova è una situaquesti insediamenti. zione emergenziale che l’amministraLa realtà dei campi genovesi è cozione cittadina sta cercando di affronmunque particolarmente variegata e tare sotto molti punti di vista – spiega complessa, anche per via della morfoClaudia Lanteri, responsabile dell’area logia del territorio, con la città “schiacmarginalità e immigrazione per la direciata” a ponente e a levante dai monti e zione politiche sociali del comune –. la presenza di vaste aree, prima induDopo l’incendio di Bolzaneto si è posto striali o commerciali, ora dismesse. «In in modo particolare l’accento sui protutto – prosegue Lanteri – ragioniamo blemi di sicurezza negli insediamenti su una realtà metropolitana che precittadini, legati ai sistemi di riscaldasenta circa 12 campi, tra aree di cammento nei mesi invernali: le bombole per, baracche o strutture abbandonate. attualmente in uso rappresentano un In ogni campo, a partire da un’azione fattore di alto rischio nei campi genodi censimento che il comune ha intravesi, perlopiù costituiti da baracche in preso da ottobre dello scorso anno, sono state individuate mediamente 30-40 persone, per una presenza stimabile intorno alle 350 unità. Il nostro intento era andare a conoscere meglio questa realtà, per meglio proteggerla, ma come prevedibile, siamo andati incontro a una serie di difficoltà non da poco».

Quando aiutare è difficile La difficoltà di porre in essere politiche e azioni utili a migliorare la qualità del-

42. scarp de’ tenis febbraio 2014

la vita di persone rom e sinti è un dato di fatto, una realtà con cui inesorabilmente ci si confronta, gestendo il problema, anche su piani diversi, quello dell’emergenza in primis e quello dell’integrazione poi. A confermarlo è Alberto Mortara, della Fondazione Auxilium, impegnate

nel campo di Prà, insieme alla Comunità di Sant’Egidio: «Anche se da un punto di vista abitativo – spiega Mortara – vengono approntate soluzioni provvisorie di vario tipo, come l’inserimento in strutture alberghiere o scolastiche, è comunque difficile progettare per queste persone percorsi di aiuto, specie se parliamo di adulti. Ad esem-


scarpgenova Il racconto

Sejad escluso dalla piscina: «Ma poi è arrivato il teatro»

pio, il tradizionale canale di sostegno destinato ai senza dimora, che offre servizi di docce e dormitorio, è utilizzato malvolentieri e con diffidenza, anche per via di un fatto culturale. I rom tengono molto ai legami familiari e difficilmente accettano di alloggiare in strutture che separano uomini e don-

Impossibile continuare Lo sgombero del campo di via Prà non era più rimandabile

ne, anche per brevi periodi di tempo. Senza contare le situazioni sanitarie, complesse, in nuclei familiari che per lo più contano 4 o 5 bambini. Di certo, c’è anche un problema relazionale e di dialogo, non facile tra rom e non rom, che rende per queste famiglie ancor più gravoso il rischio di finire sulla strada, senza alcuna protezione».

L’affermazione dei diritti fondamentali delle persone rom e sinti appare una meta lontana. Una condizione difficile da accettare, soprattutto a Genova, città da sempre percorsa da flussi di persone nomadi e migranti. Basti pensare che il capoluogo ligure non è stato inserito dal ministero dell’interno nella rete di città in emergenza per questo argomento, anche per via della consistenza numerica delle presenze, che è inferiore alle mille unità. Eppure la città presenta una realtà molto viva sul versante delle iniziative di accoglienza e integrazione e si è anche attivata nell’ambito della “Strategia nazionale per i Rom, Sinti e Camminanti per il 20122020”, tra le città “campione” nelle quali attivare azioni positive di integrazione a sostegno dei membri di questi gruppi etnici. infine, non è male ricordare che Genova è la stessa città di Pino Petruzzelli, l’autore dello spettacolo Zingari. L’olocausto dimenticato e del libro Non chiamarmi zingaro, che pochi anni fa ha commosso migliaia di lettori con storie comuni di rom, sinti e altre minoranze perseguitate, ormai stabilmente insediate in Italia, sempre alla ricerca di un riconoscimento di diritti e possibilità cha tardano ad arrivare. Proprio Petruzzelli, poco più di quattro anni fa, insieme all’attrice Dijana Pavlovic e ad altri artisti, realizzò a Genova un laboratorio teatrale per dieci ragazzi provenienti dai campi rom genovesi: un modo come un altro di esorcizzare l’emarginazione e il bisogno, dal momento che, ricorda l’autore, «come diceva Eduardo De Filippo, chi ruba è perché non ha altra scelta, dunque proviamo a dargliela». Uno di quei ragazzi, Sejad, di quel laboratorio si ricorda ancora, come di un’esperienza che gli ha cambiato la vita. Trent’anni, impegnato oggi in tanti progetti, tra cui quello di mediatore culturale in diverse scuole del territorio, descrive la sua infanzia come quella del ragazzino accanto al quale nessuno a scuola voleva sedersi, o del bambino che, neppure coi soldi in mano, aveva accesso alla piscina comunale, perché “zingaro”. «Eppure proprio dallo sport è venuta la spinta per cambiare, e per questo ne pratico ancora l’insegnamento come professione – racconta –. Poi è venuto il teatro, e la possibilità di raccontare la mia storia. Da allora, insomma, la mia vita è cambiata, e voglio guardarmi indietro per dare una mano a tutti quelli che partono da un campo rom». La partenza, appunto, di un cammino difficile e in costante salita. Ma possibile e doveroso da percorrere, per una comunità futura più sostenibile e più giusta.

All’anagrafe e a scuola Un problema globale di inserimento, insomma, già spinoso a livello di gestione emergenziale. E che si fa ancora più critico quando entrano in campo parole come integrazione e promozione della persona. «Per queste persone l’inserimento è problematico, anche solo a livello anagrafico – continua a spiegare Lanteri –, in quanto risultano per lo più sprovvisti di documenti, se non di un

passaporto rumeno; è spesso difficile ricostruire la rete di individualità anagrafiche, personali e familiari. Parimenti risulta complesso l’inserimento scolastico, specie per quei ragazzi, di età tra i 12 e i 15 anni, poco plausibilmente inseribili nelle prime classi delle scuole primarie; per loro occorre pensare a percorsi di recupero scolastico ad hoc». Ma anche questo fa parte di progetti che per ora appaiono assai difficili da realizzare.

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verona

La Locanda è bella, l’invisibile sparisce Nel centro d’accoglienza rinnovato, c’è spazio per relazioni vere

di Elisa Rossignoli La Locanda del Samaritano, ristrutturata con il progetto “La bellezza vince sempre”, di cui Scarp ha scritto nello scorso maggio, è tornata ad aprire le sue porte anche come spazio di accoglienza invernale. Nel periodo più freddo, di solito fra novembre e aprile, i 26 posti letto disponibili (più uno riservato alle emergenze) ospitano chi, per diversi motivi, non trova accoglienza nel normale circuito dei dormitori. Questo è il primo anno di apertura dopo la ristrutturazione, ma alla Locanda, gestita dall’associazione Il Samaritano, legata alla Caritas diocesana, l’accoglienza nei mesi invernali si effettuava già dal 2009. Dalle 21,30 alle 23,30 la struttura, che fino alle 19 ospita il centro diurno, riapre dunque le porte per accogliere chi vi dormirà la notte, nell’area soppalcata. Di anno in anno, l’accoglienza si è ampliata e normale diffidenza, sia fra loro che nei arricchita. E ora, nell’edificio ristruttunostri confronti – spiega Fabio, neorato, oltre alle stanze da letto e ai bagni, operatore delle notti in Locanda –. Graè a disposizione anche uno spazio codualmente, però, mentre l’inverno, là mune confortevole, in cui ci si può ferfuori, si faceva sentire, il clima all’intermare per quattro chiacchiere in comno si è “riscaldato”, e ora circa la metà pagnia, con qualcosa da mangiare e un delle persone che ospitiamo usufruibicchiere di té. L’accoglienza è gestita scono dello spazio comune fino all’ora da due operatori e dai volontari. del silenzio, le 23,30. Si guarda insieme un po’ di tv, ma soprattutto si fanno dei La bellezza che rassicura gran partitoni a dama e si chiacchiera. «All’inizio dell’apertura invernale si reTutto ciò mi fa capire quanta differenza spirava da parte degli ospiti un po’ di

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faccia non solo dormire in un luogo riparato anziché fuori, esposti alle intemperie, ma anche dormire in un luogo bello e accogliente: l’umore delle persone cambia, si rilassano, si sentono bene e man mano che i giorni passano questo è via via più visibile». Vittorio, volontario che da tre anni gestisce l’accoglienza serale, sottolinea questo aspetto: «Il mio compito è preparare l’ambiente: il tavolo con qualcosa da mangiare, bicchieri e tovaglioli. Allestisco il tutto in modo che sia bello da vedere, oltre che funzionale. La cura di questi dettagli è importante, qui come in ogni altro luogo. Questo, insieme ai locali vivaci, colorati e rinnovati, crea un impatto positivo tangibile: mi capita di sentire una persona accolta dire “che bello” quando entra». Il rapporto tra gli operatori e le persone che vengono accolte, inizialmente basato sul meccanismo bisogno-ri-


scarpverona sposta, sta diventando altro. «Diventa relazione – prosegue Fabio –. Sempre più spesso la sera noi operatori ci sentiamo chiedere dagli ospiti come stiamo, com’è andata la giornata. C’è sempre qualcuno che ha voglia di scherzare, cosa non scontata, e anche chi ha voglia di stare allo scherzo. Insomma, si sta creando un clima familiare. Il “freddo” è davvero soltanto là fuori, adesso».

Il “clima di fine giornata” Maurizio, “volontario della notte” da tre anni, sorride e conferma: «A me piace chiamarlo il clima da fine giornata, come quando si è a casa in famiglia e si conclude insieme il giorno, ciascuno a modo suo. Abbiamo imparato a “leggere” i modi di ciascuno. Non tutte le giornate sono uguali, nemmeno noi lo siamo, è importante che ciascuno sappia che può essere chi è. Capire i tempi degli altri richiede attenzione ma, dopo tre anni di servizio, vedo che arriva sempre il momento in cui il rapporto “a senso unico” si trasforma, fino a una reciprocità non più basata sul chiederericevere, ma sull’incontro fra persone. E vedo accadere puntualmente anche un’altra cosa: inizialmente ci sono gli “invisibili”. Arrivano, entrano, spariscono più in fretta che possono, quasi scivolando via. Poi, pian piano, nella relazione, prendono concretezza corporea: c’è la pacca sulla spalla di un “come va?”, c’è la stretta di mano, c’è una vicinanza fisica più consapevole. Gli invisibili spariscono, lasciando spazio alle persone. Attraverso la relazione prendiamo tutti concretezza. Anche noi».

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Testimonianza

«Seguendo le orme nella neve trovammo uno tra i primi ospiti» ERA UNA NOTTE BUIA E TEMPESTOSA. La “Locanda” è stata aperta per la prima volta cinque anni fa. «Era Il 21 dicembre 2009 – ricorda Vincenzo –: alle 19 in punto, con meno 7 gradi, 20 centimetri di neve. Ci eravamo accordati per andare a prendere i nostri primi ospiti alla mensa dove avevano cenato, e accompagnarli qui per la notte. Aspettavamo cinque persone, sono arrivati solo in quattro: uno di loro si era perso. Qui in zona industriale le strade sembrano tutte uguali, figuriamoci poi con il buio e la nevicata! Ma è proprio grazie alla neve che lo abbiamo ritrovato: seguendo le uniche impronte sulla strada imbiancata lo abbiamo individuato a un incrocio. Insieme siamo entrati alla Locanda, mentre continuava a nevicare. E così tutto è iniziato». HO AMMIRATO IL CORAGGIO. Alessandro ha lavorato come volontario il secondo anno dell’accoglienza alla Locanda. All’epoca era nuovo di zecca nel lavoro con le persone senza dimora. Per lui questa esperienza ha significato molto. «Per prima cosa – racconta –, venire a contatto con le storie delle persone, un contatto diretto, è stato impagabile. Ha significato cambiare radicalmente la mia mentalità. Provenivo da un’esperienza molto strutturata, avendo lavorato con le persone disabili. Anche esse sono portatrici di ferite e fragilità, ma le ferite e le fragilità incontrate alla Locanda erano tutt’altra cosa, spesso le accompagna una solitudine profonda, palpabile. È un impatto che nessuno può mediare: qualunque persona, in qualunque stato arrivi, la incontravi tu, direttamente, faccia a faccia. La Locanda mi ha insegnato che chi vive in strada non lo fa per tratti della sua personalità, ma per una storia che lo ha portato lì. E incontrandoci come persone scopriamo che è più ciò che ci accomuna che ciò che ci allontana. Ho imparato anche a riconoscere e ammirare il coraggio: ricordo uno dei nostri ospiti che partiva tutte le mattine alle cinque e mezza in bicicletta, in pieno inverno, per andare a lavorare a 20 chilometri di distanza e la sera tornava a dormire in Locanda. Mi sono chiesto se io avrei potuto avere mai quel coraggio. Probabilmente no». V.S.

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vicenza Un riparo alla stazione. La città “presidiata”, dopo cena, da chi è senza dimora. Cronaca di un’uscita con il gruppo di strada

I padroni della notte invitati nella “stanza” di Cristina Salviati Da qualche settimana alla stazione di Vicenza ha riaperto la “stanza”, un locale riparato e riscaldato dove trova accoglienza chi dorme in strada. La “stanza” è aperta per tutta la durata dell’inverno. Il gruppo di strada della Caritas diocesana si è offerto di portare la notizia a quelli più nascosti e invisibili, conosciuti in questi anni di servizio. L’uscita è programmata, come al solito, il mercoledì sera. Destinazione: il settore ovest della città, verso la parrocchia che sempre improvvisa ricoveri per chi non sa dove andare. Mentre ci avviciniamo alla zona in auto, facciamo il ripasso delle nostre conoscenze, e ci viene subito da sorridere. S. che seguiamo da molto tempo è a casa del fratello e di notte non lo si incontra più, stordito e impedito nei movimenti dal tanto alcol ingerito durante il giorno. Per salutarlo bisogna andare di mattina, al no, quando non sappiamo se, ubriaco solito supermercato, dove si reca per accom’è, riuscirà ad andarsi a prendere i quistare quel po’ di vino di cui non può cartoni e le coperte che di giorno nafare a meno. sconde chissà dove. Ora a casa di qualUna spina nel fianco, S.: ci preoccucuno che cerca di accudirlo, forse riupa d’estate, quando si abbandona sotscirà a trovare la forza per uscire da queto il sole sull’asfalto bollente, e d’inversta situazione. Inutile cercare anche P., che da qualche giorno ha deciso di accettare l’ospitalità dell’albergo cittadino. Un altro sorriso si accende per M.: a furia di insistere, le due figlie sono riuscite a conDal 7 gennaio alla vincerlo a tornare a casa, con loro. stazione ferroviaria di Vicenza

Un locale e brande alla stazione è aperta una stanza riscaldata e dotata di brande e coperte. È accessibile dal lunedì alla domenica, dalle 21 alle 7. Per accedere non serve alcuna autorizzazione né iscrizione. Si trova dopo lo sportello della Bnl, guardando la facciata della stazione a sinistra, in un piccolo corridoio. Il gruppo “condivisione di strada” della Caritas, insieme alla Croce Rossa, monitora ogni settimana il numero di persone che vi accedono. Il numero di brande può aumentare in caso di bisogno. Ad aprire e chiudere la stanza sono gli operatori della cooperativa Cosep, che ha in gestione l’Albergo cittadino.

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Le “case” nei prati Arrivati a destinazione, scavalchiamo il cancello del giardino della parrocchia per andare a vedere sotto la legnaia. Scostiamo il nylon ed eccoli lì: due marocchini abbracciati che tentano di riscaldarsi a vicenda tra la legna e le coperte umide. Uno di loro esce e racconta di aver provato a dormire a Casa San Martino, ricovero Caritas: «Si dorme poco – dice –: troppo rumore, russano tutti e continui a svegliarti». Scherziamo un po’, chiedendogli se il suo compagno non russa, e lo avvertiamo della “stanza” in stazione; si dice contento e ci assicura che andrà là a dormire. Teniamo per noi il pensiero che, se ritiene rumoroso il dormitorio Caritas, chissà come giudicherà una stanza nella quale

chiunque può entrare, a qualsiasi ora... Offriamo un po’ di tè caldo e il marocchino di rimando ci chiede un caffè. Domanda imbarazzante. Vicenza è una città molto “austriaca”, sono solo le 9 di sera, ma in giro non c’è nessuno e i bar, specialmente in periferia, sono chiusi. Ci guardiamo intorno, le case sono tutte sprangate, con le tapparelle abbassate, in strada solo la luce dei lampioni, il resto è buio e silenzio. In questa città così deserta la notte è di chi non ha un tetto: sono loro a viverla, a prenderne possesso. Un rapido giro intorno alla chiesa ci dice che G. e il suo compagno dormono


scarpvicenza ancora lì, coperte e cartoni sono già pronti per la notte, ma la coppia di senza tetto ancora non è “rientrata”. Ci viene da parlare di “casa” per questo giaciglio poco riparato e così sfacciatamente visibile, su un lembo di prato a ridosso della canonica. Sarà perché è in ordine, o perché non ci sono immondizie, o perché è ancora addobbato per Natale. Proprio così: esistono anche case senza tetto ma con l’albero di Natale, come questa dove, accanto ai cartoni, alcune palline colorate brillano appese a un albero del giardino della parrocchia.

L’iniziativa

Quelli dell’Ultimo, festa solidale Scarp con la carica dei 440

Fued che aiuta i connazionali Risaliamo in macchina e decidiamo di andare a est, abbiamo un amico là, che dorme in un sottopassaggio. Ma la stanza in stazione non fa per lui: così schivo e introverso non accetterebbe mai di dormire in una situazione promiscua. E allora ci fermiamo in uno dei supermercati più gettonati, perché ha una grata da cui fuoriesce l’aria calda dei magazzini. Eccoli là, un’intera compagnia di arabi: stasera sono in nove. Ci colpisce un giovane, che rimane in piedi. È vestito con cura e fa da portavoce: «Non sono senza dimora –

Senza tetto, con l’albero Un albero di Natale “di strada” tiene compagnia a due senza dimora nella loro “casa “

Oumar, Ficret e Duro (da sinistra verso destra), venditori vicentini di Scarp de’ tenis, si intrattengono con due clown volontari dell’ospedale. È il 31 dicembre 2013: dalle porte della chiesa di San Giuseppe al Mercato Nuovo fra pochi minuti usciranno 440 ragazzi, raccoltisi nel tempi per partecipare a “Quelli dell’Ultimo”, evento organizzato dalla Caritas diocesana di Vicenza per i giovani. Centinaia di loro scelgono di trascorrere Capodanno affrontando momenti di riflessione e preghiera, oltre che naturalmente di festa. E di condivisione e servizio. I giovani di “Quelli dell’ultimo” si sono distribuiti in 50 realtà di disagio, emarginazione, solitudine (strutture di accoglienza per senza dimora o per mamme sole con bambini, centri per anziani o per persone disabili o sofferenti di disagio mentale, comunità per tossicodipendenti o che offrono percorsi alternativi al carcere), trascorrendovi alcune ore in compagnia delle persone che vi dimorano o vi fanno riferimento. E Scarp ha vissuto con loro alcuni momenti dell’entusiasmante esperienza

esordisce –: lavoro e sono papà di tre splendide figlie. Mia moglie è italiana; così, un po’ per evadere dalle donne, un po’ per parlare la mia lingua, vengo qui ogni tanto e chiacchiero con questi compaesani». Scopriamo così che Fued, con la scusa di venirli a trovare, fa servizio in strada, come noi, e sta cercando di convincere uno del gruppo a tornare in patria. «È l’unico in realtà che stanotte dormirà in strada – ci spiega il giovane – ed è sempre ubriaco. Gli altri hanno casa e qualcuno di loro anche un lavoro, ma E. sarebbe meglio che si ricongiungesse alla sua famiglia, continuando co-

sì rischia solo di morire presto». Prezioso, questo interessamento di Fued; qualcuno che parla arabo servirebbe anche in Caritas: lo invitiamo a venire, a unirsi ai volontari del ricovero notturno. Restiamo lì a lungo, sorseggiando il tè e scherzando sui nomi di tutti noi, finché Joseph si alza in piedi. È un omone di due metri e passa, chiude il dibattito dicendo che il suo nome è più bello di tutti, perché uno così alto stasera non c’è. Scoppiamo a ridere e la nostra uscita di strada si conclude qui, con la promessa che Joseph e gli altri accompagneranno E. in stazione.

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rimini Aumentano le vendite di alloggi da parte di persone che vi rimangono ad abitare. Dietro il business, problemi sociali

Nuda proprietà, affare per tutti? di Angela De Rubeis Come si chiameranno: proprietari nudi? Affittuari proprietari? Locatori già locatari? Un nome preciso non ce l’hanno.Ma sono in tanti. E sono soprattutto anziani. Stiamo parlando di tutte le persone che negli ultimi anni hanno venduto la loro casa in nuda proprietà. In Italia sono più di 85 mila gli anziani che hanno già intrapreso questa strada, con un incremento del 12,5%, nei primi dieci mesi del 2013, rispetto all’anno precedente. Età media: 75 anni. In poche parole, il proprietario di un’abitazione sceglie di vendere la propria casa con la possibilità di viverci dentro sinché è in vita, come un affittuario ma senza pagare l’affitto. La vendita della casa in nuda proprietà permette di monetizzare la cessione dell’immobile senza perdere il diritto abitativo sulla stessa. Ma perché negli ultimi anni questo fenomeno è cresciuto, e soprattutto aspetti – un allarme sociale? Semplice, perché la Spi Cgil nazionale e Confabiperché se una volta la nuda proprietà tare (associazione di proprietari imveniva utilizzata tra familiari per evitamobiliari) stanno monitorando questo re le spese di successione, adesso viene fenomeno definendolo – per alcuni utilizzata da genitori che hanno biso-

gno di aiutare figli in difficoltà economica, da soggetti cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito o semplicemente da chi non riesce più a tirare avanti con la pensione.

Opportunità o necessità? Nuda proprietà: opportunità o necessità? Lo chiediamo a Daniela Montagnoli, presidente di Confabitare Rimini.

Il punto

L’appartamento nel grattacielo e le numerose “forme miste” Anche a Rimini ci sono case in vendita in nuda proprietà. Attualmente (metà gennaio) on line ci sono quattro offerte di vendita di case, una delle quali fatta da due coniugi di 89 anni. Da www.casanuda.it si accede a quattro annunci dislocati nella provincia riminese. Si tratta di un appartamento a San Clemente di 130 metri quadri, messo in vendita a 95 mila euro, gli altri sono tutti a Rimini. Il primo si trova all’ultimo piano del grattacielo, 90 metri quadri che vengono venduti a 125 mila euro se in nuda proprietà e a 150 mila euro in una normale compravendita (questo denota che i proprietari sono abbastanza anziani, visto che il prezzo in nuda proprietà si avvicina di molto a quello della vendita semplice). C’è poi un immobile a Rimini di 105 metri quadri, venduto a 250 mila euro e i 140 metri quadri di Marina Centro messi in vendita dalla coppia di coniugi di 89 anni di cui abbiamo già detto; quest’ultimo caso è l’unico nel quale viene esplicitata l’età dei venditori. A questi quattro casi vanno aggiunti quelli di cui si occupa direttamente Confabitare (una decina nell’ultimo anno). Invece dal sito www.immobiliare.mitula.it si accede a 44 casi di nuda proprietà in provincia di Rimini: si tratta per lo più di forme miste, ossia della possibilità di vendere sia nel modo classico che in nuda proprietà.

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Partiamo dal presupposto che l’Emilia Romagna è la prima regione italiana per trattative in nuda proprietà (oltre il 35%): come si palesa in provincia questo fenomeno? Si tratta di un fenomeno molto più presente nelle grandi città. Infatti Bologna è la prima in Italia. Ma anche da noi sta


scarprimini prendendo piede. Si tratta spesso di persone sole, che non hanno eredi e che, molto intelligentemente, vogliono vivere meglio la loro vita, avendo la possibilità di usufruire di una somma di denaro. Nell’ultimo anno mi sono passati tra le mani almeno una decina di casi. Spesso ci arrivano dalle banche. Quando un proprietario si rivolge a una banca, che non può concedere un prestito, viene anche informato della possibilità della nuda proprietà. I contratti stipulati tra venditore e acquirente sono standard, o hanno margini di differenziazione? Si può differenzare. Per esempio c’è chi sceglie di avere la somma tutta insieme, chi di avere un vitalizio, ossia accetta di ricevere una cifra tutti i mesi. Mi è capitato anche un caso di un signore proprietario che non stava bene in salute e che, per tutelare la moglie, ha richiesto che alla sua morte la moglie potesse rimanere con la soluzione di un contratto d’affitto.

infatti rimane a carico dell’ex proprietario. Ma si devono verificare le condizioni giuste. Per esempio il nuovo proprietario non deve avere necessità di accedere alla casa in tempi brevi, ma deve considerare quello come un investimento a tempo. Dal punto di vista di chi vende, c’è invece ancora un po’ di confusione. Spesso si tratta di anziani che hanno paura delle truffe o semplicemente di essere sbattuti fuori dalla loro casa. Ma questo non può mai accadere: il contratto in nuda proprietà da questo punto di vista è un contratto di ferro. Io prevedo che nei prossimi anni compravendite di questo tipo continueranno ad aumentare.

Alla fine conviene

Ci sono reticenze? Sia dal punto di vista di chi vende che da quello di chi acquista? Diciamo che per chi acquista è un buon affare: infatti, in base all’età del proprietario, la casa viene “scontata” del suo valore, anche perché su quella casa non si pagano le imposte. L’Imu

Ma perché un investitore dovrebbe lasciarsi sedurre dall’idea di comprare un bene che non sa quando potrà essere suo? Semplice: perché il prezzo che paga in nuda proprietà è più basso rispetto al prezzo di mercato. Per esempio, se il venditore è nella fascia di età tra 73 e 75 anni, viene pagato dall’acquirente il 65% del valore della proprietà. La metà del valore, invece, per i venditori di età compresa tra i 64 e i 66. Su Casanuda.it, sito dedicato alla vendita di case in nuda proprietà, si legge: “Se avessi investito nel 1984 un capitale di 100 mila euro nell’acquisto di un immobile in piena proprietà, avresti avuto a disposizione nell’anno 2009 un capitale di 312.500 euro. Investendo invece lo stesso capitale di 100 mila in una nuda proprietà con un usufruttuario di 60, avresti ottenuto un capitale di 625 mila euro se l’usufruttuario fosse ancora in vita e di 781.250 euro nel caso in cui l’usufruttuario fosse deceduto”. Un buon affare per tutti? Quello che è certo è che un affare. Nel quale si stanno buttando tanti soggetti deboli delle nostre città.

Il silenzio e l’attesa Silenzio: tutto è zitto intorno non si muove una foglia sono sola nella stanza il paralume è rotto è tutto scuro intorno a me nella mente scorrono idee, pensieri, sensazioni. Mi rintano ancor di più nel calduccio della coperta e penso a te che sei lontano. Quando ritorni amore mio? Vieni presto a placare le mie angosce, è tutto buio intorno, la clessidra scandisce il ritmo. Tu amore non sei ancora arrivato e il tempo passa lento. Maria Di Dato

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firenze

Al battesimo c’eravamo tutti Marial fuggiva dalla guerra. Giunta in Italia, ha subito violenza. Disperata, rifiutava la gravidanza. Poi, le ha parlato Elisha... di Leonardo Chiarelli Abbandono e solitudine sono sempre più spesso la condizione di vita di tante persone. Per ragioni svariate. A volte anche drammatiche. Il clima culturale generale non favorisce l’accoglienza e l’ascolto di chi si trova in difficoltà. Ma per fortuna, in alcune storie prevale il coraggio dell’accoglienza, del prendersi cura. Un’operatrice della Caritas diocesana di Firenze, Anna Zucconi, racconta la storia di una donna prima profuga, poi oggetto di violenza. E di come con il coraggio dell’accoglienza si è riusciti a salvare non la sua sola vita, ma anche quella che portava in grembo. Marial ha 26 anni. È stata indirizzata al centro d’ascolto Caritas dalle forze dell’ordine. L’hanno trovata per strada, magrissima, debole, spaventata, confusa. Parla solo swahili e capisce duetre parole di inglese. Si contatta un istituto religioso disponibile a ospitare donne che si trovano in gravi difficoltà e si concordano le forme dell’accoglienza. La sera stessa Marial è a casa loro. Non mangia niente e si stende sul letto che le è stato preparato. Ha gli occhi chiusi ma non dorme. Qualcosa la tormenta, ma non si riesce a capire cosa possa essere successo. La grave situazione di conflitto nel suo paese d’origine, il Sudan, giustifica senz’altro la sua fuga. Lei è cristiana, in un paese dove i cristiani sono perseguitati. È il mese di marzo 2008 e, nel novembre del 2009, al sinodo africano, il vescovo della diocesi di Tombura Yambio, nel Sud Sudan, racconterà alcuni episodi terribili: ad agosto di quell’anno un gruppo di ribelli era entrato nella chiesa della sua parrocchia, prendendo alcuni ostaggi. «Mentre fuggivano nella foresta – dirà – ne hanno uccise sette: crocifissi agli alberi».

La dolcezza di Elisha Il giorno successivo si rende necessario il ricovero di Marial: il suo rifiuto del cibo, la sua agitazione e il suo stato di de-

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perimento preoccupano. La diagnosi: terzo mese di gravidanza. Ma lei non lo vuole quel bambino, questa è l’unica cosa chiara. Dopo una serie di contatti con connazionali, si riesce a rintracciare una signora sudanese, Elisha, che è stata infermiera per quaranta anni e parla perfettamente l’italiano. Dopo averle spiegato la situazione, andiamo da Marial in ospedale. È nel suo letto, in una camera con altre sei mamme, le lenzuola tirate fin sopra la testa. Mi avvicino, la saluto, poi Elisha si presenta e si siede sulla sponda del letto, accarezzandole la testa coperta. Le lascio sole. Dalla porta della stanza le osservo. Elisha le parla con voce dolce, in swahili, continuando ad accarezzarla e dicendole quanto avevamo concordato prima: «Noi siamo dalla tua parte e ti vogliamo bene, abbiamo capito che questo bambino non lo hai desiderato, ma se tu non lo vuoi, quando nasce non lo riconosci e verrà adottato da una coppia, che lo amerà e lo crescerà nel migliore dei modi. Pur comprendendo la tua situazione, noi ti chiediamo di non far pagare il prezzo di ciò che hai subito a lui o lei. Non ha colpa e ha il diritto di venire al mondo. Dopo il parto non lo vedrai, e noi ti aiuteremo durante e dopo la gravidanza in tutto quello di cui avrai bisogno». Elisha le spiega che sarà ospite in un

centro d’accoglienza, che le verrà data tutta l’assistenza di cui necessita, che non sarà mai sola. Le mani di Marial lasciano lentamente le lenzuola e piano piano tira fuori la testa. Piange. Guarda quella donna sconosciuta, più grande di lei, con occhi spaventati e tristi. Elisha sorride, le prende le mani e gliele bacia con affetto. Marial è stupita, accenna un sorriso e si lascia abbracciare. Restano per diversi minuti l’una stretta tra le braccia dell’altra. Non vedo i volti, ma sento che si stanno sussurrando qualcosa. Elisha si gira e mi dice: «Viene a casa mia per questo fine settimana. Le ho promesso che non tocco più l’argomento se lei non vuole». Usciamo dall’ospedale sotto una


scarpfirenze pioggia torrenziale e le accompagno alla macchina. Le guardo andare via. Marial si gira verso di me, fino a quando non spariscono dietro la curva. La sera stessa chiamo Elisha: «Marial ha dormito tutto il pomeriggio e sta ancora dormendo. Non ha voluto mangiare niente. Ho pregato tanto per lei. Ci sentiamo domani».

La scelta di Marial Venerdì sera le notizie sono buone, almeno per quanto riguarda Marial: ha mangiato tutto ciò che la sua ospite le ha preparato – cucina sudanese – con appetito e poi ha pianto ma, questa volta, dal ridere guardando dei film in swahili. L’argomento non è stato più toccato. Sabato, in tarda mattinata, mi chiama Elisha: «Marial ha deciso di portare avanti la gravidanza, ma vuole che tu le garantisca che non dovrà tenersi il bambino e che, una volta nato, voi continuerete ad aiutarla». Le dico di rassicurarla: potrà essere ospite della casa d’accoglienza fino a quando ne avrà bisogno. Aggiungo anche di ringraziarla per la fiducia e di dirle che ammiro il suo coraggio. Ero commossa, e lo era anche Elisha, attenta e coinvolta nel suo ruolo di interprete simultanea tra noi due. Sentivo la voce seria di Marial. Le ha fatto ripetere più volte la stessa domanda e ha voluto che traducesse

Dal Sud Sudan Marial, diventata madre nonostante la violenza. Sotto, la piccola Francesca nel giorno del suo battesimo

ogni volta la mia risposta. Nel pomeriggio Elisha mi telefona nuovamente. Marial sta dormendo e Elisha mi vuole riferire quello che le ha raccontato: «La ragazza ha subito una violenza poco dopo il suo arrivo in Italia. Era con altre persone, stavano risalendo l’Italia per oltrepassare la frontiera e arrivare alla meta desiderata, i Paesi Bassi. Hanno avuto paura di essere fermati a un controllo della polizia e si sono nascosti in un casolare abbandonato lungo una strada provinciale. È successo quella notte. Non sa dove fosse, non sa nemmeno chi sia stato, perché gli altri giovani li conosceva solo per soprannome. Ricorda solo che quando si è ripresa era rimasta sola. Si è alzata, è tornata verso la strada e ha camminato per diverse ore, fino a quando non è stata fermata dalla polizia e portata in un ufficio». Domenica Marial si trasferisce, accompagnata da Elisha, nella nostra casa d’accoglienza per mamme con bambini ed è impossibile non notare il suo sguardo di commozione mista a tristezza quando le viene incontro una giovane mamma albanese già a fine gravidanza con un bambino di tre anni per mano. Lasciamo che siano loro a farle strada fino alla sua camera. Il piccolo Elton afferra la cinghia della borsa, quasi volesse aiutarla a portarla e non stacca mai gli occhi da lei. I sudanesi hanno una carnagione

molto molto scura e lui, come sua madre, è biondo e molto chiaro. A guardarli salire le scale verso la camera le diversità si notano, ma il bambino non dà loro importanza: fa domande in italiano, chiacchiera, ripete più volte, soddisfatto, «la mamma mi fa una sorellina». Marial non dice nulla, ma il suo volto è decisamente molto più disteso di quando l’ho vista per la prima volta. Sale le scale in silenzio e torna a salutarmi dopo qualche minuto: mi abbraccia e mi guarda negli occhi a lungo. Ma Elton non può aspettare: si avvicina con il suo trenino di plastica, le acchiappa la mano e la tira verso le scale. «Vieni a vedere i miei giocattoli» le dice, e Marial si lascia trascinare via.

Il miracolo di Francesca La bimba è nata il 4 ottobre. Ebbene sì, ora Francesca ha due anni e cinque mesi e Marial è una delle mamme più felici che abbia mai conosciuto. È premurosa e affettuosa e capita spesso di trovarla seduta sulla sedia accanto alla culla a osservare la sua piccola creatura che dorme. Elisha, questa amica straordinaria – il cui nome significa “Dio è la mia salvezza” – è diventata mamma e poco dopo nonna, ma anche la zia di Elton, della sorellina Violeta, del piccolo Dinesh, di Alessio, che fa già la prima elementare. Sono ormai un’unica famiglia. Al battesimo di Francesca c’eravamo tutti.

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napoli LE NOSTRE PAROLE / 1. Non si costruisce. Non si impara. È una lampadina. Che illumina il caos. Però devi preparargli il terreno...

Il “genio” sfonda, ma non va offeso di Bruno Limone La scrittura è fatta di parole; quasi un’ovvietà dirlo qui, eppure ci ha divertito confrontarci su quel che ci ha rimandato e fatto risuonare la parola “genio”, che a Napoli si veste di un significato tutto suo, pescato nella parlata dialettale quotidiana. Un laboratorio sul genio, dunque,, a ridosso delle feste, semiserio ma neanche troppo, perché le parole sono importanti: e nessuno lo sa più e meglio dei redattori di Scarp. E allora abbiamo pensato che nel 2014 di tanto in tanto renderemo protagonista dei nostri incontri e del nostro lavoro sulla pagina parole che ci piacciono più di altre, e che più di altre ci possoIl genio partenopeo no aiutare lungo il cammino. E come i Che cos’è il genio? Chi è geniale? Quansassolini bianchi della favola di Polliti significati ha la parola genio? A Nacino, possono indicarci la strada. poli, per esempio, per dire quando non

“Femminile plurale”, la cooperazione è donna

Tre donne oltrepassano una porta, tre territori da nord a sud del nostro paese, lo stesso sguardo sulla realtà. Comincia così Futura. Femminile plurale per la nuova economia, docufilm prodotto da Legacoopsociali e realizzato da Mario Leombruno, Luca Romano e Giuseppe Manzo, disponibile on line grazie a Fanpage.it. Cooperazione sociale e presenza femminile, un connubio che spesso si dà per scontato. Invece i numeri spiegano una realtà più complessa: cosa accomuna una cooperativa sociale bolognese o perugina e un centro antiviolenza di Casal di Principe (Caserta)? Da qui parte il viaggio di una antica esperienza di cooperazione sociale, il Cadiai, nata nel capoluogo emiliano nel 1974. Servizi alla persona, all’infanzia e agli anziani, e soprattutto una leadership femminile costante in questi 40 anni. Franca Gugliemetti è l’ultima presidente in ordine di tempo, e tocca a lei raccontare i passaggi salienti (anche quelli drammatici, come il terremoto del 2012) del percorso della cooperativa. Scendendo giù c’è Alessandra Garavani, presidente della coop sociale Il Poliedro di Città di Castello; è madre, moglie e massimo dirigente di un’impresa sociale che si occupa dell’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. A sud, invece, la realtà casertana e la sfida dei centri antiviolenza della cooperativa sociale Eva, guidata da Lella Palladino: si opera per aprire una comunità per donne maltrattate nella casa del boss dei casalesi Walter Schiavone. Franca, Alessandra, Lella: raccontano un’Italia diversa. Non è quella del 50% di disoccupazione femminile, della condizione salariale discriminante, del 9% nei ruoli dirigenti. È un paese in cui il lavoro si coniuga con i tempi e i diritti di genere: nelle coop sociali c’è il 70% di occupazione femminile e il 50% di donne nei consigli di amministrazione. Il docufilm propone la quotidiana azione di un paese che reagisce alla crisi, crea lavoro e lo difende, include e reinserisce nel tessuto sociale persone svantaggiate, affronta le emergenze in rete e promuove un’economia al servizio delle comunità. È solo un caso che le principali protagoniste siano le donne? Laura Guerra

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si ha voglia di fare una cosa, usiamo un modo di dire popolare: «Non tengo genio». Il detto popolare ha ragione, in effetti è una cosa che c’è o non c’è, non si costruisce, non si impara, non si insegna, piuttosto si scopre, si coltiva, si approfondisce. Il genio quindi è facile, chi ha delle facoltà speciali non ha faticato per averle, deve solo imparare a tirarle fuori: un pittore coi pennelli, un musicista con uno strumento o un’intera or-


scarpnapoli La riflessione

Rinfresca la vita, sua e degli altri

chestra, uno scrittore con la penna e un meccanico con pinze e cacciaviti. E Leonardo da Vinci, con tutto quel che gli capitava sottomano? Lui era il genio per eccellenza. È che quando s’accende la lampadina è difficile lasciarla spegnere; quando accade dispiace, è una perdita e una sconfitta.

E poi è così anarchico! Se ho mai incontrato un genio? Non lo so, ma ricordo la sera in cui vidi suo-

Cosa significa la parola genio? Vorrei prendere il vocabolario ma non lo faccio, voglio arrivarci da solo. Di sicuro è una bella parola, di grande fascino e suggestione. Il genio è una persona speciale, che si differenzia dagli altri. Genio è avere un cervello speciale. In termini di intelligenza, creatività, fantasia, velocità, sensibilità. Genio si nasce. Lo studio, l’esperienza, la cultura, possono solo migliorare una mente eccelsa. Qualcuno potrebbe affermare che geni lo possono essere tutti, sfruttando appieno le potenzialità del cervello. Io penso che ognuno è fatto a modo suo. I più fortunati hanno molte doti di quelle che ho elencato, riescono a risolvere le situazioni complesse, spesso prima e meglio degli altri. Chi nasce genio inventa qualcosa al momento giusto, migliora la propria vita e quella di altri. Non solo grandi cose, ma anche qualcosa di semplice, utile al momento. Chi è genio lo sa essere nella pratica. Il genio affascina chi gli sta intorno e se ha un bel carattere o la battuta pronta fa divertire i presenti. Lui rinfresca la vita sua e degli altri. Non fa mai annoiare. Le persone lo apprezzano anche per questo. È come un vestito: se è di qualità, ci accarezza con la sua morbidezza, trasmettendoci il piacere di averlo addosso. Il genio fa la stessa cosa. Ci fa vivere meglio, ogni attimo della giornata. Il genio trasmette energia regalandoci voglia di vivere. La gente lo applaude senza bisogno di battere le mani. Se mi si chiede di fare un nome io penso allo psichiatra Alessandro Meluzzi. Quando parla suscita grande interesse. Viene interrotto poche volte perché gli altri sono incuriositi dal suo sapere. Lui inquadra la psichiatria da un punto di vista umano, citando solo poche nozioni, andando all’origine del male con la convinzione che non si può curare un sofferente psichico senza indagare nella sua anima. Il professore va a fondo, ma molto a fondo delle realtà che si trova davanti. Lui scava nel profondo. Valuta ogni situazione, condizione e aspetto della persona-paziente. Una bella persona, rassicurante, che comincia a guarire prima della terapia, al solo ascolto. Giuseppe Del Giudice

nare Jimmy Hendrix a Roma; già l’amavo, ma stargli davanti fu come essere colpito da una forza della natura. Quello non era studio, non erano ore perse a fare esercizi e scale, era un uragano di idee, un vento, un vortice che sollevava dalla povera terra. E per lui tutto ciò era così facile! Geniale, appunto. A me, a volte, è capitato di sentire la mia lampadina accendersi, ed è bellissimo; ma lui era un faro, tutta un’altra cosa. E non per caso si dice quindi “lampo di genio”. Quando viene un’idea, lo fa senza avvertire, sfonda la porta ed è là dove fino a un attimo prima non c’era nulla, oppure il caos totale. Io per esperienza so che la soluzione a un qualche problema mi viene quando

non ci penso; non è proprio un lampo, giacchè in segreto silenzio il cervellino già era al lavoro, ma è divertente che mentre – che so – cucino, debba correre a scrivere un finale sul quaderno che avevo lasciato aperto apposta. E poi il genio è così anarchico! Non segue le regole, le fa, non viene all’appuntamento se lo chiami, non vuole obblighi e orari: sa di essere importante, a volte fondamentale, e perciò ti fa i dispetti. Non ti appartiene, ti visita se vuole, però devi preparargli il terreno. Voglio dire che se non sai manco chi sei, se non hai mai fatto la fatica di aprire un libro, sto genio che viene a fare? Che ti può dire se non capisci niente? Così lo offendi, e questo non si fa.

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salerno Al via il percorso di formazione organizzato da Caritas Salerno. Bisogni in crescita: il volontariato deve qualificare le risposte

Tutti a scuola. Di carità di Grazia Botta desume dai dati dell’ultimo Dossier È ai nastri di partenza l’ottava edizione della “Scuola della Carità”, il diocesano sulle povertà: è necessario percorso di formazione al volontariato curato dalla Caritas diocesana di Salernoalimentare “l’offerta d’amore”, auCampagna-Acerno. Si tratta di un percorso articolato su due livelli: un corso base mentando anche il numero dei “donae uno avanzato. Il primo è rivolto a quanti non hanno avuto esperienze nel camtori di tempo e di amore” che sono i po del volontariato, in vista di un vero e proprio reclutamento di nuove forze (e volontari. nuovi cuori) che vogliano donare un po’ del loro tempo e delle loro competenze ai Ma non solo: appare necessario mibisognosi del territorio salernitano. Il corso è formato da una parte teorica, che si gliorare costantemente le proprie comterrà nella sede della Caritas diocesana petenze, per chi opera nel sociale, al fine gennaio, dureranno fino a giugno, (via Bastioni 4, a Salerno), in cui saranne di conoscere il più possibile i bisodunque è ancora possibile aderire. no illustrate le motivazioni del fare vogno che ci circondano e donare un aiuIl bisogno formativo nel territorio lontariato, le basi evangeliche dell’ato sempre più qualificato. salernitano è davvero enorme, come si more al prossimo, le varie tipologie e peculiarità di volontariato (anziani, poveri, nuove emergenze, centri di ascolto...). In programma anche una parte pratica, vero compimento del percorDa poche settimane è stato pubblicato il Dossier statistico sulle povertà so, attraverso la quale si andrà a svolge2012, realizzato dalla Caritas diocesana di Salerno-Campagna-Acerno e curato da re attività di volontariato. Sarà possibiMaria Luisa Troccoli. Dai dati pubblicati emergono risultati a dir poco sconcertanti; le, inoltre, partecipare al progetto “Quaper cominciare, si rileva che a rivolgersi agli sportelli e ai centri di ascolto Caritas si amici” (nome tratto da un recente nel 2012 sono stati 7.989 utenti. Fa riflettere molto il fatto che tra costoro gli stranieri film francese) e prendere in carico l’asextracomunitari sono stati 1.893, i “comunitari” 1.674 e (cosa più interessante) gli sistenza di anziani, diversamente abili italiani ben 4.222. In pratica, se quattro anni fa, nel 2009, il 63% degli utenti era straniero e il 37% italiano, nel 2012 le percentuali si sono capovolte, con il 42% degli o ammalati. La speranza è che la voglia stranieri e il 58% degli italiani. Dati allarmanti, termometro della crisi che anche di fare volontariato non si fermi ai meil territorio salernitano sta attraversando. si di corso, ma prosegua in futuro. Quanto alle cause dei percorsi di impoverimento, si segnalano fallimenti di aziende, ai licenziamenti e alla difficoltà di trovare un posto di lavoro. Ne consegue la difficoltà, Amore e competenze da parte di molti, di permettersi finanche i beni di prima necessità (alimenti, vestiario) Vi è poi un corso “avanzato”, rivolto a e, ancora di più, un tetto sotto cui vivere. Infatti le persone senza dimora “censite” chi ha già un’importante esperienza, nel territorio della diocesi nel 2012 sono stati ben 107, in significativo aumento. che quest’anno sarà destinato in partiMa chi si rivolge a sportelli o centri di ascolto Caritas? Tra gli stranieri sono per lo più colare agli operatori pastorali. donne (60%), sposate, con figli lasciati nel paese d’origine, mentre tra gli italiani Infine, sarà attivato un ciclo di conci sono anche laureati in attesa di prima occupazione (11%, cifra molto alta). Tra ferenze, di tipo sociologico-giornalistile richieste effettuate, il 67% degli utenti desidera beni di prima sussistenza, poi un lavoro e assistenza medico-farmaceutica (per reperire gratuitamente medicine). co, sui temi delle nuove emergenze caComunque, al di là dei dati, ciò che preoccupa maggiormente è sapere dai mass ritative, che si svolgerà in più sedi “pemedia, anche locali, che certe situazioni di povertà possono avere conseguenze riferiche” della diocesi. La diocesi, inestreme: con il sopraggiungere dell’inverno, si sono verificati decessi di alcune fatti, è vasta ed è necessario coinvolgere persone che vivono per strada. Lo scopo del Dossier è proprio aprire gli occhi sul nell’animazione alla carità (compito diffondersi di situazioni simili, affinché gli “invisibili” della città non siano dimenticati o primario della Caritas) anche le zone trattati con indifferenza dalla stragrande maggioranza dei salernitani. La Caritas, più lontane dalla città di Salerno. autrice del Dossier, durante l’anno d’altronde fa il possibile perché queste persone Chi intende iscriversi ai corsi della non rimangano solo “numeri”, ma possano avere un aiuto concreto. Scuola della Carità, può telefonare al Antonio Minutolo numero 089.226000. I corsi, iniziati a fi-

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Dossier povertà: in forte aumento il numero degli italiani che bussano ai centri d’ascolto

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catania Arriva l’Ape-Scarp! Grazie a un programma radio, la redazione catanese riceve un originale mezzo per diffondere giornali e libri

“Mizzica”, letture su tre ruote dalla redazione di strada I gesti di solidarietà sono sempre belli, ma quando arrivano in periodo natalizio sono ancora più speciali. Ed è proprio una storia speciale quella di cui è protagonista la redazione di strada di Catania del mensile Scarp de’ tenis, progetto di aiuto nei confronti delle persone senza dimora attivo in città dal 2008, insieme a Maurizio Monaco, giovane titolare di un’agenzia pubblicitaria di Tremestieri Etneo, la Etna Graphic, e un programma radiofonico, Mizzica, in onda tutti i giorni su Radio Studio Centrale (emittente radiofonica catanese) e condotto da Ruggero Sardo. I fatti sono questi: la nostra redazione attraversa un momento rconomico difficile, anche se l’attività continua, con difficoltà, all’interno della Locanda del Samaritano, centro di accoglienza vincenziano di via Monte rete di vendita dello stesso mensile di Vergine a Catania. Per questo è neces- strada, ma mancavano i fondi necessasario pensare a strumenti di autofi- ri per rendere l’idea una realtà. Però le nanziamento, per consentire al pro- vie del Signore sono davvero infinite. E getto di non morire. Tra le altre idee, si questa volta hanno scelto di passare atera pensato di acquistare un piccolo traverso le frequenze di Mizzica, il cui veicolo, per consentire al gruppo della conduttore, Ruggero Sardo, da anni è redazione di avviare una micro-attività testimonial del progetto Scarp per la redi vendita di libri usati e di allargare la dazione di Catania.

Zairona e Salvuccio trasferiti a nord il loro carisma aleggerà nella Locanda Nella Locanda del Samaritano, a Catania, vivevano due persone che ultimamente ci hanno salutato, lasciando un ricordo indelebile. Zaira (nella foto), per gli amici “Zairona”, non per l’aspetto fisico leggermente tondeggiante, ma per l’incedere maestoso e il cervello sopraffino, è stata perno e motore della Locanda per molto tempo. Originaria di una ridente cittadina della Sicilia orientale, un passato un po’ problematico, chioma rasa ai lati con ciuffo amaranto che scende sulla fronte, abbigliamento rapper style, simpatia travolgente, cuoca raffinata e sublime pasticciera bilingue: parla perfettamente inglese e dialetto catanese. Sempre pronta ad aiutare tutti, caramellosa coi più, impetuosa con chi si comporta male. Salvo, o meglio “Salvuccio” per i più intimi, è invece originario della Sicilia occidentale: fanciullezza con problematiche familiari, viso botticelliano, disegnatore creativo e raffinato, aspirante stilista dinamico e artistoide polivalente. Ora i due ragazzi sono in un altro centro, un po’ più a nord. Ma il loro carisma aleggerà sempre nella nostra struttura. Angus

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E poi è così anarchico! Prima di Natale, Ruggero ha invitato i componenti della redazione cataneseina una delle sue trasmissioni e, proprio durante l’intervista, ha lanciato un appello per trovare qualcuno disposto a donare un veicolo. L’appello ha raggiunto Maurizio Monaco, titolare della Etna Graphic, mentre stava guidando verso casa: possedeva un’Ape 50 acquistata per scopi pubblicitari che non usava più, ma in buone condizioni. E subito ha pensato che sarebbe stato bello poterla donare a qualcuno che veramente ne aveva bisogno e che di sicuro ne avrebbe fatto buon uso. Così la redazione di strada catanese ha ricevuto un bellissimo e inaspet-


scarpcatania Nuovo dormitorio

Accoglienza al Crocifisso, inverno meno duro con “Erwin”

tato regalo di Natale: Maurizio ha deciso di regalare la sua Ape, compiendo un bel gesto di solidarietà e unendosi alla famiglia di Scarp. Presto vedremo scorazzare in città l’Ape-Scarp, che la redazione ha deciso di battezzare Mizzica, in onore del programma radiofonico grazie al quale è stato ricevuto il dono: girerà per fiere e mercatini siciliani, inoltre servirà per proporre progetti di invito alla lettura per i ragazzi delle scuole. «Questa bella storia – racconta padre Mario Sirica, responsabile della Locanda del Samaritano di Catania – dimostra come anche nei momenti di crisi la generosità delle persone non venga mai meno, e costituisca un segno tangibile di speranza per tutti».

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Si chiama “Erwin”, il nuovo spazio di accoglienza dedicato alle persone senza dimora aperto a Catania. Erwin era un quarantenne senza tetto austriaco, morto prima di Natale sotto i portici di una delle vie commerciali di Catania. A lui i gesuiti della chiesa del Crocifisso dei Miracoli hanno deciso di dedicare il nuovo dormitorio, che sorge all’interno di una sala della loro Parrocchia, abitualmente dedicata alla preghiera e alle riunioni. I posti letto sono disponibili per tutto l’inverno e si aggiungono a quelli già esistenti nei vari dormitori della città, che purtroppo durante la stagione fredda non sono mai sufficienti. Paola Bentivegna, una delle volontarie della Caritas parrocchiale, conduce a visitare il dormitorio: è molto ampio e confortevole, la sala ricreativa funge anche da refettorio, sono attivi bagni e docce, tutto è stato ristrutturato in modo dignitoso. Per gli ospiti sarà possibile fare una doccia, cenare, trascorrere del tempo insieme in una stanza dedicata e poi andare a dormire. L’esempio di solidarietà che viene dal Crocifisso dei Miracoli rappresenta un vero e propro modello, che dovrebbe essere seguito anche da altre parrocchie e dalla stessa amministrazione comunale. «Il comune – osserva padre Gianni Notari, il parroco – dovrebbe dotarsi di più strumenti per sopperire ai bisogni dei poveri della nostra città. Il problema è che la gente non ha più fiducia in chi la governa, è diffidente, pensa che vogliano perseguire solo i propri interessi. Noi, insieme a Libera – prosegue padre Notari – lanceremo la campagna “Miseria ladra”: ladra perché la povertà ruba speranze, dignità, diritti. Un modo per fare capire che dalla crisi si esce insieme». Al comune i volontari della parrocchia chiederanno anche di destinare a uso sociale il patrimonio immobiliare sfitto e quello confiscato alla mafia. Adesso occorre dotare il nuovo dormitorio di vestiario e vari altri accessori. «Ma mi raccomando – avverte padre Notari –: solo roba nuova, perché ai nostri fratelli dobbiamo dare il meglio…». foto di Roberto De Cervo febbraio 2014 scarp de’ tenis

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poesie di strada

Poesia Questo è, dice chi c’è. Questo sarà, ciò che vorrai. Un gioco di parole semplici, nascoste nel tormento. Parole affaticate dal pianto, mascherate di cemento. Nelle notti calpestate dalle stelle, quando l’emozione si distende sulla pelle. Incominci a pensare, e tutto si ferma dentro un se. Se avessi saputo. Se avessi potuto. Se io fossi stato. Ma solo un se ti rimane dal passato. Poi guardi al presente e al futuro, ma sei coperto di ferro e muro. Dio se potessi un po’ odiare, quest’immagine di ferro. Se potessi allontanarmi, da questo luogo chiamato inferno. C’è un uomo che ci dice, non superate quel cancello. E c’è un principe infelice nascosto dal suo mantello. C’è un’immagine di santi e si prega troppo spesso. E c’è chi pensa che questo posto è un invidiabile successo. E un trapasso d’amore. E se sapessi avvicinarmi e non andarmene più via, dalla stretta di un gran cuore, cambierei la vita mia. In questa sfera di ferro tagliente, diventi una bestia, per l’altra gente. Travolgono i tuoi sentimenti, senza sapere ciò che si sente. Quanto nei giorni freddi hai bisogno di scaldare il tuo cuore. E ti basta un foglio scritto per trovare tutto il sole. Una lettera che leggi e rileggi perché scritta dalla donna che tu ami. E in una poesia d’amore, affoghi il tuo dolore. Il carcerato ha una maschera perfetta, vista da lontano. Ma se lo guardi da vicino è più di un essere umano. Fabio Schioppa

Inverno La strada Cade la neve, c’è tanta pace. L’inverno è freddo, però mi piace. Il cielo è muto, la terra pure; terreno fertile per le avventure. Bianchi cristalli pendon dai rami, e io li colgo a piene mani. Gemme preziose per una festa, ma è solo acqua ciò che mi resta. Corre la slitta lungo il sentiero; tanto candore cela un mistero? Devo spezzare questa magia, ci ho già pensato lungo la via. E nella candida, muta spianata, scoppia d’un tratto la mia risata. L’incanto bianco ora è spezzato: un fiore rosso è già sbocciato. E se poi a ridere continuerò, di fiori rossi io riempirò tutta la valle che splenderà di fiammeggiante felicità. Mary

Gaetano Toni Grieco

Problemi È una vita infernale! Non se ne può più! Un problema dopo l’altro. La vita è un mare di problemi. Nuotarci sopra e non affogare. Questo è il bello della vita. Nuota, nuota, sarai stanco e non avrai più problemi Ambrogio

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La strada dei sogni è fatta di luna, la vedo apparire ogni sera nascosta tra le foglie di lauro, la spio, vi balzo, così più non so che ho bianchi i capelli, mi ritrovo all’età dell’amore. E’ dolce riandare alla vita passata, rifare coi sogni i sogni perduti. La strada dei sogni è fatta di luna, di luce di luna sull’acqua di lago che nera d’attorno ti aspetta se appena ti fermi. M’inoltro pian piano vi godo la gioia finita, vi spero la gioia a venire. Il pianto si perde nel nero profondo dell’acqua del lago. Ora l’ombra del monte nasconde già un poco la luna, la strada di luce si accorcia convien ritornare. Veloce il pensiero alla vita che attende alla sponda portato sull’ultimo raggio di luna che passa sull’onda.

Silenzio Amo la melodia del silenzio l’incedere elegante delle note tra gli spazi dell’anima la fertile armonia del pensiero inespresso Aida Odoardi


ventuno Ventuno. Come il secolo nel ventunodossier I Giochi da faraone quale viviamo, come l’agenda di Putin lo zar. Le Olimpiadi della neve per il buon vivere, come organizzate sulle rive del Mar Nero: l’articolo della Costituzione sulla libertà di espressione. un’impresa costata 36 miliardi di euro, Ventuno è la nostra cinque volte più di quanto previsto idea di economia. Con qualche proposta per di Andrea Barolini agire contro l’ingiustizia e l’esclusione sociale nelle scelte di ogni giorno. ventunoeconomia I dati del Rapporto

Caritas Migrantes sull’immigrazione. Stranieri in aumento, ma diritti violati

21 di Manuela De Marco

ventunostili Le api, la frutta: natura antimafia. A Gaggiano, 14 ettari sottratti alla criminalità, aperti a tutti: fiorisce il Bosco dei Cento Passi

di Leonardo Pedroni

ventunorighe I migranti, fragili di fronte alla crisi

di Meri Salati Osservatorio povertà e risorse Caritas Ambrosiana

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21ventunodossier Slittino sul mar Nero. Laghi artificiali per le bocche da neve. Lavoratori pagati da fame. Sochi, Olimpiadi con tante ombre

I Giochi da faraone di Vladimir lo zar di Andrea Barolini

Immaginate i Giochi olimpici invernali con sede a Cagliari: discesa libera e bob sul Gennargentu. Dal punto di vista climatico, Sochi 2014, le Olimpiadi russe della neve, in programma dal 7 al 23 febbraio, saranno un azzardo. Si aggiungano le opere gigantesche, i diritti dei lavoratori secondo molti ampiamente violati, gli affari finiti alle aziende di amici. Dossier sulle Olimpiadi invernali più “calde” e costose della storia

60. scarp de’ tenis febbraio 2014

Sochi, dietro la grandeur

Costi, ambiente, diritti: è un’Olimpiade record... Le Olimpiadi invernali si svolgono quest’anno a Sochi, in Russia. Alzi la mano chi, nel proprio immaginario, non associ al paese euro-asiatico immagini di freddo, ghiaccio e fiocchi di neve. L’immenso territorio della nazione che una volta era il perno dell’Unione sovietica, tuttavia, può riservare grandi sorprese. Basta infatti digitare sul computer il nome della città che ospiterà i prossimi Giochi per notare che essa è situata all’estremo lembo meridionale della Russia. Un cuneo tra mar Caspio e mar Nero. Ebbene sì, avete capito bene: mare. E non un mare gelido come quello di Barents, che bagna il Nord della Scandinavia e della stessa Russia. Un mare se non caldo per lo meno mitigato, che fa di Sochi una rinomata località balneare. Situata sulle rive del mar Nero, la gentu come il fulcro delle competizioni città conta 370 mila abitanti. Questi, assportive. sieme ai tanti turisti che popolano le Tutto si può fare, certo. A patto di spiagge nei mesi estivi, hanno meritato non temere lo stravagante. E, soprattuta Sochi l’appellativo di “Riviera del Cauto, il molto costoso. Infatti, per arrivare caso”. Delle potenzialità marittime e tualla neve il governo di Mosca non solristiche del luogo se ne era accorto già tanto farà spostare atleti, organizzatori e Joseph Stalin, che a partire dagli anni cronisti nell’entroterra, ma ha dovuto Trenta ne impose uno sviluppo poderoanche spendere cifre astronomiche. A so. Per gli scettici, il consiglio è sempre causa della latitudine e del clima, certaquello di affidarsi a Google: si possono mente. Ma non solo: le cause dell’imtrovare facilmente immagini del centro pennata stratosferica dei costi per orgaabitato, tra sole, spiagge, palme e banizzare e gestire le Olimpiadi russe sono gnasciuga affollati. Possibile che una infatti molteplici. città così possa ospitare una pista di slalom gigante? Sarebbe un po’ come imQualche numero maginare di ospitare i Giochi invernali Partiamo proprio dalle cifre. Quella di del 2022 a Cagliari, indicando il GennarSochi sarà ricordata come l’edizione dei


Sport, business e politica

25 volte più cari che a Vancouver La pista di discesa di Vancouver in una ricostruzione. I giochi canadesi che si sono tenuti nel 2010 non hanno superato 1.4 miliardi di euro

Giochi invernali più cara della storia. Prevista dal 7 al 23 febbraio, ospiterà seimila atleti di sette discipline: sci, slittino, pattinaggio, bob, hockey su ghiaccio, biathlon e curling. Con sei nuove competizioni, tra le quali il salto con gli sci femminile e la prova di squadra di pattinaggio artistico su ghiaccio. Il tutto alla modica cifra – riferita da numerosi organi della stampa internazionale – di 36 miliardi di euro. Qualcosa come cinque volte il budget annunciato inizialmente. Una manovra economica di un paese ricco. Per fare un raffronto, il “conto” dei Giochi di Vancouver, svoltisi nel 2010, non ha superato gli 1,4 miliardi di euro. Tutto compreso. Come detto, le ragioni di tale “conto” sono parecchie. Alcune di ordine pratico, altre legate in modo molto più stretto alla politica. Per il presidente russo Vladimir Putin, infatti, l’evento è solo in parte una semplice manifestazione sportiva. Per lo “zar” russo si tratta di una formidabile vetrina per se stesso e il paese. Basti pensare alla magniloquenza con la quale il numero uno del Cremlino aveva parlato sin dall’inizio delle

Olimpiadi: «Sochi 2014 sarà il più grande evento della storia post-sovietica». D’altra parte, la strategia delle autorità russe, che puntano a sfruttare lo sport come un volano per incrementare il loro prestigio internazionale, è evidente. La capitale Mosca ha già ospitato, in agosto, i Mondiali di atletica. E il paese intero attende l’appuntamento che costituirà l’apoteosi di tale disegno: i Campionati del mondo di calcio 2018.

Uno stadio per tre occasioni Vista in questa ottica, non può stupire la volontà di lasciare spazio, prima di tutto, alla grandeur. A partire dalle infrastrutture dedicate, la maggior parte delle quali costruite da zero, e delle quali fanno parte non soltanto stadi, palazzetti dello sport e trampolini, ma anche alberghi, resort e ristoranti di lusso. Concentriamoci però sulle sole strutture sportive. Il “parco olimpiaco”, che abbraccia una superficie piuttosto vasta, dalla stessa città di Sochi fino all’insieme “di montagna” che si concentra a Krasnaia Poliana (a 60 chilometri di distanza), potrà accogliere comples-

sivamente 75 mila spettatori. A spiccare è soprattutto lo stadio Ficht: un impianto da ben 40 mila posti (delle stesse dimensioni dello Juventus Stadium di Torino, tanto per fare un raffronto). A lasciare perplessi è il fatto che, nonostante la “taglia” dell’impianto, la previsione è di utilizzarlo solamente in tre occasioni: per le cerimonie di apertura e di chiusura e per la consegna delle medaglie. Ora, va detto che di medaglie ne verranno assegnate decine, e occorre anche sottolineare il fatto che il governo di Mosca ha assicurato che lo stadio sarà riutilizzato anche per i Mondiali di calcio, tra quattro anni. Ciononostante, non può che aleggiare una certa “puzza di spreco”. Andiamo avanti: Sochi 2014 si avvale anche di due arene per l’hockey sul ghiaccio: il palazzo Bolshoi e lo stadio Shaiba. E non è finita: ad ospitare il pattinaggio in velocità ci sarà un altro impianto dedicato, l’Adler Arena, mentre il palazzetto dello sport Iceberg sarà il tempio del pattinaggio artistico. E l’Ice Cube sarà il palcoscenico del curling. febbraio 2014 scarp de’ tenis

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ventunodossier

Ingegneria versus meteorologia Fin qui ciò che è stato previsto nella città caucasica. Spostiamoci allora in “montagna”. Le virgolette sono una forzatura, utile però per dare un’idea della località prescelta. Krasnaia Poliana è un luogo che in Italia verrebbe definito senza timore di smentita “collinare”. Situato a 600 metri di altitudine, è stato teatro negli anni scorsi di imponenti lavori, che hanno consentito di costruire una stazione sciistica di fatto quasi completamente nuova, che può garantire 70 chilometri di piste. Seicento metri di altitudine, ma comunque in Russia, si potrebbe obiettare. Ebbene, nonostante Sochi sia evidentemente ben più a est rispetto alle montagne italiane, va detto che la latitudine alla quale verranno disputate gare di slalom gigante e discesa libera non è dissimile da quella della costa ligure. Sochi, inoltre, è anche parzialmente riparata dall’aria fredda proveniente dai quadranti settentrionali e

I numeri delle Olimpiadi 36 miliardi di euro il conto finale stimato dagli esperti per le Olimpiadi di Sochi. Ben 5 volte il budget iniziale previsto

6 mila gli atleti impegnati nelle competizioni di 7 discipline

240 euro lo stipendio mensile riservato agli operai uzbeki e armeni impeganti nella costruzione delle strutture: 1,50 euro l’ora, 12 euro al giorno per una giornata di 8 ore

60 mila gli operai impegnati contemporaneamente nei cantieri

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dalla Siberia. Risultato, il clima si può definire mite: i dati sono riferiti a Sochi, dunque al livello del mare, ma è comunque indicativo il fatto che durante l’inverno le temperature fatichino a scendere al di sotto dello zero, mentre le massime estive arrivano a toccare, mediamente, i 26-28 gradi. Per “combattere” il clima gli organizzatori delle Olimpiadi russe si sono dovuti ingegnare (nonché spendere parecchi soldi). A saltare agli occhi è infatti, prima di tutto, il sistema di innevamento artificiale, che si può definire mastodontico. Esso ha previsto lo stoccaggio di qualcosa come 500 mila metri cubi di polvere isotermica, sparata sulle piste nel corso dell’inverno grazie a un’immensa “batteria” di cannoni. Tale strato di polvere ha costituito – secondo quanto rivelato nei mesi scorsi dal quotidiano francese Le Figaro – di limitare al 40% la fusione naturale della neve. Quest’ultima, in poche parole, è stata preservata, come fosse stata messa in una sorta di grande frigorifero. Nonostante ciò, è possibile (probabile?) che l’innevamento naturale non basterà a garantire il quantitativo di fiocchi sufficienti per poter disputare senza problemi tutte le gare. Di conseguenza gli organizzatori hanno stoccato due milioni e mezzo di metri cubi di ghiaccio. Si tratta di un dispositivo di dimensioni incredibili: basti pensare che il tutto è stato completato da un arsenale di cannoni di potenza tre volte superiore rispetto a quelli che vengono normalmente installati e utilizzati sulle Alpi. Tali “bocche da neve” sono infine alimentate da due laghi artificiali (!), che garantiscono un approvvigionamento di acqua pari a 130 mila metri cubi. Il tutto, come è facile immaginare, ha provocato un vero e proprio stravolgimento dell’area, fatto che ha suscitato la viva contrarietà di alcune associazioni ambientaliste. Esse hanno mosso critiche al governo di Mosca e agli organismi che gestiscono i Giochi olimpici, sottolineando soprattutto come sia pericoloso effettuare in così breve tempo lavori tanto imponenti. Un esempio di quanto siano concreti i rischi sarebbe costituito dal trampolino costruito per il salto con gli sci: secondo alcune voci critiche il terreno sul quale è stato edifi-

cato sarebbe precario, non sarebbe stato messo in sicurezza, e per questo non dovrebbe essere considerato sicuro.

Diritti dei lavoratori: accuse Proprio partendo dalle considerazioni relative all’impatto ambientale delle grandi opere concluse per Sochi 2014, si può aprire un altro grande capitolo relativo ai Giochi invernali: quello riguardante i lavori, i lavoratori e i loro diritti. L’obiettivo di Putin era uno solo, come detto: terminare le opere in tempo. Per non correre il rischio di farsi trovare impreparata, la Russia ha deciso di sfruttare una quantità impressionante di mandopera. Al lavoro, nei cantieri della cittadina caucasica e della stazione sciistica, ci sono stati infatti fino a 60 mila operai contemporaneamente. Nei mesi scorsi alcune organizzazioni che si battono per i diritti dell’uomo – da Human Rights Watch a Amesty International – hanno lanciato dure accuse. Sarebbero infatti numerosi i casi di personale sottopagato. Alcuni lavoratori non avrebbero addirittura mai percepito nulla. A ciò si aggiungono poi il sospetto di assenza di contratti di lavoro, nonché il mancato rispetto delle norme sulla sicurezza degli operai stessi. Si dirà: si tratta di comportamenti aberranti, ma che sono, purtroppo, estremamente diffusi anche in paesi come l’Italia. A Sochi, però, si sarebbe andati anche oltre: secondo le accuse, in alcuni casi sarebbero stati perfino confiscati i passaporti dei lavoratori. Alcuni di essi, poi, sarebbero stati detenuti ed espulsi: in particolare, operai arrivati da Armenia, Uzbekistan e Tagikistan. Ai “fortunati” che hanno percepito un salario a fronte del lavoro effettuato, sono arrivati in media 1,50 euro l’ora: 12 euro al giorno per una giornata di 8 ore; 60 euro a settimana immaginando turni dal lunedì al venerdì; poco più di 240 euro al mese.

Tra cricche e corruzione E non è tutto. Assieme alle accuse legate ai diritti dei lavoratori, ne sono arrivate altre, che riguardano in particolare la legalità. A lanciarle sono stati due membri del partito di opposizione Sol-


Sport, business e politica

Investitori privati? Agevolati...

E alla fine il conto lo pagheranno i cittadini russi... Era inizio novembre, quando le olimpiadi invernali di Sochi finivano sulle colonne del quotidiano russo Vedomosti, che certo non può essere paragonato alla Gazzetta dello Sport (piuttosto, costituisce l’equivalente russo del Sole24Ore). Come mai una pubblicazione specializzata in economia si è concentrata sui Giochi invernali? Perché i redattori del giornale hanno rivelato un vasto piano di aiuti lanciato dal governo moscovita. Destinatari, gli investitori incaricati di preparare il mega-evento. Secondo quanto rivelato, essi sarebbero stati sul punto di gettare la spugna, data l’incapacità di rimborsare i capitali prestati loro dalle autorità pubbliche. Sempre secondo il Vedomosti, a intervenire sarebbe stato direttamente il primo ministro Dimitri Medvedev, che avrebbe deciso di predisporre una serie di sgravi fiscali per sollevare i bilanci delle imprese. A tale misura, se ne affiancherebbe una seconda, che stavolta investe direttamente il soggetto creditore, ovvero la banca pubblica d’investimenti russa Veb. Quest’ultima avrebbe infatti accettato di operare degli “sconti” sui tassi di interesse applicati, al fine di alleggerire le rate di rimborso dei prestiti. Per comprendere di cosa parliamo, è utile ricordare che le linee di credito accordate agli imprenditori dall’istituto di credito statale sono state pari a 241 miliardi di rubli (circa 5,5 miliardi di euro). Esse comprendono i capitali necessari per edificare gli impianti sportivi, i complessi alberghieri, un terminal aeroportuale e, già che ci siamo, due centrali elettriche. Ma per incrementare la liquidità necessaria alle imprese, il fondo di garanzia che era stato prudenzialmente predisposto dal governo, non basterà. Secondo quanto pubblicato dal quotidiano francese Le Monde, Putin e Medvedev sono dovuti perciò correre ai ripari, attingendo al bilancio federale. E la storia, così, non fa che ripetersi: a pagare il conto, saranno i cittadini russi.

darnost, secondo i quali Putin avrebbe cercato in tutti i modi di favorire una ristretta cerchia di amici. Gli attivisti di Soldarnost hanno pubblicato nel maggio dello scorso anno un rapporto nel quale si parla senza mezzi termini di una “vasta truffa”: «I Giochi olimpici – spiega il documento – non costituiscono altro che un progetto personale del presidente. Ed è chiaro che coloro che hanno rubato sono i suoi stessi amici».

I contratti dell’amico Arkadi Il riferimento, in particolare, è ad Arkadi Rotenberg, amico d’infanzia del numero uno del Cremlino, che ha ottenuto numerosi contratti attraverso la sua società di genio civile, la Mostorest. Difficile comprendere se effettivamente le accuse siano fondate: è complicato, ad esempio, capire se un’impresa sia stata “aiutata” oppure se davvero la sua offerta fosse la migliore per quel tipo di lavori. Ciò che resta, tuttavia, è l’impressione generale: quella di una magnificenza del tutto ingiustificata. Soprattutto in un periodo di crisi, e soprattutto in un paese nel quale sono presenti enormi sacche di povertà. I costi ufficiali dell’evento, in questo senso, dovrebbero costituire un elemento di sdegno generalizzato. Così come il modo in cui sono stati trattati numerosi lavoratori, se le accuse dovessero rivelarsi veritiere. Ma il 7 febbraio, c’è da giurarci, tutto ciò sarà cancellato dallo sfavillio della cerimonia di apertura. The show must go on. Fino alle prossime Olimpiadi.

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21ventunoeconomia Caritas e Migrantes presentano il Rapporto sull’immigrazione. Stranieri in aumento: grandi capacità di adattamento, ma...

Tempo di crisi, vacillano i diritti di Manuela De Marco La crisi ci incalza, e impone a tutti sacrifici e sofferenze. Esasperando le dinamiche di convivenza. Ma ciò non giustifica cedimenti sul fronte dei diritti umani, purtroppo ancora troppo spesso soggetti a violazioni. Il vecchio-nuovo Rapporto sull’immigrazione di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes (ventitreesima edizione di una apprezzata serie di testi di studio e approfondimento, primo prodotto editoriale ad aver superato la formula del dossier statistico, per approdare a un’analisi sempre vincolata ai numeri, ma capace di più articolate riflessioni) è stato presentato a Roma il 30 gennaio. Intende ragionare, come suggerisce il titolo, su un delicato binomio: Tra crisi e diritti umani. Partendo da una consapevolezza di quadro: numerosi fattori di politica internazionale stanno condizionando le dinamiche migratorie, nel mondo, e lo sviluppo dei paesi di partenza e di arrivo. La tesi proposta dal Rapporto è che la politica europea di settore, costruita su pilastri come la migrazione circolare e temporanea e i rimpatri volontari, non riuscirà probabilmente a centrare l’obiettivo di favorire la ripresa dei paesi di partenza. Rischiando, per l’ennesima volta, un buco nell’acqua nella gestione dei flussi e delle presenze nei paesi di arrivo. In effetti, anche se la crisi economica mondiale, che continua a colpire du-

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ramente molti paesi europei, ha determinato la chiusura di una fase di straordinaria crescita dell’immigrazione, sviluppatasi nel decennio precedente, il primo del nuovo millennio, tuttavia la riduzione dei flussi migratori verso il vecchio continente è stata più contenuta di quello che ci si aspettava. Anche perché alcuni fattori alla base della domanda di immigrazione, da parte di molti paesi europei, in primis i fattori demografici, non sono certo scomparsi con la crisi.

Evidente svantaggio E così anche in Italia l’aumento di arrivi e presenze è continuato ad avvenire, per una serie di fattori, fra cui soprattutto l’apporto delle nascite di bambini stranieri (circa 80 mila i nuovi nati da genitori entrambi stranieri) e il consolidamento della componente femminile, frutto dei provvedimenti di regolarizzazione succedutisi negli ultimi anni. Nella penisola, i cittadini stranieri residenti sono (dato Istat, aggiornato a inizio 2013) 4.387.721, le donne rappresentano il 53% del totale delle presenze. I comunitari, tra i residenti in Italia, sono 3 su 10; i romeni rappresentano la principale collettività immigrata nel paese, seguita da albanesi, marocchini, cinesi e ucraini. La distribuzione regionale conferma un dato storico: il 61,8% degli immigrati

sono presenti al nord, il 24,2% nel centro e il 14% nel sud e nelle isole. La Lombardia conta il maggior numero di residenti stranieri (23,4% del totale), seguita da Veneto, Emilia Romagna e Lazio (tutte fra il 12 e il 10% del totale). A livello di province, però, Roma supera Milano, mentre Prato registra la più alta incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti (14,7%). Al di là dei dati, dal Rapporto emerge chiaramente che le famiglie di migranti si sono ritrovate a fronteggiare la crisi in posizione di evidente svantaggio rispetto agli italiani, che pure ne sono stati toccati duramente. I dati sul quadro occupazionale dei cittadini stranieri attestano infatti una decisa tendenza all’aumento del numero di disoccupati e inattivi. E la crisi occupazionale tocca alcuni ambiti più di altri: è infatti nel settore dell’industria e delle costruzioni che si registra una maggiore contrazione della domanda. L’occupazione dei migranti continua a crescere, invece, nel settore dei servizi alla persona. Il dato quantitativo sull’occupazione è peraltro il risultato, oltre che della crisi in atto, anche di un modello di sviluppo che ha incautamente imboccato una “via bassa”, puntando sulla contrazione del costo del lavoro più che sull’innalzamento della produttività, e che ha causato, fra l’altro, l’aumento della disoccu-


Rapporto immigrazione pazione di lunga durata, il rafforzamento delle tendenze all’etnicizzazione dei rapporti di impiego, la riduzione delle retribuzioni, la precarizzazione dello status contrattuale. Peraltro, quando la crisi morde e perdura, l’atteggiamento verso gli stranieri può caratterizzarsi per forme di chiusura progressiva, se non di relativa ostilità, alimentata dalla percezione di una qualche concorrenza nell’accesso a opportunità di sostegno e dalla paura di comportamenti che producono spiazzamenti delle forze di lavoro indigene. E così, in Italia, segnali di ostilità si colgono in comparti a bassa qualificazione, come l’edilizia, e territori in cui l’accesso a opportunità di lavoro sembra scarso e la disponibilità dei migranti a prestazioni rischiose e sottopagate produce competizioni al ribasso.

I luoghi più bui

Primo Rapporto, dopo 22 Dossier

Un impegno di studio che si rafforza Con il Rapporto Immigrazione 2013 Caritas Italiana e Fondazione Migrantes inaugurano una nuova fase di studio e approfondimento in materia di migrazioni verso l’Italia. I due organismi della Conferenza episcopale hanno intrapreso un nuovo percorso per lo studio della mobilità umana, che privilegi l’osservazione delle realtà locali partendo dalla ricca rete delle sedi diocesane, per arrivare ai riferimenti istituzionali e associativi nazionali e internazionali. Il Rapporto Immigrazione 2013 si pone in continuità con i precedenti annuari (Dossier statistici), la cui prima pubblicazione risale al 1991, ma propone novità importanti. Anzitutto, un nuovo e ampliato comitato di presidenza, con la regia di Caritas e Migrantes nazionali, e una partecipazione allargata, oltre che alla Caritas diocesana di Roma, alla Caritas Ambrosiana di Milano, alle Migrantes di Torino e Palermo. Si è poi dato vita a un comitato scientifico rinnovato, con accademici e studiosi delle dinamiche migratorie, rappresentativi di diversi punti di vista professionali e diverse sedi universitarie. Caritas Italiana e Fondazione Migrantes hanno indicato il tema – Immigrazione. Tra crisi e diritti umani –, che rappresenta il filo conduttore delle sette sezioni del Rapporto. Tra esse, spiccano Fatti, numeri e immagini (racconto ragionato dei principali avvenimenti del 2013 nel settore dell’immigrazione), Approfondimenti tematici (affidati a studiosi, su crisi internazionali, povertà, lavoro, fede, tratta), Approfondimenti regionali (con dati sulle realtà regionali e dalle sedi Caritas locali, rappresentativi del capillare lavoro socio-pastorale in atto), l’Appendice giuridica e un Glossario (per informare sulle novità in ambito legislativo e offrire aggiornamenti terminologici e lessicali).

Tuttavia, in questo panorama, i migranti attestano una grande capacità di “resilienza”: davanti alla crisi sembrano più reattivi e pronti ad attivare strategie di riadattamento del loro percorso migratorio, mettendo in atto vere e proprie Grafico 1 “manovre di ripiegaCittadini stranieri in Italia. mento”: un comPopolazione residente per macroregioni plessivo abbassa(1 gennaio 2013) mento degli standard di vita, un più Sud 14% contenuto invio di rimesse in patria, una Nord 61,8% Centro 24,2% rilocalizzazione verso piccoli centri e periferie meno costose (se non luoghi che diventano veri e propri ricoveri di soggetti in condizioni partitrazione. È il caso dei Cie, i Centri di idencolarmente precarie, e dove si innescatificazione ed espulsione, in cui finiscono no circuiti di sfruttamento). Una varianper essere reclusi anche molti cittadini te di questa ricerca di punti di appoggio stranieri che non hanno più potuto rinsta nelle forme di circolarità flessibile che novare il permesso di soggiorno, a causa taluni gruppi possono attivare, quando della crisi e della perdita del posto di lail paese d’origine è prossimo all’Italia: si voro, oltre a coloro che sono entrati illepensi all’Albania e alle storie di quanti, galmente nel nostro territorio, senza aver pur con riluttanza e ambivalenza, si potuto mai regolarizzazione la propria muovono più per necessità che per scelposizione giuridica. Nel Rapporto viene ta tra le rotte adriatiche che connettono attentamente esaminata e messa in dubi due paesi. Chi è ai margini della società, bio la rispondenza ai principi della noperò, spesso finisce per occupare i luostra Costituzione dei modi, dei tempi e ghi più bui di essa, in cui i diritti umani delle condizioni che determinano il tratfondamentali subiscono una decisa con-

tenimento forzato delle persone in questi centri. Infine, il testo dedica un approfondimento specifico a un altro dei diritti umani fondamentali delle persone: il rispetto della propria libertà religiosa, e del principio, previsto dalla nostra Costituzione, che lo stato si attivi per promuovere e rendere possibile l’esercizio di tale diritto individuale e collettivo. Cosa che, allo stato attuale, non (sempre) accade.

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21ventunostili

Gaggiano, hinterland milanese. In 14 ettari sequestrati alla mafia, comune e associazioni creano occasioni di lavoro

Le api, la frutta: è il bosco antimafia di Leonardo Pedroni «È come un figlio per me. L’ho visto nascere e ho lottato con tutta me stessa, come continuo a fare, affinché il Bosco dei Cento Passi possa avere un futuro». Maria Grazia Vantadori, assessore all’ambiente del comune di Gaggiano, paese di novemila anime a 15 minuti di treno a sud di Milano, parla con passione della sua “creatura”. Per arrivare alla quale, però, si compie un viaggio con qualche sorpresa. Alle 10.30 del mattino il treno parte da San Cristoforo, sud Milano, in direzione Gaggiano. La stazione è chiusa e le macchinette erogatrici di biglietti sono tutte guaste. Nessun controllore sul treno, carrozze semideserte. Otto vagoni e cinque passeggeri. Anche a Gaggiano, stazione fantasma, non un bar, non un solo passeggero che scenda, nessuno sulle banchine che aspetta. Ma è una bella giornata di sole. L’edificio comunale si affaccia sul Naviglio Grande, che giunge qui dal capoluogo meneghino, e attraversa tut-

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Progetto corale Gaggiano, il Naviglio Grande e (sopra) il Bosco, che ha visto la luce nel 2009, grazie alla collaborazione tra comune, Libera, Slowfood e Distretto economico rurale Parco Sud

to il paese. L’assessore Vantadori sta nel suo ufficio. Un breve saluto e via, verso il Bosco dei Cento Passi. Ha fretta di mostrarmi il “figlio”, uno dei progetti più importanti varati dall’amministrazione comunale negli ultimi otto anni. Un lungo lavoro, studiato a tavolino nei minimi dettagli. L’avere avuto in concessione 14

ettari di terreno sequestrati alla mafia, in primo luogo, non è stato uno scherzo. «Abbiamo lavorato duramente, abbiamo cercato di coinvolgere vari enti e aziende, che assieme a noi avessero interesse di realizzare quello che poi abbiamo creato. Il progetto, che ha visto la luce il 18 aprile 2009, è nato dal Protocollo d’intesa sottoscritto tra comune di Gaggiano, Libera, SlowFood condotta corsichese e Ders (Distretto economico solidale rurale Parco Sud); porterà alla creazione di un frutteto, dal quale saranno poi realizzate anche le mar-


Il Bosco dei Cento Passi

mellate antimafia dei Centopassi». Tutto molto bello, tutto eticamente corretto. Talmente corretto che le cose le hanno fatte con giudizio e ingegno, qui a Gaggiano. Hanno cominciato con le api. Sì, proprio con le colonie di insetti, cinque alveari per l’esattezza. Ora sono diventati nove. Un apiario completo, dedicato a Lea Garofalo, vittima di n’drangheta, inaugurato a settembre dello scorso anno alla presenza di Giovanni Impastato, fratello di Peppino, a sua volta vittima di mafia (alla cui figura, decenni dopo, è stato dedicato il film I cento passi). Miele, insomma, come primo prodotto in Lombardia realizzato su terreni sottratti alle mafie, con il marchio di qualità e legalità “Libera Terra”.

Frutta per le cooperative Miele che darà la possibilità, con i soldi della vendita, di realizzare il frutteto. «Non un frutteto qualunque, sia chiaro – avverte Maria Grazia Vantadori –: saranno piantate antiche varietà di piante, ormai quasi del tutto

scomparse, schiacciate dal mercato del cibo omologato». Azioni concrete. Il frutteto sarà dato in gestione a una cooperativa. «Produrremo frutta e marmellate rigorosamente biologiche, ma quello che vogliamo produrre davvero – dichiara l’assessore – è lavoro, e in questo periodo credo sia una cosa abbastanza in controtendenza». L’economia locale si è sempre basata sul riso: «È l’unica cosa che produciamo qui – conferma l’amministratrice –. Da decenni tutto ruota intorno al riso, per questo dobbiamo trovare alternative per i giovani.

Aperta a tutti

Oasi da 1.500 alberi, mantenuta vendendo crediti anti-inquinamento Uno spazio verde, affascinante a pochi passi da Milano. E a disposizione di tutti. «Vorrei che il Bosco fosse anche uno spazio per gli ultimi, veramente – afferma l’assessore Vantadori –. È uno degli obiettivi che ci eravamo posti sin dall’inizio. Un’area verde vivibile sia da cittadini di serie A, ma soprattutto da quelli che alcuni ritengono “di serie B” o addirittura C, che potranno godere di quest’oasi con più di 1.500 alberi piantumati, un laghetto attrezzato per il birdwatching, una pista ciclopedonale e alcuni stagni per progetti di reinserimento di anfibi e uccelli acquatici». Vi chiederete, e la manutenzione? Semplice. Per i prossimi dieci anni sarà garantita da Europ Assistance, compagnia di assicurazione che ha scelto di adottare il Bosco. L’azienda, leader in Italia nel settore dell’assistenza privata, acquisterà dal comune di Gaggiano i crediti certificati di anidride carbonica del Bosco dei Cento Passi, garantendo al comune finanziamenti utili alla gestione dello spazio.

La ricerca di un lavoro ha fatto scappare tutti i ragazzi di Gaggiano. Qui non c’è nulla. Quindi il lavoro lo creiamo, anche con queste iniziative. Secondo lei quante persone ci vogliono per la manutenzione di un parco da 17 ettari? Glielo dico io, decine di persone. Sarà uno spazio verde che rilancerà anche l’occupazione». Insomma, un piccolo scorcio di paradiso dove ambiente, cultura, sociale e istruzione convivono. E danno vita a un posto quasi magico, nel quale rilassarsi, fare lunghe passeggiate e prendersi il giusto tempo in una vita

Il miele di Libera terra L’apiario del Bosco dei Cento Passi è dedicato a Lea Garofalo, vittima della n’drangheta. È stato inaugurato di recente, alla presenza di Giovanni Impastato, fratello di Peppino

che è diventata troppo veloce e che raramente permette di apprezzare lentezza, mangiar sano, qualità associata alla legalità. Un salto a Gaggiano, al Bosco dei Cento Passi: una boccata d’aria fresca. Non solo climaticamente parlando.

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ventun righe di Meri Salati Osservatorio povertà e risorse Caritas Ambrosiana

Migranti, fragili di fronte alla crisi Nel 2013, se nel mondo e in Europa le migrazioni crescono, in Italia il fenomeno prosegue, ma non aumenta oltre un certo limite. In base ai dati Istat, all’inizio del 2013 risiedevano in Italia 59.685.227 persone, di cui 4.387.721 (7,4%) di cittadinanza straniera. La popolazione straniera residente è aumentata di oltre 334 mila unità (+8,2% rispetto all’anno precedente). Notevole l’apporto alla natalità dato dalle donne straniere: i nati da entrambi i genitori stranieri sono aumentati, raggiungendo quasi le 80 mila unità (il 15% del totale delle nascite in Italia). La distribuzione regionale conferma una distribuzione ormai consolidata: il 62% degli immigrati sono a nord, il 24% nel centro, il 14% nel sud e nelle isole. La Lombardia si conferma la regione con il maggior numero di presenze straniere: 1.028.663, il 23,4% del totale. I cittadini romeni sono la principale collettività immigrata sia in Italia (un milione di residenti) che in Lombardia (137 mila). Se gli effetti della crisi non si manifestano chiaramente sul numero di presenze dei cittadini stranieri in Italia, è invece evidente come la recessione economica stia colpendo le condizioni di vita degli immigrati, dando vita a un paradosso: nonostante continuino ad aumentare gli occupati (seppure in misura inferiore rispetto al passato), crescono contemporaneamente anche i disoccupati e gli inattivi (più che nel passato). La conseguenza è che le famiglie dei migranti si sono ritrovate a fronteggiare la crisi in posizioni di evidente svantaggio: il rischio di povertà interessa circa la metà di questa popolazione.

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lo scaffale

Le dritte di Yamada A cinque anni dal suo precedente LMVDM, torna a firmare un fumetto Gian Alfonso Pacinotti, in arte Gipi. Lo fa con Unastoria, già giunto alla terza edizione e raggiunto da una candidatura – Estranei Tavola Italia, allo Strega – che per ragioni di regolamento non si sa a scuola, ma un paese si dialoga... da mangiare ancora se andrà a buon fine. Sono 126 pagine, introdotte da una copertina acquarellata blu oltremare che Marco Lodoli, Una cavalcata svela – in uno spazio ovale schiarito – un grande professore in una di decennio in albero che lega le storie. Che sono due, in realtà. scuola di periferia decennio, dalla fine Avvia il racconto il personaggio di Silvano Landi, romana, racconta della fame del perché è sempre dopoguerra alla scrittore famoso alla soglia dei cinquant’anni, che più difficile scoperta del cibo dopo una nottataccia s’accascia su un lungomare indovinare la vita, sano e leggero di con l’evidente bisogno di aiuto. Lo soccorrono due le attese, le paure oggi, complice la persone che chiamano un’ambulanza: lo dei suoi allievi. crisi economica, ricovereranno in un istituto psichiatrico. Moglie e figlia Qualcosa si è rotto sull’ottovolante nell’incontroItalia che ci regala lo hanno lasciato: è troppa la distanza dalla vita scontro alta cucina e descritta nei suoi romanzi, a discapito di quella che generazionale: bassa politica. decide di non vivere. «Forse per te questo modo di adulti e ragazzi Un’Italia un po’ stare al mondo è sufficiente. Del resto tu non vai al fanno sempre a tavola, in casa e mare. Parli del mare»: così gli dice la moglie, facendolo più fatica a capirsi. al ristorante, e un Eppure Lodoli non po’ tra i banchi scendere dalla macchina a una stazione di servizio. si arrende, e del parlamento e Quando “stava bene”, l’unica cosa che spiega che è ora del supermercato. scaldava/ossessionava il cuore di Landi – prima il momento di far Dal primo Autogrill del bituprozan – erano lettere d’amore: quelle scritte ripartire il dialogo. all’ultima dal secondo protagonista del libro, il suo bisnonno, Viaggio nel mondo ossessione, della scuola, tra ecco il ritratto Mauro Landi, soldato nella prima guerra mondiale. paradossi e vuoti, sorprendente Questo personaggio entra in scena nel secondo capima anche colori dell’italiano medio. tolo del fumetto, e si fa largo tra pennellate grigie che e ricchezza. Di come siamo e danno forma a un manipolo di militari, nascosti in un da dove veniamo. fronte scavato. Mauro Landi chiede la solita matita a Marco Lodoli Vento forte Roberta Corradin un commilitone per scrivere due righe piene d’amore tra i banchi La Repubblica alla moglie e al figlio, e ripararsi da quella luce livida di Edizioni Erickson del maiale paura e morte che gli squaglia il cuore: viene scelto Pagine 104 Chiarelettere proprio lui, insieme a un altro – il Marini – per andare euro 9 pagine 272 a sparare a un altro pugno di soldati, austriaci forse. euro 12,90 Svelate le due vicende parallele, sono tanti i momenti in cui Gipi le incrocia, ma significativi e poetici i momenti in cui le nasconde. Come nel prologo (ça va sans dire): sul bianco del foglio galleggiano i tratti leggeri di Gipi nel confluire rugoso del volto di Silvano Landi, allo specchio a dialogare col tempo che sta passando sulla sua pelle. Si sforza di accettarlo, di considerare che l’età migliore, per ognuno, dovrebbe essere quella che si ha giorno dopo giorno («amorevolmente protettiva è la nostra cecità»). O ancora quando Silvano ha una digressione: all’inizio del terzo capitolo, nasce da una telefonata con la figlia, che lo immalinconisce. Tale malinconia si traduce in un paio di pagine piene di neve e piani che saltano (Silvano doveva andare a trovare la madre, ma la neve non glielo permette), cui segue una piccola storia sulla forma del nostro viso e su cosa l’ha definita e la definisce. Non la svelo, andate a vederla. Un libro vibrante e prezioso, nato forse da una pena dell’autore – urlata da un «homo sapiens interiore che non sapevo d’avere» – che, di sicuro, l’avrà fatto camminare sotto la pioggia una sera (come si vede a pagina 52) o chiedere asilo sotto un grande albero. O, per contro, gli avrà ridestato la stessa fame di vita e amore che muove il soldato Landi verso casa. Fatto sta che è un fumetto bellissimo. Unastoria fumetto di Gipi (Gianalfonso Pacinotti)

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Anita dopo il lager, libro e film Anita è appena sedicenne, quando esce da Auschwitz e va incontro a un nuovo mondo. Presto si troverà al centro di una burrascosa storia d’amore, che diventerà per lei occasione di ribellione e rinascita. Ispirato a un romanzo autobiografico ciò che fa di questo film una storia singolare è l’affrontare con una prospettiva nuova il dopo-Shoah. Anita B. Regia di Roberto Faenza Una produzione: Jean Vigo – Cinema Undici in collaborazione con Rai Cinema Good Films durata 88 minuti


Miriguarda di Emma Neri

Quattro arti sul palco del Parenti per l’ospedale pediatrico di tutte le etnie Lunedì 17 febbraio, dalle 20.15 al Teatro Franco Parenti di Milano, si terrà una serata benefica dal titolo Infant Eyes, a favore dell’Alyn Hospital di Gerusalemme, centro di riabilitazione pediatrico, nel quale si curano bambini di qualsiasi origine ed etnia, centro sanitario di grande importanza, sia per le ricerche mediche all’avanguardia che vi si svolgono, sia come simbolo di collaborazione tra popoli. La serata di raccolta fondi metterà insieme teatro, musica, danza e pittura. Protagonisti sul palco personaggi famosi: Fabrizio Gifuni, Gigio Alberti, Ivan Bert e molti altri attori, musicisti e danzatori. A guidare il pubblico nella visione, un ospite d’eccezione: Philippe Daverio. Nel corso della serata si svilupperà infatti un percorso tra musica, prosa e danza, che trae ispirazione dai quadri di tre artisti contemporanei: Nicola Bolaffi, Barbara Nahmad e Tobia Ravà. Lo storico dell’arte Philippe Daverio consegnerà al pubblico la chiave interpretativa dei quadri messi a disposizione dalla Ermanno Tedeschi Gallery. Il talento di Fabrizio Gifuni si presterà invece a dar voce alla storia di un’infanzia; Gifuni, da sempre sensibile al tema, dopo il recital sul Piccolo Principe, torna sul palco del Parenti per Alyn Hospital. La speciale colonna sonora della serata è affidata al quintetto Architorti: orchestra senza tempo, nota per l’eclettismo del repertorio. Infine la compagnia EgriBiancoDanza, da sempre interessata alla contaminazione tra i linguaggi, porterà sul palco un passo a due di Raphael Bianco. Alyn Hospital di Gerusalemme, grazie all’alta professionalità del suo personale e a una ricerca scientifica all’avanguardia, è un punto di riferimento a livello mondiale nella riabilitazione di bambini affetti da gravi disabilità motorie, cognitive e comportamentali, di origine genetica o traumatica. Terapie personalizzate individuali, realizzazione di macchinari protesici mirati, operatori altamente specializzati fanno di Alyn Hospital un’eccellenza nel settore delle cure pediatriche, unico esempio in Medioriente, e non solo, di struttura riabilitativa per casi particolarmente gravi. Alyn accoglie e cura bambini e adolescenti provenienti da tutto il mondo, senza distinzione di etnia e religione. La dottoressa Maurit Beeri, direttore generale di Alyn, sarà presente alla serata milanese e illustrerà le attività dell’ospedale. INFO www.sostienialyn.it

Milano

Sik Sik, illusionista di terz’ordine: al Tieffe l’ultimo Eduardo Al Tieffe Teatro Menotti, dal 28 febbraio al 9 marzo, arriva “Sik Sik”, l’esilarante storia di un illusionista di terz’ordine, alle prese con un’esibizione in cui tutto va storto. Protagonista è Benedetto Casillo, tra i più popolari attori comici napoletani. Lo spettacolo è un atto unico scritto da Eduardo De Filippo nel 1929, poi riadattato con ulteriori contenuti nel 1979 per la sua ultima apparizione, al Teatro San Ferdinando di Napoli. Grazie alla regia di Pierpaolo Sepe, che miscela toni popolari e inquietudini esistenziali, viene riproposta per la prima volta proprio

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quest’ultima versione (fortunatamente disponibile, grazie a una registrazione conservata dal critico teatrale Giulio Baffi) che è da considerare l’ultima opera del grande autore napoletano. INFO www.tieffeteatro.it

Milano

Jannacci a teatro: Il Saltimbanco sbarca a Caronno Andrea Pedrinelli e Susanna Parigi, “prodotti” da Eccentrici Dadarò, continuano a proporre il concerto teatrale “Il saltimbanco e la luna”, ispirato all’opera e con le canzoni di Enzo Jannacci: appuntamento il 21 febbraio al Cinema Teatro di via Adua, a Caronno Pertusella (Varese), alle 21. INFO tel: 0296451384

Milano

Artisti a riposo, come immaginano il finale di vita? Ancora teatro di sperimentazione nel sociale al Pim Off, sala che si afferma come uno dei baluardi culturali del quartiere Gratosoglio. Dal 15 al 17 marzo, in via Selvanesco 75, va in scena “Tu Eri me”, spettacolo nato da un incontro fra lo scenografo David Batignani, l’autore teatrale Simone Faloppa e l’attrice-pittrice Paola Tintinelli. I tre nel 2012 hanno condotto un’indagine nelle case di riposo per artisti. «Si tratta di poche strutture private, appena tre in Italia, a Milano, Bologna e Scandicci – spiegano gli autori –. Queste case tutelano a fine carriera la dignità e il decoro dei professionisti dello spettacolo meno fortunati economicamente. A noi non interessava vampirizzare o spettacolarizzare alcuna umanità. Avevamo in mente una semplice domanda: che finale ipotizzare, dopo una vita regalata all’intrattenimento? Ci siamo chiesti come professionisti a fine carriera percepiscano la loro storia artistico-personale. Il mestiere impone disciplina, sacrifici e rinunce. Cosa ricordano d’essere stati?». Ne nasce uno spettacolo divertente, a tratti amaro, con un repertorio di teatro all’antica, dal sapore demodè, al tempo stesso attualissimo. INFO www.pimoff.it


caleidoscopio Milano

Racconti in stireria: donne rom, attrici di emancipazione Si intitola “Prendere la parola”. È un video di 35 minuti, su un gruppo di donne rom che a Milano hanno avuto l’opportunità di essere ascoltate nel loro tentativo, difficoltoso e duro, di emancipazione. Il progetto nasce da Caritas Ambrosiana e dai suoi progetti di accompagnamento di famiglie rom verso una maggiore regolarità abitativa, in percorsi di reale inserimento nel tessuto sociale, di integrazione con la società e la cittadinanza milanese. La scelta di rivolgersi in modo particolare alle donne nasce dalle riflessioni e

La capacità e la volontà delle donne rom di prendere la parola sono un passo imprescindibile per l’emancipazione di tutta la comunità». “Prendere la parola” è disponibile sul sito di Caritas Ambrosiana. INFO www.caritasambrosiana.it

Genova

Le religioni e il male, grandi intellettuali a Palazzo Ducale Un ciclo di incontri sul tema “Le religioni e il male”. Nel Salone del Maggior Consiglio, a Palazzo Ducale, grandi intellettuali del nostro tempo incontreranno il pubblico per mettere a fuoco diverse dimensioni del male, mantenendo al centro il tema della negatività, del peccato e delle loro implicazioni personali e collettive, intrecciate con le questioni teologiche e antropologiche ed esperienze storiche anche recenti. Gianfranco Bonola, storico delle religioni dell’Università di Roma Tre, lunedì 17 febbraio (ore 17.45) parlerà di “Il male come sofferenza nel buddhismo. Il teologo Enzo Bianchi, Priore della Comunità di Bose, il 24 febbraio (sempre 17.45) discuterà di “Il problema del male”. INFO www.palazzoducale.genova.it

Torino dalle esperienze che, in più di dieci anni, hanno condotto l’area Rom di Caritas a ritenere le donne attrici principali di cambiamento. «Partire dalle donne – spiega suor Claudia Biondi, responsabile dell’area Rom – significa partire dalla loro forza e creatività, dalla centralità della donna rom nell’ambito dell’economia familiare, dalla sua cultura della cura per le persone e le cose. E significa soprattutto permettere loro di rompere l’isolamento, e in alcuni casi di abbandonare i luoghi ristretti del campo-ghetto, uscendo dall’invisibilità. Le donne rom, infatti, vivono nella condizione di minoranza nella minoranza. Dopo anni al loro fianco nella bottega di stireria e sartoria “Taivè”, voluta da Caritas, abbiamo imparato a conoscerle meglio. Attorno alle macchine da cucire si radunano donne con storie, prospettive e idee che faticano a trovare ascolto.

All’Istituto Sociale torna il Cineforum: 17 titoli per dibattere È in corso fino al 10 aprile la 64ª stagione del cineforum dell’Istituto Sociale, il più longevo di Torino. La rassegna propone una selezione tra i film più interessanti del 2013: 17 titoli, scelti per le loro qualità artistiche e culturali, ma anche per la loro capacità di “parlare” allo spettatore, di interpretare la contemporaneità, di aprire gli orizzonti, di raccontare storie emozionanti e universali con uno sguardo appassionato e originale. È proprio il momento dello scambio e della condivisione a fine proiezione a contraddistinguere il Cineforum del Sociale, rendendolo qualcosa di unico nel panorama culturale torinese. Il costo dell’abbonamento per l’intero ciclo di proiezioni è 60 euro; sconti per studenti, anziani ed ex alunni. INFO 011.35.78.35

Pillole senza dimora Mike dà lezioni di vita homeless: molte critiche, lui è un carro armato Mike vive a Seattle. Ha 44 anni e fino a qualche anno fa aveva un lavoro: programmatore di computer. Poi i contratti sono stati sospesi. E Mike si è ritrovato a vivere sotto i ponti. Ma non si è arreso. Ha visto che era possibile cavarsela e ha preso la decisione di insegnare ai “novizi homeless” come destreggiarsi e sopravvivere in salute: si è inventato corsi di sopravvivenza per senza dimora, che ha chiamato Applied Homelessness, lezioni pratiche di vita senza tetto. Il corso di tre giorni costa duemila dollari. Un po’ caro... ma il target dei corsi organizzati da Mike non è esattamente quello degli homeless. I corsi sono destinati a chi vuole sperimentare emozioni e capire come si vive senza nulla. Tutti possono partecipare, ma prima occorre sostenere un colloquio. Il programma prevede: primo giorno al Public Market, Pioneer Square e al Compass Center, per incontrare i senza casa. La notte in un rifugio per i poveri all’International District, cenando con frutta e vegetali raccolti per strada dove capita. Il secondo giorno via dall’ostello alle 7 del mattino per catalpultarsi nella città: i più tosti verranno addestrati a chiedere l’elemosina e dormire su una panchina. Pranzo gratis al Recovery Cafe, mensa frequentata dagli homeless, pomeriggio alla Seattle Public Library e cena da Fare Start, programma che insegna ai disoccupati a cucinare e servire nei ristoranti. La seconda notte sarà al Moore Hotel, un vero albergo nella zona downtown della città, per alzarsi alle 3 del mattino e vagare nelle aree dove i veri homeless dormono all’addiaccio. I corsi di Mike sono duramente criticati dalle strutture di assistenza, che lo accusano di sfruttare la disgrazia degli altri per fare soldi. Mike però è un carro armato. Alle critiche risponde che donerà un quarto dei profitti ai centri di assistenza che lo ospitano. Ma prima, assicura, smetterà di passarci la notte.

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sei domande a... Mario Calabresi di Danilo Angelelli

«La grande fotografia sta con le formiche» La prima macchina fotografica la ricevette per il Natale dei suoi 12 anni. La passione per l’immagine lo ha sempre accompagnato, e da grande ha deciso di fare il giornalista. Del resto, sono mestieri confinanti, anzi intrecciati: fotografo e giornalista, entrambi raccontano storie. Mario Calabresi, direttore del quotidiano La Stampa, non ha mai smesso di “inseguire” i fotografi. Gli incontri con i più grandi li ha messi nel suo ultimo libro, A occhi aperti. McCurry, Koudelka, McCullin, Erwitt, Fusco, Webb, Basilico, Abbas, Pellegrin, Salgado si aprono a Calabresi, parlano del loro lavoro, totalizzante passione, e rivelano il momento in cui hanno saputo riconoscere la Storia e con uno scatto mostrarla al mondo.

Seconda passione A sinistra, Mario Calabresi, figlio del noto commissario Luigi, ucciso da Lotta Continua, è direttore del quotidiano torinese La Stampa dal 2009. Prima aveva lavorato, come inviato anche per Ansa e La Repubblica. Nel suo libro A occhi aperti (edizioni Contrasto, 2013) riflette sul ruolo informativo e le potenzialità narrative di una sua grande passione, a fotografia, proponendo conversazioni con grandi fotografi contemporanei (nelle foto, scatti di McCurry e Koudelka)

sentano particolari crudi. Eppure smuovono le coscienze… Il grande fotografo non ha bisogno di catturare l’elemento forte. Quando Sebastião Salgado fotografa le inondazioni, c’è il rispetto per le persone, mostrato attraverso la fatica Basta restare A occhi aperti per cogliere la Storia?? di una madre che cerca acqua per i Questi fotografi sanno immedesimarsi nelle situazioni, hanno una spiccata capacità di relazione con le persone e il figli. Non c’è la mano di una persona mondo. Sanno starci in sintonia. Nessuno di loro è freddo e che chiede. distante. L’istinto riconosce le situazioni, ma una buona L’incontro con Don McCullin evidenparte la fanno lo studio e il metodo. Da Salgado a McCurry, zia i tormenti di un fotografo in bilico hanno un’applicazione lunghissima. Insomma, c’è tra dovere di testimoniare e paura di educazione allo sguardo. rubare la sofferenza dell’altro. Un limite, per il professionista? In effetti un altro grande, Robert Capa, diceva: «Se le tue foto non sono buone, vuol dire che non eri abbastanza vicino»... Non credo. Lo stesso McCullin, a Cipro, durante un conflitto, lasciò la Certo. Bisogna stare dentro le cose, vale per il fotografo e macchina fotografica per correre a per il giornalista. Non si può fare come l’entomologo che salvare un bambino, così come fu studia le formiche dall’alto. Un giornalista se vuole essere capace di abbassare l’obiettivo efficace e corretto deve assumere il punto di vista delle davanti a un soldato morente che in Vietnam gli fece no formiche. con la testa. Il tormento resta un valore, segno di una capacità di compassione forte, qualità che poi Quando una foto spinge chi la guarda a porsi delle domaninevitabilmente si ritrova nella foto. de? Quando intercetta un dettaglio che ha un significato più Selfie – la pratica di fotografarsi con lo smartphone e postalargo. C’è una foto di Alex Webb, nel libro, che amo molto. re l’immagine sui social network – è stata la parola del Ritrae l’arresto di alcuni migranti messicani. È una foto 2013 per l’Oxford English Dictionary. Foto come quelle del rispettosa, non ha un immediato impatto drammatico, suo libro oggi acquistano più valore, o rischiano di perdersi eppure sintetizza il dramma dell’immigrazione illegale. È del nel mare magnum delle immagini che ci circondano? 1979. Ma è rimasta di grandissima attualità. La stanchezza È vero, oggi tutti fotografano tutto. Però chi lo fa per dei poliziotti, la rassegnazione degli immigrati clandestini i gesti, le espressioni di quelle facce, sono gli stessi di oggi. mestiere dà valore universale al dettaglio che immortala. Chi mette tanto lavoro in ogni foto, farà sempre la Le immagini di povertà contenute in A occhi aperti non pre- differenza.

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caleidoscopio Vicenza

Città dentro, città fuori: un convegno imbastisce il dialogo possibile Il Ser.T. di Vicenza organizza, venerdì 14 febbraio, dalle 14 alle 18 a Palazzo delle Opere Sociali, un convegno dal titolo: “La città dentro, la città fuori: prove di dialogo”. Si tratta di un incontro di studio e confronto su carcere, problemi dei detenuti con dipendenze e possibili progetti di reinserimento. Prenderanno la parola esperti, istituzioni, operatori, ma anche di cittadini. Si parlerà del diritto alla salute in carcere, di come affrontare i problemi della tossicodipendenza, delle istituzioni carcerarie e dei cambiamenti in corso. L’incontro è proposto all’intera cittadinanza, per aprire una riflessione sul tema della convivenza dentro e fuori dal carcere. Verrà inoltre consegnato alla città un documento, elaborato dal Ser.T di Vicenza, sulle esperienze riabilitative per i detenuti tossicodipendenti. Alle 18, conclusione con una proposta culturale: “Storie dal carcere”, a cura di Carlo Presotto e Paola Rossi, accompagnati dal cantautore Bruno Montorio.

Ricette d’Alex Crostate con frutta fresca

Alex, chef internazionale, ha lavorato in ristoranti dopo aver appreso l’arte della cucina nell’albergo di famiglia, a Rovigo. Oggi – i casi della vita... – vende Scarp.

Per la pasta frolla: 200 grammi di farina, 50 di zucchero, 125 di burro freddo a cubetti, un tuorlo d’uovo e un pizzico di sale. In una terrina lavorate la farina, lo zucchero, il burro a cubetti, il tuorlo d’uovo; amalgamate con le mani fino a ottenere un impasto omogeneo. Avvolgetelo in un sacchetto alimentare e riponetelo in frigo, minimo 30 minuti, massimo due giorni. Stendete l’impasto con il mattarello, dando una forma circolare abbastanza grande per coprire uno stampo da crostate. Cuocete in forno per 15 minuti a 180 gradi. Farcite la base ottenuta con crema pasticciera, coprite con la qualità di frutta che preferite (pere, mele, mango, albicocche, prugne) tagliata a spicchi, a vostra fantasia; spolverate di zucchero. Cuocete in forno a 180 gradi. Ritirare dal forno a cottura della frutta al dente.

bullismo e del doping, che condizionano comportamenti e stile di vita dei giovani. Le opere realizzate dovranno essere inviate entro il 31 marzo; verranno scelti 15 vincitori, 5 per ogni ciclo di istruzione. INFO www.valorinmoviemento.it

Concorso

Valori in “Movie”mento, video dalle scuole contro bullismo e doping “Valori in MOVIEmento” è un concorso nazionale per le scuole di ogni ordine e grado, che intende sensibilizzare contro la violenza, stimolando i giovani a esercitare la loro creatività. Alunni e docenti dovranno realizzare cortometraggi dedicati ai valori che sono alla base dell’attività motoria e sportiva, e della partecipazione attiva e responsabile alla vita sociale: passione e impegno; coraggio e libertà; lealtà e fiducia; uguaglianza, dignità e rispetto; solidarietà e amicizia. L’iniziativa (promossa dalla direzione generale per il personale scolastico del ministero dell’istruzione e dall’Osservatorio nazionale bullismo e doping, in collaborazione con il Coni, l’Ecologico International Film Festival e Rai Gulp) intende anche promuovere attività didattiche volte a prevenire, informare e contrastare i fenomeni del

Libro

Fu’ad e Jamila, viaggio dalla paura a nuove speranze di vita In una notte umida e fredda, un gruppo di uomini, donne e bambini si mette in viaggio su una barca verso l’Italia, la terra dove tutto è possibile. Ci sono anche Fu’ad e Jamila. Se ne stanno stretti, nel buio, ammutoliti dalla paura, sognando una vita migliore al di là del mare. La barca è piccola e, quando viene colta dalla

tempesta, il mare sembra non fare sconti. Ma a volte, la vita supera l’immaginazione e riserva sorprese… Un libro dal ritmo serrato, con suggestive illustrazioni, si rivolge a un pubblico trasversale, aprendosi a diversi livelli di lettura, per raccontare una storia particolare, che illumina un fenomeno – quello delle migrazioni e della mobilità umana – di portata globale. Per molti uomini, infatti, partire e viaggiare sono una necessità. E uscire dalla propria terra significa aggrapparsi alla speranza di poter costruire un futuro per sé e per la propria famiglia. L’intenzione di “Fu’ad e Jamila”, con l’avvincente testo di Cosetta Zanotti e le suggestive illustrazioni di Desideria Guicciardini, è dunque narrare del viaggio di chi anela a una “vita possibile”, provando a scoprire come quella storia, come ogni racconto dell’altro, interroga la nostra storia e la nostra responsabilità. L’opera si rivolge infatti in particolare ai ragazzi, nutrendo il loro immaginario di nuove figure e offrendo loro nuove occasioni per immedesimarsi nell’altro da sé. Il libro illustrato, pubblicato da Edizioni Lapis, è promosso da Caritas Italiana. INFO www.caritas.it

pagine a cura di Daniela Palumbo per segnalazioni dpalumbo@coopoltre.it

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street of america Street soccer Usa: in venti città, gli homeless ricominciano dal calcio

Il Gatto e altri contropiedisti, la vita è una partita che si riapre di Damiano Beltrami da New York

O

Le vittorie che contano Una selezione dei migliori calciatori del progetto Street Soccer Usa ha partecipato nel 2012 in Messico e nel 2013 in Polonia, alla Homeless World Cup. Niente trofei in bacheca, per ora, ma tanti successi nella vita: il 75% dei calciatori del progetto fa importanti progressi nella sua vita a un anno dalla prima partita

gni giovedì pomeriggio, nel campetto di piazza Franklin a San Francisco, un gruppo di uomini e donne in pantaloni corti e maglietta rosso ciliegia rincorrono un pallone di cuoio e sperano di segnare un gol più della squadra avversaria. Sembra una normale partita fra scapoli e ammogliati, ma ha una particolarità: i giocatori arrivano tutti dagli ostelli per persone senza dimora e dalle strade della città. Le loro vite erano finite in offside. Ora provano a ritornare in gioco, facendo squadra, correndo senza risparmiarsi e togliendosi, non di rado, la soddisfazione del gol. Non solo nella porta opposta, ma nella vita: ottenere un tetto sotto cui dormire, un lavoro a tempo parziale o addirittura full time, un corso professionalizzante che possa consegnare le chiavi di un futuro più dignitoso. È una bella storia, quella del progetto Street Soccer Usa: a colpi di dribbling, veroniche e punizioni a giro, centinaia di americani senzatetto in venti speciali campionati, dall’est all’ovest del paese, stanno ritrovando la voglia di ricostruirsi una tattica vincente per affrontare le sfide quotidiane. «Nel calcio come nella vita, prendere qualche botta, subire qualche gol o autogol è inevitabile. Quel che conta sono le ripartenze», spiega Eduardo Palomo di San Francisco, ruolo portiere, soprannominato “il Gatto messicano”, per il suo talento fra i pali. «Ecco, stiamo tutti tentando un po’ di ripartire in contropiede». L’idea di Street Soccer Usa, oggi un’associazione senza scopo di lucro, è nata nel 2006 a Charlotte, North Carolina, in una soup kitchen, una mensa pubblica. Rob Cann e i suoi collaboratori hanno pensato che lo sport, in particolare il calcio, sarebbe potuto diventare uno strumento per aiutare clochard, tossicodipendenti, marginali. «Da allora – spiega Cann – l’intuizione si è trasformata in un movimento, e oggi siamo attivi in venti città americane, dalla costa orientale a quella occidentale. Usiamo il calcio come mezzo per insegnare competenze e comportamenti utili a trasformare radicalmente la vita di persone in difficoltà». Una selezione nazionale, composta da alcuni dei migliori giocatori d’America, ha partecipato alla Homeless world cup nel 2012, a Città del Messico, e a quella del 2013, a Poznan in Polonia. Per ora niente coppa, ma i giocatori-clochard Usa sperano di rifarsi quest’anno, a Santiago del Cile. Eppure, secondo Cann, i successi finora non sono mancati. A un anno dalla loro prima partita di campionato, il 75% dei giocatori-homeless trova una casa o un lavoro, completa un programma di riabilitazione o migliora il suo livello d’istruzione. «L’idea di provare a contrattaccare c’è sempre, quel che spesso manca è la motivazione. E quando c’è, fa presto a sfumare... – analizza Palomo, il portiere che prima di cominciare a giocare aveva paura della palla e ora lavora part time come magazziniere in un supermercato –. Ma dopo ogni partita sento che ho fatto il pieno di motivazione. Mi sento più leggero, meno imbrigliato in pensieri negativi, con più forza e ottimismo».

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Premio Ethic Ethic Award Award Premio per iniziative iniziative a d elevato elevato contenuto contenuto etico. etico. per ad

lla a solidarietà solidarietà h ha au una na c carta piÚ arta iin np iÚ Se paghi la tua spesa alla Coop con car ta Equa dai un contributo corrispondente all’1% del valore della spesa a un fondo gestito da Caritas Ambrosiana, che ser ve ad aiutare persone bisognose. Coop raddoppia il tuo contributo. 8Q JHVWR GL VROLGDULHWj VHPSOLFH PD HI ¿FDFH Richiedi carta Equa nei supermercati e ipermercati di Coop Lombardia

Per maggiori informazioni: numero verde

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