XIII Convegno Residenziale TOC
Assisi 19-21 giugno 2015
“Come le membra di un corpo” San Paolo il senso della comunità.
1 Cor 12,12-27 Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. 13 E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti ci siamo abbeverati a un solo Spirito. 14 Ora il corpo non risulta di un membro solo, ma di molte membra. 15 Se il piede dicesse: “Poiché io non sono mano, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. 16 E se l’orecchio dicesse: “Poiché io non sono occhio, non appartengo al corpo”, non per questo non farebbe più parte del corpo. 17 Se il corpo fosse tutto occhio, dove sarebbe l’udito? Se fosse tutto udito, dove l’odorato? 18 Ora, invece, Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto. 19 Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 12
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Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo.
Non può l’occhio dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né la testa ai piedi: “Non ho bisogno di voi”. 22 Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; 23 e quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, 24 mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, 25 perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre. 26 Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. 27 Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte. 21
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Introduzione Parlare del mistero della Chiesa è affondare le radici del discorso nella volontà di un Padre che stanco di avere dei figli che si sentano schiavi e servi a casa propria, pone nella rivelazione del Figlio agli uomini il dello Spirito per vivere l’esperienza liberante di un amore capace di realizzare un percorso di comunione vera con Lui e i fratelli. Potremmo dire che la Chiesa è emanazione della SS. Trinità e, per questo, come Lei è chiamata ad essere grembo generatore di vita, quella vita vera che viene da Dio e che trova la sua manifestazione più autentica nell’amore del Figlio per noi. Perciò, l’Eucarestia, dono che perpetua la presenza vivificante del Risorto tra di noi, ne è la sintesi mirabile, come afferma il titolo dell’Instrumentum Laboris dato alla XI Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi del 2005: “L’Eucarestia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa”. Il documento così afferma: “tutta la vita della Chiesa trova nel Mistero eucaristico, sacrificio, memoriale, convito, la sua sorgente inesauribile di grazia per celebrare la ripresentazione sacramentale della passione, morte e risurrezione di Cristo, per vivere l'esperienza dell'incontro personale con il Signore, per costruire la comunione ecclesiale sul solido fondamento dell'amore e per pregustare la gloria futura delle nozze dell'Agnello” (conclusione dell’Instrumentum Laboris). Emerge chiara la sfida che l’essere Chiesa porta in sé: per ogni credente essa è al tempo stesso dono e compito. Siamo chiamati ad essere pietre vive che, forti della presenza del Risorto mediante il dono dello Spirito, sono rese capaci di realizzare spazi di comunione, con Dio e con i fratelli, reciprocità intrise di fiducia, ponti di amore autentico capaci di offrire speranza di vita per questo mondo. Mi piace fare riferimento ad una bella immagine lucana, legata alla parabola del buon Samaritano, l’immagine della locanda, spazio vitale dove Gesù porta i feriti della storia perché vengano accompagnati nel cammino di guarigione da Lui avviato. Premessa Operata questa inquadratura che fa da sfondo al nostro incontro, prima di contestualizzare il brano scelto ed entrare nel vivo di questa riflessione desidero però fare una premessa di tipo ambientale ed andare a vedere, senza molto approfondire, quale posto occupa la Chiesa nel carisma francescano (siamo ad Assisi) e carmelitano (siete del TOC), questo per cogliere nel cammino un punto in comune e interessante per la riflessione. Iniziamo col dire che i due ordini sono nella categoria dei mendicanti: il primo in maniera più spontanea e immediata, il secondo quasi in maniera dovuta, a causa della trasmigrazione in Europa e per le restrizioni del Concilio Lateranense IV che imponeva l’esercizio dell’apostolato. Entrambi hanno alla base una esperienza viva di fraternità anche se in modalità differenti. Partiamo dalla spiritualità di Francesco e guardando alle fonti possiamo affermare che, nella sua ricerca di penetrare Cristo e il suo amore per l’uomo, Francesco ha posto attenzione profonda a tutti misteri della vita di Gesù, rimanendo particolarmente rapito e segnato dalla sua umanità, dalla sua morte e resurrezione. Nel desiderio ardente di vivere il Vangelo Francesco non volle fare a meno della mediazione ecclesiale, la Chiesa era il suo focolare spirituale e l’unica via di salvezza per tutti. La sua stessa spiritualità prese le mosse dal mandato ecclesiale ricevuto a San Damiano e riconosciuto a sua volta da Innocenzo III (dopo il sogno della Basilica lateranense cadente). Anche la forma della vita dei suoi seguaci nasceva da quell’afflato evangelico fatto di comunione 2
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condivisa e vissuta con i fratelli incontrati e accolti. La fraternità francescana trova le sue origini nell’ascolto del Vangelo e nell’incontro con il Cristo povero e sofferente. Guardando alla spiritualità carmelitana, ed in particolare alla Regola del Carmelo, si coglie come scopo principale del progetto di vita è “vivere nell’ossequio di Gesù Cristo” (RC 2). Questo diventa il fondamento dell’esperienza personale e comunitaria dei carmelitani che, necessariamente, deve portare alla dimensione ecclesiale, poiché la Chiesa è giustamente “sacramento di Cristo”, “Corpo di Cristo” (LG 1 e 7), continuità della sua missione (cf. Gv 20, 21). Questo conduce a riflettere sulla dimensione profondamente ecclesiologica, perché nell’invito alla sequela di Cristo, da cui la Chiesa è originata e totalmente dipendente (cf. SC 5), si indica anche un cammino da percorrere in comunità per raggiungere tale ideale. Trascurare la dimensione ecclesiologica della Regola può portare ad un’esperienza carmelitana individualistica, chiusa, non veramente cristiana. La fraternità, sia all’interno di una comunità religiosa che nel rapporto di questa con tutto il Popolo di Dio, è il segno e il luogo dove la sequela di Cristo si realizza. E’ questa la grande riscoperta dopo il Vaticano II nel carisma carmelitano: il valore della fraternità come parte essenziale del progetto di vita contenuto nella Regola. E’ in tale luce, parte essenziale del carisma, il punto di riferimento per capire il progetto comune, che va dall’esperienza contemplativa, personale e fondamentale di Dio, all’incontro e alla condivisione di vita con gli altri. Nella struttura della vita fraterna indicata dalla Regola, possiamo trovare gli stessi elementi presenti nella Chiesa primitiva e che diventano i pilastri della Chiesa di tutti i tempi: l’ascolto della Parola di Dio, sia personale che comunitaria (RC 7.10; At 2,42); la centralità dell’Eucaristia, che realizza e fonda la comunione (RC 14; At 2,42.46); la povertà nella condivisione dei beni (RC 12.13; At 2,42.44; 4,32.34-35); l’incontro settimanale della comunità per valutare la vita fraterna e celebrare il perdono (RC 15; At 4,32); la preghiera liturgica in comunione con la Chiesa universale (RC 11; At 2,46) Il brano: 1Cor 12,12-27 Veniamo dunque al brano e al tema dell’incontro odierno. San Paolo essendo a buon diritto quello che più di tanti ha avuto esperienza di “implantatio ecclesia”, ci condurrà a comprendere il valore della Chiesa, meglio della Comunità ecclesiale e il suo senso ultimo. Suggestiva e provocante mi sembra il brano di 1Cor 12,12-27 dove l’icona è quella del corpo e delle membra. L’Autore, nella Prima Corinzi, ci elabora un paragone ben sviluppato che nasce dalla necessità di rispondere ad una precisa situazione emersa nella Comunità di Corinto. Sembra che la presenza di un carisma (= dono per l’utilità della Chiesa, in particolare il dono delle lingue: “glossolalia”) in alcuni membri della comunità abbia provocato la svalutazione di quanti non erano in possesso del carisma, giudicato tra i vari doni, il dono spirituale per eccellenza. L’Apostolo pone un chiaro invito al superamento dei limiti che si stanno vivendo in seno a questa esperienza comunitaria che, come ha ricordato precedentemente, è originata dall’azione dello Spirito: “4 Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5 vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; 6 vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti”. (1Cor. 12,4-5)
La diversità delle membra non si riduce a pura e semplice coesistenza delle une accanto alle altre, come parti in se stesse autosufficienti ed autonome, al contrario, le unisce un reciproco bisogno. Nel suddividere le membra in diverse classificazioni, secondo il pensiero antropologico e quello moralistico del tempo, l’autore intende precisare e rilanciare una specie di compensazione all’inferiorità delle membra del corpo meno apprezzate: più un membro è debole, più è necessario. Tutte le membra sottendono ad una legge di mutua sollecitudine a vantaggio di tutto il corpo. 3
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Mentre parla del corpo, Paolo ha dinanzi la Chiesa di cui sottolinea la necessaria pluralità, la diversità, la complementarietà e la solidarietà. Per Paolo l’unità non è data dall’uniformità livellatrice e ripetitiva, ma è il risultato di un laborioso processo di armonizzazione delle diversità suscitate dallo Spirito nel cuore di tutti i credenti mediante l’elargizione dei suoi doni. C’è un “alterità” nel cuore dei credenti, posta in essere dall’azione di Dio mediante lo Spirito, che è sorgente di vita e di armonia. Lungi dall’essere il luogo gerarchizzato tra membri attivi e passivi, la comunità è chiamata ad essere per eccellenza il luogo della compartecipazione e corresponsabilità. Più avanti Paolo farà cogliere che se tutti devono aspirare ai carismi (doni) migliori, cioè quelli più utili alla comunità, ma subito aggiunge che ancor più importante di ogni esperienza carismatica è l’AGAPE (= l’amore). Questa e solo questa è la via regale che i credenti devono percorrere, essa è la vera istanza critica di fronte a tutti i carismi (cfr. Inno alla Carità 1 Cor.13,1-13). Da questo quadro di riferimento emergono alcune riflessioni che mi sembrano importanti per il cammino che ci proponiamo.
L’altro come valore Il principio del noi Dalla comunità per me ad io per la comunità
1. L’altro come valore I tempi che viviamo, fatti di complessità, non ci aiutano nel sostenere questa tesi, ovvero che l’altro sia un valore, visto che quello che sperimentiamo e tutt’altro. Dio, la persona che incontriamo, il nostro collega, le stesse persone che assistiamo in definitiva sono per noi degli sconosciuti, degli estranei alla nostra vita, anche noi spesso ci percepiamo incomprensibili a noi stessi. Eppure, se dobbiamo dire qualcosa di vero sulla nostra esistenza, sia a livello antropologico che biblico, possiamo affermare che la vita si dipana tra qualcuno da cui proveniamo, e che non abbiamo conosciuto prima, e qualcun altro che ci attende verso il quale siamo proiettati. Pensiamo al quadro simbolico della creazione nel libro della Genesi: Adamo viene da Dio ma è proiettato verso Eva e viceversa. Pensiamo anche alla nostra nascita e crescita intrisa del bisogno di altro. L’alterità è il condimento essenziale attraverso cui si cresce assumendo con sempre maggiore nitidezza consapevolezza del proprio sé. Nella Bibbia c’è una forte sottolineatura e valorizzazione dell’alterità mediante l’immagine dello “straniero”, metafora dell’alterità dell’altro in quanto altro. Il mito fondativo di Israele può esserci d’aiuto e si può riassumere con le parole ripetute dagli ebrei in ogni sèder di pesach (la celebrazione annuale della pasqua ebraica): “schiavi noi fummo in Egitto, di là Dio ci trasse con mano forte e mano potente per farci entrare in una terra dove scorre latte e miele”. Israele, che ha una funzione rappresentativa e non esclusiva, rappresenta, nel suo essere straniero in terra straniera, la condizione umana di ciascuno. Del resto se osserviamo con attenzione la nostra vita ci accorgeremmo di come anche mio figlio, mia moglie, mio marito, il mio vicino sono stranieri a me. L’alterità – di cui lo straniero è il paradigma – per la Bibbia è il tratto costitutivo dell’umano, al di là della sua desiderabilità. Lo straniero nella bibbia è quindi quella parte dell’umanità che rappresenta 4
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l’umanità intera nella sua condizione di altro da..., ma possiede anche il significato dell’umano ospitale. L’andare da me all’altro non è mai l’andare da un uguale al suo medesimo ma è un autentico esodo da sé per incontrare, rispondere, a quella prossimità che con la sua presenza, con il suo volto mi interpella, mi denuda, mi pone dinanzi alla verità di me stesso. In tal senso l’altro è un dono dinamico poiché grazie alla presenza degli altri la mia vita cresce, nel senso etimologico del termine, ovvero entra in crisi , si confronta, si misura, si determina e si definisce sempre più. La differenza dei doni, dei difetti, dei caratteri, costituiscono spesso la base dei conflitti, degli scontri ma al tempo stesso possono rivelare la complementarietà dei singoli, la rivelazione autentica del volto di ciascuno e, al tempo stesso, dissolve l’istinto di catturare l’altro per farlo “mio”. Perciò, l’altro è sempre da ricollocare nella logica del dono: un dono intangibile, inafferrabile, da accogliere, da custodire, da amare, da rispettare. Tale logica prevede la capacità di valorizzare l’altro, promuovendo tutto quello che aiuta e sostiene l’altro nella ricerca della sua piena realizzazione. E’ una logica in cui la libertà si attesta non tanto come libertà da . . . o libertà di . . . ma come libertà per. . . l’altro. La nostra stessa vita come quella degli altri è sospesa tra un Altro (Dio), da cui veniamo, ed un altro verso cui andiamo, per cui siamo stati creati. La definizione di noi stessi, di ciò che siamo e siamo chiamati ad essere è dentro e fuori di noi al tempo stesso. 2. Il principio del noi Dio è un vento di comunione che ci sospinge gli uni verso gli altri. Senza l'altro l'uomo non è uomo. Il Vangelo ci chiama a pensare sempre in termini di «noi» fino alla affermazione ultima: “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Non semplicemente nell'io, non semplicemente nel tu, il Signore sta tra l'io e il tu, nel legame. In principio ad ogni vita, il legame, come nella stessa Trinità. La costruzione del mondo nuovo inizia dai mattoni elementari io-tu, dalle relazioni quotidiane. Ma c'è un terzo tra i due, un terzo tra me e te, il cui nome è Amore: collante delle vite, forza di coesione degli atomi, unità dei mondi. (Turoldo) “Gesù è tra noi, ad una condizione: che siamo riuniti nel suo nome. Non per interesse, non per superficialità, non per caso, ma nel suo nome: amando ciò che lui amava, preferendo coloro che lui preferiva, sognando il suo sogno di un mondo fatto di fratelli, dove il giusto e il peccatore, il violento e l'inerme si tengono per mano; dove Abele diventa capace della più grande follia, la divina follia di prendersi cura di Caino ( se tuo fratello ti ha fatto del male, tu và... ), per essere liberi dal male come l'unico libero.” (E.Ronchi) Anche nella Comunità di Corinto, lo Spirito è tra l’io e il tu come realtà sorgiva di comunione. Da questa consapevolezza dovrebbe nascere un atteggiamento salvifico che, a livello credente, diviene la chiave di volta per superare la paura dell’altro e relegare l’inutile e dannosa distinzione di separazione che spesso facciamo tra bene e male. Infatti la linea del male passa attraverso il cuore di ogni uomo e nessuno di noi può illudersi di essere totalmente al di qua o al di là di questa linea. Tutti, indistintamente, siamo segnati dalla vulnerabilità, dalla fragilità, e tutti siamo chiamati a porci dinanzi all’altro nel comune intento di trasformazione, di ricerca di quel bene, di quella felicità senza trascurare e/o banalizzare le fatiche dell’altro. Il pane di cui sentiamo il bisogno, il 5
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nutrimento che andiamo cercando è quello di una fraternità vera e sincera che ci aiuti a vivere, a morire e a ri-nascere continuamente. Abbiamo bisogno di non tanto di acquisire certezze, definire confini, rinforzare difese, assicurando al nostro io di essere in una città forte e sicura, bensì necessitiamo di comprendere che la perfezione non è di questo mondo e che solo nell’abbandono fiducioso a Dio, all’altro, potremo realizzare un cammino comune, fatto di reciprocità e capace di accrescere la vita, dandole senso e profondità. Più che cercare Dio dovremmo lasciarci trovare da Lui. Se guardiamo al Vangelo capiamo subito che l’incarnazione del Figlio di Dio non ha avuto come obiettivo la realizzazione di una nuova religione ma il cercare di suscitare una comunione d’amore, partendo dal cuore di ciascuno. Nella Comunità di Gesù non troviamo gli undici più Giuda, ma i dodici con Giuda per ricordarci che il male non si può sistemare entro certi confini che separano gli individui ma esso sconfina nel cuore di tutti. Del resto è emblematico che l’Ultima Cena di Gesù, il dono di sé agli uomini, viene posto in un contesto di tradimento: Giuda prima, Pietro poi e quindi tutti tradiranno e lasceranno solo Gesù, ma sappiamo anche come proprio questi uomini sono stati chiamati a costruire, con l’aiuto dello Spirito, la Chiesa. Essere se stessi nella consapevolezza di un cammino possibile che ci attende è elemento imprescindibile per realizzare percorsi ricchi di bene, pena il conformarsi alle etichette che mi appiccicano gli altri, lo svuotarmi di me stesso. Elemento fondamentale per la crescita del “noi” è comprendere come il vivere insieme, il condividere porta a scoprire il segreto della propria persona in ciò che ha di unico. Questo ci rende liberi dal vivere secondo i desideri degli altri o secondo un ruolo, ma a partire dal richiamo profondo della propria persona e dalla scoperta delle profondità dell’altro. E’ dunque nel “noi” che viene posta la radice dell’esistere. Solo da un dialogo carico di reciprocità e rispetto può sgorgare la vita piena, realizzante. E’ nel “noi”, nell’ospitalità dell’altro, che il soggetto dando riceve, condividendo si arricchisce, e perdendosi ritrova se stesso. Ogni chiusura nell’io scade inesorabilmente nell’atto rivendicativo e rende sterile ogni relazione. 3. Dalla “comunità per me” ad “io per la comunità” Dinanzi al quadro sociale in cui siamo immersi, talvolta spersonalizzante e spesso carico di solitudine, è reale la tentazione di rifugiarsi acriticamente in una “comunità”. La comunità diviene richiamo alettante per risolvere in poco tempo le proprie fatiche e dare rifugio alle proprie paure (pensiamo alle sette, ad alcuni matrimoni, o alla ricerca di gruppi di sostegno . . .). Vivere in comunità o sperimentare dinamiche comunitarie è sempre faticoso. La Comunità è, a partire da quanto abbiamo detto, luogo di rivelazione dei miei limiti e di quanto è debole nel mio essere. C’è da fare i conti con se stessi, con le proprie ferite, imparando ad operare un “esodo” continuo, un passaggio delicato e sofferto dal proprio “io” al “noi”, dall’egocentrismo all’altro. L’esperienza del popolo d’Israele, ma anche quella degli Apostoli è d’insegnamento: l’amore non è sentimentalismo o emozione passeggera, bensì impegno, riconoscimento di un legame, di un’appartenenza reciproca. L’altro viene ad essere il centro del mio interesse, imparando a rispondere alla sua chiamata, ai suoi bisogni più profondi e costruendo con lui un cammino in cui si realizza uno sguardo comune verso lo stesso obiettivo, la stessa meta. 6
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Sempre S.Paolo afferma: “. . . 2 rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. 3 Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4 senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri.” (Fil. 2,3-4)
Per raggiungere questa reale apertura alla Comunità, non più vista come bene assoluto da cui far scaturire rivoli di benessere per la mia vita, ma come luogo, laboratorio di crescita in pienezza attraverso la dinamica della morte e resurrezione, è necessario acquisire una sensibilità ed un cuore purificati che sappiano con generosità orientarsi verso l’altro, verso il cuore dell’altro. Imparare ad amare richiede tutta una vita ed una scuola condotta da Colui che è il datore dei doni, tra cui quello della carità: lo Spirito Santo che penetra nelle pieghe dei nostri cuori aprendoli all’amore e alla semplicità (= sine plexa…senza pieghe). In altre parole prima di esercitare una funzione o di viversi un ruolo, ognuno è chiamato ad impegnare la sua umanità a partire dalle esigenze costitutive del proprio cuore, le uniche capaci di darci lo slancio per saltare nel mondo dell’altro, andando oltre le apparenze ed esercitando la fatica della pazienza e dell’ascolto.
La sfida: Chiamati ad essere “corpo”
Essere comunità è vivere la chiamata ad essere “corpo”, ovvero un’appartenenza vicendevole fatta di comune impegno, diventando responsabili gli uni degli altri, gli uni per gli altri. Ognuno ha un dono diverso da esercitare secondo la grazia che gli è data, e aggiungo, secondo le competenze proprie. Esercitare il “dono” ricevuto è costruire la comunità, non essere fedeli al dono diviene fonte di disordine per essa, sorgenti di rovina per ognuno dei suoi membri. È questa una consapevolezza molto scarsa ai nostri giorni. Non sempre il dono corrisponde ad una funzione ma può essere la capacità, la qualità, che anima una funzione. Credo che una delle tentazioni che incrina l’essere corpo sia la gelosia, vero flagello che nasce dalla non consapevolezza del proprio dono: ognuno deve avere un compito ben chiaro e comprendere che tale compito è indispensabile per la Comunità. Medicina capace di risanare le ferite del vivere insieme è il perdono. Sull'eterna illusione dell'equilibrio tra dare e avere, mentre l'uomo pensa per equivalenza, Dio pensa per eccedenza fa prevalere il disequilibrio del fare grazia che nasce dalla compassione, dalla pietà. «Non dovevi forse anche tu aver pietà di lui, così come io ho avuto pietà di te?» Non dovevi essere anche tu come me? E’ così che il Re della parabola di Matteo afferma nei confronti del servo che non condona il debito al suo subalterno. Questo è il motivo del perdonare: fare ciò che Dio fa.
Acquisire il cuore di Dio, per immettere la divina eccedenza dentro i rapporti ordinati del dare e dell'avere. Perdonare significa - secondo l'etimologia del verbo greco - lasciare andare, lasciare libero, troncare i tentacoli e le corde che ci annodano malignamente in una reciprocità di debiti. “Assolvere significa sciogliere e dare libertà. La nostra logica ci imprigiona in un labirinto di legami. Occorre qualcosa di illogico: il perdono, fino a settanta volte sette, fino a una misura che si prende gioco dei nostri numeri e della nostra logica, fino ad agire come agisce Dio”.(E.Ronchi) Buona vita
+ don Giuseppe Satriano
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