Educazione olistica: don Milani e Mario Lodi (Ambrosia 44)

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NEWSLETTER quadrimestrale di Medicina Olistica anno 2013

Direttore Responsabile: Catia Trevisani.

Registrazione: Tribunale di Milano n. 28 del 28-01-2003.

Direttore Scientifico: Catia Trevisani.

Stampa: Linea Grafica. Città di Castello

Testi di: Antonella Coccagna.

Editore: SI.RI.E. S.R.L. Ripa di Porta Ticinese 79, 20143 Milano

Immagini tratte da: www.donlorenzomilani.it www.giunti.it La riproduzione anche parziale di testi, fotografie e disegni è possibile previa autorizzazione.

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educazione olistica: don Lorenzo Milani e Mario Lodi

Il compito della scuola è trasformare un gregge passivo in un popolo di cittadini pensanti. Mario Lodi

Care amiche e amici, in questo numero tratteremo della scuola popolare, la scuola di don Milani e del maestro Lodi, una scuola bella e appassionante, luogo di educazione per bambini liberi. Una scuola che non vuole essere di nicchia, non applica particolari metodi o ricette, ma che si basa sulla qualità della relazione, sull’esserci del maestro o della maestra. Una scuola in cui la materia principale è la vita e si pone come scopo per i suoi bambini “il saper vivere da uomini liberi”. Una scuola che può essere definita a pieno titolo: olistica. Buona lettura! Catia Trevisani catiatrevisani@scuolasimo.it

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LA SCUOLA POPOLARE La scuola può anche essere divertente! Bella, piacevole, coinvolgente, travolgente, appassionante. Sembra una battuta di cattivo gusto, un’assurdità, un nonsenso, o nel migliore dei casi la speranza di un ingenuo. Eppure è la verità: la scuola può piacere. E non parliamo di quelle esperienze didattiche alternative, di nicchia, che vivono e sopravvivono a dispetto della crisi, della degenerazione sociale, e propongono percorsi illuminati dalla pedagogia di grandi saggi dell’educazione (le scuole Montessori, le Steiner-Waldorf, ecc.). No, parliamo proprio di lei, la grande malata della società italiana, cruccio e condanna di decine di migliaia di insegnanti e di decine di milioni di bambini e ragazzi. Lei, la scuola ufficiale, la scuola delle persone normali, la scuola di tutti – pubblica o privata, gestita da educatori professionisti, da preti o da suore. La scuola dei trenta alunni per classe e dei voti. La scuola della razionalità, che non concede spazio alla fantasia, alle emozioni, allo spirito. Proprio lei. La scuola popolare. Possiamo tirare un lieve e cauto sospiro di sollievo: non è completamente malata. Se scaviamo a lungo e a fondo, con pazienza e lungimiranza, potremo trovare aule che sono luoghi di educazione per bambini liberi, responsabili e consapevoli, piuttosto che centri di addestramento per docili soldatini ubbidienti. Scopriremo che c’è ancora qualche speranza, che non siamo perduti. Che la scuola può ancora rinascere, può ancora essere un’opportunità, una ricchezza. Che la scuola pubblica, nonostante i vertici della società si sforzino sempre più di renderla prigione, può ancora liberare. Che la scuola privata può essere illumina-

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ta e illuminante anche senza rette, senza albi di insegnanti. Che entrambe possono essere scuole olistiche. Scopriremo che non bisogna necessariamente essere ricchi a sufficienza o istruiti abbastanza in tema di pedagogia per regalare ai nostri figli la speranza di un futuro migliore. Scopriremo anche che la scuola di tutti può ancora essere, o forse diventare, la scuola per tutti. Con questa convinzione e questo sollievo presentiamo due stelle del firmamento pedagogico italiano. Non hanno fondato scuole con il proprio nome, non hanno stabilito un metodo da seguire, non hanno stilato un decalogo per diventare buoni maestri e non hanno progettato materiali speciali. Hanno scelto di non farlo. E di questa scelta hanno fatto il proprio cavallo di battaglia. La loro scuola sono state le classi che di anno in anno la burocrazia o gli equilibri anagrafici del paese affidavano loro – i figli dei signori con quelli dei contadini, i figli degli operai con quelli dei medici. Nessuna nicchia di benestanti o illuminati: semplicemente la gente, tutta la gente. Quella era la scuola che amavano. Il loro metodo erano loro stessi e i loro bambini che, diversi ogni anno da quelli dell’anno precedente e di quello successivo, indicavano al maestro, con le loro particolari personalità e le loro esigenze, la strada da imboccare. Non insegnavano a insegnare, pensavano fosse inutile: si impegnavano piuttosto a insegnare ai propri allievi a essere, convinti che proprio l’essere fosse la chiave per formare cittadini liberi e consapevoli, dunque anche buoni maestri. Non avevano strategie, se non quella di ascoltare i bambini e dar loro ciò che chiedevano: vivere. E non avevano bisogno di materiali speciali: l’ambiente intorno a loro e ai loro bambini era il miglior materiale che potessero mai desiderare.

Una di queste due stelle ha avuto una vita breve – anche se molto intensa. È morto nel 1967, a quarantaquattro anni. “Da sette era ammalato, da tre soffriva atrocemente, da uno non riusciva più a levarsi dal letto. Ma fino all’ultima ora di vita ha continuato a far scuola, coi ragazzi stretti intorno per udirne la voce”. Insegnava che studiare è bello, perché solo chi sa – chi sa leggere le prime pagine dei giornali, chi sa scrivere, chi sa capire ciò che legge – può diventare padrone della propria vita e non servo. Il suo nome era don Lorenzo Milani. L’altro vive ancora, possiamo ancora tutti udirne la voce e ascoltarne i consigli. Ha iniziato da giovane in un angolo sperduto di provincia, dove il tempo non passava mai e non accadeva mai niente. Ora è un distinto vecchietto canuto, con gli occhiali da vista perennemente calati sul naso, golf e camicia azzurra, voce bassa e lenta. Da più di cinquanta anni ci parla, con il suo esempio, di una scuola che nasce dal basso, dai bambini. Cioè dalle cose che a loro sono vicine e care. Il suo nome è Mario Lodi. Entrambi amavano intensamente e profondamente i propri ragazzi, ed entrambi sognavano di vederli diventare uomini liberi. Entrambi credevano che educare alla libertà significasse educare tutte le parti di un bambino (razionale, fantastica, corporea, emotiva e spirituale), allo stesso tempo educarlo come un intero unico e indivisibile, ed educarlo infine come una parte di un tutto più grande (la sua famiglia, il quartiere, la città, la nazione). Sono stati, insieme a molti altri, i moschettieri non togati della pedagogia dal basso, di quella primavera che ha riscaldato, nella seconda metà del secolo scorso, il nostro sistema di istruzione. Una primavera da non rimuovere, da non dimenticare.


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Decenni in cui la pedagogia popolare è riuscita a essere stimolo, incentivo e sprone alla pedagogia accademica, per denunciare insieme un’istruzione sempre più enciclopedica, meritocratica, discriminatoria. Mario Lodi ha costruito una strada più strutturata, ideologicamente e teoricamente; don Milani ha fatto dell’insegnamento una testimonianza viva e diretta del suo sacerdozio, ma non ha avuto il tempo di tessere reti e creare contatti. Entrambi lavoravano per una scuola che nascesse dal basso, e che non abbassasse mai la guardia dagli ideali della democrazia civile: una scuola del dare-di-più-a-chi-ha-di-meno – e quel di più voleva dire, per i nostri due maestri, olismo. Quella di Mario Lodi e don Milani è la scuola di tutti, contro la scuola classista e discriminatoria; la scuola che include e integra, contro la scuola che separa e divide; la scuola della lingua italiana viva e saporita, contro la scuola della lingua imbalsamata e impagliata; la scuola del pensiero che si fonde con l’azione, contro la scuola del signorsì; e ancora la scuola dei laboratori, contro la scuola prigioniera delle classi e delle sezioni; la scuola del lavoro di gruppo e della cooperazione, contro la scuola dell’immobilità, della solitudine e del silenzio. Infine la scuola che fa dell’ambiente-città e dell’ambiente natura libri di lettura caldi, diretti, visibili, freschi di giornata, contro la scuola delle conoscenze indirette, invisibili, assiomatiche, lontane dal mondo quotidiano dei ragazzi. Mario Lodi ha scritto C’è speranza, se questo accade al Vho. Aveva ragione: c’è speranza, e se questo è accaduto una, due, tre volte, può accadere di nuovo. E la scuola di tutti e per tutti, la scuola per uomini liberi può trasformarsi da eccezione a norma. E allora, piuttosto che posare lo sguardo su ciò che non va nella scuola italiana – non la finiremmo più – vogliamo ricordare questi due grandi maestri, maestri veri, maestri di vita, senza dimenticare tutti gli insegnanti – fortunatamente le eccezioni sono più di quante ne immaginiamo – che giorno dopo giorno, ieri come oggi, cercano di trasformare le proprie aule in giardini dove coltivare l’infanzia.

LORENZO MILANI Ed ecco toccato il tasto più dolente: vibrare noi per cose alte. Tutto il problema si riduce qui, perché non si può dare che quel che si ha. Ma quando si ha, il dare vien da sé, senza neanche cercarlo, purché non si perda tempo. Purché si avvicini la gente su un livello da uomo, cioè a dir poco un livello di Parola e non di gioco. E non parola qualsiasi di conversazione banale, di quella che non impegna nulla di chi la dice e non serve a nulla in chi l’ascolta. Non parola come riempitivo di tempo, ma Parola scuola, parola che arricchisce. Don Lorenzo era uno di quegli uomini che, per le sue scelte nette e coerenti, le sue rigide prese di posizione, il linguaggio tagliente e preciso, la sua logica stringente di ragionare e argomentare, si tirava facilmente addosso grandi consensi o grandi dissensi. Potevi amarlo o odiarlo, insomma, non c’erano alternative. Ma ha regalato all’infanzia – l’infanzia più povera, più sfortunata, più disperata – non tanto la speranza di un futuro migliore, quanto gli strumenti affinché ognuno potesse costruire quel futuro da sé e per sé, senza doversi affidare a parole come speranza e fortuna. Lorenzo Milani svolge tutta la sua parabola esistenziale nel periodo che intercorre tra il regime fascista, la ricostruzione post-bellica del secondo conflitto mondiale e la ripresa economica degli anni sessanta. Nasce da una famiglia dell’alta borghesia toscana. Una famiglia in cui la cultura, con la “C” maiuscola, è di casa; nonno Luigi era un notissimo archeologo, la madre è una raffinata signora ebrea, il padre un professore universitario. A vent’anni abbandona quel mondo borghese, raffinato e colto – intriso e impregnato di ateismo – ed entra in seminario. Abbandona gli agi e i privilegi, le comodità e i salotti per una precisa e convinta scelta di campo: servire il Vangelo. Che vuole dire, per Lorenzo Milani, qualcosa di ben preciso: stare dalla parte dei poveri, cioè degli ultimi nella scala gerarchica, cercare di conoscerli da vicino, di viverci insieme, di imparare la loro lingua, inse-

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gnargliene un’altra, condividere le loro cause, difendere le loro ragioni. Comprende che l’unica strada da percorrere per costruire un futuro migliore si chiama educazione. Un’educazione di un certo tipo, un’educazione che guardi all’uomo come a un individuo complesso e affamato di stimoli che non siano solo numeri e paradigmi, ma soprattutto come a una persona che vive qui e oggi, inserito in molteplici reti di relazioni, eventi, processi, e che al di fuori di queste non può essere considerato. Un’educazione olistica. A Calenzano, a pochi chilometri da Firenze, Lorenzo Milani intraprende questa strada. Cappellano del vecchio proposto, all’inizio cerca di avvicinare i giovani alla Chiesa col gioco del pallone, il ping pong e il circolo ricreativo come fanno da una parte gli altri preti, dall’altra i circoli comunisti – che in questi anni si contendono la guida del popolo. Presto però si rende conto che evangelizzare con questi mezzi è indegno e puerile. Ma, soprattutto, si accorge che non ci può essere evangelizzazione, né elevazione civile e sociale, senza cultura. Così un giorno il pallone e gli attrezzi del ping pong finiscono in fondo a un pozzo in mezzo al cortile della canonica e don Lorenzo apre una scuola serale per giovani operai e contadini. La scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione la rovina; bisognava che i giovani con le buone o con le cattive capissero la differenza e si buttassero dalla parte giusta. Per lui la scuola è il mezzo per colmare quel fossato culturale che gli impedisce di comunicare con le persone; lo strumento per dare la parola a chi ha meno affinché diventi più libero e più uguale, per difendersi meglio e gestire da sovrano ciò che la democrazia ci ha dato, il voto. Con quella tenacia di cui è capace quando è convinto di avere intuito una verità, Milani va a cercare uno a uno tutti i giovani operai e contadini del suo popolo. Entra nelle loro case, siede ai loro tavoli per convincerli a partecipare alla sua scuola perché l’interesse dei lavoratori, dei poveri non può essere quello di per-


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Catia Trevisani

Milano 2013-14 17 novembre, 19 gennaio, 23 marzo, 25 maggio, 6 luglio

Cinque giorni da dedicare a se stessi per capire come siamo fatti, come funzioniamo, perché ripetiamo gli stessi comportamenti anche quando non vorremmo, perché ci danneggiamo quando invece vorremmo essere felici. Parleremo del perché ci ammaliamo, indagheremo il senso della malattia e il suo messaggio. Cercheremo di capire come non subire gli eventi in modo traumatico, come trasformare i momenti di crisi in opportunità per la nostra vita. Capiremo come funzionano la mente, le emozioni e il loro legame con il corpo. Scopriremo la nostra responsabilità nel produrre ciò che ci accade. Affronteremo il tema della morte. Scopriremo che la pretesa allontana l’oggetto del desiderio, mentre la gratitudine lo attira. Apprenderemo quanto il modo di alimentarsi influenza il livello di energia e salute, la volontà e lo stato d’animo. Cominceremo a osservare la qualità del nostro dialogo interiore e la qualità delle nostre azioni, il potere che queste emanano e il nostro senso di autostima. Osserveremo la nostra capacità di relazione e potremo correggerne gli errori. Infine, esploreremo il nostro rapporto con il sacro, con il grande Fuoco di cui siamo le scintille e tutto questo per poter finalmente SCEGLIERE DI SPLENDERE. Questi cinque seminari di carattere teorico ed esperienziale sono intervallati da due, tre mesi di tempo necessari per far sedimentare gradualmente quanto appreso. Sono aperti a tutti. È previsto uno spazio-gioco per i bambini in modo da consentire la partecipazione delle famiglie. Il corso è tenuto da Catia Trevisani, medico, naturopata, direttrice della Scuola SIMO (Scuola Italiana di Medicina Olistica) e autrice di numerosi libri di successo.

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dere tempo intorno al pallone e alle carte come vogliono i padroni, ma di istruirsi per tentare di invertire l’ordine della scala sociale e creare un mondo più giusto. Rivoluzionare il mondo, dunque, attraverso l’educazione. Ma la rivoluzione è un obiettivo ambizioso. E il mezzo utilizzato non può che essere all’altezza. Un’educazione di qualità, un’educazione olistica. Voi non sapete leggere la prima pagina del giornale, quella che conta e vi buttare come disperati sulle pagine dello sport. È il padrone che vi vuole così perché chi sa leggere e scrivere la prima pagina del giornale è oggi e sarà domani dominatore del mondo. Da Calenzano don Lorenzo viene trasferito a Barbiana, un angolo sperduto sul Mugello che non è segnato neanche sulla carta geografica. È una sorta di punizione, o piuttosto un avvertimento. Un esilio, insomma. I vertici della Chiesa non hanno gradito il suo diario degli anni trascorsi nella canonica di Calenzano. In Esperienze pastorali Milani ha smascherato le storture e le ingiustizie della società e dello stesso clero. Tra le altre cose il libro fornisce i dati che mostrano come la classe sociale dei genitori determini il successo o l’insuccesso scolastico degli scolari nella maggior parte dei casi. La sincerità, ai tempi del nostro parroco così come oggi, non è cosa gradita, si sa. Purtroppo però, per chi come Lorenzo Milani guarda il mondo in maniera globale, chi ne coglie le interrelazioni interne, chi cerca di afferrarne la complessità, affermare la verità diventa un dovere, una missione. A Barbiana il nuovo priore si trova di fronte a ragazzi che dopo la scuola elementare possono fare una sola scelta – obbligata, cioè quella di fare i contadini; don Milani decide di offrire loro un’alternativa: venite qua in canonica, dice, (trasforma la canonica in un istituto scolastico) e facciamo scuola insieme. Così anche a Barbiana nasce una scuola, precisamente una scuola di avviamento professionale – oggi la chiameremmo istituto professionale – con un maestro unico, cioè lui, che insegna tutto, dalla geografia, all’italiano, alla matematica, alle materie più tecniche, chiamando però per queste ultime la gente del posto, esperta del lavoro, ad aiutarlo. La sua è poi una scuola privata, o meglio una scuola non statale, costituita non da un’istituzione pubblica, ma che ha evidente carattere pubblico. Una scuola per poveri, dove si insegnano materie da ricchi. Dove si studiano i giornali quotidiani, la vita di Gandhi e l’Apologia di Socrate. Dove si lavora in officina, si nuota, e si soffre insieme, si pensa insieme, si scrive insieme. Il diario che esce da questa esperienza, Lettera a una professoressa, è un libricino firmato “Scuola di Barbiana”. Lo hanno scritto insieme, Milani e i suoi ragazzi, e viene pubblicato nel 1967. Pochi mesi dopo – don Lorenzo non ci sarà più – diventerà uno dei baluardi del sessantotto italiano. Migliaia di giovani, giovani di sinistra, giovani oppositori del sistema, leggeranno questa denuncia della scuola italiana scritta da un prete e dai suoi ragazzi, e ne faranno il proprio manifesto nelle piazze della contestazione.

Una scuola olistica La scuola è l’unica differenza che c’è tra l’uomo e gli animali. Il maestro dà al ragazzo tutto quello che crede, ama, spera. Il ragazzo crescendo ci aggiunge qualche cosa e così l’umanità va avanti. Don Milani amava. Amava la vita, amava i suoi ragazzi, amava il mondo. Per questo soffriva nel vedere le ingiustizie, le storture, il dolore. Per questo si indignava, e per questo lottava. E nonostante c’è chi di Lorenzo Milani ha voluto mostrare il lato arrabbiato, la sua era e rimane, ne siamo convinti, la “pedagogia dell’amore”: una pedagogia che non guarda tanto a come fare per “poter fare scuola”, ma si distingue per quella cura educativa che ogni educatore dovrebbe possedere per saper e poter guidare i propri giovani educandi lungo un percorso di crescita che porti alla loro maturazione come cittadini. Don Milani non insegna un metodo, non lo pratica neanche. Continua a ripetere, nei suoi libri e nelle sue lettere, che l’importante è “crederci con tutta l’anima”, che è proprio la figura dell’insegnante, con il suo amore incondizionato verso gli alunni, a rappresentare la chiave di svolta del processo di apprendimento. I care, scrive sulla porta del suo ufficio a Barbiana. “Mi importa”, “ho a cuore”, contro il “me ne frego” fascista che ha imperato per vent’anni. Ecco la chiave olistica dell’educazione che Lorenzo Milani praticava, viveva, sognava per tutti. La relazione, l’amore tra educatore ed educandi prima di ogni altra cosa, perché è solo la natura del rapporto tra questi due soggetti che dà senso e forma alla comunicazione che avviene. Responsività, tenerezza, empatia, ascolto, non intrusività. In questo si traduce l’I care di Milani. La sua è una scuola che

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scuote l’anima dei ragazzi, una scuola che mira non solo a promuovere cultura e linguaggio ma, oltre ogni altra cosa, a individuare negli alunni solitudine, angosce, paure, tristezze, rabbia, le emozioni di ogni essere umano ma che solo un attento educatore può scorgere e canalizzare al meglio. È un avere a cuore che aiuta l’altro ad attualizzare se stesso, a presentificarsi, a scorgere diversi e possibili sé e a costruire nuovi orizzonti di senso. È una cura che si lega strettamente alle esperienze individuali, sociali e comunitarie che contribuiscono a definire e a modellare l’esistenza, una cura che accompagna e orienta il soggetto nel suo

pender forma, che mette al centro l’unicità dell’uomo, la sua individualità originale, e consente così alla persona di compiere se stessa nella relazione con gli altri. Una cura che non fa cadere nell’anonimato, che indirizza il bambino, l’adolescente, il ragazzo verso la costruzione di nuovi modelli e di nuove esperienze emozionali, che lascia delle tracce profonde nell’anima umana. L’I care di Don Milani, in una parola, è amore. Quello di Milani è un viaggio che coinvolge educatore ed educando e che provoca trasformazioni e cambiamenti in entrambi, fino a diventare espressione di scoperta e riscoperta di se stesso e

dell’altro. È un viaggio alla cui base sta l’esperienza del “sentire” l’altro, di cogliere le sue più profonde emozioni. Relazione ed emozioni. Ecco le parole d’ordine di Barbiana e Calenzano. In una parola, empatia. Empatia che si scontra e si contrappone alla scuola della chiusura e dell’isolamento – la scuola pubblica ufficiale – progettata per crescere adulti privi di autostima, di autoefficacia. Scrivono i ragazzi di Barbiana: Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto. Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. […] E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza. Don Milani accoglie, non isola, non “ghettizza”, dà spazio a tutti, per rendere tutti culturalmente ricchi, poiché sa che alienazione e isolamento a scuola certo non contribuiscono a rendere un bambino più sicuro di sé, a farlo sentire parte integrante di una comunità. E sa bene, anche, che il non sentirsi parte di una comunità produce ansietà, depressione, solitudine, gelosia, mentre l’accettazione, l’inclusione, la cooperazione provocano felicità, euforia, soddisfazione. Anche questo è olismo. I care significa anche, infatti, combattere la logica del merito, che alle orecchie del priore di Barbiana e dei suoi ragazzi suona tanto come una presa in giro. Di fronte ai dati raccolti e pubblicati in Esperienze pastorali gli autori di Lettera a una professoressa si chiedono: gli uomini sono diversi dalla nascita?

MILANO Anatomia 4-5 Maggio, 25-26 Maggio, 8-9 Giugno, 29-30 Giugno Aromaterapia 4-5 Maggio, 25-26 Maggio Reflessologia 1 livello 8-9 Giugno, 29-30 Giugno Feng Shui 22-23 Giugno Comunicazione e Relazione 29-30 Giugno Oligoelementi 29-30 Giugno

Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi. Ma non è solo una questione di ricchezza. L’appello dei giovani di Barbiana alla scuola si allarga, si fa denuncia generale. Non può esistere una scuola per i bravi, per chi già sa, per chi andrebbe avanti anche fuori dall’aula. La scuola deve curare e seguire i più deboli, tutti i più deboli, siano le ragioni della loro debolezza sociali, economiche, fisiche o psicologiche.

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L’abbiamo visto anche noi che con loro la scuola diventa più difficile. Qualche volta viene la tentazione di levarseli di torno. Ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. E allora, come per tutto, a Barbiana si inizia a dare il buon esempio. Però chi era senza basi, lento o svogliato si sentiva il preferito. Veniva accolto come voi accogliete il primo della classe. Sembrava che la scuola fosse tutta solo per lui. Finché non aveva capito, gli altri non andavano avanti.


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Il priore di Barbiana è consapevole che le dimensioni emozionale, relazionale e affettiva di ogni individuo giocano un ruolo fondamentale nella costruzione dell’identità personale. I care, dunque, suona come un invito a recuperare l’universo affettivo e relazionale, poiché un rapporto educativo è strutturato soprattutto sul legame tra due o più persone, piuttosto che su una lista di nozioni da trasmettere. A Barbiana l’io e il tu s’incontrano per formare il noi. Don Milani non pianifica tutto lo scibile da insegnare, ma tiene presenti gli obiettivi, quelle che i docenti di oggi chiamerebbero “le indicazioni per il curricolo”, gli “apprendimenti di base”, i saperi irrinunciabili: pensiero riflessivo e critico, simbolizzazione e rappresentazione del mondo, sapere integrato, cittadinanza attiva, attenzione alla diversità, esplorazione e scoperta, apprendimento cooperativo. Da qui il processo educativo, in partenza vuoto perché privo di pianificazione a monte, si riempie di argomenti che via via si dipanano all’interno di una ricerca interdisciplinare e specifica, mai solamente indotta dal maestro, ma considerata secondo le motivazioni profonde di ogni allievo. L’olismo di don Milani, però, non significa soltanto amore e relazioni. Senza una relazione vera, profonda, empatica non può esserci comunicazione, è vero. E senza comunicazione non c’è insegnamento. Ma a Barbiana olismo vuol dire anche rimettere insieme i pezzi, coniugare me-

glio il sapere e il saper fare, misurarsi con l’essere quotidiano di ciascun ragazzo. E così nell’aula di sopra ci sono i libri, le figure geometriche e le mappe, nell’aula di sotto gli arnesi per costruire oggetti e il laboratorio di esplorazione scientifica. La scuola di Barbiana è un’officina, una falegnameria, uno studio fotografico. I ragazzi di don Milani leggono il giornale, scrivono insieme, poi dipingono, fanno gli astronomi e, tempo permettendo, nuotano. Ma in ogni momento hanno la possibilità di fermarsi e “parlare di noi”, di quel che sta succedendo e di come va, senza mai dimenticare che si sta lì per imparare. Olismo a Barbiana si traduce anche in scuola aperta, in un programma condiviso dagli allievi, in metodo cooperativo, in compagni più grandi che insegnano ai più piccoli, tutto per conferire all’opera dell’apprendere coerenza e forza espressiva. Così il maestro Milani riesce a sviluppare negli allievi l’autonomia, la riflessione critica, la comunicazione, la conoscenza e le abilità. A Barbiana, partendo dall’ambiente in cui vivono, i ragazzi organizzano e costruiscono la propria conoscenza, guidati dal maestro severo e attento. Dal particolare all’universale; dalla moto alla scuola di servizio sociale, dove verranno formati prevalentemente sindacalisti e insegnanti. Allievi e maestro pattuiscono, ovviamente, le regole del vivere insieme. Cosa significa fare scuola a Barbiana? A Barbiana non esiste il libro di testo. Nella

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scuola, che è anche un centro redazionale, il momento e il luogo della la fruizione del libro, lo strumento didattico, coincide spesso con la produzione dello stesso. L’integrazione tra scuola e lavoro è totale. La realtà, introdotta principalmente dal giornale e dalla corrispondenza, rappresenta la base e il fondamento di ogni disciplina. Lo schema storico non è di tipo consequenziale, ma si costruisce spesso andando a ritroso. Cercando i significati e le origini di un termine casualmente letto o citato. Mettendo in risalto gli aspetti che più hanno colpito l’attenzione collettiva i ragazzi tingono, per esempio, di colore nero la cartina dell’Europa a indicare le invasioni della Germania nazista e dell’Italia fascista. Così la storia si lega alla geografia in un unico schema spazio temporale. La geografia. Sui tavoli della scuola don Milani e i suoi ragazzi costruiscono le loro cartine geografiche, accompagnate da schede indicative. Ognuna illustra una caratteristica, linguistica, economica o politica. Il punto di partenza è sempre stimolante, appassionante, accattivante: un articolo di giornale, il racconto di terre lontane del nonno in guerra. Ma a Barbiana si studia anche l’astronomia. Uno strumento, costruito a proposito nei nostri laboratori — racconta Aldo, un ex “ragazzo di Barbiana” — con dei tubi ricavati dalle colate delle docce, consentirà di fotografare e sviluppare, in negativo su carta fotografica in bianco e nero, le fasi di un’eclissi di sole.

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E la trigonometria: i giovani frequentatori della scuola si divertono a misurare le distanze tra il campanile di San Martino e la stazione di Vicchio con un teodolite costruito da loro, proprio come quello dei geometri. Astuccio con filtri dei 7 colori dell’iride + oro. In vendita presso il Punto Bio di Milano e on line.

D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica ad accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava. Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione.


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A Barbiana i ragazzi poveri e senza cultura studiano oratoria, leggono le Lettere dal carcere di Gramsci, La peste di Camus, e poi Socrate, e l’autobiografia di Gandhi e le lettere del pilota di Hiroshima. Nella scuola di un paesino sperduto del Mugello, quattro case e una parrocchia, le grandi opere della letteratura costituiscono materiale di uso quotidiano. Nel suo approccio olistico all’educazione don Milani riserva un posto d’onore alla parola. Perché? Proprio il priore di Barbiana parla di “arte dello scrivere cioè di esprimersi cioè di amare il prossimo cioè di fare scuola”. Ecco ancora una volta l’amore, che si esprime attraverso il verbo. Don Milani ci insegna che non si nasce soggetti, né che si è soggetti solo perché si esiste, ma soggetti si diventa lentamente attraverso quel riconoscimento che la scuola dovrebbe dare a tutti e, aggiungiamo, soprattutto attraverso l’insegnamento-apprendimento dell’azione critica della parola. La parola serve a comprendere, ma anche a farsi comprendere. Non ci può essere amore vero senza un uso consapevole della parola. Ma, soprattutto, la parola rende liberi. Proponiamo una lettera dei ragazzi di Barbiana alle classi di Mario Lodi, scritta il 2 novembre 1963 dai ragazzi da 12 a 16 anni. Barbiana non è nemmeno un villaggio, è una chiesa e le case sono sparse tra i boschi e i campi. I posti di montagna come questo sono rimasti disabitati. Se non ci fosse la nostra scuola a tener fermi i nostri genitori, anche Barbiana sarebbe un deserto. La nostra scuola è privata, è in due stanze della canonica, più due che ci servono da officina. D’inverno ci stiamo un po’ stretti, ma da aprile a ottobre facciamo scuola all’aperto e allora il posto non ci manca. L’orario è: dalle 8 di mattina alle 7 e mezza di sera, non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco. Quando c’è la neve sciamo un’ora dopo mangiato e d’ estate nuotiamo un’ora in una piccola piscina che abbiamo costruito noi. Queste non le chiamiamo ricreazioni, ma materie scolastiche particolarmente appassionanti. Il Priore ce le fa imparare solo perché potranno esserci utili nella vita. I giorni di scuola sono 365 l’anno, 366 negli anni bisestili. La domenica si distingue dagli altri giorni solo perché prendiamo la Messa. A poco a poco abbiamo scoperto che questa è una scuola particolare: non c’è né voti né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili. Per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci. Questa scuola dunque senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi a venirci. Non solo, dopo pochi mesi, ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé. Ma ci restava da fare ancora una scoperta. Anche amare il sapere può essere egoismo. Il Priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo. Per esempio, de-

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dicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili. Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari. Ma il Priore dice che non potremo fare nulla per il prossimo in nessun campo finché non sapremo comunicare. Vorremo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro, così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre. Se diciamo in casa che vogliamo dedicare la nostra vita al servizio del prossimo, arricciano il naso, anche se magari dicono di essere comunisti. La colpa non è loro, ma del mondo borghese in cui sono immersi anche i poveri, quel mondo preme su di loro, come loro premono su di noi, ma noi siamo difesi da questa scuola che abbiamo avuto.

MARIO LODI Ciò che siamo si rivela subito il primo giorno, quando di fronte ai bambini devi decidere come impostare il tuo lavoro: per asservire o per liberare. Da questa scelta discende tutto il resto, anche la tua dimensione umana. Se scegli il metodo della liberazione senti nascere dentro di te una grande forza che è l’amore per i ragazzi, lo stesso amore che non può non trasferirsi sul piano sociale con l’impegno civile. La vita professionale del maestro Lodi sembra interpretare, illuminandola, la storia dell’Italia del secondo dopoguerra, l’Italia della ricostruzione morale e materiale. L’Italia delle macerie, degli italiani da rifare per la seconda volta, l’Italia riemersa dalle tenebre del ventennio fascista e del secondo conflitto mondiale. Tutto comincia nei borghi antichi della Bassa Padana, in campagna, tra le grandi cascine, i filari frangivento e la nebbia. Là dove sembra che il tempo non passi mai, dove sembra che non accada mai niente. San Giovanni in Croce, Vho di Piadina. Angoli di provincia tagliati fuori dall’Italia che conta. Sono gli inizi degli anni cinquanta e il fascismo è finito, sognare un mondo diverso e migliore non è più reato. Sì, fu il mio primo giorno di scuola a San Giovanni in Croce, al principio degli anni Cinquanta. Mentre parlavo, uno dei bambini si alzò dal suo banco e andò a guardare cosa succedeva sui tetti di fronte. A poco a poco, anche gli altri fecero lo stesso. E allora mi domandai: lasciar fare o reprimere? Così mi alzai, e insieme a loro mi misi a guardare il mondo dalla finestra. Fortunatamente non è solo, il maestro Mario Lodi, a sognare un mondo migliore. Proprio in questi anni sta prendendo vita quel movimento di Cooperazione educativa che, sulle tracce del pedagogista francese Freinet, cerca di portare una ventata di aria fresca nelle aule scolastiche. A una scuola puramente trasmissiva, dispensatrice di saperi dall’alto, oppone un insegnamento che mette al centro la

collaborazione piuttosto che la competizione, il recupero al posto della selezione, la ricezione critica piuttosto che l’ascolto passivo. Una rivoluzione silenziosa, che porta tra i banchi la Costituzione, nella speranza di cambiare il paese uscito da un ventennio di dittatura. Maestri che vedono nella classe la base del vivere civile, maestri che guardano i propri bambini e scorgono in loro i futuri cittadini dell’Italia. Noi [del Movimento di cooperazione educativa] abbiamo dimostrato abolendo i voti e sostituendo ad essi l’interesse reale del bambino, e quindi trasformando noi stessi da maestri-giudici in animatori e guide dei ragazzi, che è possibile strappare dal loro animo la gramigna spirituale dell’invidia e della superbia che producono l’opportunismo e il conformismo in un ambiente autoritario, proprio come avviene dell’operaio che sotto la spinta della necessità si comporta col padrone senza dignità. Nell’ambito di questi rapporti […] avviene la distruzione, sul piano operativo, dei valori e dei principi: la libertà, la democrazia, il cristianesimo non s’imparano se non si vivono subito fra i banchi della scuola. Mario Lodi aderisce al movimento, e ne diventa anzi uno dei più autorevoli portavoce. È passato più di mezzo secolo da quei giorni, e il nostro maestro è ancora qui, tra noi, a ricordarci che cambiare la scuola è possibile. Pedagogia popolare, abbiamo detto, quella dei maestri che entrano ogni mattina in classe, non quella dei professori universitari che dell’infanzia leggono e scrivono solo sui libri. E nessun manuale del buon maestro, del fate-così-e-diventerete-come-me. Ciò non significa, tuttavia, che quella del maestro Lodi fosse la scuola dell’improvvisazione, della spontaneità priva di riflessione. Di principi Mario Lodi, e chi come lui fa dell’insegnamento una vocazione, ne aveva e ne ha di profondi, radicati, indiscutibili. Semplicemente a lui interessava viverli giorno per giorno, metterli alla prova, verificarli, toccarli, sentirli, più che parlarne come di formule astratte e distanti. Perché, così come con i suoi bambini, credeva che l’esempio fosse lo strumento più potente di ogni comunicazione.


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La scuola che nasce dal basso Partire sempre dal basso: questo è il motto, e soprattutto la prassi, della scuola attiva di Mario Lodi. Non può esistere un progetto educativo che non sia inscritto nella realtà del bambino. Nella sua esperienza, nella sua vita. Compito della scuola, ci insegna il maestro, è far emergere la vita dei ragazzi – i rapporti con le cose, con la natura, con le persone –, analizzarla insieme a partire dai momenti che più li colpiscono. Questo punto di partenza permetterà all’educatore non solo di conoscere i propri alunni in profondità, ma anche di collegarsi alla realtà più ampia e ai problemi generali. A Lodi non interessa definire le materie; non esiste l’ora di matematica dopo quella di italiano. Il licenziamento del papà, un lutto in famiglia, un gatto che si arrampica sull’albero proprio fuori dalla finestra: tutto può diventare materia di studio. Partendo dall’esperienza concreta, i concetti si incontrano subito, prima ancora di incontrare le discipline. Come si può dire a quale disciplina appartengono i concetti di spazio, di tempo, di casualità, ecc.? E proprio partendo dall’esperienza il maestro riesce a insegnare davvero il valore della ricerca, dell’indagine, dell’approfondimento. Perché i bambini di ricerca vivono. I loro giochi, cioè la loro esperienza del mondo, consistono nel porsi problemi, formulare ipotesi, raccogliere e interpretare dati, sintetizzarli e verificare le ipotesi formulate. È il loro naturale atteggiamento: al maestro spetta solo il

compito di tradurre tale atteggiamento in un metodo strutturato; eppure la scuola presenta agli scolari l’indagine scientifica come un’impraticabile e astrusa disciplina da sapientoni, qualcosa di lontano anni luce da loro, da imparare con sforzi incalcolabili sui manuali. Le esperienze concrete faciliterebbero di gran lunga l’arduo compito, ma questo in pochi sembrano capirlo. Il manuale, bandiera della scuola che combatte la libertà, propina ai suoi piccoli lettori una cultura e una morale preorganizzate, strutturate, calate dall’alto e senza connessione alcuna con la vita concreta dei bambini, dogmi cui bisogna credere e che occorre imparare poco alla volta, giorno per giorno. Una cultura divisa in sezioni, discipline, capitoli, schede, con delle istruzioni ben chiare su tempi e modi di somministrazione. I saperi trasmessi, continua a ricordarci il maestro Lodi, sono solo saperi appiccicati: non alimentano né arricchiscono la cultura del bambino. I saperi vissuti, invece, sono saperi interiorizzati, radicati nel senso botanico del termine. Anche l’ordine, le regole, la disciplina, per Mario Lodi non sono più un problema quando, giovane insegnante di provincia, smette di fare in classe ciò che i superiori vogliono da lui – la lezione frontale, il maestro spiega e i ragazzi ascoltano in silenzio, ogni sgarro una punizione – e decide di rendere i suoi ragazzi protagonisti della vita di classe. D’altronde è in quell’aula che dovranno vivere almeno cinque anni di vita, e hanno tutto il diritto di viverli bene:

STAGE DI CROMOPUNTURA

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Ogni giorno, venendo a scuola, il bambino dovrebbe sapere che cosa si farà: lo strumento per realizzare questo fine può essere il piano di lavoro (sia collettivo che individuale) preparato insieme agli alunni. Inoltre ogni alunno dovrebbe prendere coscienza dei progressi che compie individualmente e che compie la classe mediante verifiche realizzate con la sua partecipazione attiva. Le discussioni e la ricerca di soluzioni sui problemi che riguardano la vita della classe avranno la stessa importanza di quelli che riguardano lo svolgimento del programma e gli apprendimenti strumentali. L’obiettivo a lungo termine, che richiede un itinerario di lavoro, è fare in modo che i bambini che si trovano insieme in prima per ragioni anagrafiche, alla fine del ciclo elementare diventino una comunità con tutti i valori positivi che questo termine racchiude in sé. Nessun programma può essere più importante di un’idea di un bambino, di una sua intuizione, di un guizzo che lo anima e lo infiamma. Un temporale cattura l’attenzione dei ragazzi mentre il maestro fa la sua lezione tanto importante quanto noiosa. Perché non interrompersi – facendo professione di umiltà – e seguire quella scia? Si potrà contemplare insieme quel temporale, vicini vicini per rassicurare chi ha paura. E di fronte alla finestra, con i nasi schiacciati sul vetro, il maestro conoscerà qualcosa in più dei suoi alunni: vedrà il bambino spaventato, l’insicuro,

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quello spavaldo e l’osservatore silenzioso. Questo temporale, e non quello descritto sul libro, no, proprio questo, questo che, in questo preciso istante, ha colpito l’attenzione di questi precisi ragazzi, potrà diventare l’occasione per parlare del tempo meteorologico, o dell’acqua, o dei climi, chissà. Qualunque strada prenderanno, il maestro e i suoi bambini saranno sicuri di camminare su un terreno sicuro. Qualunque sarà l’argomento, nascerà da una loro curiosità, da una loro emozione, da un loro interesse. Ecco allora che quell’argomento sarà appreso. Materia di studio: la vita Il ragionamento è dei più elementari: di fronte ai libri di testo che descrivono il deserto, la savana, la giungla e la steppa, Mario Lodi ci invita a guardarci intorno. Non si può che iniziare da ciò che ci sta attorno, da ciò che vediamo, sentiamo e tocchiamo ogni giorno. Il nostro paese, la nostra città. E allora lasciate i libri a casa, per adesso, sembra dire il maestro ai suoi ragazzi. Iniziamo a fare la mappa della nostra classe, della nostra scuola, poi del nostro paese e anche di quello accanto. Scopriamo l’ambiente in cui viviamo, impariamo a muoverci qui dentro, a orientarci. A osservarlo con attenzione, a indagarlo in profondità. A viverlo. Nessun ispettore potrà sostenere che non abbiamo fatto la geografia. E andiamo a cercare quelle persone – spesso gli anziani del paese – che possono raccontarci della guerra, della fame, di quando la televisione non c’era ma c’era il re. La storia non può che iniziare da qui. E nella classe di prima i bambini di Mario Lodi apprendono la seriazione, la classificazione, l’insiemistica: lo fanno con i gettoni costruiti da loro. Via via che scoprono, nell’ambiente che li circondano e che loro osservano con attenzione, un nuovo personaggio, lo fissano su un gettone: su un lato il disegno, sull’altro il nome. La rondine, il sole, la nuvola, la rana, la viola, il bruco, la castagna. Tutto alla rinfusa in una scatola che i bambini aprono spesso: osservano i gettoni, se li

dividono. Gli amici del sole da una parte, gli animali che volano dall’altra. E poi quelli che mangiano la carne, i fiori che hanno cinque petali, e gli animali che vanno via d’inverno. La contesa sorge quando lo stesso animale potrebbe entrare in più gruppi: «La mucca è mia perché mangia l’erba e io ho gli animali che mangiano l’erba. – Invece la voglio io perché è amica dell’uomo. Questo è più importante. […] – Anch’io la voglio perché ha quattro zampe! Io faccio il gruppo degli animali con la coda e la voglio!». E dopo lunghe e accanite discussioni forse arriva la soluzione: se la mettiamo al centro del tavolo sarà un po’ come se fosse di tutti. Non devono cerchiare di rosso sul quaderno i birilli rossi eppure, anzi, proprio per questo, apprendono. Costruiscono, partendo dalla propria vita, seguendo le loro esigenze ma sempre guidati dalla mano discreta e sicura del maestro Lodi, la propria cultura. Perché la matematica non è roba da manuale. Non c’è niente, anzi, che non sia in relazione con la matematica, ci ricorda Mario Lodi: c’è matematica quando si compila la carta del tempo e si stabiliscono le percentuali dei giorni di pioggia e di quelli di sole ogni settimana, ma c’è matematica anche nella storia dei contadini – ricordate, ragazzi, la storia della divisione del grano? Un sacco al contadino e tre al padrone, un quarto e tre quarti – e allora la matematica ci aiuta a scoprire e smascherare le ingiustizie sociali. Nello stesso modo in cui costruiscono la propria cultura i bambini di San Giovanni e Vho costruiscono la propria morale, i propri ideali, il proprio senso del divino. Il papà di Gianbattista si ammala, e muore. I bambini e il maestro affrontano insieme questo evento tremendo, sconvolgente. Si parla, ci si confronta, ci si rassicura. Si riflette insieme sul dolore, sulla malattia, sulla morte, sull’aldilà. E così succede per il film che ieri ha visto Carolina che parlava di una strage, e per l’altro bambino a cui hanno licenziato il papà. Ogni mattina i bambini leggono o raccontano i propri testi, come degli amici che si scambiano

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esperienze, idee, impressioni. Non c’è traccia prestabilita dal maestro, sono momenti della vita di ognuno, non sono programmati. Permettono al maestro di conoscere ogni mattino un pezzetto in più dei suoi alunni, e ai suoi alunni di ancorare la lezione alla propria vita. D’altronde, ci ripete da più di cinquant’anni Mario Lodi, senza la conoscenza del bambino noi educatori non possiamo illuderci di educare. Tiberio: - Chi non crede, cosa penserà quando muore? Umberta: - Secondo me pensa che sarà chiuso in una bara e finisce così. Tiberio: - Forse il ricordo lo fa vivere ancora un po’. Però io lo escludo perché quell’uomo non può essere ricordato com’era da vivo. Dopo un anno o due lo si dimentica. […] Cosetta: - Non solo resta il ricordo, ma resta quello che ha fatto. Garibaldi è morto da tanti anni ma è rimasto quello che lui ha fatto, e così Giotto e altri. Altro esempio: Giuseppe Montanelli non l’abbiamo conosciuto ma sappiamo cosa ha pensato. Donatella: Ricordiamo il suo pensiero. È da lì che si conosce una persona, non dalla faccia o dalla statura che ha. Foscolo parteciperebbe volentieri a questa discussione. L’olismo di Mario Lodi Olismo, cioè complessità, globalità, relazione. Probabilmente il maestro Lodi non ha mai utilizzato questo termine, ma di olismo era sicuramente un campione, un esempio, un modello. La cultura del bambino, come si sa, è globale: vi troviamo contenuti delle varie discipline, ma non organizzati come materie. Il bambino non separa, nella realtà, l’aspetto scientifico da quello storico, geografico, matematico, ecc., anche se l’esperienza gli ha fatto scoprire leggi del mondo fisico, si è orientato nello spazio del suo ambiente, ha osservato che le


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cose e le persone col tempo cambiano e che lui stesso ha una storia di crescita e di affetti che si proietta nel futuro. La manipolazione di oggetti e materiali ha accumulato in lui una quantità enorme di dati sul mondo fisico e le sue leggi. Ogni contatto con l’acqua, la sabbia, i sassi, i cibi, i fenomeni naturali, è stato per lui un esperimento. Non conosce la definizione scientifica ma ha scoperto la forza di gravità che “tira giù” le cose e lui stesso. Ha provato la forza dell’inerzia che lo spinge in avanti nelle brusche frenate, l’attrito che produce calore sfregandosi le mani, il galleggiamento dei materiali, la germinazione dei fiori, i cicli stagionali delle piante, l’invecchiamento e la morte. E, secondo il comportamento delle persone che gli sono state vicine, si è fatto un’idea più o meno buona del mondo: è la sua filosofia. Componenti della sua cultura sono i linguaggi, scoperti e usati. Il primo linguaggio che scopre è quello della parola: ascoltando il suono delle parole collegate con i gesti e gli oggetti, ne carpisce il segreto, le imita e costruisce il suo primo lessico che poi amplierà. […] E poi c’è il linguaggio dei segni grafici, che inizia prestissimo con i primi scarabocchi e, se non viene interrotto da interventi errati e distruttivi dell’adulto, può svilupparsi e raggiungere livelli di arte. La cultura del docente, a differenza di quella del bambino, è disciplinare. Essa considera la realtà da diversi punti di vista: scientifico, storico, matematico, geografico, filosofico, ecc. Se il docente costruisce il suo programma sulle materie da trasmettere, come accadeva nella vecchia scuola, l’apprendimento viene dissociato dal gioco-interesse e il bambino non è più protagonista ma ripetitore di nozioni. Ci sembra di essere di fronte a un vero e proprio manifesto per un’educazione olistica. Come olistica ci sembra l’importanza che Lodi attribuisce all’insegnamento non tanto delle materie, delle nozioni, quanto del pensiero. “Educare a pensare”: è questo uno degli inviti più accorati che il maestro continua a ripeterci. Coltivare nei bambini l’intelligenza critica, che non può essere altro che un’intelligenza globale, armonica. Il bambino

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deve penetrare nei problemi, premere il bottone pensando all’intera macchina nel contesto umano da servire. Dai materiali il ragazzo deve passare al reale, alle cose e agli uomini. Solo se hanno questo sbocco nella realtà del nostro mondo umano, l’abilità e l’intelligenza possono diventare strumenti rivoluzionari di analisi e di progettazione e di lotta e, come un boomerang, colpire chi pensa all’uomo come a una cosa. Perché l’olismo di Mario Lodi non riguarda solo la cultura, ma l’esistenza intera. La preziosità, la rarità, la specialità delle sue classi sta nell’essere giardini in cui del bambino vengono coltivate la razionalità – applicata e sperimentata in ogni momento di vita, le emozioni, la dimensione relazionale, la fantasia e anche la loro ricerca spirituale – quelle domande che ogni bambino di sei, sette, otto anni si


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pone, ma che raramente trovano ascolto tra gli adulti. Agli occhi del maestro Lodi i bambini appaiono con le loro paure, i loro sogni, le loro particolari attitudini, e le loro famiglie, le loro storie, le loro origini. Tutto poi diventa racconto: un racconto che può avere la forma di parole – e che parole, se pensiamo a Cipì – o di note – un esempio ne è la piccola Lorena, che musica l’intero vangelo, o ancora di colori e pittura. Racconti che parlano delle difficoltà economiche di gestire il giornalino di classe, delle soluzioni ai problemi di stampa, ma anche di morte, del paradiso e dell’inferno, dei fatti di cronaca nazionale. E di mongolfiere magiche che se ne vanno a spasso per il mondo. La scuola degli uomini liberi “Volevamo formare dei cittadini democratici”. In fondo è questo l’obiettivo del maestro Lodi, degli altri insegnanti del Movimento di cooperazione educativa e di tutti quelli, maestri e maestre, professori e professoresse, che conducevano e conducono, ancora oggi, la loro rivoluzione silenziosa in nome di un futuro migliore, di una società diversa, di un mondo popolato da uomini liberi. Lui sa che rendere i bambini partecipi e protagonisti della propria cultura, dei propri ideali, dei propri sogni, della gestione della classe e della sua organizzazione, dello spazio e del tempo, significa educarli a essere partecipi e protagonisti della propria vita, della propria comunità, della propria nazione. È anche questa, per Mario Lodi, la libertà. Libertà di scegliere e di non farsi manipolare, ma soprattutto libertà di pensare. La condizione dello scolaro somiglia a quella dell’operaio della grande fabbrica. L’operaio lavora alla catena di montaggio senza partecipazione perché la motivazione di quel che fa gli è estranea, egli si sente ed è solo un congegno passivo

che non può né creare né decidere, ed ha accettato quel mestiere perché gli occorre la busta paga per sopravvivere. Lo scolaro, in una scuola autoritaria fondata sui voti, studia perché ci sono i voti. Se strappi il voto dalle mani dell’insegnante, tutto il suo castello crolla. È come strappare le armi alla polizia di uno stato oppressivo. Nell’aula, unità di un edificio che anche esteriormente […] richiama il penitenziario e la fabbrica, lo schema entro cui si forma lo scolaro è semplice, funzionale, rigido e terribile: spiegazione, ripetizione, voto; dettato, tema, problema e voto. E tutto, dentro e fuori della scuola, è predisposto per neutralizzare il bambino come essere pensante: i manifesti pubblicitari che gli suggeriscono la merendina, gli albi all’edicola, le figurine dei giocatori che lo iniziano al tifo sportivo e lo spingeranno allo stadio a urlare a favore di “idoli” pagati a milioni. […] Il contenuto ideologico e il metodo autoritario sono espressioni di una scuola politica di classe, che tende a formare uomini docili e passivi, possibilmente ignoranti sulle cose che scottano. Il maestro, in quel contesto, in mezzo a tante difficoltà, diventa senza accorgersene strumento del sistema invece di essere, come dovrebbe, garante della formazione di uomini liberi. Chi è consapevole di ciò intimamente ne soffre, c’è invece chi lucidamente e cinicamente usa la scuola per tale fine politico. Distruggere la prigione, mettere al centro della scuola il bambino, liberarlo da ogni paura, dare motivazione e felicità al suo lavoro, creare intorno a lui una comunità di compagni che non gli siano antagonisti, dare importanza alla sua vita e ai sentimenti più alti che dentro gli si svilupperanno, questo è il dovere di un maestro, della scuola, di una buona società. […] Se non sei per la liberazione dell’uomo, porti a scuola la tecnica del padrone, duro o paterna a seconda dei casi: ap-

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parentemente è il sistema più facile e comodo ma alla fine ci trovi un vuoto morale enorme e la noia. Predisponi il lavoro secondo il tuo fine, pieghi i ragazzi a poco a poco al tuo volere come l’operaio è piegato dal gesto automatico che gli chiede la catena di montaggio. Automi del tuo programma, sempre quel gesto, domande-risposte-voto, capaci di abilità tecniche magari in anticipo sulla norma ma meccanicamente apprese, i ragazzi ti muoiono davanti agli occhi un poco ogni giorno nella compressione della fantasia e dell’intelligenza, nel distacco sempre più netto tra la scuola e la vita. La pratica Esperienza, vita, olismo, libertà. Come viverli, insegnarli, metterli in pratica giorno dopo giorno, in classe, con i bambini? Il maestro Lodi ci insegna che i modi sono tanti. Non ce n’è uno, e non ce n’è uno per tutti. Mario Lodi non vuole insegnare una tecnica, un metodo, una strategia, anzi ne rifugge, forse perché ha vissuto il ventennio fascista, forse perché ha compreso il

OLOS: la nuova collana delle Edizioni Enea Solo la comprensione di ciò che è stato e di ciò che è ci permetterà di costruire ciò che sarà; con questa convinzione la collana “Olos” ci conduce attraverso le molteplici possibilità di un futuro migliore, con occhio sempre attento a cogliere il tutto, l’integrazione e la connessione tra le parti, per guardare il mondo in modo sistemico e globale. In una parola, olistico.

Dal denaro al donare, l’anagramma del cambiamento Una proposta economica in chiave olistica di Giovanni Maccioni € 24,00 – 460 pagine – Edizioni Enea Quali sono le cause della crisi economica, ambientale e spirituale della nostra società? Partendo dai bisogni dell’uomo e dallo sviluppo della civiltà attraverso economia, tecnologia, cultura e politica, si fa luce sul grande problema presente, ovvero noi stessi e le nostre strutture di pensiero. Questi vincoli mentali ci impediscono di mettere a frutto le nostre potenzialità e quindi di permetterci un balzo evolutivo epocale. In queste pagine si propone un sistema basato sul dono e sulle risorse reali, utile per ritrovare ciò che già ci appartiene: benessere, felicità e pace.


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rischio delle ideologie che si fanno fanatismi, fedi, dogmi. Così i suoi libri sono nient’altro che i diari delle sue esperienze, le sue e non quelle di qualcun altro. Non c’è volontà di universalizzare quelle esperienze, di assolutizzarle. Quei diari sono anzi l’invito a ogni maestro e maestra a rifuggire dalle formule prestabilite, dalle ricette pronte della moderna pedagogia. A ognuno la sua classe, che sarà una classe speciale, con vissuti speciali, storie speciali, emozioni speciali, scoperte speciali. Al maestro basta solo essere. Essere ed esserci, essere se stesso ed essere presente, osservare i bambini, ascoltarli, amarli, desiderarli liberi e felici. Possedere un cuore, che è un motore potente. E poi attaccarsi al bambino, seguirlo con dedizione, riuscire a scrutarne i talenti nascosti. Senza mai dimenticare che il compito della scuola è trasformare un gregge passivo in un popolo di cittadini pensanti. Ricordiamo due tra le innumerevoli esemplari esperienze sue e dei suoi ragazzi, non perché qualche insegnante possa riproporle, ma nella speranza che molti ne traggano forza e fiducia per guardare ai propri alunni come a dei tesori da svelare. Cipì Un giorno come tanti, in una prima elementare, il maestro Lodi sta in mezzo ai bambini, ascolta e fa domande, organizza quelle voci che parlano di storie concrete e di vita vera. Improvvisamente un bambino si alza e va alla finestra, con un fare di sorpresa che richiama di colpo tutti gli altri. Il maestro non li sgrida, ma lascia fare. Non è così che gli hanno insegnato ai corsi di formazione, ma lui sa che in classe più che le teorie valgono le esigenze dei bambini veri. Alla finestra, nel grigiore diffuso, tutti gli occhi inseguono il passo felpato di un gatto che ha puntato una preda. Di cosa si tratta? «Un topo, no. Forse un uccellino. Poverino, chissà che dispiacere avrà la sua mamma se il gatto se lo piglia…». La storia di Cipì nasce così, da una sequela di giorni di trambusto in classe, dai pensieri dei bambini che si intrecciano

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ansiosi e curiosi sul destino di un passero che fa il nido, cova le uova, fa un mucchio di sacrifici per allevare i piccini, poi arriva il gatto o il gufo di notte e zaf! Se lo piglia… L’argomento tiene banco per giorni, gli occhi osservano e frugano, in quella fetta di cielo, altri indizi e ciascuno dice la sua finché, condita di continui riferimenti alla vita vera e di fantasie poetiche, prende corpo la storia semplice di Cipì, il passero coraggioso che lotta per sopravvivere ai pericoli della natura, amorevolmente protegge i figli e insegna loro a stare al mondo. La storia di Cipì non è un lavoro progettato a tavolino, ma nato dalle conversazioni collettive; non è una fiaba intenzionalmente voluta, ma cresciuta quasi per caso. Stampata in classe con un rudimentale armamentario tipografico, la storia scritta diventa un libro uscito per la prima volta nel 1961 negli Struzzi Einaudi. Con grande rispetto per il contributo dei piccoli collaboratori, il maestro esige che in copertina l’autore appaia come “Mario Lodi e i suoi ragazzi”. Insieme È dalle discussioni tra gli aderenti al Movimento di educazione cooperativa che nasce l’idea della corrispondenza: giornalini stampati con semplici complessi tipografici e un limografo presenti in classe, gestiti e maneggiati dai bambini stessi, inviati per posta a classi di scuole lontane. Il giornalino diventa occasione di dibattito e di discussione nelle classi che ricevono e a loro volta spediscono. Così i ragazzi di Mario Lodi, nella Bassa Padana, entrano in contatto con quelli di Bruno Ciari e don Lorenzo Milani in Toscana, di Maria Luisa Biagetti a Roma e di tanti altri. Leggono queste riviste autentiche e genuine intellettuali del calibro di Gianni Rodari e Tullio De Mauro. Ma di cosa si tratta esattamente? Nel giornalino i bambini raccontano se stessi e la realtà che li circonda. Con le parole e con le immagini. Scrivono e disegnano delle proprie famiglie, delle proprie vite, di ciò che li ha colpiti in un giorno particolare e in un luogo particolare. Ben presto però non basta ai bambini la gratificazione di un testo collettivo e neppure

la gratificazione di vedere il proprio nome stampato, come succede ai giornalisti veri. Il giornalino di classe – Insieme è il primo di una lunga serie – è frutto di un lavoro collettivo di riflessione, analisi e scrittura; diventa in poco tempo un raccoglitore di inchieste ambiziose e impegnative: fatti locali, ma anche nazionali, e addirittura internazionali. Gli scioperi, le morti bianche, i sindacati. La guerra del Vietnam, gli accordi di pace del 1973, la strage di Monaco. I ragazzi di dieci e undici anni dimostrano di essere all’altezza di riflessioni articolate, approfondite, analitiche e attente. Sanno trasformare un fatto privato – la morte di un parente, i racconti di un genitore sul lavoro in fabbrica – nell’occasione di una discussione generale, condivisa, nazionale. Dentro il giornalino di classe vengono raccolti gli elaborati dei bambini, in prosa e in versi. Ogni “articolo” è frutto di indagini, di interviste, di letture e di approfondimenti. In certi campi può diventare approfondito e ricco come il manuale; in alcuni casi, anzi, diventa assai più ricco, proponendosi come “sostituto del manuale”, o meglio come manuale creato dal basso, reso autorevole dal concorso di molti, disponibile alle verifiche e alle correzioni dei compagni di penna che lo leggeranno e potranno farne un importante punto di partenza per ulteriori ricerche, altri articoli e nuovi giornalini. E con il giornalino i bambini scoprono l’economia. Si accorgono che il denaro serve a tante cose: la stampa, la spedizione dei giornalini, i colori per dipingere richiedono un pur minimo flusso di liquidità che gli allievi imparano a monitorare e registrare. Imparano, senza doverli formalizzare o ingabbiare dentro le etichette di una materia, molti concetti di economia: guadagno, spesa, percentuali, ricavi, fallimento… E apprendono, senza retorica, il valore dei soldi, del risparmio, della gestione oculata. A queste esperienze se ne potrebbero aggiungere tante altre: gli esperimenti, il teatro, la musica, i contadini invitati in classe a spiegare le scienze, la botanica, la biologia; e le interviste ai nonni per studiare la storia, la raccolta dei documenti, i sondaggi. In tutte il maestro Lodi ha considerato i bambini che aveva di fronte come persone, persone fatte di carne, di spirito, di mente e di cuore. Persone che avevano bisogno di altre persone, e che meritavano di crescere libere. Un giorno, osservando dalla finestra della mia aula, giù in cortile, i ragazzi che vivevano liberi, felici, feci un confronto con loro stessi qui, nei banchi in cui erano obbedienti, rassegnati, senza idee, mentre laggiù erano vivi e ricchi di fantasia. Da quel giorno io dissi basta a un vecchio tipo di scuola, la scuola autoritaria dove io comandavo e loro obbedivano, per incominciare un nuovo tipo di scuola in cui, liberando i ragazzi liberavo anche me, davo un senso alla mia vita, cessavo di farne in un certo senso dei piccoli schiavi… E poi la bellezza di non comandare, specialmente ai bambini ai quali comandano tutti. Ecco, mi pare che tutto sia nato in quel giorno che guardai dalla finestra quei bambini liberi giocare…


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EDUCAZIONE OLISTICA: le novità editoriali Questa collana vuole raccogliere le esperienze più significative nel campo dell’educazione per essere di aiuto a genitori, insegnanti, educatori e terapeuti. L’approccio olistico garantisce non solo un’attenzione alla globalità della persona nei suoi tre piani antropologici: fisico, psichico e spirituale, ma anche all’ambiente in cui essa si trova a vivere. L’ambiente è inteso sia come luogo di relazioni e affetti, quindi ambiente sociale, sia come luogo fisico in cui spazi, forme, colori e materiali sono parte integrante dell’educazione.

Crescere con amore Una proposta educativa in chiave olistica di Antonella Coccagna e Lorenzo Locatelli € 16,50 – 158 pagine – Edizioni Enea L’educazione e la scuola stanno vivendo una profonda crisi e ci chiedono nuove proposte. Dall’integrazione di modelli antichi e nuovi nasce una visione dell’educazione che dilata i propri orizzonti, guarda all’infanzia e al mondo come a degli universi multisfaccettati, dinamici e interdipendenti. In una parola un’educazione olistica. Nell’epoca del fare – dei metodi, dei programmi, delle istruzioni per l’uso – questo libro lancia a genitori e insegnanti un nuovo invito: a esserci.

Lettura + Ascolto Come migliorare l’apprendimento linguistico, emotivo ed empatico con gli audiolibri

LIBRO + AUDIOLIBRO

di Maurizio Falghera € 24,00 – 166 pagine – Edizioni Enea Nel mondo digitale e telematico in cui viviamo la lettura diventa un’esperienza multipla e complessa. Il metodo della Lettura+Ascolto in sincronia, con l’utilizzo di audiolibri, migliora l’apprendimento linguistico, emotivo ed empatico. Numerose ricerche e sperimentazioni, sia negli Stati Uniti che in Italia, confermano questo risultato. Questo approccio alla lettura non rappresenta solo una risposta alla crescente esigenza di “interattività” dei nuovi dispositivi digitali, ma è anche facilmente impiegabile su larga scala per ottenere un significativo incremento della Literacy di una comunità. Contiene l’audiolibro integrale in formato CDMP3 Durata complessiva: 4h 22’ 07” Autore e lettura: Maurizio Falghera

Si, desidero ricevere 4 numeri di ambrosia al prezzo di euro 10 da versare sul numero di conto corrente postale n°40109209.

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