Identità Dinamiche

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Identità dinamiche NUOVE METODOLOGIE PROGETTUALI DELL’IMMAGINE COORDINATA

CHRISTOPHER SECOLO



Università Iuav di Venezia Facoltà di Design e Arti

Identità Dinamiche Nuove metodologie progettuali dell’immagine coordinata

Tesi di Laurea Corso di Laurea specialistica in Comunicazioni Visive e Multimediali Laureando Christopher Secolo mat. 267178 Relatore Carlo Vinti Anno accademico 2009/2010 Sessione di laurea Aprile 2011





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Introduzione

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immagine coordinata e corporate style

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oltre il corporate style

35

rivoluzione mediatica e digitale

43

identitĂ variabili

67

identitĂ generative

97

identitĂ relazionali

125

conclusione


A Eva e alla mia famiglia



Dynamic identities

8


INTRODUZIONE ÂŤFin dai tempi della preistoria, le persone hanno cercato modi per dare forma visiva alle idee e ai concetti, per immagazzinare conoscenza in forme grafiche, e per dare ordine e chiarezza all'informazione...Âť Philip Meggs, A History of Graphic Design, 1983

Introduzione

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Come si sta evolvendo il ramo progettuale dell’immagine coordinata? Ai vecchi modelli storicamente consolidati, quali metodologie progettuali si stanno sostituendo?

Il Graphic Design è una disciplina in evoluzione; continuamente si affermano nuove culture progettuali e la rivoluzione mediatica e digitale che ha investito la nostra società negli anni novanta e ottanta, ha avuto fortissima influenza sulla professione del grafico, sui suoi strumenti e sulle teorie. I media e le tecnologie caratterizzano con la velocità e il cambiamento continuo le nostre vite; internet e le reti stanno creando una società dell’informazione sempre più dinamica in cui i media sono un flusso non controllabile. La tecnologia si è talmente incrociata con le nostre vite che non è più possibile ignorarla. Il mondo cambia sempre più rapidamente e i designer e i modelli progettuali devono essere in grado di rispondere a tali cambiamenti. Come sottolineato da Ferrara: «il progetto di immagine coordinata è costretto a trasformarsi per sfuggire all’obsolescenza, sostituendo alla rigida concezione dell’immagine coordinata la flessibilità di un immagine sempre coordinata, ma caratterizzata dalla presenza di più varianti»1. I modelli di progettazione del sistema devono essere adattativi, cioè in grado, almeno sul piano teorico, di rispondere in modo nuovo e creativo a stimoli e contesti variabili. «Questi linguaggi visivi» – sottolinea ancora Ferrara – «[…] sono legittimamente figli di quel processo di mediatizzazione imperante fin dagli anni Ottanta e presentano tutti una struttura in cui è riconoscibile la presenza del fattore spazio-tempo come dato sempre più imprescindibile in qualsiasi processo progettuale»2. Si tratta di quei modelli progettuali del design dell’identità cha vanno sotto i nomi di “Progetti Aperti”3, “Identità Smart”4 o “Identità Dinamiche”. L’analisi dei fenomeni riguardanti le identità dinamiche risulta però tuttora ancora esigua. Tra gli autori italiani che si sono dedicati all’argomento, oltre al contributo teorico di Anceschi, solo Cristina Chiappini e Silvia Sfligiotti hanno svolto ricerche specifiche che sono confluite nella mostra Open Project e nel relativo catalogo, che purtroppo però non ha è ancora stato tradotto in Italiano. Per comprendere al meglio la situazione attuale si è ritenuto opportuno far riferimento anche alla storia del design dell’identità visiva; solo attraverso questo percorso è possibile confrontare passato e presente per meglio

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comprendere come si è giunti ai fenomeni attuali e immaginare la strada futura della disciplina. La tesi è strutturata in sei capitoli, a loro volta raggruppabili in due parti principali. I primi tre capitoli affrontano l’evoluzione storica dell’immagine coordinata. Il primo capitolo in particolare riassume la nascita e lo sviluppo della disciplina da Behrens fino al delinearsi negli anni Sessanta delle due principali metodologie progettuali opposte del “Polo Hard” e “Polo Soft”, e alla successiva affermazione del Corporate Style. Il secondo capitolo evidenzia come la cultura progettuale del Corporate Style sia entrata in crisi: da una parte le principali multinazionali hanno man mano scelto strade comunicative indirizzate alle strategie di Brand. Dall’altra l’atteggiamento corporate ha subito attacchi dall’interno della disciplina del Graphic Design sia di stampo politico (contro l’asservimento del design al potere delle corporation) sia teorici (contro la rigidità metodologica) spingendo i designer a cercare nuovi modelli progettuali. Il terzo capitolo infine esplora come la rivoluzione mediatica e digitale ha influito sia sugli strumenti sia sul metodo progettuale dei designer, permettendo il configurarsi di nuovi approcci. Gli ultimi tre capitoli cercano di evidenziare diversi aspetti, problematiche e metodologie dello sviluppo delle Identità Dinamiche, presentando e analizzando alcuni fra i più interessanti progetti sviluppati negli ultimi dieci anni. Il primo di questi tre capitoli, intitolato “Identità Variabili” affronta l’evoluzione storica delle immagini coordinate variabili e flessibili, fino agli sviluppi più recenti; infine, attraverso cinque casi studio vengono presentati differenti approcci al tema della variabilità e diversificazione in diversi contesti di creazione di un’identità visiva. Il capitolo “Identità Generative” evidenzia come molti designer pongono sempre più spesso l’accento sulla progettazione dei processi di creazione del design piuttosto che sulle forme finali. Si tratta di “processi aperti” in cui il designer non definisce l’artefatto finale ma progetta il suo processo

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di realizzazione. Molto spesso vengono sfruttate le possibilità dei media digitali, oppure la contaminazione fra quest’ultime e gli strumenti analogici che, usando le parole di Chiappini e Sfligiotti, “attraverso l’imperfezione, l’errore e il caso riporta vita e mutevolezza in un campo che altrimenti tenderebbe all’appiattimento della perfezione ripetibile”5. Infine, nel capitolo “Identità Relazionali” vengono esplorati i tentativi di portare nel design dell’identità le tematiche del design relazionale o partecipativo, un approccio che “mette in gioco da subito quelli che saranno gli utenti, coinvolgendoli nell’elaborazione progettuale, o lasciando lo spazio per agire modificando il risultato. Questo vuol dire non rivolgersi a un ‘target’ passivo ma a una varietà di individui capaci di agire e reagire a quanto viene loro proposto”6. La divisione dei casi studio nelle tre categorie non è assolutamente rigida; si è scelto di operare una diversificazione solo per evidenziare, attraverso gli aspetti salienti di ogni singolo progetto, le principali caratteristiche delle Identità Dinamiche. Come si vedrà, i tre capitoli evidenziano altrettanti differenti livelli di approccio alla progettazione; ognuno di questi livelli si somma al precedente, riprendendone e sviluppandone ulteriormente i temi. Si tratta di un fenomeno a catena in cui ai tradizionali metodi progettuali dell’immagine coordinata si sommano dapprima le tematiche dalla variabilità ed elasticità, poi processualità e casualità, e, infine, unendo tutti gli aspetti precedenti, contestualità e partecipazione. Dai casi studio sono stati esclusi progetti e campagne sviluppate attraverso metodologie progettuali che pongono al centro del progetto strategie di comunicazione, incentrate sul valore di marca o di prodotto, assimilabili quindi al Brand Design. La ricerca infatti ha avuto come scopo quello di porre l’attenzione sugli aspetti della progettazione visiva dell’identità, di dare risalto alle metodologie progettuali e alle idee e teorie alla loro base, collegandole con la tradizione del design dell’identità per meglio cogliere e comprendere le differenze tra passato e presente. Inoltre è stato scelto di escludere dai casi studio progetti e proposte non conclusi o non applicati, proposte universitarie e concept. Sebbene molti

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di questi progetti fossero particolarmente interessanti si è ritenuto opportuno presentare solo progetti effettivamente realizzati, per comprendere oltre al delinearsi teorico della disciplina, anche il suo effettivo inserimento nel mondo reale. TERMINOLOGIA All’interno della ricerca per descrivere i vari temi e progetti affrontati ricorrono spesso i termini “elastico”, “flessibile”, “variabile”, “cinetico” e “dinamico”. Sebbene nell’uso comune alcuni di questi possono essere usati come sinonimi, nell’ambito di questa tesi le differenze sono considerate significative7. I termini “elastico” e “flessibili” se usati in riferimento a “immagine coordinata” sono associati alle metodologie appartenenti a quel ramo progettuale definito da Anceschi “Polo Soft”; usati invece per descrivere un marchio indicano la capacità di una forma originaria di modificarsi al variare del contesto di applicazione8. “Variabile” è usato per indicare marchi e identità che prevedono più varianti già in fase progettuale. L’aggettivo “cinetico” è stato usato da Anceschi, in riferimento all’Arte Cinetica e Programmata9, per indicare progetti che, sfruttando i media, pongono l’attenzione sul progettazione del processo di creazione, il quale è concepito con gradi di libertà che permettono alla forma finale di essere ogni volta diversa. Per indicare anche progetti che perseguono le stesse modalità senza però passare per media e strumenti digitali, è stato usato il termine più generale di “generativo”. Il termine “dinamico”, infine, è sembrato il più adatto per definire l’insieme di tutte queste modalità progettuali. FONTI Questa tesi è il frutto di una ricerca svolta per successive fasi di affinamento su testi e documenti italiani e stranieri, scritti dalla fine degli anni Sessanta fino ad oggi. Il tema dell’immagine coordinata è stato inizialmente affrontato studiando i principali testi generali di storia, teoria e critica del Design della Comunicazione Visiva e sulla Immagine Coordinata. A Causa del suo sviluppo relativamente recente, il tema delle Identità Dinamiche non è ancora

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stato approfondito dalla storiografia; le fonti comprendo quindi articoli, saggi, tesi di ricerca e cataloghi di recente produzione che in maniera più o meno approfondita analizzano il tema in questione. Inoltre è stato fatto uso di fonti provenienti dal web quali articoli pubblicati sui principali magazine online. Il tema dei progetti dinamici è però un argomento che ben prima della Grafica ha attraverso la letteratura, la musica e le arti visive di gran parte della seconda metà del XX° secolo; sono quindi stati consultati anche materiali esogeni alla disciplina del Graphic Design. Infine, per analizzare i singoli progetti, oltre ad utilizzare pubblicazioni quali cataloghi, articoli cartacei e online, si è cercato il più possibile di ottenere fonti primarie contattando i singoli progettisti via mail.

1

C. Ferrara, La comunicazione dei beni culturali. Il progetto dell’identità visiva di musei, siti

archeologici, luoghi della cultura, Lupetti, Milano 2007, pp. 73-74 2

ivi, p. 73

3

C. Chiappini, S. Sfligiotti, Open Project. Des identités non standard, Pyramyd, Paris 2010

4

G. Anceschi, C. Chiappini, Hard, soft e smart: gli stili registici dell’identity design, in “Pro-

getto Grafico”, n. 9 dicembre 2006 5

C. Chiappini, S. Sfligiotti, Multiverso, in “Multiverso Programme”, Aiap, 2008, p. 54

6

ibidem.

7

le comuni definizioni da vocabolario sono: Elastico: capacità di adattamento a situazioni e

ambiti diversi; Flessibile: che si adatta alle diverse esigenze e necessità; Variabile: capacità di mutare forma. Cinetico: capacità di modificarsi. Dinamico: dotato di energia e vitalità. 8

come esempio si veda il marchio “elastico” Holzäpfel disegnato da Karl Gestner a p. 45

9

G. Anceschi, C. Chiappini, Hard, soft e smart: gli stili registici dell’identity design, in “Pro-

getto Grafico”, n. 9 dicembre 2006, p. 106

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1.

immagine coordinata e corporate style «Una CORPORATE IMAGE è formata dalla totalità di immagini o idee o reputazioni di un’azienda nella mente delle persone che entrano in contatto con essa» FHK Henrion / Alan Parkin, Design coordination and corporate image, 1967.

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Polo SOFT / POLO HARD

L’immagine coordinata corrisponde agli strumenti e agli aspetti visivi di un’istituzione, e le suo origini storiche possono essere identificate anche negli stemmi e scudetti nobiliari, i quali già rappresentavano una soluzione per identificarsi e differenziarsi rispetto alle famiglie “concorrenti”. Ma è solo a fine Ottocento con l’avvento della società capitalistica che il tema dell’immagine aziendale diventa sempre più riconosciuto dalle corporation ed entra a far parte della disciplina del Graphic Design, per diventarne, nel secondo dopoguerra, uno dei temi fondamentali. Già dalle sue origini, come evidenziato da Baroni, il modello progettuale della immagine coordinata risente dell’influenza di due anime, una americana e l’altra europea: la prima influenzata dallo Styling e dalle nascenti teorie di marketing; la seconda caratterizzata da “un’impostazione che nella progettazione di immagine coordinata ha sempre privilegiato il rigore grafico e l’eleganza formale”1. In America, a cavallo tra la fine dell‘Ottocento e il Novecento, sono le compagnie petrolifere che, spinte dalla crescente concorrenza e dalla necessita di rendere meno spersonalizzati i propri prodotti e servizi al pubblico, adottano progressivamente logo, colori identificativi, tipologie architettoniche delle stazioni, divise, fino alle mappe stradali2. La storiografia di stampo europea, invece, ha sempre identificato il suo caposaldo nel progetto di Peter Beherens per l’AEG (Allegemeine Elektrictäts Gesellschaft, 1914-17), nel quale l’architetto tedesco ha incarnato l’utopia di unione tra Arte e Industria nata nel Werkbund, e che ha influenzato il Graphic Design europeo per decenni. Mentre le grandi corporation americane inglobavano la creazione di un’identità visiva nelle strategie di marketing e pubblic relation, il progetto di Beherens si sviluppò nell’Architettura, nel Design e nella Grafica perseguendo sempre la massima qualità. Nella storiografia della grafica il coordinamento visuale delle attività della AEG è generalmente considerato

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Peter Behrens, Marchio Aeg, 1908. Peter Behrens, pubblicità Aeg, 1907.

il primo programma di corporate identity3 . Nel progetto vi sono non solo le premesse ma tutte le basi dell’immagine coordinata – logo in più versioni, caratteri tipografici, colori, impaginazione e tipologie rappresentative – ma la “riorganizzazione del visibile”4 operata da Beherens si può essenzialmente considerare un caso per la prima parte del secolo perché solo dal secondo dopoguerra le maggiori multinazionali sentirono il bisogno di presentare al consumatore un design unificato5. Proprio grazie alla qualità della loro coordinamento visivo negli anni quaranta e cinquanta, grandi aziende di livello internazionale, sia americane che europee, come Olivetti, IBM, CCA, CIBA, Geigy e Pirelli vengono tuttora ricordate nella storiografia del Graphic Design. Si trattò di aziende guidate da grandi imprenditori, spesso definiti illuminati, che affidarono la progettazione di pubblicità, prodotti, imballi, fino alle architetture, ai migliori designer e grafici in circolazione, ponendo sempre la qualità come primo obbiettivo. Queste aziende e i loro programmi d’identità visiva sono diventate, insieme all’AEG, emblemi di quella metodologia progettuale che Anceschi ha definito “Polo Soft” e cioè “un’immagine spontanea che agisce e si sviluppa liberamente, in assenza di necessità e vincoli”6 attraverso una continua collaborazione tra i designer e la regia dell’imprenditore. Per “vincoli” Anceschi pensa soprattutto al manual e, riferendosi ai casi italiani, afferma: «Ma è soprattutto l’assenza di un particolare, specializzato e concretissimo strumento metodologico a caratterizzare la corporale identity all’italiana: l’image Olivetti nasce senza manual. Inventato negli anni quaranta-cinquanta dagli uffici grafici delle grandi società petrolifere americane, per risolvere i problemi di dispersione comunicativa propri di imprese dalle attività estremamente differenziate […] il manual entra a far parte integrante del bagaglio professionale di uso universale in contesti Giovanni Pintore, Manifesti e copertina per pieghevole Olivetti, 1949, 1953.

non italiani»7.

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Paul Rand, Eye Bee M, manifesto, 1981.

Nelle sue prime forme il manual costituiva delle linee guida generali di

Roland Aeschlimann, Nelly Rudin, opuscolo per il farmaco Insidon, Geigy, 1961.

a partire dagli anni sessanta, diventò il cuore dei progetti di corporate

Roland Aeschlimann, cartoncino pubblicitario per Geigy, 1963.

sul tema, ne raccomandavano fortemente l’uso: «è solitamente auspicabile

utilizzo degli elementi base dell’immagine coordinata e solo in seguito, identity. Henrion e Parking, autori di “Design Coordination and Corporate Image” (‘67), considerato ancor oggi uno dei maggiori testi di riferimento la realizzazione di un design manual che copra tutte le prevedibili applicazioni, nel modo più specifico e dettagliato possibile»8. Per Anceschi il manual come venne inteso dagli anni sessanta è emblema del passaggio da una metodologia progettuale “Soft” a quella definita del “Polo Hard”, «tipica di quei personaggi come Aicher che negli anni sessanta e settanta cercavano di pensare all’immagine coordinata come se fosse un oggetto, forse un iper-oggetto. Lo strumento metodologico principe era il manuale di applicazione, ovvero una sorta di libro della legge comunicativa dell’azienda»9. L’approccio progettuale “Hard” si affermò in seguito alla crisi della disciplina che investi il Graphic Design europeo tra gli anni cinquanta e sessanta: sotto la pressione delle grandi agenzie pubblicitarie americane che sempre più si stavano insediando nel mercato europeo con le loro strategie di marketin e pubblic relation, i graphic designer si videro sottratta la comunicazione pubblicitaria che fino ad allora era stata uno dei loro principali rami progettuali (basti pensare all’importanza riconosciuta dalla storiografia all’affiche); le soluzioni adottate dalla maggior parte dei grafici furono dedicarsi alla comunicazione per istituzioni o enti pubblici,

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Gruppo progettuale 5 (Otl Aicher, Hans Roericht, Tomàs Gonda, Fritz Querengässer, Hans Conrad), corporate identity della Lufthansa, marchio e pagine tratte dal manual, 1962.

o specializzarsi nella comunicazione istituzionale e offrire alle aziende un prodotto diverso da quello delle agenzie, ma altrettanto professionale. Da questa situazione nacquero e trovarono successo i grandi studi di design come Unimark International e Total Design. La corporate image divenne uno dei temi fondamentali per la disciplina e, per dirlo con Anceschi, «diciamo che i visual designer hanno fatto una grande scoperta di stampo teorico e cioè che l’azienda, con tutta la sua irradiazione di comunicazione verso l’esterno e verso l’interno, è un mass medium»10. Le teorie “Hard” trovarono grande diffusione anche grazie alla scuola di Ulm e al lavoro di Otl Aicher. A Ulm furono raccolti gli esiti del Bauhaus e fu notevole l’influenza della Scuola Svizzera, della grafica-matematica di Josef Müller-Brockmann e delle teorie sul linguaggio universale del neopositivista Otto Neurath. I progetti sviluppati a Ulm furono caratterizzati da un approccio sistematico, teso a sviluppare una metodologia di progettazione esente dalle ambiguità degli approcci intuitivi, una metodologia tecnico-scientifica che evitasse al design “di trasformarsi in cosmesi dei prodotti per incentivare gli acquisti, e la corporate image in mera seduzione pubblicitaria”11. Il progetto del 1962 di Otl Aicher per la Lufthansa fu uno dei primi basato su una così forte metodologia sistematica: i pochi elementi formalmente semplici furono raccolti in un manuale “che ne descriveva ogni possibile applicazione”. Il caso fortuito venne totalmente escluso e l’immagine Lufthansa divenne “inattaccabile”12.

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Otl Aicher, manifesti per le Olimpiadi di Monaco, 1972.

Il successo dell’approccio “Hard” fu così evidente che anche l’Olivetti, emblema della progettazione dell’identità visiva di stampo “Soft”, realizzò il suo manual: i famosi Libri Rossi, elaborati da Hans von Klier tra il 1971 e 1977. La metodologia e la manualistica di derivazione ulmaniana “si combinavano perfettamente con i postulati della scuola svizzera: impiego dalla griglia modulare, uso esclusivo di caratteri senza grazie (soprattutto Univers ed Helvetica), utilizzo di spazi bianchi come parti attive della composizione, predilezione della fotografia rispetto all’illustrazione, etc…”13. Il metodo progettuale ulmaniano e la scuola svizzera, con loro universalismo e razionalismo, si allinearono alle esigenze delle grandi corporation che operavano in mercati sempre più internazionali. Le compagnie volevano marchi che potessero rimanere stabili per generazioni e facilmente imprimibili nella mente dei consumatori. La natura universale della semplicità geometrica promossa dall’International Style e il rigore progettuale ulmaniano sembravano l’ideale per funzionare per decadi senza diventare obsoleto. Il successo dell’International Style quindi fu promosso anche dallo sviluppo della corporate image e gli anni sessanta, con i grandi progetti come quelli della Lufthansa, della KLM o di “Monaco ‘72” e la nascita dei grandi studi internazionali come Unimark e Total Design, segnarono il successo di quello che poi è stato definito Corporate Style.

1

D. Baroni, Sull’immagine coordinata, in “Linea Grafica”, n. 326, marzo/ aprile 2000,

pp. 40-51. 2

V. Pasca, D. Russo, Corporate Image, Lupetti, Milano 2005, pp. 31-32

3

A. e I. Livingstone, cit. in V. Pasca, D. Russo, Corporate Image, Lupetti, Milano 2005,

p. 14 4

ibidem

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5

SJ. Eskilson, Graphic Design! A New History, Yale University Press, 2007, p. 320

6

G. Anceschi, Monogrammi e Figure, La casa Usher, Firenze, 1988, p. 177

7

ivi, p. 152

8

F.K. Henrion, A. Parking, Design Coordination and Corporate Image, Reinhold Publishing,

New York, 1967, p. 9 9

Impresa Invisibile: conversazionie con Giovanni Anceschi e Vanni Pasca, a cura di E.

Carmi, A. Umbertis, Bridge, Milano, 1993, p. 18 10

ivi, p. 15

11

V. Pasca, D. Russo, Corporate Image, Lupetti, Milano 2005, p. 43

12 13

ivi, p. 45-47

ibidem

Total Design, pagine dal manuale di identità per Pam, 1964/65. In alto. Bob Noorda, studi e logo per la metropolitana di Milano, 1963/64. Massimo Vignelli / Unimark International, loghi per Agip, Coop e American Airlines, 1972, 1985, 1967

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2.

oltre il corporate style «La pittura non è mai vista in termini di problem-solving. Se si adotta un approccio problem-solving nel design, ciò che alla fine si finisce per comunicare è fondamentalemente il problema» Neville Brody, The Graphic Language of N. Brody, 1994

crisi del corporate style

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Un’immagine aziendale onnipresente e riuscita è, in definitiva, una calamità proprio perché è onnipresente.

A seguito dell’enorme sviluppo economico, la secondo metà del XX secolo ha assistito ad una crescita esponenziale del numero di aziende che si sono affacciate nel mercato. La conseguenza è stata un aumento parallelo della concorrenza e della necessità delle aziende di massimizzare la propria visibilità e comunicazione verso il pubblico e consumatori. Il fenomeno, tuttora in crescita senza segnali di rallentamento, è stato ribattezzato da Anceschi, Carmi e Pasca, non senza una vena critica, “effetto marmellata”: «Ormai non si parla d’altro. Tutti gridano, nessuno sente. Non c’è più impresa, associazione o istituzione che non comunichi e che non cerchi uno spazio per dialogare con il suo pubblico di riferimento. […] Il boom di investimenti in promozioni, pubbliche relazioni, sponsorizzazioni e direct marketing non fa che confermare questo dato. […] la comunicazione è ormai strategia allo sviluppo di un’azienda e al suo business»1. Inoltre “negli anni settanta e ottanta la concezione del marchio come elemento centrale divenne teoria diffusa anche nelle piccole aziende, enti ed istituzioni”2 e il successo del Corporate Style portò a una moltiplicazione delle applicazioni e dei progetti di corporate image basati sul manual, sugli approcci ulmaniani e ispirati all’estetica dell’International Style. Soprattutto nelle aziende che non avevano alle spalle una forte cultura del design, si è assistito ad una stereotipazione degli approcci progettuali e alla conseguente omogeneizzazione delle immagini istituzionali. L’efficacia della comunicazione attraverso l’immagine coordinata di stampo tradizionale – basata su logo, colori, carattere tipografico e gli altri elementi base così come era stata definita fin da Behrens – verso la fine degli anni ottanta non sembrava più essere in grado di garantire la visibilità voluta dalle aziende. Inoltre, come vedremo in seguito, la staticità e rigidità dei metodi progettuali del Corporate Style, poco si adattavano alla comunicazione della nuova era mediatica basata sulla televisione, e poi sul web. Per massimizzare la propria visibilità, le grandi corporation hanno puntato su strategie diverse, delle quali si possono evidenziare due estremi: da un lato aziende “assolutistiche”, come McDonalds o Starbusck hanno scelto di estremizzare gli approcci ulmaniani e la logica “Hard”, caratterizzando la propria comunicazione con una assidua uniformità e reiterazione: il logo

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Doppia pagina tratta da Adbusters, n° 89, The Ecopsychology Issue, Maggio/Giugno 2010.

e i colori istituzionali sono usati ovunque, in ogni possibile applicazione, non lasciando niente al caso, dal punto di vendita alla divisa, immergendo il consumatore in un’overdose comunicativa-visiva. Dall’altra parte molte aziende hanno scelto di non dare più al logo e agli altri elementi dell’immagine coordinata il ruolo primario di identificazione, ma hanno puntato sulla creazione di eventi, sponsorizzazioni e campagne pubblicitarie che, attraverso l’accostamento a “valori”, contribuiscono a creare un immaginario intorno alla corporation. “Il marchio, che nella concezione tradizionale di immagine coordinata, stava al centro del coordinamento grafico come un simbolo iterato in modo mai periferico, nel nuovo modo di intendere la strategia comunicativa, funziona o come simbolo estetico, o come elemento di continuità”3. L’esempio più noto è sicuramente quello della Benetton che negli anni novanta, sebbene abbia mantenuto di base un’immagine visiva “tradizionale” con tanto di manuale, ha costruito e sviluppato un’identità fortissima attraverso le campagne pubblicitarie coordinata da Oliviero Toscani, sulle quali il logo era posto come una firma. Queste realtà aziendali, come osservava già nel 1987 Aldo Colonnetti, hanno rappresentato quindi un «parziale abbandono, per quanto riguarda la cultura progettuale, della tradizione svizzero-tedesca, che privilegiava un fortissimo, quasi ontologico coordinamento tra segno e referente; e contemporaneamente mostrano un interesse alla narrazione dei prodotti

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Oliviero Toscani, United colors of Benetton, manifesti, 1991 e 1992.

secondo modelli più dinamici, più segmentati, verso una corporate image

Pagina a fianco. Sophie Thomas e Kristine Matthews, Don’t Buy This, 1997, Contributo dei Friends of the Earth all’International No shop Day.

in modo da favorire un intervento progettuale che si rivela sempre più

Ken Garland (con 22 firmatari), First things first, manifesto, 1964.

dove sembra quasi scomparire il classico coordinamento “da manuale”» complesso di fronte ad «un sistema produttivo e commerciale che non vuole più apparire monolitico»4. Infatti, parallelamente al suo successo, a partire dalla fine degli anni sessanta, il Corporate Style, fu soggetto anche a diverse critiche provenienti sia dall’interno che, soprattutto, dall’esterno della disciplina del Graphic Design. Nel dopoguerra l’universalismo promosso dalla Scuola Svizzera rappresentava per molti designer la scelta eticamente e moralmente corretta come risposta proprio nei confronti dei nazionalismi che avevano portato al massacro della guerra (e che sia con Hitler che con Stalin avevano condannato le avanguardie). Ma in seguito l’astrattismo geometrico è ironicamente diventato lo stile preferito dalle grandi corporation che volevano promuovere il loro universalismo. Proponendosi di “erodere i confini etnici, culturali, politici ed economici”5, l’International Style risultò perfetto per il mercato capitalista; gli approcci modernisti originari furono ridotti a pura razionalità e funzionalismo al servizio delle aziende e del mercato e il Corporate Style è finito per diventare simbolo dell’industrialismo maturo. Con la nuova presa di coscienza etica e politica che nasce intorno ai movimenti del ’68, il capitalismo globale e le grandi corporation vengono considerate come i nuovi dittatori, e proprio il rischio dell’abuso del potere dell’immagine è stato evidenziato da Ken Garland che afferma: «Un’immagine aziendale onnipresente e riuscita è, in definitiva, una calamità proprio perché è onnipresente. [l’immagine] è infusa di nozioni di potere e di imposizione dell’ordine elitarie e troppo pretenziose»6.

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In questo contesto molti designer hanno condannato il freddo razionalismo e funzionalismo dell’International Style e i designer allineati alla Corporate Culture. Eloquente è la descrizione di Catherine McCoy nei confronti dell’ambiente che all’epoca si respirava alla Unimark International: «Pensando al 1968, l’atmosfera all’interno della Unimark International durante il mio primo anno di lavoro esemplifica questo problema. L’Unimark era dedicata all’ideale della razionalità obiettiva e professionale. I graphic designer erano neutrali veicolatori del messaggio del cliente. Chiarezza ed obbiettività erano gli obbiettivi. Durante l’anno, i designer con cui lavorai, salvo una eccezione, erano tutti considerevolmente disinteressati ai cambiamenti sociali e politici che ci stavano accadendo intorno. […] Non una sola parola fu spesa su questi temi. Eravamo incoraggiati ad indossare camici bianchi, forse per fare in modo che i disordini del mondo esterno non contaminassero il nostro pulito e chirurgico distacco»7. Nei decenni a seguire il dibattito sul proprio ruolo etico e sociale ha coinvolto tutti i principali designer; soprattutto le generazioni più giovani hanno apertamente manifestato la loro avversione al Corporate Style e alla Brand culture. Gruppi come Adbuster, The Designers Republic o lo studio Thomas&Matthew con il progetto No Shop, hanno inoltre riutilizzato in chiave provocatoria gli stessi strumenti dei brand e del Corporate Style. per schierarsi contro il capitalismo e il consumismo. Più recentemente designer come gli Åbäke e i Metahaven hanno cercato di approfondire la riflessione sul tema dell’identità, superando la mera battaglia alle corporation. Gli Åbäke in molti dei loro progetti cercano di esplorare le possibilità di valorizzazione delle identità delle culture locali, mentre i Metahaven, nel loro testo “Uncorporate Identity”, hanno indagato i rapporti fra potere, brands e identità. I Metahaven hanno evidenziato

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Adbusters, American Corporate Flag, 2008.

alcune problematiche chiave del design contemporaneo come la contrad-

The designers republic, Work Buy Consume, manifesto autoprodotto, 1993.

Graphic Design e la sempre maggiore attenzione delle istituzioni pubbli-

dizione fra la professionalità e il “ruolo sociale” propri della disciplina del che verso il potere dell’immagine, fino a trasformarsi esse stesse in brand: «ll sorgere del corporate identity e del branding come modello di business è una tragicommedia per la pratica contemporanea del design. […] Stati e corporation si sono scambiati i reciproci ruoli»8. Questi ultime ricerche sono il punto di arrivo attuale del percorso che ha portato diversi designer ad indagare il proprio ruolo nei confronti della società sul tema dell’identità visiva. Si tratta di una riflessione che ha fortemente influito gli approcci progettuali al visual identity che stiamo indagando. Ma le critiche al Corporate Style non sono state solo politiche; osservava Anceschi: «un altro rischio è il “modello ingegneristico-estetico”: la costanza, l’omogeneità formale, la uniformità come la chiamava MüllerBrockmann, e soprattutto il suo principale argomento pragmatico in suo favore (incremento di memorabilità, insomma il fattore cumulativo della ripetizione) possono slittare, prima impercettibilmente e poi catastroficamente, nella banalità riduttiva del programmino di cancelleria e oggettistica […] il professionalismo tende a trasformare ogni intervento in routine collaudata. […] Il piacere di lasciarsi sorprendere dalla cascata e dal gioco degli incontri fra formula e circostanze […] viene corretto e si trova spesso in contrapposizione con un pensiero operazionalista e pragmatista, convergente, di tipo problem solving. Si tratta di una metodologia di design coordination come la definivano Henrion e Parking»9.

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Metahaven, Sealand Identity Project. Il Principato di Sealand è una micronazione di 550 metri quadrati situata sulle fondamenta di un vecchio forte navale vicino alle coste brittaniche, fondata nel 1967. I Metahaven, riprendendo un progetto iniziato nel 2003 da Daniel van der Velden, hanno realizzato uno studio per creare un’ipotesi d’identità nazionale, dalla bandiera alla moneta, dai francobolli ai passaporti, le iconografie e le araldiche.

Per Anceschi il passaggio dal “Polo Soft” a quello “Hard” ha significato un irrigidimento dell’approccio alla progettazione dell’immagine coordinata. Nell’immagine coordinata di tipo “Soft” ci si avvicina di più all’idea di guidline: in altre parole meno divieti e più suggerimenti; nell’immagine coordinata “Hard” tutti gli elementi base e i loro accostamenti, fino alla grammatica dei colori o i rapporti tipografici per esempio, sono rigidamente definiti in tutte le situazioni e sono previsti divieti rigorisi. Si può osservare come fatto da Andrea Rauch che, sebbene fu proprio Aicher a indirizzare i programmi della scuola di Ulm verso la rigorosa metodologia progettuale, e fondò tutto il suo lavoro sul sistema assoluto, questo si scontrò sempre con una «fantasia sistematica decisamente eccezionale. Così che i suoi progetti, lontani dall’essere un altro gatto nero, brillano sempre per rigore formale e anche per fantasia formale»10. Lo stesso vale per un altro maestro del Corporate Style come Vignelli: «non si può certo dimenticare il patrimonio di idee e invenzioni che è sempre alla base del suo lavoro e che prevede, all’interno di un rigoroso progetto sistematico, tanti strappi alla regola da diventare norma»11. Si vuole evidenziare come la grafica dei maestri superava le insidie proprie dei metodi “Hard”, insidie comunque evidenziate anche da Henrion e Parking già nel ‘67: sebbene il loro testo si collochi appieno nelle ideologie del Corporate Style e contenga affermazioni come «l’espressione personale del designer [è] raramente richiesta»12, i due autori mettevano in guardia dal «sovrauso del marchio per unificare in maniera superficiale»13; “Il designer oggi deve saper bilanciare tra standardizzazione e originalità funzionale. […] C’è la tendenza a considerare l’house style statico, un set di regole dato. Ma le situazioni di mercato e le aziende cambiano continuamente, e questi cambiamenti vanno espressi visivamente»14.

crisi del corporate style

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Tutti i migliori grafici hanno superato la rigidità sistematica dei principi base del Corporate Style, ma i principi di quest’ultimo erano diventati talmente pratica comune che si è invece assistito al proliferare dell’austerità totale promossa proprio dalla Scuola Svizzera. Lo stesso Paul Rand denunciava: «una certa uniformità sembra pervadere tutti i campi della grafica… L’enfasi sulle forme semplici, l’assenza di ornamenti e l’accettazione universale di certe forme d’arte tendono ad incoraggiare l’anonimato»15. Con la Scuola Svizzera e lo sviluppo dell’International Style furono portate “alle estreme conseguenze le lezioni delle avanguardie, rasciugandole da tutte quelle ibridazioni che però ne costituivano la ragione, il fascino e la loro intrinseca necessità di reagire alla conformità dell’ovvio”16. Una forte insofferenza per la rigidezza delle regole della scuola svizzera, una certa gelosa ricerca di individualità, e la disillusione totale rispetto all’ottimismo scientifico che caratterizzò gli anni ‘50 e ‘60 – l’idea di poter controllare totalmente con la scienza e le nuove discipline il messaggio attraverso il medium grafico – ha spinto la nuove generazioni di designer ha ricercare nuove forme di espressione e di approccio alla progettazione. Inoltre a partire dagli anni ottanta il “presupposto razionalistico (ma forse non troppo razionale) che è possibile prevedere in anticipo tutte le situazioni di impiego”17 caratterizzante il “Polo Hard” si scontra sempre più con la velocità della nuova era mediatica. Come evidenzia Elio Carmi, prima «c’era una situazione diversa: si definiva il codice e poi lo si applicava. Oggi non è proprio possibile per la mediatizzazione: le cose cambiano dall’oggi al domani»18. Il principio fondato sull’idea che il marchio e il progetto di corporate identity dovessero vincere il tempo e le mode non è più sostenibile. I designer si sono accorti che in molti casi non è più possibile progettare sistemi identitari con l’approccio ulmaniano basato sulla ripetizione ma che è necessario sviluppare strumenti flessibili e adattabili ai diversi contesti e momenti di utilizzo.

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1

Impresa Invisibile: conversazionie con Giovanni Anceschi e Vanni Pasca, a cura di E.

Carmi, A. Umbertis, Bridge, Milano 1993, p. 13 2

V. Pasca, D. Russo, Corporate Image, Lupetti, Milano 2005, p. 51

3

A. Colonetti, La Grafica Diffusa, in “Linea Grafica”, novembre 1987, p.22

4

ivi, p. 21

5

J. Drucker, E. McVarish, Graphic! Design History, Prentice Hall, New jersey 2008, p. 264

6

K. Garland, cit. in Q. Newark, Introduzione alla Grafica, Logos, Modena 2006, p. 120

7

K. McCoy, Design as a Social e Political Force, in “Citizen Designer”, a cura di S. Heller,

V. Vienne, Allworth Press, 2003, p. 3 8

Metahaven, Uncorporate Identity, Lars Muller Pubblishier, 2010, p. 8

9

G. Anceschi, Monogrammi e Figure, La casa Usher, Firenze, 1988, pp. 172-173

10

A. Rauch, Graphic Design, Mondadori, Milano, 2006, p. 75

11

ivi, p. 175

12

FHK. Henrion, A. Parking, Design Coordination and Corporate Image, Reinhold Publi-

shing, New York, 1967, p. 8 13 14

ivi, p. 9

ivi, p. 13

15

P. Rand, cit. in Q. Newark, Introduzione alla Grafica, Logos, Modena, 2006, p. 120

16

A. Rauch, Graphic Design, Mondadori, Milano, 2006, p. 74

17

Impresa Invisibile: conversazione con Giovanni Anceschi e Vanni Pasca, a cura di E.

Carmi, A. Umbertis, Bridge, Milano, 1993, p. 18 18

ivi, p. 19

crisi del corporate style

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Dynamic identities

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3.

rivoluzione mediatica E digitale «La contaminazione tra tecnologia digitale e strumenti analogici attraverso l’imperfezione, l’errore e il caso riporta vita e mutevolezza in un campo che altrimenti tenderebbe all’appiattimento della perfezione ripetibile» Cristina Chiappini e Silvia Sfligiotti, Multiverso, 2008

rivoluzione mediatica e digitale

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Il mondo cambia sempre più rapidamente. i designer e i modelli progettuali devono essere in grado di rispondere a tali cambiamenti

Gli anni sessanta e settanta hanno visto il trionfo della Televisione; negli anni ottanta sono arrivati i primi Personal Computer e dai novanta la diffusione del web e poi del web 2.0 ha segnato ulteriormente la rivoluzione mediatica e l’era digitale in cui siamo immersi. Con il rapido cambiamento e la nascita di nuovi media è anche cambiato il concetto di comunicazione; come osserva SJ. Eskilson: «Nel passato un designer come Paul Rand poteva gestire tutti gli elementi di una corporate identity trasferendo una singola statica immagine stampata su un packaging, su un prodotto, fino alla carta intestata. Tutti questi media erano facilmente intercambiabili. Oggi i designer devono operare in un ambiente molto più complesso nel quale devono essere in grado di trasferire testi e immagini attraverso diverse piattaforme, spesso alterando le proprietà estetiche per incontrare le presunte aspettative del consumatore»1. Nella “epoca dello schermo”2, così come è stata definita dal filosofo e critico dell’arte Nichola Bourriaud, il Graphic Design non si confronta più solo con i suoi strumenti e mezzi tradizionali e lo sviluppo dei nuovi media comunicativi ha portato a far scontrare la natura materiale dei supporti classici con quella dei nuovi media digitali. Oggi le nuove tecnologie sono fattori che contribuiscono significativamente a configurare l’attuale orientamento della comunicazione visiva e ciò che caratterizza in primis i nuovi media (dal film al web) è la possibilità di esplorare le dimensioni dinamiche e temporali, con le quali la grafica non è più limitata all’immagine statica. Il primo mezzo comunicativo che ha aperto nuove possibilità esplorative nel campo della Grafica è stato il film, il quale “ha spazzato via la vecchia rigidità dei blocchi di testo”3; basti pensare agli eccezionali risultati dei titoli animati di Saul Bass che sono ancor oggi punto di riferimento fondamentale per la Motion Graphic. Ma già agli albori del cinema si trovano tentativi sperimentali di unire i linguaggi della grafica e del video ad opera dei dadaisti: il primo sembra essere stato Hans Richter che nel 1921 aveva realizzato un film intitolato “Rhytmus” in cui figure geometriche – che ricordano un quadro di Rietveld – si muovono in configurazioni sempre diverse, esplorando le possibilità che la grafica poteva avere con l’immagine animata e anticipando di quasi quarant’anni i titoli animati dello stesso Bass.

Dynamic identities

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Si tratta però di sperimentazioni e designer spesso isolati; i grafici che si occuparono della grafica in movimento sono stati per anni un numero assai limitato e i due settori sono stati considerati professioni quasi separate; quella del grafico rimaneva ancorata ai suoi mezzi e strumenti tradizionali. Solo dalla seconda metà degli anni ottanta con l’arrivo dei primi Macintosh e poi con la diffusione in massa dei personal computer, il ruolo e la professione del Graphic Designer è profondamente cambiata. La rivoluzione digitale, come afferma Daniele Baroni, «ha fornito mezzi di rappresentazione e tecnologie progettuali radicalmente innovativi e ha dato impulso a una ricerca sperimentale sui modelli di comunicazione visiva più congeniali alle sue prestazioni»4. Baroni poi evidenzia come lo schermo sia diventato un nuovo campo di applicazione della grafica, un nuovo medium con il quale il designer è chiamato a confrontarsi e a sviluppare nuove competenze: «La pagine schermo è mobile e variabile giacché può essere mutata nel corso della lettura, scorre davanti agli occhi del lettore in uno spazio virtuale. […] Sulla pagina-schermo tutto è reso molto più complesso dall’accelerazione dei tempi di fruizione, dalla possibilità di far intervenire sistemi comunicativi plurisensoriali, dalla natura cinetica dei sistemi visivi, dalla frammentazione delle informazioni destinate a ricomporsi secondo criteri dipendenti dalle modalità di lettura»5. Dagli anni novanta i rapporti e le potenzialità data dall’incontro del Graphic Design con i nuovi media e strumenti tecnologici sono stati sempre più esplorati. Tra i principali designer attivi in questo settore una delle figura che ha avuto un ruolo e un’influenza fondamentale è stata quella di John Maeda; avvantaggiato dall’avere una formazione sia di artista/ designer sia di programmatore, quest’ultima gli ha consentito di realizzare e sviluppare la sua visione sui nuovi media senza bisogno di ricorrere ad intermediari. Il suo lavoro è sempre stato caratterizzato dalla volontà di legare la semplicità del buon design con la natura complessa dei computer; tutti i suoi progetti nascono dal concetto di utilizzare quest’ultimo Saul Bass, titoli di testa per The man with the golden arm di Otto Preminger, 1955. In alto. Hans Richter, Rhythmus 21, 1921.

come strumento creativo e lo stesso Maeda si definisce tuttora un “aspirante artista-ingegnere” che ha nel computer il suo medium. Il lavoro di Maeda ha evidenziato, usando ancora parole di Baroni, come “la struttura cinetica della comunicazione digitale apre […] nuove possibilità, dan-

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Home page dei siti Wikipedia e Youtube.

do vita ad effetti plastici, a contaminazioni tra vari livelli visivi, a sintesi espressive e a combinazioni sinestetiche”6. Molti dei suoi lavori portano a sviluppare una grafica che fa del tempo e del movimento degli elementi base, ma soprattutto che interagisce con l’utente, come nella serie dei “Reactive Books” che, creati a partire dal ’95, esploravano le possibilità dell’interazione fra utente e i 5 principali e differenti aspetti dei nuovi media – suono, mouse, tastiera, tempo e video. Il lavoro di Maeda ha dimostrato che “la struttura scientifica dell’informatica, fondata su procedimenti matematici, può aprire inediti orizzonti alla ricerca puramente grafica”7. Dopo il video e il Personal Computer, è stata la nascita della rete Internet ad avere fortissima influenza sulla società contemporanea e naturalmente anche sulla disciplina del Graphic Design. Il grafico Californiano Roger Black ha sostenuto che «oggi è impensabile lavorare sulla carta senza conoscere la logica del web»8. Il web infatti richiede navigazione, animazione, live data, etc. Soprattutto lo sviluppo del web 2.0 ha portato a rivalutare ancora il ruolo dell’utente. Nel 2006 Il times ha eletto proprio l’utente “Uomo dell’anno” a seguito del successo di siti web comunitari quali MySpace, Flickr, Facebook, Wikipedia, Ebay, Amazon e YouTube. In tutti questi siti l’interattività è divenuta un elemento centrale della comunicazione e il lettore/utente non è più un attore passivo, ma diviene coautore di contenuti all’interno di una comunità aperta. Oggi le tecnologie digitali ricoprono un ruolo centrale nella ridefinizione dell’’organizzazione del lavoro e delle relazioni fra individui e l’interazione gioca un ruolo fondamentale nelle pratiche contemporanee. Il progettista è così chiamato a pensare diversamente al ruolo del consumatore e, di conseguenza, cambiato il ruolo del “destinatario” è cambiata anche la concezione del ruolo del designer. Come prima accennato, l’arrivo dei primi Macintosh e lo sviluppo del desktop pubblishing hanno avuto conseguenze profonde

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Step 1. Select a font choose a word by typing the corresponding character

Step 2. Delete space bar to overlap elements

Step 3. Choose a pattern

Step 4. Overlap two lines by setting the leading to zero

Step 5. Repeat to create a line and customize the color

Walker Expanded, identità del Walker Art Center: istruzioni per l’utilizzo del sistema d’identità, 2005

sulla disciplina: le tecnologie hanno inglobato e unito competenza diverse,

Grafica murale nel garage del parcheggio, 2005.

ha contribuito a spostare il ruolo del designer da quello che poteva essere

permettendo ai designer di avere un controllo sempre maggiore su tutto il processo produttivo. Come ha evidenziato più volte Anceschi, tutto questo definito di problem solver, per avvicinarsi sempre più a quello di un regista. Di fronte a questi mutamenti anche il progetto di immagine coordinata è stato soggetto a una evoluzione; gli stessi strumenti che veicolono l’identità sono cambiati: “i contenitori dell’identità si espandono dal supporto cartaceo allo spazio e al tempo”9. La stabilità, ripetibilità e coerenza, che sono stati i punti saldi delle teorie del design del 20° secolo, segnano ora il vecchio modello del visual identity; staticità, moltiplicazione e ripetizione non sono più fattori sufficienti per un progetto di immagine coordinata; la costanza visiva diviene sempre meno efficace e il manual non basta più a coprire tutte le nuove necessità: con tutti gli strumenti e gli artefatti su cui le organizzazioni si affacciano, oggi è impensabile sviluppare una immagine e un manuale che possano prevedere tutto. Come già evidenziava a inizio anni novanta Valeria Bucchetti «il sorgere di nuove realtà comunicative, come per esempio quelle determinate dai Network televisivi e la loro necessità di articolare un sistema sofisticato di immagini, [necessita] di una corporate image capace di evolvere di continuo, quasi in tempo reale pur mantenendo valori costanti; […] quindi un apparato composito alquanto lontano da quella linearità che i progetti di immagine coordinata di matrice ulmaniana sottendevano»10. Nella società sempre più visivamente affollata è, naturalmente, sempre più importante affermare la propria identità, ma se il marchio deve essere coerente, non vuol dire che la sua forma deve essere statica.

rivoluzione mediatica e digitale

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«Fino a poco tempo fa progettare un’identità per una corporation o un’istituzione significava sintetizzare l’essenza in un unico marchio o logo, applicato alle superfici dei vari oggetti – dalla carta da lettere ai camion – che indicavano la presenza fisica dell’azienda del mondo seguendo le linee guida definite dal manuale di stile». – afferma Alice Twemlow – «Oggi, invece, i contesti e gli utilizzi del marchio stanno diventando sempre più complessi, e le identità si sono trasformate in sistemi più flessibili e versatili in grado di svolgere diverse funzioni per vari gruppi di persone a cui si rivolgono»11. La società contemporanea si basa su una comunicazione multicanale e multilingua, e di conseguenza sorgono nuovi requisiti, quali l’interazione, la flessibilità e l’adattabilità; oggi molti designer non considerano più l’identità visiva come una parola, ma come una frase, un dialogo riscritto ogni giorno, un work in progress mai concluso o finito. Si passa dal linguaggio visivo al “linguaggio visivo-verbale”, cioè alla costruzione di significati attraverso l’utilizzo di segni coordinati coerentemente attraverso una propria e specifica logica. L’identità visiva diviene progettata come una grammatica. Questi approcci all’immagine coordinata oggi si stanno diffondendo ampiamente tra i designer, e il progetto dell’identità del Walker Art Center (sviluppata nel 2005) ne è l’esempio probabilmente più famoso. Attraverso l’utilizzo della tipografia e di linee composte da textures differenti, gestite attraverso appositi software e semplici regole applicabili a scale differenti, l’identità del Walker può essere trasformata in base allo scopo; “il programma o l’argomento e il pubblico determinano i gruppi di parole da usare e il grado di dinamismo dell’identità”12. Tutto questo gli permette, adottando un responsabile dell’identità interno che ha il controllo totale sul design di “evitare l’eredità di manuali e guide che rendono statica, e alla fine noiosa, un’identità”13. Si tratta di quell’approccio che Cristina Chiappini e Silvia Sfligiotti hanno definito, usando un termine coniato a fine ottocento da William James, appartenere al “Multiverso”: «una modalità di approccio al progetto particolarmente presente e vitale nella realtà contemporanea: un design flessibile, adattabile, non imposto dall’alto ma costruito nella realtà, tenendo conto delle differenze e valorizzandole. Non si vuole parlare qui

Dynamic identities

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di un postmoderno relativismo culturale, ma di un atteggiamento aperto, libero da preconcetti e disponibile a sviluppi non previsti»; infatti «l’idea di progettare non un segno definito ma un sistema adattabile, aiutata dagli sviluppi del design computazionale, si trova in molti dei progetti di identità che si sono visti in primo piano negli ultimi anni»14. In questo contesto diversi designer negli ultimi due decenni hanno abbracciato approcci progettuali al design dell’identità visiva diversi da quelli tradizionali. I risultati sono stati molto diversi, e sviluppati a livelli più o meno profondi.

1

SJ. Eskilson, Graphic Design! A New History, Yale University Press, 2007, p. 397

2

N. Bourriaud, Estetica Relazionale, Postmedia Books, Milano 2010, p. 65

3

J. Drucker, E. McVarish, Graphic Design History, Prentice Hall, New jersey 2008, p. 272

4

D. Baroni, M. Vitta, Storia del Design Grafico, Longanesi, Milano 2003, p. 317-320

5

ibidem

6

ivi, p. 319

7

ibidem

8

R. Black, cit in D. Baroni, M. Vita, Storia del Design Grafico, Longanesi, Milano 2003,

p. 320 9

K. Kwangchul, Editorial, in Graphic, n° 13 spring 2010, p. 3

10

V. Bucchetti, Come cambia l’immagine coordinata, in “Linea Grafica”, marzo 1993, p. 42

11

A. Twemlow, Grafica, Perché?, Logos, Modena 2007, p. 113

12 13 14

ivi, p. 115

ivi, p. 120

C. Chiappini, S. Sfligiotti, Multiverso, in “Multiverso Programme”, Aiap, 2008, p. 54

rivoluzione mediatica e digitale

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Dynamic identities

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4.

identità variabili «la nostra tesi è che ogni problema visivo ha un numero infinito di soluzioni, molte delle quali valide» Fletcher/Forbes/Gill

identità variabili

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I fattori tempo, variabilità, flessibilità e dinamicità entrano nel design

«Solitamente il marchio tende ad assumere una configurazione semplice, chiusa, fissa, e soprattutto a conservare rigorosamente inalterati i rapporti dimensionali fra le parti che lo compongono. La costanza percettiva è l’obbiettivo principale del progettista»1 affermava Anceschi nel 1988. Nello stesso testo però il teorico italiano metteva in evidenza come già diversi designer avevano sviluppato dei marchi che attraverso strategie progettuali molto diverse, contravvenivano a questa sorta di regola. La progettazione di un’identità dinamica infatti non è un tema completamente nuovo: uno dei primi marchi “flessibili” può essere considerato quello adottato dall’azienda francese Michelin, la cui mascotte Bibendum (conosciuto in Italia come “omino Michelin”)a creato nel 1898 è stato rappresentato in moltissime varianti, evolvendo anche il suo aspetto nel tempo. Ma è a partire dagli anni sessanta che si sviluppano i primi progetti consapevolmente rivolti a creare un marchio variabile e identità visive adattabili a diverse situazioni di applicazioni. Nel contesto modernista può infatti essere ricordato il codice visivo progettato da F.H.K. Henrion per identificare le dodici società appartenenti al gruppo Metra International; il sistema adottava una trama di punti esagonale dal quale veniva ricavata l’iniziale di ogni azienda affilata per costruirne il marchio individuale, in coerenza con le altre. Secondo autori come Chiappini e Sfligiotti «la radice di questi approcci si può trovare in “Programme entwerfen” (1963) di Karl Gerstner»2, testo in cui il designer svizzero proponeva un nuovo modello progettuale che prendeva in considerazioni le appena nate potenzialità dei computer. Si trattava di un testo innovativo, soprattutto alla luce dei seguenti sviluppi del design computazionale, che intravedeva la possibilità di inserire nel Design, nell’Architettura e nella Grafica i fattori variabilità e caso. Proprio Gerstner aveva infatti sviluppato un’interpretazione ancora diversa del Manifesti per Michelin, 1898, 1912 e 2007.

tema della flessibilità con il marchio “elastico” della ditta di mobili componibili Holzäpfel, disegnato nel ‘59: la costanza era affidata ai rapporti fra gli elementi mentre le proporzioni della forma e la dimensione si adattavano a seconda dell’impiego, dalla carta da lettere, agli imballaggi fino alle

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Holzäpfel

insegne. «Gerstner – ricorda Anceshi, – faceva arte programmata ed esponeva con il gruppo di Arte Cinetica e Programmata [anche se] quello che all’epoca non c’era, o c’era poco era direttamente il cinetismo. Non c’erano per nulla gli Hypermedia, cioè non c’era ancora stata Silcon Valley»3. Pochi anni dopo è Paul Rand che cerca, tra i primi, di percorre proprio la strada del cinetismo, sviluppando una versione filmata del marchio della Westinghouse, disegnato nel ’62, in cui una breve animazione mostrava il logo nel suo comporsi. Definita da Anceschi una “sequenza cinematica”4 – come i titoli di testi di Saul Bass per film – il logo animato di Rand può essere considerato il primo tentativo di sviluppare un marchio “cinetico” nel senso che sfrutta il movimento interagendo con un media

Holzäpfel INTERwall©

the internal wall for home and office interiors

quale lo schermo. Estremamente innovativo come approccio è stato il progetto sviluppato dal gruppo GGK – composto ancora da Gerstner con Paul Grendiger e Marcus Kutter – i quali disegnarono un logo completamente variabile, in un senso molto più ampio rispetto ai casi finora vista. Mentre il Metra di

Karl Gerstner, Holzäpfel, marchio e opuscolo pubblicitario, 1959.

Henrion prevedeva delle possibilità di variazione all’interno di una gabbia

In alto. Paul Rand, Westinghouse, sequenza animata del logo, 1962.

era destinata al solo uso su schermo e “l’Omino Michelin” funge più da

F.H.K. Henrion, Metra International, marchio principale e variazioni per le società affiliate, 1967.

rature In Köln progettato da GGK nel ‘74, assumeva il tema della variazio-

molto rigida, la versione animata del logo animato della Westinghouse simbolo/mascotte da affiancare al logotipo ufficiale, il logo variabile Litene come l’elemento visivo caratterizzante: le tre lettere che costituivano l’anagramma LIK potevano essere indistintamente composte ognuna con un carattere tipografico diverso. Questa semplicissima soluzione permetteva ai designer di creare decine di composizioni diverse, mantenendo però sempre inalterata la riconoscibilità del marchio. Non più costanza e omogeneità, ma variabilità e diversità divenivano così per la prima volta gli elementi caratterizzanti dell’identità visiva. Il metodo progettuale adottato da Gerstner, Grendiger e Kutter, lasciando liberamente il marchio aperto a possibilità di variazioni quasi infinite, anticipa di due decenni i metodi progettuali adottatti da molti designer a partire dagli anni novanta. Fino ad allora infatti i tentativi di adottare approcci veramente dinamici nella progettazione e nello sviluppo di marchi, oltre a quelli appena visti, sono stati veramente pochi.

identità variabili

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Sarà Mtv, a partire dalla metà degli anni ottanta, a sviluppare una delle prime identità dinamiche veramente di successo. Nata per rivolgersi alle nuove generazione, cariche di anticonformismo e alla continua ricerca di nuove identità che valorizzassero le diverse culture giovanili, Mtv ha adottatto un’identità visiva in continua evoluzione, personalizzata di volta in volta da decine fra animatori, illustratori e filmaker. Nelle centinaia di versioni realizzate il logo Mtv è stato trasformato nelle più differenti varietà stilistiche, dal pop al techno, dall’illustrazione al cartonesco, dal fumettistico alle animazioni tridimensionali; scegliere e interpretare visivamente le mode e i trend giovanili è diventato il suo elemento identitario. Ogni volta il logo è presentato in una versione nuova, per poi tornare sempre all’originale. Adattandosi al media per cui è nata (la televisione), alle mode e prendendo isparazione dalle stesse novità espressive dei videoclip, l’identità di Mtv ha così continuato a svilupparsi presentando sempre nuove interpretazioni di se stessa da ormai 25 anni senza sosta. GGK (Karl Gerstner, Paul Grendiger e Marcus Kutter), Literature In Köln, 1974.

Un altro esempio di rilievo spesso ricordato nei testi di storia dell’imma-

In alto. Mtv, varianti del logo, 1981/2010.

otteneva l’armonia degli elementi in situazioni sempre imprevedibili”5 e

Pagina a fianco. Fiorucci, marchi, anni Novanta.

e Dario Russo «l’immagine Fiorucci rinuncia al marchio (ogni grafico ne

gine coordinata, è stato quello di Fiorucci che negli anni novanta, “accostando figure di origine differente (da Mickey Mouse ai punti di Raffaello), rivelava una totale assenza di sistematicità. Come osservano Vanni Pasca disegna uno a sé); ed emerge apparentemente senza metodo, al di fuori di ogni idea di immagine coordinata, ma risulta in definitiva perfettamente riconoscibile»6. Già nel 1987 anche Aldo Colonnetti affermava che in Fiorucci tutto appare «meno determinato, più facile è la trasgressione, e il sogno di un protagonismo diffuso diventa realizzabile»7. Con Fiorucci la “disomogeneità sotto controllo” diventa il segno di coordinamento e riconoscimento fondamentale. Proprio partendo da questi esempi tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta inizia a svilupparsi una riflessione teorica sulle necessità delle aziende di elaborare nuovi modelli di corporate identity: riflessioni che evidenziavano come l’immagine coordinata tradizionale e il suo corrispondente manuale di applicazione in molte situazioni non fossero più in grado di «far fronte a una sempre più forte spinta alla segmentazio-

Dynamic identities

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ne dei prodotti” in cui risaltano “atteggiamenti interpretativi che chiedono uniformità simboliche” contro la necessità di “protagonismo individuale»8. Valeria Bucchetti sottolineava come le aziende nella maggior parte dei casi si trovano «quindi a gestire un’immagine istituzionale e nel contempo una serie di immagini di prodotto e di linea rappresentati da marchi autonomi segnati da cicli di vita diversi, da differenti necessità seduttive e comunicative, da differenti posizionamenti sul mercato che possono essere con essa in una relazione variabile e che ad essa rimandano più o meno direttamente»9. In questo contesto risalta la necessità di sviluppare un nuovo modello di corporate image «capace di evolvere di continuo, quasi in tempo reale pur mantenendo valori costanti. [...] L’idea è quella di pensare che sia gli elementi primari – marchio, logotipo, etc… – sia, ed in modo particolare, la sintassi debbano contenere quei tratti fondamentali identificativi. Le stesse caratteristiche che il timbro possiede per una persona. […] Si potranno articolare periodi diversi, pronunciarli con toni differenti, si potrà agire sulla prosodia, ma il messaggio rimarrà riconoscibile attraverso l’impronta timbrica»10. Si giunge quindi pian piano a comprendere che “guardare alle istanze di un marchio non coordinato, simili ma sempre diverse fra loro, significa modificare la percezione della marca che da statica e immutabile diventa dinamica”11. Queste riflessioni teoriche nascevano anche al sorgere delle nuove realtà comunicative che si stavano sviluppando: proprio dagli anni novanta, man mano che si sviluppano gli “hypermedia” a cui faceva riferimento Anceschi, i temi del cinetismo, della variabilità, dell’elasticità e mutabilità nel tempo vengono sempre più indagati anche a livello teorico: partendo da John Maeda (che, all’interno delle sue ricerche sui media elettronici e interattivi, e sull’utilizzo di software e strumenti digitali di progettazione, sviluppa per la ditta Morisawa delle varianti tematiche del marchio in dieci diversi poster) fino alle recenti ricerche di Ellen Lupton con i suoi studenti (ai quali la designer e teorica americana propone esercitazioni con l’obbiettivo di implementare le variabili tempo e movimento nella grafica e nel disegno di loghi, sia in funzione di supporti cartacei che digitali).

identità variabili

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I fattori tempo, variabilità, flessibilità e dinamicità sono quindi sempre più al centro del design e questo tipo di identità stanno diventando sempre più diffuse; un esempio tra i più conosciuti è probabilmente il logo di Google, il quale viene reinterpretato in occasioni e momenti particolari, anche a seconda della localizzazione geografica, per poi tornare sempre alla sua versione originale. I designer stanno quindi comprendendo che la variabilità oggi può essere il valore aggiunto ad un progetto di immagine coordinata. Ma molti dei progetti sviluppati negli ultimi anni non cercano solo di creare da un logo di partenza più varianti dello stesso da affiancargli; l’obiettivo diviene definire, nel cuore stesso del progetto, una metodologia di variazione che permette di sviluppare più varianti già in fase progettuale, e la definizione di un equilibrio tra elementi statici e variabili che formano la struttura e i rapporti alla base dell’identità. Come evidenziano i casi studio presentati nelle pagine seguenti, progettare sistemi flessibili permette di affrontare diverse situazioni, lasciando la possibilità all’identità stessa di evolvere nel tempo esaltando anziché compromettendo la riconoscibilità – come nel progetto di Eatock per Big Brother – oppure permettendole di adattarsi elasticamente ai vari contesti visivi con cui è chiamata ad agire. Inoltre sempre più spesso la variabilità e la multi-sfaccettatura del sisteGoogle, versione base, redesign del 2010. Google - Happy New Year, 2011. Google - Happy New Year, 2010. Google - World Water Day, 2005. Google - St. Patrick’s Day, 2000.

Dynamic identities

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ma visivo divengono i concetti fondamentali, costruttivi e identificativi dell’identità stessa – esemplificativi sono i progetti per Saks Fifth Avenue o per la 53° Biennale di Venezia – fino a giungere, come nell’identità del Marres, alla totale assenza di un marchio univoco.


1

G. Anceschi, Monogrammi e Figure, La casa Usher, Firenze, 1988, p. 195

2

C. Chiappini, S. Sfligiotti, Multiverso, in “Multiverso Programme”, Aiap, 2008, p. 54

3

G. Anceschi, Hard, soft e smart: gli stili registici dell’identity design, in “Progetto Grafico”,

n. 9 dicembre 2006, p. 106 4

ibidem

5

ibidem

6

V. Pasca, D. Russo, Corporate Image, Lupetti, Milano 2005, p. 53

7

A. Colonetti, La Grafica Diffusa, in “Linea Grafica”, novembre 1987, p. 14

8

ibidem

9

V. Bucchetti, Come cambia l’immagine coordinata, in “Linea Grafica”, marzo 1993, p. 40

10

ivi, pp. 42-44

11

S. Caprioli, P. Corraini, Manuale di Immagine non coordinata, Corraini, Mantova 2008

identità variabili

49


Dynamic identities

50


Daniel Eatock

Big Brother 2-10

Big Brother è una trasmissione televisiva ispirata al romanzo di George Orwell 1984, che descriveva una società totalitaria nella quale ogni singolo individuo è costantemente tenuto sotto video-sorveglianza dalle autorità. Come nel romanzo, i partecipanti della trasmissione televisiva sono osservati e spiati 24 ore su 24 da telecamere e costantemente informati che “Big Brother is watching you”. Chiamato a disegnare la nuova identità della edizione britannica della trasmissione, l’obiettivo perseguito dal designer londinese Daniel Eatock è stato quello di creare un logo “animato” che potesse essere usato per le sequenze televisive, sullo schermo di un cellulare come su un cappello, senza però ricorrere all’animazione. La soluzione di Eatock è stata ricorrere all’effetto moiré: un sfarfallio ottico che si crea sugli schermi televisivi in presenza di particolari pattern, e che nel mondo televisivo solitamente si cerca di evitare (per esempio istruendo le persone riprese a non indossare capi a righe). Inizialmente Eatock suggerì di usare per l’identità della trasmissione solamente un pattern a righe, da trasmettere per qualche secondo prima dell’inizio del programma: «l’effetto sarebbe stato altrettanto efficace di un logo»1, ma su suggerimento della direzione fu aggiunta la figura dell’occhio. Il risultato è stato un logo drammaticamente e concettualmente connesso

Big Borther 3 e 4, logo su sfondo, 2002/03 Pagina a fianco, dall’alto in senso orario. Primo logo per Big Brother 2, 2001.

all’idea Orwelliana di Big Brother.

Versioni del logo Big Brother 3-10, 2001-09.

Continuando a curare l’identità del Big Brother, a partire

Celebrity Big Brother 6, 2007.

dalla seconda edizione fino alla decima, Daniel Eatock ha potuto così ridisegnare ogni anno il pattern caratterizzante

E4 Big Brother, logo commissionato da Channel Four Television, 2007.

identità variabili

51


La campagna per Big Brother 4 del 2003 per rimarcare l’idea “Big Brother è ovunque” ha agito in maniera talmente invasiva nel territorio brittanico al punto che il magazine Guardian la definita un atto di “brandalismo”. A fianco. Big Brother 4 , cartellone, 2003. In basso. Big Brother 4. Chalk Drawing, Crop Circle e Sand Drawing, 2003.

l’occhio del Big Brother, mantenendone costante solo la siluette. In questo modo il logo originale si è evoluto e modificato muovendosi sempre più lontano dal suo originale. L’identità del Big Brother diviene quindi interessante in pirmis per la sua capacità di interagire con il media per la quale è stata pensata – lo schermo televisivo, ottenendo l’effetto moiré – e poi per la capacità di Eatock di far evolvere nel tempo l’identità stessa. L’identità rimane infatti flessibile alle sue stesse metamorfosi; la flessibilità è garantita dall’interazione fra elementi costanti ed elementi variabili: l’occhio diviene il primo e costante elemento identificativo, mentre la texture, il pattern di volta in volta usato (che a sua volta è il tema centrale dell’identità) diviene la variabile fondamentale, mutabile pressoché all’infinito. Sebbene come lo stesso Eatock sostiene «il logo Big Brother rompa molte regole del logo design tradizionale – per esempio è difficile da vedere in più d’una situazione»2, la capacità dell’identità di rigenerarsi nel tempo ha costituito la forza dell’identità della trasmissione televisiva. Gran Bretagna - 2001/09 http://www.eatock.com/

1

D.Eatock, cit. in Reality TV Show Big Brother 2-10, “Graphic”,

n° 13 spring 2010, p. 133 2

Dynamic identities

52

ibidem


Celebrity Big Brother, 2002. Big Brother 6, 2005. Il logo è stato realizzato utilizzando 1200 blocchi, 600 dei quali contenenti televisori e successivamente i fan della trasmissione sono stati invitati a portarsi via i blocchi.

identitĂ variabili

53


experimental jetset

104 Le cent quatre

Le Cent Quatre è un’istituto culturale francese che si

materiale con cui schizzare. Poi fortunatamente, quando

occupa di arte contemporanea. Sviluppato in una grande

anche i curatori lo videro piacque immediatamente e il

e complessa organizzazione, più gruppi di designer col-

marchio diventò parte importante dell’identità»1.

laborano a diversi elementi dell’identità visiva. I designer olandesi Experimental Jetset sono stati chiamati a svilup-

Fondamentale nel progetto è stata il concetto di “work in

pare un sistema visivo che potesse essere utilizzato

progress” – uno dei temi principali affrontati dalle inizia-

e interpretato al meglio da altri progettisti, ma l’identità

tive del Le Cent Quatre – che ha portato a scegliere come

e l’annesso manuale non dovevano essere un set di leggi

riferimento visivo la “impalcatura”. Il logo è costituito da

basato su regole ferree, ma un linguaggio visivo con una

un set di tre simboli che richiamano sia l’età industriale sia

sua struttura e grammatica.

le stesse forme delle impalcature; esso è stato sviluppato in differenti versioni, ognuna delle quali presenta quattro

«Inizialmente i curatori non volevano un logo» affermano

variazioni: Light, Medium, Bold e Extrabold.

gli stessi Experimental Jetset «Loro provenivano dalla scuola di pensiero postmodernista, e pensavano che un

L’altro elemento fondamentale dell’identità è il carattere

logo sarebbe stato troppo fisso, statico. Così inizialmente

tipografico, costruito modificando il Futura di Paul Renner:

disegnammo il logo solo per noi stessi, per avere qualche

“Il Futura è stato scelto per diverse ragioni: in primo è un carattere geometrico che si adattava molto bene con il logo, e secondo perchè è un tipico carattere industriale”2 affermano gli Experimental Jetset. Nel manuale gli Experimental Jetset affermano: «Tutte le quattro versioni del logo possono essere usate. L’idea che sta dietro è che il logo non deve mai essere fisso; il lettore deve sempre confrontarsi con una diversa versione del logo. […] Questa instabilità serve a sottolineare l’idea del “work in progress”, lasciando libero il logo di viaggiare dal light al bold e viceversa»3. Olanda / Francia - 2008 http://www.experimentaljetset.nl/

Struttura segnaletica in uno spazio espositivo. Fondamentale nel progetto per 104 è stata l’idea di “word in progress” rappresentato con un sistema segnaletico modulare basato su impalcature.

Dynamic identities

54

1

http://www.experimentaljetset.nl/archive/104-2007.html

2

ibidem

3

Experimental Jetset, The 104 Manual, p. 5


Manifesti per Le Cent Quatre. Carattere tipografico realizzato partendo dal Futura di Paul Renner, modificato nella lettera A e nei numeri 0 e 4. In alto. Logo 104, versioni dal “light” al “bold”. A destra. Sistema modulare basato su “impalcature”.

identità variabili

55


Pentagram, michael bierut

Saks fifth avenue

Nel 2005 la celebre catena di grandi magazzini di lusso Saks Fifth Avenue ha ingaggiato Pentagram e Michael Bierut per sviluppare un nuovo progetto di identità visiva per i propri negozi, comprendente segnaletica, pubblicità, sito web e, soprattutto packaging. La volontà dei dirigenti Saks era quella di creare un marchio onnipresente e immediatamente identificabile, una nuova icona della moda, cosa che la precedente identità visiva non era riuscita a fare. «La nuova strategia di branding non consiste in un semplice redesign, ma nello sviluppo di un nuovo linguaggio visivo. L’obiettivo è far diventare Saks un’icona come l’LV di Luis Vitton»1 affermano i dirigenti Saks. Il progetto di Pentagram si è sviluppato innanzitutto partendo dalla tradizione di Saks: nel passato dalla sua fondazione l’azienda aveva già usato diverse versioni di loghi, e molti di questi erano variazioni sul tema della scrittura corsiva. La nuova identità progettata da Pentagram integra così il logo disegnato nel ’73 da Tom Carnace e usato anche dal sistema visivo progettato per Saks da Vignelli nel ’80, da cui Pentagram riprende il tema delle geometrie quadrate che sono rimaste centrali nell’identità di Saks anche nei redesign successivi, caratterizzando tanto i

Logo Saks, griglia base. Composizione a mosaico. Caselle singole.

cataloghi quanto le targhette identificative dei commessi.

Pagina a fianco. Vetrina e particolare del negozio.

Pentagram ha così inserito il vecchio logo in un quadrato

Shopping bag e packaging.

uguali: ogni casella può essere spostata e ruotata per

nero e questo è stato a sua volta suddiviso in 64 parti creare una composizione, simile ad un mosaico, per un numero pressoché illimitato di volte. Il marchio può così

Dynamic identities

56


essere utilizzato per creare texture applicabili a qualsiasi oggetto e superficie. Inoltre le singole caselle possono essere utilizzate singolarmente, diventando a loro volta uno zoom sui dettagli del logo e rilevando forme astratte che sembrano tratte dalla pittura espressionista. Il marchio ricompare così sempre riassemblato in maniera casuale; gli stessi packaging, dalla shopping bag alla scatola per gioielli, possono continuamente essere diverse fra loro. La variazione, insieme all’uso delle geometrie astratte e al costante uso del bianco e nero, diviene quindi elemento centrale della nuova identità di Saks, con la quale Pentagram è riuscita, come afferma lo stesso Bierut, a «creare un cambiamento continuo, che è l’essenza stessa della moda»2. Stati Uniti - 2005 http://www.pentagram.com/

1

S. Sadove, cit. in J. Shi, A new logo for Saks,

http://www.dailyfrontrow.com 2

M. Bierut, cit. in D. van Dik, Saks’ Fifth Avenue new logo,

http://www.time.com

identità variabili

57


Manifesto e pieghevoli. In quest’ultimo sono visibili i simboli ricavati decostruendo le bandiere delle nazioni partecipanti alla 53° Biennale. Manifesti applicati in varie aree della cittĂ di Venezia.

Dynamic identities

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stockholm design lab

fare mondi / making worlds La 53° Biennale di Venezia, intitolata “Fare Mondi/Making Worlds” ha riunito più di 90 artisti e collettivi da tutto il mondo, presentando opere di tutti i linguaggi, dalle installazioni ai video, dai giochi di luce alla pittura. Responsabili dell’identità sono stati chiamati i designer svedesi dello studio Stockholm Design Lab: l’obiettivo assegnato loro era creare una nuova identità che comunicasse il tema “fare mondi” e riflettesse l’atmosfera della mostra d’arte, adattabile a un gran numero di applicazioni e formati – pubblicità, poster, segnaletica, catalogo, etc. – e che fosse un’identità visivamente forte senza però competere con le stesse esposizioni della Biennale. SDL ha così sintetizzato il concetto di “Fare Mondi” in un linguaggio grafico che parte dalle singole bandiere delle nazioni partecipanti – elementi universalmente riconoscibili – e le decostruisce in elementi e forme geometriche elementari per poi ricombinarle assieme; «I mondi vengono ricostruiti in forme astratte»1 dichiarano SDL. Si tratta di un processo che, ricordando la grafica del costruttivismo russo, riesce a far emergere un linguaggio visivo semplice ma d’impatto che esalta la ripetizione e la differenziazione.

Catalogo, agenda e design book. Alcuni esempi delle 20 copertine realizzate per il catalogo.

L’idea di “Fare Mondi” trova poi la sua realizzazione finale nel catalogo, stampato in 20 diverse versioni di copertina. Stoccolma / Venezia - 2009 http://www.stockholmdesignlab.se/

1

http://www.stockholmdesignlab.se/

identità variabili

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M

Sound of Music

Sound of Music

MARRES

Sound of Music

Sound of Music

Sound of Music

Sound of Music Sound of Music

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PRESS RELEASE

Sound of Music

Sound of Music

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Sound of Music Sound of Music

Sound of Music

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20.01.2008 tot 30.03.2008

Sound of Music

Sound of Music

in samenwerking met: FRAC Nord-Pas de Calais (Duinkerken, Frankrijk).

Sound of Music

Marres wordt financieel ondersteund door: de Mondriaan Stichting en de Gemeente Maastricht. FRAC Nord-Pas de Calais wordt financieel ondersteund door: Ministère de la Culture (Drac), Conseil Régional Nord-Pas de Calais, Dunkerque Grand Littoral/Communauté urbaine, Ville de Dunkerque, Conseils Généraux Nord en Pas-de-Calais en Rectorat de l’Académie de Lille.

MARRES Capucijnenstraat 98 6211 RT Maastricht The Netherlands T +31.(0)43.3270207 F +31.(0)43.3270208 info @ marres.org www.marres.org

EXHIBITION 24.10.2010 – 30.01.2011

HYGIENE, THE STORY OF A MUSEUM

Dynamic identities

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dEPRESSiON

CENTRE FOR CONTEMPORARY CULTURE

CENTRE FOR CONTEMPORARY CULTURE

MARRES

RESEARCH & PRODUCTION TEAM: CLAUDIA BANZ, GUUS BEUMER, EVENTARCHITECTUUR, MAUREEN MOOREN AND FLOOR KROOI

ExhibiTiON 19.9.2009 — 29.11.2009

Capucijnenstraat 98 6211 RT Maastricht The Netherlands T +31.(0)43.3270207 F +31.(0)43.3270208 info @ marres.org www.marres.org

Stephan Dillemuth Failure to control the animal spirits, 2009

MARRES

OPENING: OCTOBER 23TH AT 17:00 PM


maureen mooren

marres

Il Marres è un “Centro per la Cultura Contemporanea” fondato a Mastricht, Olanda, nel ‘98. Le attività dell’istituto cercano di coprire un’ampia prospettiva culturale e consistono in mostre, conferenze, ricerche e pubblicazioni che esplorano la cultura contemporanea e le connessioni con i campi dell’arte e del design. La designer Maureen Mooren collabora con il Marres fin dalla sua apertura e nel 2006 le è stato chiesto di svilupparne la nuova immagine coordinata; l’obbiettivo dei dirigenti dell’istituto era quello di creare un’identità visiva lontana dalla rigidità e autorialità tipiche degli approcci “Hard”, ma che fosse graficamente e sperimentalmente aperta come la struttura curatoriale dell’istituto. «L’idea principale è stata di non creare un singolo logo, ma multipli loghi, uno per ogni materiale stampato dell’istituzione, utilizzando il nome Marres o anche solo l’iniziale M»1 afferma la stessa Mooren. In questo modo la designer continua a creare un diverso logo ogni volta che il Marres produce un nuovo materiale visivo, in un processo teoricaIn alto. Carta da lettere.

mente senza termine, che determina un continuo effetto di

Sopra. Intestazione per Marresbook.

novità e sorpresa attorno all’identità dell’istituto. Il numero

Pagina a fianco. Manifesto della mostra Hygiene, the story of a museum, 2011.

delle forme visive che Mooren potrebbe creare è pressoché infinito, e come la stessa designer evidenza «il più delle volte il logo è disegnato, evolvendosi sempre più come un

Manifesto della mostra Depression, 2009 .

simbolo astratto anziche una parola»2.

Manifesto della mostra De flâneur Curtan Raiser, 2008.

L’identità si costruisce così attorno alla ridondanza del

In alto. Loghi Marres.

fisso, e intorno ad alcuni elementi costanti come la tipo-

nome, o dell’iniziale dell’istituto, alla mancanza di un logo

identità variabili

61


grafia, l’uso costante del bianco e nero e l’intestazione con i dati del Marres. Lo stesso spirito sperimentale e l’idea di creare percorsi casuali è stata sviluppata anche nel sito web di Marres, che costituisce un altro elemento fondamentale dell’identità dell’istituto: affianco ai tradizionali menù e programma degli eventi disposti in ordine cronologico, il sito è costellato di immagini – spesso tratte dei materiali visivi dei singoli eventi come i manifesti – o parole disposte casualmente. Mooren descrive così la loro funzione: «le immagini sono molto piccole e solo cliccandoci si ingrandiscono permettendo di coglierne il contenuto e con un secondo click vieni portato alle informazioni relative»3; quando si usa questo livello di navigazione l’utente non può avere idea di dove andrà esattamente a finire, in un processo simile a quello che impedisce di conoscere la prossima variante del logo Marres. Olanda - 2006/10

1

M. Moreem, cit. in Marres, Centre for Contemporary Culture, in “Gra-

phic”, n° 13 spring 2010, p. 6 2

ibidem

3

ibidem

Dynamic identities

62


Invito A4 per la mostra Depression, 2009. Invito A4 per la mostra The Collector, 2010. Manifesto per la mostra This is not a Damien Hirst, 2008. Pagina a fianco. Sito web http://www.marres.org/

identitĂ variabili

63


Costanza e variabilità

Perché un’identità può essere definita variabile? In base a cosa o a quali considerazioni? Ciò che caratterizza i progetti appena visti è il tentativo di sviluppare una tensione dinamica nell’identità visiva attraverso la differenziazione, la quale vuole divenire il valore aggiunto del progetto. Non si tratta solo di giocare con la forma e di creare più varianti della stessa, ma di instaurare un equilibrio dinamico tra degli elementi costanti e altri variabili, i quali caratterizzano la struttura dell’identità visiva. La dinamicità diviene il risultato dell’interazione fra queste due tipologie di elementi (costanti e variabili) i quali, combinati assieme, generano un nuovo segno o una famiglia di segni. Costanza e variabilità: è l’interferenza fra questi due elementi opposti a creare le basi della flessibilità; insieme, sono quindi i fattori costitutivi delle identità dinamiche. La costanza rimane fondamentale per l’identificazione, e fonda anche il punto di partenza che offre l’opportunità per confrontare le stesse variazioni. Sono quest’ultime, siano esse simultanee o anche semplicemente cronologiche come nel progetto per Big Brother, che generano l’imput che caratterizza l’identità visiva. Tutti i progetti fin qui visti si caratterizzano per questa bipolarità: nel progetto di Eatock per Big Brother, insieme alla tematica dei pattern, viene usato come elemento visivo fisso la forma dell’occhio, il quale funge da maschera; in Saks lo stesso ruolo è svolto dalla griglia e dell’uso del bianco e nero; in Marres e in Le Cent Quatre sono le parole o lettere a rimanere costanti e, infine, in “Fare Mondi / Making Worlds” è l’uso del riferimento alle bandiere. Come si vede la costanza non è ottenuta solo attraverso forme visive, ma anche attraverso strutture o temi fondamentali. Dall’altra parte, solo cogliendo gli elementi variabili di ogni progetto ne è possibile apprezzare la flessibilità e l’adattabilità; per esempio il progetto di Eatock per Big Brother verrebbe molto ridimensionato se non osservato nel suo complesso ed evoluzione: se presi singolarmente i diversi loghi del Big Brother presentano solo la particolarità di interagire attraverso l’effetto moiré con gli schermi televisivi, ma per il resto funzionerebbero come un logo tradizionale. Allo stesso modo Maureen Mooren ha sviluppato per Marres l’identità grafica attraverso elementi classici – la tipografia, i colo-

Dynamic identities

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ri, le intestazioni – ma gli ha posti in secondo piano rispetto all’elemento variabile, che, disegnato sempre diversamente, caratterizza il materiale visivo dell’istituto. Le identità dinamiche viste in questo capitolo non si pongono completamente in opposizione al modernismo e ai tradizionali metodi di progettazione dell’identità visiva, ma in continuità con esso, cercando di aggiungere alle sue regole e alle sue strutture consolidate, elementi liberi di muoversi, mutare ed essere reinterpretati all’interno della struttura stessa. Quello che differenzia questi metodi progettuali da quelli tradizionali è l’uso che viene fatto dei diversi elementi visivi, la loro interpretazione e la conseguente creazione di una struttura variabile. L’obiettivo è raggiungere l’effetto di una Gestalt: per esempio nel progetto dei Stockholm Design Lab, anche se le forme delle bandiere nazionali sono completamente destrutturate e sconvolte, la struttura e la grammatica visiva alla base del progetto, rimangono sempre perfettamente riconoscibili. Lo stesso accade con il progetto di Pentagram per Saks: il logo base è stravolto e decostruito continuamente, ma attraverso elementi che collaborano fra loro – la griglia, il bianco e nero, l’astrattezza delle forme risultanti – rimane sempre riconoscibile. Anche nel progetto per il Marres, sebbene le diverse variazioni sul tema siano graficamente etereogene, sono la struttura e la grammatica di fondo a tenere insieme tutti gli elementi visivi che costituiscono l’identità. È quindi la creazione di una Gestalt che permette il funzionamento dei progetti qui visti; la definizione di un linguaggio e di una grammatica visiva con un proprio vocabolario permettono alle identità variabili di rimanere leggibili e riconoscibili al mutare delle forme.

identità variabili

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Dynamic identities

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5.

identità generative «Introdurre la dimensione temporale nella progettazione grafica significa attribuire al marchio una vera e propria essenza vitale» Stefano Caprioli e Pietro Corraini

identità generative

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«un logotipo dinamico è fondamentale per distinguersi nella massa di identità visive che circondano l’uomo contemporaneo»1

L’immagine visiva del Netherlands Architecture Institute di Rotterdam, progettata nel 1993 dal designer candadese Bruce Mau è tuttora considerabile come un punto di svolta fondamentale per l’approccio progettuale alle identità dinamiche. L’obbiettivo perseguito da Mau era riassumere l’eterogeneità delle attività dell’istituto in un’identità altrettanto variata e sfaccettata, ma il designer non si limitò – come negli approcci progettuali visti nel capitolo precedente – nel disegnare più varianti dello stesso logo. Esso si pose il problema di come ottenere tale varietà e con quali metodologie fosse possibile variare uno stesso segno mantenendo la sua riconoscibilità. Mau tralasciò quindi la forma finale del marchio, e si concentro invece sul processo di creazione dello stesso. La soluzione di Mau fu adottare un processo additivo: l’acronimo NAi, composto in carattere bastone, venne proiettato su una superficie, fotografato e colorato digitalmente. Sommando acronimo, superficie, angolo di ripresa e colore la forma finale risulta come conseguenza dei vari passaggi. In questo modo Mau ha avuto la possibilità di creare più varianti del marchio ripetendo il processo più e più volte, mantenendo costante solo la scritta di partenza e modificando leggermente tutte le altre variabili. Con questo progetto – che prende il nome di “100 loghi, 1000 colori” derivato dal numero di loghi creati e di colori utilizzati, tratti a loro volta dal quadro di Gerhard Richter “1024 Color” del 1973 – la diversità è diventata l’elemento distintivo dell’identità dell’Istituto. «Il risultato è un programma di identità completamente cinetico che riflette appieno la complessità del programma del NAi»2 afferma lo stesso Mau. La differenza con i progetti visti nel capitolo precedente è molto sottile: non definizione di una forma e creazione di varianti sul tema, ma definizione del processo di creazione della forma stessa. Nei progetti del precedente capitolo il designer mantiene sempre il controllo sulla forma finale e questa è in tutte le varianti una sua creazione diretta; i diversi risultati sono tutte generati dalla sua mano. Anche nei progetti per il Big Brother o per il Marres, i quali si evolvono nel tempo senza poter sapere quale

Dynamic identities

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sarà il prossimo aspetto dell’identità, quest’ultima è comunque definita dal designer. Quello che differenzia il progetto del NAi da quelli visti nel capitolo precedente è che Mau ha abbracciato l’incertezza del risultato; su quest’ultimo il designer non ha più il controllo totale: una volta definitivo il processo può solo permettersi di scartare i risultati meno efficaci e meno riusciti. Abbandonando il controllo totale sui risultati del progetto, Mau segna un distacco netto con le metodologie progettuali di stampo modernista basate su una forte componente di controllo autoritario del designer su tutti gli aspetti dell’identità. Un ulteriore presa di distanza dalle classiche metodologie dell’immagine coordinata è che “100 loghi, 1000 colori” ignora anche l’aspetto estetico: l’unico requisito che ogni variante doveva rispettare era che fosse riconoscibile l’acronimo NAi; il risultato estetico passava totalmente in secondo piano. Tralasciando la bellezza formale e abbracciando il caos, il metodo adottato da Mau ha infranto tutte le regole tradizionale della buona progettazione dell’identità visiva e ha tracciato nuove strade progettuali. Infrangere le regole, superare i dogmi tradizionali, dopo il postmodernismo sono infatti diventati temi fondamentali per le nuove generazioni di designer. «Osare il vietato» – afferma Beppe Finessi, ricordando il maestro Munari – «regola e caso insieme; trasgredire per cambiare e migliorare, arrivando a nuovi record. Tutto può cambiare, allora; tutto deve cambiare, quindi; ogni cosa dovrebbe avere una sana capacità di adeguarsi all’oggi. Mostrandosi cangiante, assecondando le necessità mutevoli di un tempo dalle temperature molto variabili: il nostro»3.

Bruce Mau, invito e manifesto per NAi, 1993. In alto. Bruce Mau, NAi, logotipi, 1993.

Bisogna anche notare che molte delle principali e più riuscite sperimentazioni d’avanguardia nel campo del design dell’identità riguardano istituzioni pubbliche, culturali e musei. Oltre al NAi, anche il già visto Walker Art Center, la TATE Gallery e il Brooklin Museum hanno ricevuto molta

identità generative

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notorietà proprio per le loro identità visive variabili. Non solo: la rivista coreana “Graphic” ha recentemente dedicato un numero monografico alle dynamic identities di musei, istituzioni e centri culturali e sempre nel 2010 è stato pubblicato uno dei primi libri che si occupa interamente delle identità dinamiche intitolato “Dinamic Identities in Cultural and Public Contest”. Anche nel nostro caso fra sedici progetti analizzati solo quattro hanno come oggetto realtà private e commerciali. Salvo rari casi, sembra che le identità dei musei e delle istituzioni siano più facilmente soggette a progetti di identità dinamiche molto più articolate, approfondite e sperimentali, rispetto a quelli commissionati da aziende. Musei e istituzioni sono entità diverse dalle aziende: non devono coinvolgere solo i clienti come consumatori, ma sono un punto di incontro sociale con dei partecipanti e nel loro contesto si svolge uno scambio continuo, il quale presuppone un cambiamento continuo. I programmi di identità monoma2x4, Brooklin Museum Identity, processo di creazione del logo e varianti, 2004. In alto. Wolff Olins, Tate Modern Gallery, logotipi per le diverse sedi, 2000.

niacali, rigidi e trionfali non sono quindi adatti a rispondere e a mostrare quanto sofisticate e mutabili possono essere tali realtà. Istituzioni culturali, pubbliche e musei sono a loro volta delle realtà profondamente cambiate negli ultimi decenni: il museo contemporaneo non è più legato alle sole collezioni, ma vi si moltiplicano sempre più le manifestazioni e gli eventi. Gli artisti, gli stessi designer ad esso legati, insieme anche al pubblico, sono considerati sempre più come parti fondamentali del museo stesso, il quale diviene contenitore di un flusso dinamico in costante mutamento. Il museo e l’istituzione si trovano quindi ad interagire con il loro contesto e con il territorio, e tutto questo vuole essere rispecchiato nell’identità. Inoltre il Graphic Design ha sempre accolto l’influenza delle pratiche dell’arte contemporanea, e i musei possono quindi fungere da luogo di incontro e di scambio teorico per entrambe le discipline. I temi che caratterizzano le identità dinamiche – variazione, casualità e attenzione al processo generativo della forma – si ritrovano infatti teorizzate nel mondo dell’arte già negli anni cinquanta dal movimento Arte Cinetica e negli anni sessanta dal movimento Arte Programmata.

Dynamic identities

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Le opere nate nell’ambito dell’arte cinetica si caratterizzavano per il tentativo di superare la staticità della pittura attraverso oggetti tridimensionali mobili; quello che maggiormente ricercarono i promotori del cinetismo fu “la possibilità di fare arte senza cedere alla retorica di una forma stabile”4. L’arte cinetica era rivolta ad inserire nelle opere il movimento “in quanto apportatore di movimenti casuali della forma”5. La successiva Arte Programmata – che proprio in Italia ebbe molti artisti di rilievo – pose ancor più l’attenzione sul momento di creazione dell’opera. Il movimento veniva inteso come “sviluppo che tende ad organizzare una nuova situazione visiva”6. Inserendo nell’opera la possibilità del cambiamento, gli artisti cinetici e programmatici accettavano e ricercavano l’indeterminazione della forma finale. Variazione, processo generativo e, infine, casualità; questi elementi, teorizzati nei movimenti appena visti, sono diventi temi diffusi nelle pratiche dell’arte contemporanea, sempre più indagati da artisti appartenenti a correnti anche molto diverse fra loro. In queste pratiche la forma finale dell’opera perde quindi importanza e gli artisti concentrano la loro attenzione al processo di generazione. Come osserva il teorico dell’arte Nicolas Bourriaud «il mondo è costituito da incontri materiali e casuali. Anche l’Arte è fatta di unioni casuali e caotiche di segni e di forme. L’arte attuale non presenta il risultato di un lavoro: è il lavoro stesso, o il lavoro a venire»7. Queste filosofie di pensiero e progettazione sono state naturalmente profondamente influenzate dalla rivoluzione digitale e nel mondo dell’arte – quanto nel Graphic Design – si è presto arrivati a produrre opere che grazie alla computer grafica e a software sono frutto del calcolo e non di un gesto. Sfruttando le tecnologie digitali, il processo generativo può quindi divenire totalmente automatizzato e il ruolo dell’artista rimane quello di determinare i rapporti che interagiscono all’interno del processo stesso, i gradi di libertà e i limiti. La definizione delle forme finali può essere totalmente

identità generative

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demandata ad un software, e l’artista si allontana sempre più dalla figura di pittore per avvicinarsi a quella di programmatore. L’arte contemporanea «si caratterizza per il suo potere generatore; non v’è più traccia (retroattiva) ma programa (attivo)»8 afferma ancora Bourrieaud. L’influenza dell’arte contemporanea sul Graphic Design è evidente – lo stesso Gerstner, autore di due marchi variabili già a fine anni Cinquanta apparteneva al movimento Arte Cinetica – e sfruttare le possibilità offerte dalla programmazione digitale è una possibilità reale anche per i designer per poter creare delle identità visive dinamiche-cinetiche, le quali, nell’epoca attuale dei continui e rapidi cambiamenti, appaiono sempre più la strada migliore per un progetto di immagine coordinata. L’uso di programmi di calcolo per creare forme generative è stato indagato da molti designer negli ultimi anni: gli svizzeri Norm hanno creato Sign Generator: un software per la generazione automatica di combinazioni di linee partendo da una griglia di nove punti. Nel campo della tipografia già nel 1990 Erik van Blockland aveva sviluppato il font Beowolf, che sfruttava le possibilità dei software per inserire imperfezioni casuali nel disegno delle lettere. Sfruttando un principio simile nel 2008 Peter Bilak ha disegnato History, un font che ricombina elementi eterogenei per creare le singole lettere. Simile sono anche i risultati ottenuti dall gruppo FF3300, che con il progetto “Index Urbis” ha realizzato un concept di identità dinamica che pone in evidenzia l’utilizzo di un software per ottenere risultati casuali nella generazione della forma del marchio. Si tratta di esempi di Computational Design: «una pratica artistica System oriented, in cui il fa da fil di rouge l’uso di software come metodo produttivo. […] si stabilisce tra progettista e sistema una forma d’interazione basata su un’organizzazzione preliminare, dopo di che il il sistema così impostato lavora con una propria autonomia di risposta»9. Tra i casi studio il gruppo olandese Lust ha sviluppato un programma che modifica autonomamente le forme finali dell’identità in base a dati raccolti in tempo reale. Un altro utilizzo delle tecnologie informatiche è quello eseguito dal gruppo olandese Cobbenhagen Hendriksen che invece di software creati ad hoc sfrutta i nuovi media per sviluppare l’identità visiva

Dynamic identities

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del Nederland Institute for Mediakunst attraverso l’utilizzo delle funzioni di ricerca immagini di Google; l’identità cambia in funzione di agenti totalmente esterni e le fonti dell’immagine dell’istituto divengono globali. Che si tratti di “metodologie di progettazione a matrice – come nel progetto per il NAi – o direttamente sull’uso di software”10 il processo generativo di forme sta diventando una soluzione sempre più esplorate anche fra i designer che si occupano di visual identity.

1

S. Heller, “Bruce Mau”, in Eye magazine, n° 38 winter 2000, p. 12

2

http://www.brucemaudesign.com/#133086/NAi

3

B. Finesi, cit. in S. Caprioli, P. Corraini, Manuale di Immagine non coordinata, Corraini,

Mantova 2008 4

A. Vettese, Capire l’arte contemporanea, Umberto Allemandi & C., Torino 2006, p. 92

5

ibidem

6

ivi, p. 95

7

N. Bourriaud, Estetica Relazionale, Postmedia Books, Milano 2010, p. 104

8

ivi, p. 69

9

E. Bonini Lessing, La corporate spezzata. Per una critica dei sistemi informativi e identitari

nella metropoli, Dottorato di ricerca in Scienze del Design, Università Iuav di Venezia, 2008, p. 103 10

ibidem

identità generative

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Dynamic identities

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STEFAN SAGMEISTER

CASA DA MúSICA

Costruita nel 2005 dall’Oma (Office for Metropolitan Archi-

Il cuore del progetto è il “Logo Generator”, un software

tecture) di Rem Koolhass per onorare la nomina di Porto

creato appositamente che permette di ricavare da qual-

quale “Capitale Europea della Cultura 2001”, Casa da

siasi immagine una palette di 17 colori da applicare ad

Música è la principale concert hall del Portogallo.

ogni diversa facca delle proiezioni che formano i sei loghi. Oltre a permettere combinazioni cromatiche quasi illimi-

Invitato a creare l’identità visiva della nuova istituzione,

tate, il software riesce così a ottenere, in maniera semi

il designer newyorkese Stefan Sagmeister ha usato la

automatica, una perfetta armonia cromatica fra il logo e le

forma dell’edificio come principale risorsa visiva; questa

immagini con cui esso interagisce. «Abbiamo trasformato

infatti spicca per la sua presenza scultorea, enfatizzata da-

il modello 3D dell’edificio in un sistema dove la sua forma

gli angoli e dalla multifaccettatura della superficie esterna,

riconoscibile, unica e moderna trasforma se stessa come

e per Sagmeister è stato impossibile pensare ad un altro

un camaleonte, da applicazione a applicazione, da media

simbolo altrettanto identificativo dell’istituzione.

a media»2 dichiara il designer newyorkese.

Secondo Sagmeister il problema principale è stato capire

Stati Uniti / Portogallo - 2007

come maneggiare l’identità quando l’edificio in se era già

http://www.sagmeister.com

un simbolo e un marchio: «Inizialmente abbiamo tentato di usare la forma dell’edificio nel metodo tradizionale, ma

1

S. Sagmeister, cit. in Casa da Musica. Cultural Design by Stafan Sag-

con risultati poco convincenti […] così abbiamo optato

meister, http://www.an-architecture.com

per un approccio diverso» . Sono stati quindi disegnati

2

1

http://www.sagmeister.com/work/featured#/node/192

sei diversi loghi corrispondenti alle sei diverse proiezioni dell’edificio – Nord, Sud, Est, Ovest, Sopra e sotto.

Pagina a fianco. Confronto fra il logo e l’edificio di Casa da Música. Logo Casa da Música e varianti corrispondenti alle proiezioni ortogonali dell’edificio.

identità generative

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Logo Generator. Il software permette di ottenere combinazioni cromatiche differenti a seconda dell’immagine di partenza.

Dynamic identities

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Pagina a fianco. Lo stesso logo è stato utilizzato per sviluppare le sottoidentità legate a Casa Da Música, dimostrando anche qui la versatilità e flessibilitià del progetto di Sagmeister.


Manifesti. Il richiamo costante all’architettura di Koolhass è l’elemento fondamentale di tutta l’identità, non solo nel logo: la forma scultorea dell’edificio viene anche continuamente e in piena libertà richiamata e reinterpretata in tutto il materiale visivo di Casa Da Música, usando il modello tridimensionale non solo nelle sei versioni del logo ma in tutte le varianti possibili. In alto. Biglietti da visita.

identità generative

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Dynamic identities

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Coöp

1:1 Architects

1:1 Architects è uno studio con sede a Melbourne che si pone come un laboratorio/workshop di architettura nel quale le idee possano liberamente circolare attraverso la collaborazione anche con gli stessi clienti, e in contrasto con i classici modelli dello studio gerarchico. L’obbiettivo di 1:1 è sviluppare un’architettura a scala d’uomo (1 a 1) perseguendo uno sviluppo sociale e ambientale. Molto spesso quando i designer affrontano un logo per un’architetto risulta molto forte la tentazione di disegnare un marchio “tridimensionale” che rimarchi l’aspetto scultureo dell’architettura. Lo studio australiano Coöp è invece riuscito a fare un’ulteriore passo oltre per 1:1, disegnando un logo che si inserisce proprio come una scultura nell’ambiente urbano. Il logo è progettato sui principi tridimensionali del “tesseract”, un ipercubo a quattro dimensioni, che a seconda degli imput e dell’angolo di visione, permette di ottenere forme tridimensionali e composizioni differenti. Ma il logo non consiste in una forma tridimensionale riportata sulla bidimensionalità della carta: Coöp ha costruito delle vere riproduzione del logo e le ha disposte in vari punti della città – quasi si trattasse di un’installazione artistica – per poi realizzare delle fotografie del marchio contestualizzato nella città, da usare per gli strumenti visivi dell’identità, dalla carta intestata al sito web. Pagina a fianco. Marchio 1:1. Varianti del marchio inserite in diversi contesti urbani.

identità generative

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Coöp ha così creato per 1:1 “un identità di spazi reali”1 all’interno dei quali il logo muta e si muove liberamente e l’identità visiva risulta così dalla relazione tra il “tesseract” e l’ambiente urbano, entrambi sempre diversi. Il logo e le relative fotografie però rappresentano solo il livello più alto dell’identità: sempre dal tesseract sono stati ricavati più pattern geometrici, che fungono da link con i vari elementi dell’identità nei quali non possono essere usate le fotografie, e l’identità è poi completata da un logotipo (composto nel carattere Akkurat) dalla tipografia istituzionale (composta con il carattere Mono) e dai colori istituzionali. L’impressione complessiva riflette il carattere innovativo dello studio 1:1, e “il suo approccio sperimentale ma sempre a misura d’uomo nell’integrarsi nell’ambiente circostante”2. Australia - 2008 http://www.co-oponline.net.au/

1

Coöp - 1:1 Architect, “Grafik”, n. 170, February 2009, February 2009,

p.26 2

ibidem

Dynamic identities

80

Cancelleria e pieghevole promozionale. Book di presentazione. Sito internet. In entrambi i casi sono usati i tre elementi costituenti l’dentità: marchio, contesto urbano e griglia.


identitĂ generative

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NewutPlain-Medium, carattere tipografico usato come base per lo sviluppo del CiteInter. Confronto fra lettere minuscole, maiuscoletto e lettere straniere. Insieme di tutti i segni alfabetici con le versioni “straniere”. Per le lettere C, D, H, L, Q e Z è stato possibile individuare dei corrispondenti non latini graficamente simili. Sotto. Applicazioni all’interno della Cité.

Dynamic identities

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Integral ruedi baur / andrè baldinger

Cité Internationale Universitaire de Paris

La Cité Internationale Universitaire de Paris è un quartiere

alla lettera di partenza, in modo che il nuovo alfabeto

a sud di Parigi esteso poco meno di mezzo chilometro

completo possa essere usato tranquillamente nelle lingue

quadrato che ospita, in circa 40 edifici, 5.500 studenti,

latine.

ricercatori e artisti, da oltre 120 nazioni. I nuovi segni sono inserite nei testi attraverso un software La città universitaria rappresenta quindi un punto di in-

appositamente creato dallo studio olandese LettError, che

contro e scambio fra culture provenienti da tutto il mondo,

permette di generare combinazioni casuali, controllandone

e vi si ritrovano a confronto decine di lingue diverse e

la densità. Le variazioni sono così integrate nell’alfabeto

sistemi di scrittura differenti come Latino, Cirillico, Greco,

latino e la loro presenza mentre caratterizza i testi, non

Arabo, Cinese, etc.

ne disturba la lettura. La miriade di segni rimando così continuamente a lingue e culture diverse e “la tipografia

Chiamati nel 2001 a progettare l’identità della Cité, lo

non è li solo per guidare e accompagnare, ma anche per

studio Integral Reudi Baur e il tipografo André Baldinger,

ricordare l’uomo dinamico, multiculturale e multilingue di

si sono posto lo scopo di integrare nell’identità i principi

questa città nella città”1.

di convivenza multiculturale, di uguaglianza e diversità che caratterizzano il CIUP.

Il progetto ha assegnato alla tipografia una voce estremamente forte, rafforzata ulteriormente dall’uso di colori vi-

Il risultato è un’identità il cui elemento principale è la

vaci e contrasti forti, che esalta la vivacità e la dinamicità

tipografia, caratterizzata dalla contemporanea presenza di

del CIUP. Applicata a quasi ogni superficie del quartiere,

segni alfabetici di origini diverse che sottolineano l’aspetto

la tipografia si espande così dall’interno all’esterno degli

multiculturale del quartiere.

edifici, ricoprendo l’intera Cité

Per ogni lettera dell’alfabeto latino sono state individuate e

Canada / Francia - 2001

disegnate fino a cinque varianti tipografiche tratte da altre

http://integral.ruedi-baur.eu/

culture, per un totale di 57 segni che ampliano il carattere tipografico di partenza, il Newut Plain. L’aspetto di ogni

1

segno è stato scelto per essere sufficientemente simile

citebabel.wordpress.com/2010/01/26/la-ciup-un-univers-un-alphabet/

D. Mesa, La CIUP: un univers, un alphabet, 26 Gennaio 2010, http://

identità generative

83


LAva

IDTV

Lava è un agenzia di comunicazione olandese specializzata nello sviluppo di dynamic identities. Secondo Lava oggi è fondamentale saper sviluppare identità dinamiche: “l’unica cosa su cui puoi contare è il cambiamento. Un’identità non è finita quando il manuale è consegnato e pronto per dettar legge; questo è solo l’inizio. Le organizzazioni sono dinamiche: esse sviluppano nuove strategie e servizi per rispondere ai propri clienti e al loro cambiamento”. Di conseguenza Lava si propone di sviluppare progette di identità che possano crescere con l’organizzazione stessa: flessibili, vivi e sempre rappresentanti le ambizioni correnti e future. Per la società di produzione televisiva Idtv (la seconda d’Olanda) Lava ha sviluppato una identità visiva creata partendo da un sistema modulare basato su 4 differenti “pixel”, ognuno simboleggiante i principali campi di attività di Idtv (film, tv, eventi e internet). I pixel, elementi base delle immagini televisive, costituiscono le fondamenta dell’identità e sono utilizzati come un Dna; essi vengono utilizzati per comporre il logo, un carattere tipografico ad hoc e textures. Inoltre combinando le quattro forme base in diverse scale e tonalità cromatiche, Lava può sviluppare più varianti di ogni elemento dell’identità, dal logo alle pareti della sede. Per il solo logo è stato calcolato che siano realizzabili più di quattromila possibili combinazioni, ma ognuna di esse è perfettamente riconoscibile e allo stesso tempo unica.

Dynamic identities

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Composizione realizzata con i pixel base sovrapposti. In alto. Pixel di partenza usati per la costruzione di tutti gli elementi dell’identità. Pagina a fianco. Varianti del logo


identitĂ generative

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Il tema della “unità nella diversità” viene così applicato a tutti i livelli, e l’identità di Idtv riesce a mantenere un forte equilibrio tra cambiamento e coesione, fra variabilità e riconoscibilità. Inoltre sul sito di Idtv è stato messo a punto un software che permette a qualsiasi utente di sviluppare la propria versione del logo combinando a piacere i pixel di base. Si tratta di un approccio al progetto open source, che permette alle persone di collaborare all’identità, sentendosi coinvolte e allo stesso tempo responsabili. Olanda - 2008 http://www.la

Biglietto da visita realizzato con stampa lenticolare che permette di visualizzare diverse combinazioni dei pixel a seconda dell’angolo di osservazione. In alto. Carta da lettere. Particolare dell’Annual Report.

Dynamic identities

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Ingresso della sede principale della televisione Idtv.

Applicazione del marchio su struttura portuale.

In alto. Hall di ingresso.

identitĂ generative

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Cobbenhagen Hendriksen

Nederland Institute for Mediakunst Il NIMk (Nederland Institute for Mediakunst) è un centro

ricerca specifica. L’identità del NIMk è così soggetta ad

con sede ad Amsterdam che si occupa della promozione

una continua evoluzione; essa si modifica e cresce in base

dello sviluppo, delle applicazioni e della riflessione sulle

sia alle attività dell’istituto (che determinano i termini delle

nuove tecnologie in rapporto alle arti visive. Il NIMk si oc-

ricerche visive) sia, soprattutto, dallo sviluppo delle stesse

cupa principalmente di mostre, ricerca e conservazione e

media-art (che determinano i risultati).

mira ad essere un punto di riferimento per gli stessi artisti e le altre istituzioni artistiche.

“Noi non sappiamo dove la ricerca visiva ci porterà, quando incomincerà ad essere ripetitiva o non più sufficiente”

Nel 2007 il NIMk ha contattato lo studio Cobbenhagen

–dichiarano gli stessi Cobbenhagen Hendriksen – “essa di-

Hendriksen per sviluppare la nuova identità visiva dell’isti-

pende dallo sviluppo e dalle possibilità delle stesse media-

tuto. I designer olandesi sono partiti dalla domanda “Cosa

art. Ma adesso siamo convinti che essa sia la componente

sono le media-art?” e hanno cercato di rispondere visiva-

più forte dell’identità: risponde alle sue origini e mostra le

mente collezionando immagini sull’argomento per creare

sue vulnerabilità”2.

un background di cliché, temi, forme ed elementi vari in relazione ai specifici settori di cui si occupa l’istituto.

Per gli Cobbenhagen Hendriksen l’utilizzo in tempo reale delle immagini ricavate da google e usate nel materiale

Le immagini raccolte da Cobbenhagen Hendriksen rappre-

visivo potrebbero essere addirittura usate per mappare lo

sentavano già da sole il passato, il presente e il futuro del-

sviluppo delle media-art. Per aiutare questa ricerca l’isti-

le media-art, e come dichiarano gli stessi designer “l’iden-

tuto ha previsto un sistema di archivio per tutti i materiali

tità del NIMk e nata da questa collezione. Noi abbiamo

usati.

semplicemente googolato e abbiamo assemblato i risultati di Google immagini per creare l’identità dell’istituto”1.

Olanda - 2007 http://www.cobbenhagenhendriksen.nl/

Per porre ulteriormente l’enfasi sulla ricerca visiva, i Cobbenhagen Hendriksen hanno anche scelto di limitare al

1

massimo gli altri elementi grafici: l’identità è completata

“Graphic Magazine”, n. 13 Visual Identity Issue, Spring 2010, Propagan-

Nederland Institute voor Mediakunst, Cobbenhagen Hendriksen, in

dal Digigrotesk come unico carattere tipografico – usato

da Press, Seul p. 88

anche per il logotipo – e un colore Pantone. Attraverso

2

ibidem

questi pochi elementi sono stati disegnati inviti, carta intestata, biglietti da visita, adesivi, banner, poster, cartelle fino alle t-shirt. L’assemblaggio di più immagini raccolte dalla rete governa ogni singolo strumento visivo dell’istituto, configurando così una forte e immediatamente riconoscibile identità visiva, e ogni attività può essere rappresentata attraverso una

Dynamic identities

88

Pagina a fianco. Cartella stampa, inviti e cartoline. Specimen del carattere DigiGrotesk, disegnato da Hell Design Studio nel 1968 e riadattato per il MINk.


identitĂ generative

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Dynamic identities

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In alto a sinistra. Here We Are & There We Go, manifesto. Per il 30° anniversario di fondazione il MINk ha festeggiato organizzando un weekend a “porte aperte” ricco di conferenze, parti, proiezioni, etc. Il materiale visivo dell’evento è stato creato ritagliando immagini usate n altre esibizioni ma sempre legate ad ogni specifico tema trattato durante le attività del weekend.

Sopra. Annual Report, 2007. Per la copertina dell’annual report Cobbenhagen Hendriksen ha riutilzzato le stesse immagini usate durante l’anno per gli inviti alle attività dell’istituto.

Banner posti all’ingresso nel NIMk. Pagina a fianco, in senso orario. Invito per la mostra My [Public] Space. Invito per la mostra Videocube. Invito per la mostra Territorial Phantom. Invito per la mostra VideoVortex.

identità generative

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processi generativi e caos

«Lo stesso tipo di formaggio può assumere gusti e sfumature molteplici a seconda del luogo e del periodo in cui è prodotto e stagionato. Ma è sempre lo stesso tipo di formaggio. Dove sta la riconoscibilità? Nella forma di formaggio o nel processo di produzione? Il medesimo processo produce risultati simili ma sempre diversi fra loro»1. Questo semplice esempio, tratto da “Immagine non coordinata” di Corraini e Caprioli, evidenzia in modo esplicito l’atteggiamento progettuale dei designer affrontati nei casi studio appena visti. La coerenza e la riconoscibilità di un’identità non sono costruite con la ceca ripetitività, ma attraverso processi che generano forme. Alla base di tutti questi progetti è riconoscibile, in maniera più o meno evidente, una sorta di DNA (come lo definiscono i designer di Lava). Le forme finali sono create attraverso una sequenza composta da più passaggi distinti, controllati o meno dai designer, che sommandosi determinano la variabilità stessa dei risultati. Le forme finali sono a più livelli diversificate, ma in tutti i progetti sono facilmente identificabili come appartenenti alla stessa “famiglia”. Il processo di realizzazione diviene quindi fondamentale e lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha fortemente influenzato la creazione di processi generativi. Per i progetti di Casa da Música e per la Cité Internationale sono stati creati software ad hoc. Il Logo Generator sviluppato da Sagmeister permette di integrare il marchio in contesti (cromatici) sempre diversi – nello stesso modo in cui il “tesseract” di 1:1 è inserito in contesti urbani variabili. Invece per la Cité, il team di Integral Ruedi Baur ha scelto di usare un software appositamente sviluppato per la generazione di combinazioni casuali, mentre per ottenere un risultato simile Lava ha creato un interfaccia web che permette ai navigatori di proporre nuove combinazioni del marchio Idtv senza il controllo dei designer. L’obbiettivo di tutti questi progetti è quello di ottenere un sistema libero, capace di evolversi nel tempo senza che sia necessario modificare la struttura stessa del progetto. «Introdurre la dimensione temporale nella progettazione grafica significa attribuire al marchio una vera e propria es-

Dynamic identities

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senza vitale»2 affermano Corraini e Caprioli; i progetti di Casa da Música e 1:1 inseguono tale obbiettivo con l’apertura a contesti diversi e liberamente utilizzabili, mentre Cité Internationale e Idtv sfruttano la casualità generata attraverso software o il contributo di utenti esterni. Queste due modalità di affrontare un progetto di identità generativa sembrano infine confluire nel progetto per il NIMk sviluppato dallo studio Cobbenhagen Hendriksen: i designer olandesi hanno creato un sistema che è a sua volta appoggiato su un’entità esterna – Google ed internet – e che si evolve autonomamente. Il contesto è portato all’interno del progetto dandogli una vitalità propria. Il designer non è più chiamato ad aggiornare, se non ripensare, l’identità dell’istituto ogni volta che è necessario, ma il suo ruolo diventa mostrare l’identità in quel preciso istante, sfruttando il processo generativo, praticamente automatizzato. Questo nuovo modo di progettare segna il passaggio dalla immagine coordinata di stampo tradizionale a quella che Corradini e Caprioli chiamano immagine non coordinata: “L’immagine coordinata definisce e controlla forme per ottenere un risultato grafico unico. Gli attributi di un marchio sono progettati una volta per tutte e qualora vengano rimessi in discussione si parla di riprogettazione dell’immagine coordinata. […] L’immagine non coordinata definisce e controlla un processo per ottenere una serie di risultati grafici di volta in volta diversi ma inevitabilmente legati fra loro da una somiglianza genetica. In questo senso la riconoscibilità agisce ad un altro livello, che non è più quello della forma bensì quello delle regole di produzione della forma”3. Nelle identità generative è il processo a divenire l’elemento caratterizzante dell’identità, non tanto le forme finali; è il processo, con le sue diverse fasi, gli elementi variabili e costanti a caratterizzare l’identità e la fonte dell’immagine coordinata di un’entità. L’efficacia e la potenzialità di un progetto di identità generativa sono quindi legate alle prescrizioni e ai margini di libertà concessi dal processo stesso. Agendo su queste due variabili il designer determina il grado di variazione delle forme finali. La casualità può entrare così a pieno titolo nel progetto delle identità generative facendone “un insieme di metodolo-

identità generative

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gie determinate che producono risultati dalle infinite varianti formali, non determinabili a priori”4. Tutte queste considerazioni evidenziano come il concetto di immagine coordinata tradizionale, basato sul manual e sui concetti di rigore e inalterabilità, si stia trasformando. Divenuto obsoleto vi si sta sostituendo una metodologia progettuale più flessibile che permette sempre di ottenere un’immagine coordinata, ma caratterizzata dalla presenza di più varianti sviluppate non più sulla base di un codice visivo definito direttamente dal designer, ma su un codice progettuale. Se l’immagine coordinata deve essere più flessibile e saper adattarsi a situazioni sempre nuove, qual è oggi il ruolo del manual? Il manuale di immagine può ancora esistere ma anch’esso deve cambiare: non più limiti e divieti ma chiare e semplici linea guida da seguire che prevedono al loro interno già la possibilità di varianti e di risultati inaspettati. Si passa “dalla normativa del manuale di immagine a un manuale di istruzioni all’uso del processo.”5 Non uno strumento autoritario per preservare il progetto dell’autore, ma un aiuto ai designer per affrontare le situazioni sempre nuove. Dalla rigidità del manual che ha caratterizzato il “Polo Hard”, ci si riavvicina nuovamente alle linea guida del “Polo Soft”. Infine accettando l’effetto caos, l’utilizzo di software di programmazione, la componente temporale, la vitalità anziché la persistenza, la diversità invece dell’uniformità, i designer abbandonano sempre più le modalità “autoritarie” moderniste e, rinunciando al controllo sulla configurazione finale, lasciano quest’ultima aperta all’imprevedibile, e al possibile contributo di altri giocatori.

Dynamic identities

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1

S. Caprioli, P. Corraini, Manuale di Immagine non coordinata, Corraini, Mantova 2008,

p. 19 2

ivi, p. 43

3

ivi, p. 29

4

ibidem

5

C. Chiappini, A. Cioffi, Identità cinetiche. Alcune case history di sistemi variabili, in “Pro-

getto grafico”, n. 9 dicembre 2006, p. 96

identità generative

95


Dynamic identities

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6.

identità relazionali «La possibilità di un’arte relazionale testimonia di un rivolgimento radicale degli obbiettivi estetici, culturali e politici messi in gioco dall’arte moderna» Nicolas Bourriaud, Estetica RElazionale, 1998

identità relazionali

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Utenti e contesti al centro del progetto di identità

«Se il designer stabilisce le regole, chi sono i giocatori?»1 è la domanda che si pongono Chiappini e Cioffi in un articolo sulle Immagini variabili comparso in Progetto Grafico. Sviluppando un sistema aperto ad elementi e fattori esterni – come nel progetto di Cobbenhagen Hendriksen e nella interfaccia web realizzata da Lava per Idtv – i progetti di identità basati su metodi generativi possono presupporre l’esistenza di partecipanti esterni che contribuiscono alla definizione dei risultati del progetto. Secondo Chiappini e Cioffi, attraverso il coinvolgimento attivo della massa si può quindi auspicare “un modello di design interattivo e democratico”2. Dopo che il Postmodernismo ha presupposto la possibilità di veicolare significati multiple al lettore (ma sempre trasmessi a un’unica via: dal designer al ricevente), nel design si stanno sviluppano sempre più progetti che esplorano le possibili relazioni instaurabili nel rapporto tra designer e destinatari. Stanno così emergendo pratiche “relazionali”, in cui anche l’utente è chiamato a collaborare al progetto. Il tema dell’estetica relazionale è divenuto uno dei più indagati soprattutto nelle pratiche dell’arte contemporanea a partire dagli anni novanta. Con lo sviluppo dei nuovi media e di Internet, le nuove nozioni di collettività – affermate da progetti open source come Wikipedia e siti come Youtube e Flickr basati sul contributo degli utenti – hanno permesso di scardinare i modi operativi e i temi tradizionali legati alla figura individuale di autore. La partecipazione del pubblico era già stata considerata fondamentale da Umberto Eco per quella che lui aveva definito “Opera aperta”, un’opera d’arte che può essere non conclusa, che connetta significati plurimi e amplificabili, aperta alle interpretazioni del pubblico e ai mutamenti del tempo. Dagli anni sessanta in poi cambia infatti il concetto di autorialità: lo spettatore e il pubblico vengono sempre più presi in considerazione come elementi attivi delle opere, come coautori e, infatti, nel 1968 Roland Barthes, in un suo famoso saggio, arrivò a proclamare la “Morte dell’autore”.

Dynamic identities

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Anche in letteratura nel 1985 Italo Calvino, prevedendo sorprendentemente i fenomeni di autorialità condivisa tipica del web 2.0, si prospettava un’opera che “ci permettesse di uscire dalla prospettiva limitata di un io individuale”3. Nicolas Bourriaud ha evidenziato come dagli anni Sessanta, partendo dell’Arte Minimale, “il cui sfondo fenomenologico speculava sulla presenza dell’osservatore come parte dell’opera”4, e passando attraverso happening e performance, “la ‘partecipazione’ dello spettatore […] è diventata una costante della pratica artistica”5. Bourriaud definisce queste pratiche dell’Arte Contemporanea “Estetica Relazionale”: «l’artista incita l‘osservatore a prender posto in un dispositivo, a farlo vivere, a completare al lavoro e a partecipare all’elaborazione del suo senso. […] L’opera d’arte degli anni novanta trasforma l’osservatore in vicino, in interlocutore diretto. È proprio l’attitudine di questa generazione alla comunicazione che permette di ridefinirla rispetto alle precedenti: se la maggior parte degli artisti degli anni Ottanta puntava all’aspetto visivo dei media, i loro successori privilegiano il contatto e la tattilità»6. Si tratta di una forma di ribellione nei confronti della spersonalizzazione dell’individuo evidenziata da Barthes in “La società dello Spettacolo” e ricordata da Bourriaud: «Di fronte ai media elettronici, ai parchi tematici, agli spazi conviviali, alla proliferazione de formati compatibili della partecipazione sociale, ci ritroviamo poveri e indifesi. […] Il soggetto ideale della “società delle comparse” è così ridotto alla condizione di consumatore di tempo e spazio»7. Nelle pratiche relazionali vengono così esplorate le relazioni con l’altro e le loro molteplici possibilità e potenzialità. Il pubblico è sempre più preso in considerazione; esso diventa un coautore e un feedback continuo per lo sviluppo dell’opera stessa. Sempre Bourriaud mette in evidenza come questo atteggiamento filosofico si sia sviluppato in opposizione al Modernismo: «Il Modernismo era immerso in un “immaginario di opposizioni” che procedeva per separazioni e contrasti, spesso squalificando il passato a vantaggio del futuro; era basato sul conflitto, mentre l’immaginario della nostra epoca si preoccupa di negoziazioni, legami e coesistenze. Oggi non

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si cerca più di progredire per opposizioni conflittuali, ma con l’intervento di nuovi accostamenti, di relazioni possibili fra unità distinte, di costruzioni di alleanze fra differenti partner»8. Tutto il modernismo novecentesco era intriso di utopie, le quali risentivano ancora del positivismo di origine ottocentesca. Queste erano intrise di una speranza ottimistica nel futuro e si era convinti di poter creare un mondo e un uomo nuovo, migliore attraverso le potenzialità dell’Arte. Ma la speranza rivoluzionaria è andata via via affievolendosi, e un colpo decisivo è stato probabilmente dato dal fallimento delle rivoluzioni del ’68. Di conseguenza nel campo delle Arti è venuta affermandosi una maggiore attenzione a problematiche di dimensione reale e gli artisti oggi puntano sempre più a realizzare micro-utopie che si vivono oggi, “nel quotidiano soggettivo, nel tempo reale della sperimentazioni concrete e deliberatamente frammentarie”9, afferma sempre Bourriaud: «Le opere non si danno più come finalità quella di formare realtà immaginarie e utopiche, ma di costruire modi d’esistenza o modelli d’azione dall’interno del reale esistente. […] L’artista abita la circostanza che il presente gli offre, al fine di trasformare il contesto»10. Gli artisti non si rivolgono più al futuro, ma al presente, a ciò che ci circonda: non più progetto che duri nel tempo, ma progetto iscritto e modificato nel presente. Siamo alla fine delle utopie. L’obbietivo non è più l’inafferrabile, la costruzione di un mondo e di un uomo nuovo, ma interagire con il reale che ci circonda. Questa filosofia di pensiero e progettazione, che pone l’attenzione al reale che ci circonda, al contesto inteso anche come società e collettività (ma non come massa nel senso capitalista, ma come persone/individui), dagli anni novanta è penetrata anche nei settori dell’Architettura, del Design e della Grafica, ed è questo atteggiamento progettuale che caratterizza molti dei lavori più interessanti degli ultimi anni. Il critico Andrew Blauvelt ha proprio messo in evidenza come tra i progetti più interessanti nel campo del Graphic Design degli ultimi anni non vi è un chiaro filo conduttore di tipo stilistico che li accumuna; questi non sono più riconducibili alle dicotomie, anche stilistiche, e alle polemiche tra

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tradizione-modernismo-postmodernismo che hanno dato origine, per tutto il novecento, a “forme e controforme, azioni e reazioni”11, stili e contro stili. Secondo Blauvelt, dopo il Modernismo (incentrato su razionalità e funzionalità, astrattezza, semplificazione ed essenzialismo) e dopo il Postmodernismo (attento al potenziale del costruire i significati, all’autorship dei designer, alla multi lettura dei testi) siamo ora entrati nella 3° fase della storia del design moderno, quella del “relationally-based” e “contextuallyspecific design”12: dalla focalizzazione sul contenuto si sta passando a quella sul contesto; e il pubblico, già idealizzato dal postmodernismo, può divenire da lettore a utente, fino a poter assumere il ruolo di coautore. Vengono esplorati processi aperti, non definiti che valutano l’espressività, la partecipazione e spesso indagano la sottile distinzione fra produzione e consumo. In questa nuova fase viene superata la retorica del “problem solving” e l’autorialità del designer e vi si sostituisce una logica sociale e dalla cultura dei network di massa contro l’autorialità d’un singolo. Lo stile viene messo in secondo piano da altre problematiche e i designer si interrogano sul dialogo fra persone; «gli utenti possono partecipare creando design; è un processo che nel graphic design si può osservare in molti prodotti auto pubblicati e nel lavoro di designer affermati come Daniel Eatock»13 afferma Blauvelt. Il designer londinese spesso coinvolge proprio gli utenti a collaborare ai suoi progetti: parti importanti del suo sito web, come la sezione Thank you picture, sono diventati progetti comunitari in continua evoluzione, aperti alla collaborazione di chiunque, mentre altri suoi lavori, come la serie di Grettings Card o il Utilitarium Advertisement creano un processi riflessivi che coinvolgono gli utente nel design finale. Per quanto riguarda il nostro tema anche nel campo dell’immagine coordinata si stanno affermando tentativi di realizzare un nuovo tipo di Identity Design aperto, funzionante come un organismo che si modifica e adatta ai diversi contesti, ma soprattutto che interagisca con altre persone diverse dal solo designer.

identità relazionali 101


Il tratto caratteristico di questi progetti, secondo Emanuela Bonini Lessing, «è quello di favorire una relazione interattiva tra emittenti e fruitori, secondo un modello radicalmente opposto a quello gerarchico dell’immagine coordinata»14. L’idea alla base di tutto questo è che “i designer non vogliono più imprimere un logo nella mente delle persone, ma dialogare con esse”15.

1

C. Chiappini, A. Cioffi, Identità cinetiche. Alcune case history di sistemi variabili, in “Pro-

getto Grafico”, n. 9 dicembre 2006, p. 96 2

ibidem

3

I. Calvino, Lezioni Americane, Oscar Mondadori, Trento 2010

4

N. Bourriaud, Estetica Relazionale, Postmedia Books, Milano 2010, p. 59

5

ivi, p. 25

6

ivi, p. 45

7

ivi, p. 47

8

ibidem

9

ivi, p. 46

10

ivi, p. 13

11

A. Blauvelt, Towards Relational Design, marzo 2008, http://www.designobserver.com/

observatory/entry.html?entry=7557 12 13 14

ibidem

ibidem

E. Bonini Lessing, La corporate spezzata. Per una critica dei sistemi informativi e iden-

titari nella metropoli, dottorato di ricerca in scienze del design, Università Iuav di Venezia, 2008, p. 14 15

Dynamic identities

102

K. Kwangchul, Editorial, in “Graphic”, n° 13 spring 2010, p. 3


identitĂ relazionali 103


lust

TodaysArt

TodaysArt è un festival annuale, tenuto presso L’Aia, che

Lust è stato inoltre invitato a creare proprie installazioni

raccoglie il meglio della danza contemporanea, della mu-

all’interno degli eventi di TodaysArt.

sica elettronica e delle arti visive nelle forme delle performance artistiche e delle installazioni sperimentali.

Nel 2005 il “virus” è stato presentato come installazione interattiva presso l’Hotel Mercure (sponsor principale

Dal 2005 lo studio olandese Lust si occupa dell’identità

del festival). La facciata dell’hotel è stata trasformata in

visiva di TodaysArt. Gli interessi principali dei componenti

un “barometro” del virus: sulle finestre di ogni stanza

di Lust comprendono le connessioni tra architettura e

sono state installate delle luci controllate da un computer

sistemi urbani, i media digitali e la rappresentazione gra-

centralizzato creando una sorta di megaschermo alto 35

fica delle informazioni, e per l’identità di un festival come

metri.

TodaysArt esplorare questi aspetti è sembrata la strategia più appropriata.

Nel 2006 è invece toccato alla facciata del Grote Mark essere trasformata in uno schermo interattivo che le persone,

Partendo dal concetto di “virus” come sistema di moltipli-

attattraverso uno schermo posto sulla piazza adiacente,

cazione e diffusione delle informazioni, Lust ha creato un

potevano modificare.

programma generativo che influenza e guida tutti gli aspetti dell’identità, dal linguaggio grafico ai mezzi di diffusione

Nel 2007 la piazza del Grote Markstraat è stata trasforma-

delle informazioni del festival. Il virus è rappresentato dal

ta in una “pista d’atteraggio” attraverso l’installazioni di

colore blu e da una griglia, applicabile potenzialmente a

luci che simulavano quella degli areoporti e l’utilizzo di una

qualsiasi superficie, dai manifesti, alla facciata di un edifi-

colonna sonora composta dal rumore di aerei. A questa si

cio, fino, potenzialmente, a tutta la città.

sovrapponevano gli avvisi del festival in otto diverse lingue, mentre la facciata del Grote Mark era stata trsformata in

Il “virus”, nella forma della griglia blu ha infatti invaso

un’immensa “tabella degli arrivi e partenze” con i nomi

l’ambiente urbano attraverso poster e adesivi di dimen-

dei vari artisti.

sioni modulari, applicati ripetutamente su tutti i supporti disponibili quali pavimenti, pareti, scale, bagni pubblici,

Olanda - 2005/07

fino agli stessi edifici.

http://lust.nl/

La griglia inoltre è continuamente modificata in tempo reale dal software generativo in base a differenti parametri come il numero di visitatori sul sito web del festival, il numero di artisti e performance in corso e il luogo degli interventi. La mutabilità della griglia permette così di rappresentare la crescita di TodaysArt e lo stato del “virus” è visibile in qualsiasi momento sul sito del festival.

Dynamic identities

104

Pagina a fianco. I materiali visivi sono stati appliccati in tutta la città in maniera invasiva; la scelta di un modulo quadrato per il logo base ha permesso di caratterizzare area della città attraverso ll’intervento su “griglie” già presenti nell’ambiente urbano. In alto. Manifesti realizzati a diverse larghezza.


0 5

0 5

identitĂ relazionali 105


In alto. Materiali visivi di TodaysArt e particolare del catalogo. A sinistra. Facciata dell’Hotel Mercury trasformata in schermo a led attraverso sistemi di illuminazione delle finistre. 2005.

Dynamic identities

106

Facciata del Grote Mark trasformata in uno schermo interattivo che poteva essere modificato dai passanti attraverso uno schermo posto sulla piazza adiacente. 2006.


Facciata del Grote Mark trsformata in un’immensa “tabella degli arrivi e partenze” con i nomi dei vari artisti. 2007. A destra. Illuminazione che simula una pista di atterraggio. 2007.

identità relazionali 107


Lesley Moore

Lesley Moore identity Lesley Moore è uno studio di graphic design con sede ad Amsterdam fondato da Karin van den Brandt e Alex Clay nel 2004. Il nome dello studio è uno pseudonimo derivato dal motto modernista “less is more” il quale caratterizza anche il loro lavoro, non solo a livello formale ma anche nell’approccio concettuale al processo creativo. Uno dei loro più significativi progetti è il Lesley Moore Logo, che è alla base dell’identità dello studio. L’identità visiva di Lesley Moore è costituita come un sistema aperto: sono i visitatori del loro sito web, indipendentemente da chi essi siano – parenti, amici, colleghi, clienti o chiunque altro – a disegnare il marchio di LM. Attraverso un software online chiamato “LM Logo Machine” è infatti possibile combinare liberamente figure geometriche (quadrati, cerchi e triangoli) e lettere (le iniziali di Lesley Moore) e proporre la propria versione del logo. I loghi prodotti sono tutti archiviati, senza nessun filtri o criterio di selezione, in un database definito “LM Logo Bank”. Dall’Agosto 2004, data del lancio del progetto, sono ormai stati disegnati oltre 2500 diversi loghi e lo studio recupera, ogni volta che ne ha bisogno un logo diverso, bello o brutto che sia. L’unico vincolo infatti è che ogni logo sarà usato una sola volta. Grazie al contributo degli utenti, potenzialmente collegati da qualsiasi punto del mondo, il progetto Lesley Moore Logo ha permesso allo studio di sviluppare un’identità in costante mutamento, dinamica e “democratica”. Olanda - 2004 http://www.lesley-moore.nl/

Dynamic identities

108

Logo Machine. Il marchio viene realizzato trascinando gli elementi presenti sulla sinistra nel riquadro bianco. Pagina a fianco. Alcuni dei 2500 loghi realizzati dagli utenti sul sito http://www.lesley-moore.nl/.


identitĂ relazionali 109


A lato. Loghi di partenza forniti ai designer invitati a partecipare al progetto Sotto. Contributi di: 12Foot6 Supermundane Peter Bilak Grandpeople Paul Insect Frost Design Ed Fella Damien Poulain

Dynamic identities

110


bunch

made in bunch

Bunch (tradotto in italiano “gruppo”) è uno studio fondato a Londra da un gruppo di nove laureati al “London College of Printing”. Lo studio si base sul concetto di collettivo e attualmente vi collaborano persone da diverse sedi sparse nel mondo. Il concetto di “collettività” è stato ulteriormente allargato con l’iniziativa “Made in Bunch”, con la quale Bunch ha chiesto ad altri designer di collaborare al redesign dell’identità dello studio. Agli invitati al progetto è stato chiesto di porre un proprio punto di vista su Bunch e di riflettere sulla sua identità, proponendo un nuovo logo. Unico vincolo assegnato ai designer è stato quello di porre la propria firma. L’idea dell’iniziativa è stata quella di mostrare la varietà e l’apertura degli approcci di Bunch attraverso “altri” punti di vista e rimarcando il tema della collaborazione. I contributi sono stati oltre 450, tra i quali spiccano quelli di FrostDesign, Ed Fella, Stefan Sagmester, Peter Bilak, e molti altri. Gran Bretagna - 2007 http://www.madeinbunch.com/

I risultati del progetto sono poi stati raccolti nel libro “Bastardised”.

identità relazionali 111


walker art center

where _ meets _

Inaugurato nel 2005 dopo un periodo di chiusura, il nuovo Walker Art Center ha visto raddoppiare le proprie strutture ed espandere la natura già multidisciplinare dell’istituzione. Il nuovo Walker è stato infatti concepito come luogo di incontro e scambio culturale, un centro che permetta il convergere di forme d’arte, di pubblico e idee nuove ed eterogenee. Per promuovere la riapertura il team di design interno del Walker, guidato da Andrew Blauvelt e Alex DeArmond, ha sviluppato la campagna Where _ Meets _ . La prima fase del progetto è consistita nel proporre una specie di gioco open-ended 1 che ha permesso al pubblico del museo di partecipare attivamente alla campagna: le persone sono state chiamate a compilare delle “cartoline” riempiendo In alto. Modello delle “cartoline” fornite ai visitatori del Walker Art Center

gli spazi bianchi tra le parole where e meets, esprimendo liberamente opinioni, idee e concetti. Le proposte più interessanti sono state poi utilizzate per la realizzazione della campagna, applicandole a una vasta gamma di supporti (cartelloni pubblicitari, fermate dei mezzi pubblici, t-shirt, volantini, monitor degli ascensori e sito web). Dalle diverse frasi emergono connessioni inattese, riferimenti alla posizione urbana del Walker (Where Hennepin Meets Lyndale) o alle attività dell’istituto(Where Center Stage Meets Left Field), richiami ad artisti del passato (Where Yoko Meets John), etc. riuscendo così a veicolare un’idea della eccletticità ed eterogeneità che regna al Walker Art Center. Stati Uniti - 2005 http://design.walkerart.org

1

Dynamic identities

112

http://design.walkerart.org/detail.wac?id=2120&title=Projects


La campagna per la promozione della riapertura del Walker Art Center è stata realizzata riproponendo le “cartoline” compilate dai visitatori del Walker su diversi supporti, dai cartelloni pubblicitari alle t-shirt.

identità relazionali 113


Interfaccia web che permette di visualizzare in tempo reale le modifiche al carattere tipografico e di modificare i parametri. A fianco. Speciment del carattere Twin inserito in una mappa stilizzata dell’area urbana. Sopra. Twin si modifica in base ai dati raccolti: per esempio quando la temperatura ambientale è bassa il carattere è più rigido, secco, mentre quando fa più caldo il carattere è più arrotondato.

Dynamic identities

114


letterror

twin cities

Nel Luglio del 2002 il Design Institute of the University of

Invece il risultato è un carattere tipografico sperimenta-

Minnesota, in occasione del Twin Cities Design Celebra-

le, denominato Twin, che mette in risalto il rapporto tra

tion 2003, ha invitato sei team di design, provenienti sia

tipografie e realtà urbana: il font è infatti accompagnato

dell’Europa che dagli Stati Uniti, a confrontarsi nello svi-

da un software che registra in tempo reale il mutamento

luppo di un carattere tipografico che costituisse l’identità

delle condizioni ambientali dell’area urbana – come vento,

della regione urbana delle città gemelle Minneapolis

temperatura, umidità, congestione traffico, etc.

e St. Paul. Il software inoltre ha un’interfaccia web dove vengono moLa domanda posta dal Design Institute era: può un

strate in tempo reale i mutamenti applicati al Twin in base

carattere tipografico comunicare il carattere di una città?

ai dati raccolti, partendo dai quali gli stessi utenti del sito

L’area metropolitana Minneapolis-St. Paul ospita circa 3,2

possono modificare ulteriormente l’aspetto del carattere

milioni di abitanti, e sotto la dicitura “Twin Cities”, che

tipografico, con la successiva possibilità di utilizzare i

dimostra come le due città abbiano forti punti di connes-

risultati ottenuti.

sione, rimano il fatto che entrambe presentano caratteristiche decisamente indipendenti l’una dall’altra.

Una delle principali difficoltà nella progettazione del sistema è stata la gestione del kerning di oltre 800 diversi

Per i designer l’ostacolo da superare consisteva quindi nel

glifi, che permettono la realizzazione di più di 65.000

sviluppare un carattere tipografico in grado di rimarcare

combinazioni diverse. Per superare tale ostacolo LettError

l’unicità della regione, evidenziandone anche l’eterogeneità

ha sviluppato un’applicazione apposita.

che la contraddistingue. Twin si pone quindi non come un elemento tipografico Sviluppato dal gruppo olandese LettError (costituito dai ti-

prefabbricato da applicare a diversi contesti, ma come un

pografi Erik van Blockland e Just van Rossum), il progetto

sistema “vivente” che ogni utente può gestire e utilizzare

scelto, anzichè da un unico carattere, è costituito da un

a piacere.

set di ben 10 caratteri tipografici di diverso stile – graziato, egiziano, bastone, arrotondato, etc. L’idea di LettError

Olanda / Stati Uniti - 2003

è stata quella di non forzare un unico carattere, con uno

http://www.letterror.com/

stile preciso, su di una realtà così eterogenea, perché il rischio era quello di trasformare il Twin Cities in un altro brand urbano.

identità relazionali 115


Integral Ruedi Baur / Integral Jean Beaudoin

Quartier des Spectacles

Quartier des Spectacles è una fondazione no-profit fondata nel 2000 che si occupa dello sviluppo delle attività culturali dell’omonimo quartiere di Montreal. La fondazione riunisce oltre 35 diversi edifici – distribuiti in un’area con un’estensione di circa un chilometro quadrato che si snoda attorno alla via Rue Sante-Catherine – e ospita il 70% delle aree culturali di tutta la città (tra cui numerose sale d’esposizione, gallerie d’arte, teatri, locali musicali, etc.) oltre anche ad essere luogo di esposizione e diffusione delle culture alternative e underground. Il quartiere fino a pochi anni fa era famoso anche per l’alto tasso di prostituzione e spaccio di droga e nel 2004 la fondazione ha ingaggiato lo studio Integral Ruedi Baur in collaborazione con Integral Jean Beaudoin per sviluppare una visual identity che rilanciasse l’immagine pubblica del quartiere. Gli elementi fondamentali dell’identità sono un carattere tipografico appositamente creato – il quale simula, attraverso la sfumatura dei bordi, diverse intensità luminose – e una doppia linea di punti luminosi rossi che rappresenta l’arteria principale del quartiere. La luce è infatti il tema principale dell’identità; essa esprime l’essenza del Quartier des Spectacles: vita notturna, spettacolo e creatività. Ma l’identità non si limita ai media tradizionali: essa invade tutto il quartiere estendendosi nel contesto urbano integrandosi ad esso. Un sistema di segnaletica luminosa è disposto lungo le strade del quartiere è grazie a fari led proietta sui marciapiedi doppie file di punti rossi che vengono modificate per indicare ai passanti i luoghi degli spettacoli in corso. Le luci creano una specifica atmosfera che avvolge il quartiere e i suoi passanti, e il sistema se-

Dynamic identities

116

Varianti del logo inserito nella mappa del quartiere con evidenziati gli edifici ospitanti le aree culturali del Quartier des Spectacle.


Carattere tipografico realizzato ad hoc partendo dal font Le Chevin. Varianti del logo.

identitĂ relazionali 117


Facciata del Théâtre de Nouveau Monde trasformata in uno schermo a led, 2004. Ingresso del Club Soda. La facciata ha subito un completo restauro in occasioni della riconversione del quartiere, 2004

gnaletico diventa così l’espressione principale dell’identità

con essa. Per il periodo natalizio dello stesso anno la

del Quartier des Spectacles. La doppia linea diventa un

facciata della chiesa di Saint-Jaques è stata trasformata in

tappeto rosso che avvolge e accompagna i passanti, mo-

un laboratorio video sul quale sono proiettati video di arti-

dulando e definendo la stessa gerarchia degli spazi urbani,

sti e studenti, sempre basati sul tema della luce rossa.

mentre insegne luminose e proiezioni segnalano i principali eventi, gerarchizzati sfruttando le diverse varianti del

La comunicazione del Quartier des Spectacles riesce

carattere tipografico.

così ad integrarsi profondamente con l’ambiente urbano, raggiungendo l’obbiettivo di porre l’enfasi sulla sensibilità

Anche i singoli edifici sono stati coinvolti nel progetto con

della città ai temi della cultura, dell’arte e del design.

interventi definitivi o temporanei: il Club Soda ha completamente restaurato la propria facciata con un intervento

Canada - 2004

di light design, mentre la facciata del Théâtre de Nouveau

http://integral.ruedi-baur.eu/

Monde è stata trasformata in uno schermo a led. In occasione della Nuit Blanche 2010 la facciata de La Vitrine è stata trasformata in un muro interattivo che reagisce al movimento dei passanti, stimolandoli a “giocare”

Dynamic identities

118


La Vitrine. La facciata è stata strasformata in un muro interattivo che reagisce ai movimenti dei passanti, 2010. In alto. Sistema di illuminazione che proietta una doppia linea di punti rossi sui marciapiedi. Chiesa di Sant-Jaques trasformata in uno schermo sul quale sono stati proiettati video di artisti e studenti, 2010.

identitĂ relazionali 119


utilità e contesto

Nei sei progetti qui affrontati è facile individuare due temi fondamentali posti al centro del lavoro dai diversi designer: l’attenzione per il contesto in cui agisce l’identità e l’integrazione di questa, e la volontà di creare una partecipazione di soggetti esterni al progetto stesso. I progetti per le Twin Cities, per il Quartier des Spectacle e per il festival TodaysArt (come anche quelli per 1:1 e la Cité Internationale visti nel capitolo 5) pongono al centro il tema della relazione con il contesto nel quale l’identità è chiamata ad agire e cercano di integrarsi nel contesto urbano. “Interagire” e “Relazionarsi” sono le parole chiave: per TodaysArt, Lust ha espanso l’identità, attraverso anche supporti classici, su tutta la città, letteralmente invadendola, come un “virus” che si moltiplica in base alle attività del festival stesso. L’identità del Quartier des Spectacle si sviluppa direttamente nella scala urbana, modificandosi in base al mutare della vita stessa del quartiere. Nel progetto di LettError l’aspetto del carattere tipografico per le Twin Cities prende forma seguendo le variazioni ambientali che agiscono sull’ambiente della città; contemporaneamente sono anche gli abitanti dell’area che possono realizzare la propria versione dell’identità. In questi progetti ci si avvicina a un’idea di design in cui, come afferma Anceschi, l’identità “ha un comportamento che è connesso in tempo reale al comportamento degli abitanti. […] Il progetto è democratico, automaticamente democratico e poi la committenza è pubblica e il design è public […] Se si riesce ad ottenere che l’immagine si trasformi nella direzione dell’interlocutore, che viene chiamato ad essere coautore, allora il processo di interazione si fa interessante”1. La relazione con il contesto e gli utenti che vi agiscono diviene così il tema centrale del design in questi progetti, in cui convergono i principali fattori delle identità dinamiche finora visti: processo generativo totalmente automatico, il designer che si limita a stabilire le regole iniziali, l’utilizzo della tecnologia, l’inserimento del fattore tempo e caso, e la partecipazione del pubblico. Soprattutto quest’ultimo fattore potrebbe diventare

Dynamic identities

120


l’elemento centrale nei futuri progetti di design dell’identità. La componente partecipativa è sempre più presa in considerazione; si è sviluppata una fortissima attenzione a tale tematica, sempre più presente, e come ha osservato, ancora una volta, Bourriaud: «ciò che colpisce nel lavoro di questa generazione […] è in primo luogo la preoccupazione democratica che lo anima.[…] preoccupazione di “dare un’opportunità” a tutti, attraverso forme che non stabiliscono precedenze a priori del produttore sull’osservatore, (diciamo nessuna autorità di diritto divino), ma che negoziano con lui dei rapporti aperti, non decisi in anticipo. L’osservatore oscilla tra lo statuto di osservatore passivo e quello di testimone, di associato, di cliente, d’invitato, di coproduttore, di protagonista»2. Nella campagna Where _ Meets _ del Walker Art Center è il pensiero del pubblico il soggetto del progetto. Le gerarchie tradizionali che vedono il pubblico solo come destinatario del messaggio di una istituzione sono così ribaltate: si passa dal “Io parlo di me a voi” al “Voi parlate di me”. Sta prendendo piede una “etica dell’utente”: i progetti chiedono agli utenti di essere consapevoli del contesto in cui si trovano, e di partecipare allo sviluppo dello stesso, mentre i designer abbandonano il loro piedistallo di autore e rinunciano ad avere un’idea prestabilita di ciò che accadrà esattamente; il risultato rimane legato all’agire di altri, e si avvera la “morte dell’autore” annunciata da Roland Barthes ancora nel 1968. Gli studi Lesley Moore e Bunch hanno raggiunto un punto estremo di questa ricerca di cooperazione (si tratta infatti di due sperimentazioni che ambedue gli studi hanno compiuto su se stessi): in entrambi i casi la progettazione dell’identità visiva è delegata completamente a soggetti esterni. Vengono così instaurati dei rapporti completamente orizzontali che esplorano le possibilità collaborative e creative della “comunità”. Questa viene intesa nei due progetti su scale opposte: Bunch si rivolge a una comunità di designer limitata, e a questi viene lasciata la massima libertà creativa; al contrario Lesley Moore richiama potenzialmente tutti i navigatori del web, ai quali fornisce degli strumenti e limiti di azione ben definiti. Tutti questi progetti cercano di instaurare dei rapporti collaborativi sempre meno verticali. Vengono esplorate le potenzialità collaborative delle comu-

identità relazionali 121


nità a scale diverse (da un ristretto gruppo di designer, a potenzialmente tutta la popolazione di una città). Come nei modelli del web 2.0 gli utenti diventano parte attiva di una community che costruisce una nuova realtà progettuale, secondo modelli orizzontali di scambio. I designer dimostrano di essere sempre più concentrati sui rapporti che i loro lavori creano nel pubblico. “L’essere assieme”, l’incontro tra progetto e utente e l’elaborazione collettiva diventano i temi fondamentali del progetto. Il tema del “Design It Yourself”, che ha caratterizzato una buona parte del Graphic Design degli anni ottanta e novanta, è così passato dalla realizzazione di oggetti singoli, alla creazione di sistemi aperti, nei quali il designer assume un ruolo di coordinatore e programmatore o, come direbbe Anceschi, di regista, mentre “il consumatore è rivalutato come agente creativo”3. Secondo Blauvelt ciò che caratterizza il Design Relazionale è quindi l’attenzione agli effetti del design sul suo contesto, tralasciando l’aspetto formale: «dopo 100 anni di esperimenti prima sulla forma poi sul contenuto, ora il design esplora il contesto [e l’utente] e tutte le sue implicazioni. Il design relazionale si occupa degli effetti del design, tralasciando l’aspetto formale»4.

1

G. Anceschi, Hard, soft e smart: gli stili registici dell’identity design, in “Progetto Grafico”,

n. 9 dicembre 2006, p. 109 2

N. Bourriaud, Estetica Relazionale, Postmedia Books, Milano 2010, p. 58

3

A. Blauvelt, Towards Relational Design, marzo 2008, http://www.designobserver.com/

observatory/entry.html?entry=7557 4

ibidem

Dynamic identities

122


identitĂ relazionali 123


Dynamic identities

124


conclusione In tutte le epoche del passato i cambiamenti erano “nuovi”. Ma quel nuovo non era “IL” nuovo. Non dobbiamo dimenticare che noi ci troviamo alla fine di una cultura, alla fine di tutto ciò che è vecchio. Piet Mondrian, in Die Neue Typographie, 1928

conclusione 125


I quesiti dai quali si è partiti in questa tesi di ricerca sono: “Come si sta evolvendo il ramo progettuale del design dell’identità? Ai vecchi modelli storicamente consolidati, quali metodologie progettuali vi si stanno sostituendo?” Risulta evidente come ai vecchi modelli progettuali della immagine coordinata, storicamente divisi in “Hard” e “Soft”, se ne stanno sostituendo altri. Questi nuovi modelli di Identity design si fondano sulla differenzazione, anziché sul rigido coordinamento che caratterizzava soprattutto i modelli del “Polo Hard”; non si tratta di un ritorno alle metodologie di tipo “Soft”, ma, come suggeriscono Anceschi e Chiappini, si tratta del terzo polo di un triangolo Semantico, da loro soprannominato “Smart” nel senso di “reattivo, morbido, sensibile”1. Dopo aver analizzato i progetti qui visti si evidenzia come questi nuovi modelli progettuali presentano diverse caratteristiche: • non vengono definite forme, ma campi di possibilità; il progetto si evolve nel tempo, non è mai finito; • i percorsi sono influenzati da elementi esterni; il progetto può essere liberamente “contaminato”. • l’attenzione è posta sul processo; viene pensato non il risultato, ma la via per ottenerlo. Si passa dal controllo del progetto, al controllo del processo. Il processo è il prodotto. • i designer rinunciano al controllo totale sui risultati finali; vi è un abbandono consapevole a fattori non controllati e al caos. Il progetto rimane aperto a nuovi sviluppi non previsti. • il destinatario non è un target, ma un collaboratore e coautore; i progetti non sono imposti dall’alto. Tra i due ruoli di chi concepisce la comunicazione e di colui che la riceve si sviluppano nuovi punti di contatto e gli individui partecipano in diverse maniere; i destinatari vengono resi dialoganti e attori; il lettore è incoraggiato ad esplorare e i progetti sono partecipativi e open source; si sviluppano fenomeni di partecipazione collaborativa. • il contesto d’azione è fondamentale; il progetto deve sapersi adattare

Dynamic identities

126


al contesto; vengono create possibilità di declinazioni mutevoli a seconda del contesto; si ricerca il contatto con la realtà fisica e urbana. • i confini tra Graphic Design, media, tecnologie dell’informazione, Architettura e sistemi urbani diventano sempre più sfocati. Attraverso il percorso di questa tesi di ricerca emergono anche ulteriori punti di riflessione: per quanto ci si sia sforzati di effettuare una selezione più eterogenea possibile dei casi studio in base alla regione di provenienza, molti progetti e designer provengono dal contesto olandese (Lava con Idtv, Mauren Mooren con il Marres, gli Experimental Jetset, Lust con TodaysArt, LettError, il NAi). Questo concentrazione di progetti dall’Olanda, che è probabilmente il paese dove la cultura del Design è maggiormente consolidata nella società e nelle istituzioni, e la predominanza proprio di committenti quali istituzioni pubbliche e culturali, evidenzia come una avanzata cultura del design condivisa sia fondamentale per lo sviluppo di questa tipologia di progetti. Un altro punto di riflessione è che i progetti di identità si inseriscono sempre più nei contesti urbani definendo le identità territoriali. Oggi le entità pubbliche, dalle nazioni fino ai comuni, stanno sempre più dando importanza alla loro immagine coordinata e, come evidenziato anche dagli olandesi Metahaven nel loro testo “Uncorporate Identity”, molto spesso adottano strategie simili a quelle delle grandi multinazionali, arrivando a trasformare le città e le nazioni in brand. Ma come ha sottolineato Palladino: «Brandizzare un territorio non è ne interessante ne utile. Interessante e utile è costruire un insieme di strumenti riferibili a un sistema aperto, usabile e multisensoriale»2 come invece tentano di fare i progetti qui visti, attraverso un coinvolgimento attivo sia delle stesse istituzioni sia degli utenti che vi interagiscono. A questo punto bisogna anche chiedersi: c’è veramente bisogno delle identità dinamiche? Molto spesso la flessibilità e la dinamicità di un’identità non rischia di divenire solo una maschera per far apparire più “moderna” un’azienda? “Ma perché Google cambiata spesso logo? “perché

conclusione 127


è divertente” è la risposta ufficiale ma in realtà ci troviamo di fronte a un crescente numero di aziende ed istituzioni che sentono la necessità di mostrarsi dinamiche: nella società contemporanea dominata dai media digitali, dalla televisione, da internet, dagli smartphone,dai livedata e livechat, rimanere statici può significare il rimanere esclusi dalla società stessa e, soprattutto, dal mercato3. Progettare loghi variabili, in movimento, cinetici e che cercano di essere dinamici è divenuta anche una moda e i progetti realizzati su questa strada sono centinaia, ma la maggior parte si ferma a una progettazione superficiale. L’esempio più lampante i molti loghi animati attraverso l’uso di immagini gif che si possono trovare sul web. Essere flessibili, dinamici, al passo coi tempi e rapidi nei cambiamenti per potersi adattare a tutte le nuove situazioni prevedibili e non, diviene Hans Scheler, Finmar, anni Cinquanta.

un obbiettivo fondamentale in tutti i settori della nostra economia e so-

Experimental Jetset, Le Cent Quatre, 2008

obbiettivi, ma è necessario che sia fatto con consapevolezza critica.

cietà, e anche l’identità visiva deve poter perseguire e mettere in luce tali Negli anni cinquanta Hans Scheler disegnò per la ditta di importazione danese Finmar un marchio il quale poteva essere usato in più varianti di spessore – chiaro, normale e grassetto – come un carattere tipografico. Si tratta della stessa metodologia usata dagli Experimental Jetset nel progetto per Le Cent Quatre: sebbene nella presentazione del manual dell’identità i designer olandesi abbiano messo in evidenza l’idea del “work in progress”, della “versione sempre nuova”4, l’identità non risulta né veramente dinamica né flessibile come pretenderebbe di essere. A fronte delle molte “giustificazioni” date nella presentazione, le quattro versioni del logo previste nel progetto non aggiungono niente l’una all’altra, e non è prevista nessuna possibilità di ulteriori evoluzione futura. Il progetto per Le Cent Quatre – inserito tra i casi studio per analizzare anche questa modalità progettuale – dimostra come le identità dinamiche rischino di diventare uno standard da applicare come una maschera e uno strumento per “far breccia sul consumatore medio viziato, impaziente e visivamente attento di oggi”5. Lo stesso Bruce Mau afferma: «Mtv ha

Dynamic identities

128


un’identità dinamica perché è dinamica, ma non voglio che la mia banca sia dinamica; voglio che essa sia conservativa e radicalmente stabile»6. Anche Chiappini e Sfligiotti giungono a chiedersi: «la partecipazione degli utenti è ogni volta veramente significativa? Questa modalità d’agire non rischia di diventare un sotterfugio supplementare per disinnescare la diffidenza del pubblico e sedurlo?»7 Sebbene i progetti visti in questa ricerca sicuramente non sono stati pensati in questa ottica, è fondamentale porsi la domanda. Il punto è: Ha senso realizzare identità variabili? Quelle standard non funzionerebbero ancora bene? È evidente come, a seguito degli enormi cambiamenti che hanno investito la nostra società negli ultimi trent’anni, anche il Graphic Design abbia dovuto evolversi con essa. Sotto l’influenza dei media siamo circondati da un flusso di informazioni rapidissimo e in continuo mutamento. Il design della comunicazione deve ora essere affrontato con approcci progettuali adeguati. Come osserva Anceschi, «[Oggi c’è una] sterminata fame di grafica in movimento, manifestata ogni giorno dal grande sistema dei media televisivi e dalla rete. Il flusso di informazioni nel quale siamo chiamati a vivere sta cambiando il modo di percepire la realtà. […] il corporate design deve fare i conti con il fatto che il movimento e le tecnologie ci sono. Farne tema di progetto significa che si sta cominciando a padroneggiare questi aspetti»8. Osserva inoltre Ruedi Baur: «C’era un mondo nel quale le differenze accadevano naturalmente. La mancanza di informazioni, le difficoltà di accesso, i motivi economici, politici religiosi e culturali creavano automaticamente diversità profonde. Quel tempo è finito per sempre. In questo mondo ormai irreparabilmente globale la differenza può risultare solo da un atto volontario»9. Se stabilità, ripetibilità e coerenza del marchio sono stati i punti saldi delle teorie del 20° secolo, oggi, nel nostro contesto sociale e culturale, i nuovi valori da affermare diventano complessità e differenza. Inoltre forse “sono proprio gli utenti a aver bisogno che ci si rivolga in modi diversi, più attenti al contesto e agli individui”10.

conclusione 129


I progetti qui visti dimostrano che oggi, tra chi progetta la comunicazione e chi la riceve, è possibile sviluppare dei punti di contatto. L’attenzione al contesto e ai destinatari da parte dei designer è reale, ed è intesa come una vera opportunità di cambiamento e arricchimento reciproco11. La strada intrapresa sembra effettivamente essere rivolta verso quella che Blauvelt ha definito la “3° fase della storia del Design moderno”: un “Design Relazionale” che cerca di esplorare la dimensione performativa del design, i suoi effetti sugli utenti e il suo impatto con le relazioni sociali. Con questa nuova cultura progettuale il Graphic Design diviene uno strumento per creare non più degli strumenti standardizzati e di controllo, ma piattaforme di incontro e promuovere nuove forme di comunicazione.

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6

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rage, in “New York Times”, 11 Febbraio 2007 7

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p. 11 8

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10

C. Chiappini, S. Sfligiotti, Multiverso, in “Multiverso Programme”, Aiap, 2008, p. 11

11

C. Chiappini, S. Sfligiotti, Open Project. Des Identités non standard, Pyramyd, Paris

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Christopher Secolo Identità dinamiche Nuove metodologie progettuali dell’immagine coordinata

Grazie a Eva, Loretta, Valter e Sebastian.

Università Iuav di Venezia Facoltà di Design e Arti Corso di Laurea Magistrale in Comunicazioni Visive e Multimediali laureando Christopher Secolo relatore Carlo Vinti progetto grafico e impaginazione Christopher Secolo stampato da XXXX, Vicenza Aprile 2011 Christopher Secolo tel. 340 2783497 mail. info@christophersecolo.com www.christophersecolo.com L’autore è a disposizione degli eventuali aventi diritto per le fonti non individuate

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