Meditazioni sul Vangelo di Matteo. Capitoli 14-18

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Divo Barsotti

Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 14-18 a cura di p. Martino Massa



Divo Barsotti

Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 14-18 a cura di p. Martino Massa

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Editrice Fiorentina


© 2020 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-573-0 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Studio Grafico Norfini, Firenze L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte con i quali non sia stato possibile mettersi in contatto


Indice

7 Prefazione 17 Nota

Meditazioni sul Vangelo di Matteo 21

Esecuzione di Giovanni Battista

28

Prima moltiplicazione dei pani

38

Gesù cammina sulle acque

46

Gesù a Genesareth – discussione sulle tradizioni farisaiche – il puro e l’impuro

57

Guarigione della figlia di una cananea

65

Guarigioni d’infermi – seconda moltiplicazione dei pani – il segno dal cielo – il lievito dei farisei

75

Professione di fede e primato di Pietro

98

Primo annunzio della passione

103

Condizioni per seguire Gesù

116

La trasfigurazione

138

L’epilettico indemoniato

146

Il secondo annuncio della passione e la tassa per il tempio

155

Chi è il più grande – lo scandalo


165

La pecorella smarrita – la correzione fraterna

177

La preghiera in comune

182

Il perdono delle offese – la parabola del servo spietato


Prefazione

Questo terzo volume del commento di p. Barsotti riguarda proprio la parte centrale del vangelo (cc. 14-18) in cui, per così dire, l’evangelista ci fa entrare nel pieno del mistero del Regno dei cieli di cui la chiesa che Gesù istituisce rappresenta la primizia. Eventi salienti di questa sezione mediana sono, oltre la confessione e il primato di Pietro, l’esecuzione del Battista, i miracoli della moltiplicazione dei pani e la Trasfigurazione. Si nota come il manifestarsi del Regno fa emergere in maniera sempre più radicale l’opposizione tra Gesù e la nazione giudaica, tra l’antico e il nuovo Israele. Ora si opera una divisione netta tra quanto Gesù ha fatto e ha detto finora e quanto farà e dirà d’ora in poi. Non è un caso che questa parte del vangelo si apra con il martirio di S. Giovanni Battista, la cui figura sempre emblematica nel vangelo, ancor più con il suo morire adempie la suprema sua missione. Giovanni Battista muore e con lui muore tutto l’Antico Testamento. Da questa morte viene, potremmo dire, la vita, che è Gesù stesso. È adesso che si inaugura davvero il Regno di Dio. Così si esprime p. Barsotti: «Finora l’Antico e il Nuovo coesistevano, Gesù era ancora del popolo di Israele. Ora invece l’opposizione che la nazione in qualche modo ha manifestato già nei suoi capi realizza una divisione: nasce il nuovo Israele e l’antico Israele scompare. Non scompare storicamente, scompare come popolo eletto, scompare perché in qualche modo ripudiato da Dio nei suoi capi. Solo Gesù rimane». Vi è inoltre secondo don Divo un evidente parallelismo con il Discorso della montagna, sembrano ripetersi su un piano più alto i primi capitoli del vangelo. In questa sezione che si colloca tra la preparazione remota e quella prossima all’ora di Gesù (cioè 7


il compimento della sua missione con la morte di croce) sembra rinnovarsi l’esodo con il miracolo della manna. Prima la folla era invitata a salire con Gesù sul monte per ricevere la legge nuova, ma ora deve compiere l’esodo definitivo e salire di nuovo con Gesù sul monte non più per ricevere la legge ma la vita. Questo salire sul monte è un’anticipazione della salita al Calvario dove Gesù compirà la sua missione con la morte di croce e attraverso l’effusione del sangue donerà la vita. Si comprende così il miracolo della moltiplicazione dei pani (ben due volte in Matteo) come figura dell’eucarestia in cui riceviamo davvero il suo corpo e il suo sangue. Ma tutto questo implica appunto un nostro entrare in rapporto vivo con Cristo. Vi è un’esortazione di p. Barsotti nel bel mezzo del suo commento al brano della prima moltiplicazione dei pani che non può lasciare indifferenti: «Rendiamoci conto prima di tutto che il nostro rapporto con Cristo non è un qualsiasi rapporto, non può essere un rapporto secondario nella nostra vita, che la nostra vita religiosa non è una componente della nostra vita umana in cui c’è la vita di salotto e c’è la vita religiosa, c’è il rapporto con Cristo e c’è il rapporto con le creature, col marito, coi figli che amiamo, con gli uomini coi quali lavoriamo, con gli uomini del proprio partito. No, non c’è che Lui. Cristo è veramente esclusivo. Egli vuole l’uomo tutto per Sé, se l’uomo si è deciso a seguirlo». Si comprende allora come ancora una volta sia prima di tutto una questione di fede. Possiamo vedere lo svolgersi di questi capitoli innanzitutto come un itinerario che parte dalla fede per giungere all’amore attraverso la preghiera. Fede, preghiera, carità. Innanzitutto la fede. Lo vediamo in particolare nel caso della moltiplicazione dei pani. Dio non delude, è vero, ma è vero anche che non sembra assicurarti mai niente prima né interviene mediante doni e miracoli in anticipo, cioè prima che tu abbia attraversato la prova della fede: un atto di fede comporta un rischio assoluto. Cosa sia quest’atto di fede Barsotti ce lo spiega bene commentando il brano della prima 8


moltiplicazione dei pani: «Fede assoluta in chi invita e in chi deve rispondere. “Egredere! [vai]”. Mettersi a sedere o camminare è lo stesso, è sempre un rischio, è sempre un rompere i ponti dietro a sé. Infatti coloro che seguivano Gesù rompevano i ponti, perché se scendeva la notte come fare a tornare a casa, fare chilometri e chilometri col timore anche degli sciacalli? Era un rischio. Dio ci chiede questo rischio, questo atto di abbandono. Sapremo noi farlo? Egli ci alimenterà soltanto quando avremo rinunziato ad ogni nostro cibo; Egli sarà con noi solo quando avremo spezzato ogni appoggio; Egli verrà con noi quando noi per Lui saremo entrati nella solitudine: non prima». Ma quale esperienza abbiamo di Dio se non riusciamo a riconoscerlo, se siamo così distratti in mezzo a tante cose da non saper scorgere i segni della sua presenza per non dire che la liturgia stessa diviene spesso solo un rito senza una reale partecipazione interiore? E il motivo di ciò non è forse da ricercare nel fatto che tante volte pensiamo che Dio si debba manifestare in maniera straordinaria mentre è proprio negli eventi più comuni e ordinari della nostra vita che egli si fa sentire? Eppure a volte bastano anche brevi istanti ed è come se il cielo si squarciasse, l’anima avverte il senso di Dio, si spalanca d’un tratto l’abisso dell’infinita grandezza del mistero divino davanti all’abisso dell’estrema sua povertà. E sono momenti di speciale grazia. Barsotti afferma: «Se si pensa che noi stamani abbiamo fatto la comunione e poi ce ne siamo andati in giro per le strade, forse anche a qualche ricevimento, e non siamo tramortiti nel fare la comunione, non siamo morti di spavento nell’accostarci a Nostro Signore, ma abbiamo potuto fare tranquillamente tante cose... se ci si pensa si ha paura! Come noi possiamo vivere in contatto con Dio rimanendo tranquillamente gli stessi di prima? …Avviene che ogni tanto Dio si rivela all’anima, e l’anima, anche negli avvenimenti più comuni, intravedendo questa infinita grandezza, rimane come tramortita, senza parola. Un avvenimento il più ordinario della tua vita, se Egli si scopre, ti sgomenta, ti paralizza…». 9


Ancora, il brano della tempesta sedata ha un valore quanto mai esemplare per noi. L’uomo è nostalgia di Dio, ma è Dio che agisce per primo nel cuore dell’uomo, che accende nell’anima il desiderio di lui, che attrae a sé l’anima irresistibilmente e la chiama. Ma come può l’anima giungere a Dio se tra noi e Lui vi è un abisso invalicabile? Sì, è vero, a Dio si giunge solo per mezzo dell’umanità di Gesù, ed è Gesù stesso che ci invita ad andare verso di lui con fiducia come un giorno Pietro, ma per incontrarci con Dio occorre comunque un miracolo, un miracolo continuo per superare tutte le nostre paure e non affondare come Pietro camminando sulle acque. Ed è appunto la fede che ci sostiene nel nostro essere sospesi come sul nulla o camminando sull’acqua. Diceva san Giovanni della Croce, e Barsotti ripete, che la grandezza di un’anima si misura dalla sua fede. E commenta ancora: «Aver fede è come camminare sull’acqua, è come esser portati sulle ali del vento, come dice il Salmista ( Sal 17, 11), e il vento è lo Spirito. In una fede pura in Dio gèttati nelle sue mani, gèttati nell’impeto dello Spirito, perché Egli ti porti. Non aver più timori né angustie: lo sgomento, il dubbio ti farà precipitare, affondare». Un ulteriore passo avanti ci fa capire che la fede è sempre qualcosa di eroico e che non saremo veri uomini di fede finché non saremo santi. Circa le discussioni di Gesù sulle tradizioni farisaiche una frase di don Divo in quegli anni colpisce particolarmente a proposito della purezza della fede come quella dei santi, cioè di una adesione totale a Dio senza compromessi di fronte alla tentazione continua nella Chiesa di far servire Dio a se stessi, alla propria autoaffermazione, ai propri egoismi e ambizioni. Leggendo Barsotti si sente risuonare ancora vivo e ardente il suo desiderio e la sua speranza che nuove figure profetiche, nuovi santi, facciano ringiovanire la chiesa: «Quando sarà che un nuovo san Francesco di Assisi, un nuovo sant’Ignazio di Loyola sorga e rinnovi, ringiovanisca la Chiesa, la liberi dalle incrostazioni della potenza umana, da questa ipoteca che le hanno messo sopra i nostri egoismi, le 10


nostre ambizioni, la nostra sensualità e anche la nostra incredulità, di noi, figli di lei, di noi ministri dei suoi sacramenti, di noi annunciatori della Buona Novella? Quando sarà? Il mondo dice che la Chiesa è superata: effettivamente solo un ringiovanimento della Chiesa potrebbe dare di nuovo a questa massa umana, che ormai non ha più fede in lei, il senso che la Chiesa non è un monumento del passato, ma ha le chiavi dell’avvenire». Sì la Chiesa ha davvero le chiavi dell’avvenire in quanto Gesù ha detto a Pietro quel giorno: «A te darò le chiavi del Regno dei cieli» conferendogli il potere di sciogliere e legare. Veniamo dunque alla parte veramente centrale di questo vangelo, cioè alla confessione e al primato di Pietro. Senza entrare nei dettagli non possiamo innanzitutto non accennare al significato e al valore del cambiamento del nome del primo degli apostoli. Ben a ragione Barsotti sottolinea come l’apostolo Pietro si identifica alla sua funzione, tanto questo è vero che il nome che ha ricevuto dal Cristo non è stato tramandato come quello degli altri apostoli, cioè non è stato semplicemente traslitterato in altre lingue come gli altri nomi ma è stato appunto tradotto perché fosse chiaro quello che il suo nome significa, per dire che era importante la funzione che quel nome voleva significare: Pietro è la roccia su cui è fondata la Chiesa. «“Kephas” è divenuto “Petròs”… non hanno tradotto in consonanti greche la parola detta da Gesù, perché rimanesse quella parola: non era un nome, era una cosa. Egli era la “pietra”. I cristiani dovevano sapere benissimo che egli era la roccia». Ora anche se per noi cattolici il primato petrino ha il suo fondamento sulla persona stessa di Pietro prima che sulla professione di fede dello stesso, tuttavia non possiamo prescindere da quest’ultima in quanto strettamente unita comunque, nella redazione di Matteo, al conferimento del primato. Ed è certamente in tale confessione che troviamo il vertice dell’itinerario di fede. Una fede che non è più un fatto privato ma è la fede di tutta quanta la Chiesa, espressa appunto attraverso la voce di colui che sarà il vicario qui in 11


terra del Supremo Pastore. Giustamente scriveva san Leone Magno nei suoi sermoni: Tu es Christus filius Dei vivi quotidie Petrus dicit – ogni giorno Pietro dice: “Tu sei il Cristo il Figlio del Dio vivente”. Avere fede non vuol dire affermare quello che si pensa su Dio e su Gesù, men che mai affermare un ideale, una dottrina, ma rispondere alla domanda che Lui ti rivolge, che riguarda Lui direttamente, non le sue parole, non la sua dottrina o il suo insegnamento. «Ma voi chi dite che io sia?». Quello che conta qui è la tua risposta a quella domanda fondamentale, perché da quella risposta dipende tutto, dipende la tua vita e il tuo destino. La fede implica un lasciarsi interpellare da Gesù per fare nostra oggi la stessa confessione di fede di Pietro. Ecco quanto Barsotti afferma con profonda convinzione di fede ed enfasi piena di pathos: «Chi è Cristo? Gesù non ti chiede che tu giudichi la sua dottrina, che tu emetta un giudizio su quello che Egli dice: Egli vuole da te una confessione su di Lui, su Lui stesso. Questa e la cosa importante; ed è in questa domanda non soltanto l’originalità del cristianesimo, ma il fatto centrale della storia del mondo, il fatto centrale della vita di ogni uomo. Chi è Cristo? L’umanità vive soltanto per dare una risposta a questa domanda: l’uomo non può eluderla. Può essere che l’uomo non si sia incontrato con Cristo, non lo abbia conosciuto; ma se un giorno lo conosce, se gli uomini un giorno si incontrano col Cristo, questa domanda si pone ed è questa domanda che determina tutto. È veramente un vertice. Di fatto, proprio perché è un vertice, essa crea due versanti: divide gli uomini secondo la risposta che gli uomini daranno, li divide in modo assoluto». Il tema della fede si qualifica sempre di più man mano che il discorso sulla chiesa si va approfondendo. Così nella ben nota frase di Gesù «Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli» e in tutto il brano ( Mt 18, 1-10) Barsotti si mostra molto attento a cogliere il senso religioso prima di quello etico. Avere fede vuol dire divenire come bambini, ed è ben più di una infanzia spirituale: è una nascita eterna 12


nel fondo dell’anima, come insegna Meister Eckhart nei suoi sermoni. Interessantissimi al riguardo le considerazioni sul piano della psicologia del profondo in senso junghiano piuttosto che freudiano: la fede cristiana intesa come nostalgia delle origini e rinascita continua, un risalire alle origini oltre il tempo per ritornare figli nel Figlio nel grembo di Dio, nel seno del Padre, lì dove dimora il Suo Verbo, il Suo Unigenito Figlio, dall’eternità. E non meno rilevante è il fatto che lo spunto viene dalla stessa liturgia della Chiesa. Un tema attualissimo e di grande portata a livello di rivelazione cosmica soprattutto per il richiamo alla fecondità dello Spirito Santo che ricevuto nel battesimo opera nel cristiano una continua rigenerazione. Non può sfuggire poi l’espressione “rugiada del cielo”, espressione che riferita alla Spirito Santo richiama la formula consacratoria dell’eucarestia che tra l’altro è stata ripristinata nel nuovo messale. Val la pena qui riportare ampi stralci del commento. «Qui ci vorrebbe uno psicologo come lo Jung a interpretare il testo di Gesù... tutta la vita umana non è che un’aspirazione a ritornare nel grembo materno, nel seno della terra, un rinnovarsi continuo...Attraverso la madre, l’uomo, secondo lo Jung, vede la madre terra, e attraverso la madre terra va ancora più a fondo, all’Archetipo, alla sua generazione da Dio, alla sua creazione primitiva; vuole una nuova innocenza, vuole uscire di nuovo dalle mani dell’Onnipotente. La conversione comporta proprio questa rinascita: tornare nel seno del Padre… Che dire di certi Oremus? L’Oremus per esempio dello Spirito Santo che parla della rugiada celeste. Si impone una rinascita. Bisogna ritornare veramente nelle mani di Dio, anzi nel seno del Padre. Tutta la vita cristiana è un ritorno al battesimo, e anzi un vivere il battesimo. Ma non si vive la grazia del battesimo che in quanto noi si ritorna dentro le acque: le acque della madre, cioè della Chiesa. Il bambino nel ventre della madre e nelle acque; bisogna ritornare dentro queste acque. Tutta la vita cristiana è un ritornare dentro, un sommergersi dentro, non un emergere, non un venir fuori: un entrare per rinascere puri, per rinascere nuovi! 13


La novità della vita cristiana! Guardate che quanto più siamo cristiani tanto più siamo nuovi! Tanto più, cioè, noi perdiamo questa successione del tempo, questa vecchiezza che ci distanzia dalla nascita, quanto più non interponiamo più nessuna successione di tempo e nessuna successione di anni fra l’emergere puro dalle acque materne e la resurrezione! Tutto il nostro cammino, dunque, è un nascere, un rinascere». Ora, dal momento che la fede non è mai qualcosa di intimistico e privato, ma è la fede di tutta la chiesa, non possiamo non richiamare qui il legame tra fede e carità fraterna. La carità dunque. È quest’ultima in definitiva che diviene l’ambito di verifica e il termometro della fede. Ed è il vangelo stesso d’altra parte che ci riporta verso la fine di questa sezione alle norme che devono regolare i rapporti all’interno della comunità ecclesiale. In realtà non si parla tanto di carità in maniera diretta ed esplicita qui, è vero, quanto piuttosto di correzione fraterna, tuttavia dal tenore del discorso di Gesù si comprende come quest’ultima è vera ed autentica solo se scaturisce ed è informata dall’amore. Barsotti osserva: «In questi versetti c’è tutta la pena, tutta l’ansia di un amore che non si vuol dare per vinto. Non si considera tanto l’ostinazione del peccato quanto l’ostinazione dell’amore, il voler riprendere colui che vuole sfuggire, il voler legare colui che si voleva sciogliere, il voler riprendere nell’abbraccio della carità colui che aveva offeso questa carità». Tutto questo è spiegato in maniera ancora più chiara e convincente nella misura in cui il potere di sciogliere e legare che la Chiesa ha sul piano sacramentale viene esteso anche all’ambito dei rapporti fraterni. Anche qui si può parlare di un certo “potere sacramentale” della carità. «Quello che il tuo amore ha voluto, quello che il tuo amore ha operato rimane, Dio lo ratifica… un certo potere sacramentale della carità si deve pur riconoscere che noi l’abbiamo. Troppo spesso noi vediamo soltanto nel sacerdote un ministro di grazia: lo siamo gli uni per gli altri, continuamente. Nella nostra unione fraterna, nel nostro rapporto umano noi viviamo continuamente il nostro rapporto con Dio. E Dio lo ratifica, Dio 14


compie nel cielo quello che noi compiamo quaggiù sulla terra. Sul piano divino, sul piano della carità che ci unisce a Lui e che ci dona la sua vita, Egli ratifica quel poco che noi sappiamo fare e che noi possiamo fare quaggiù». A questo punto occorre però notare come mentre si dettano le regole di vita della comunità si introduca un discorso sulla preghiera. Ciò è segno evidente che il legame tra fede e carità è reso possibile proprio dalla preghiera. Si vive infatti la carità fraterna nella comunità ecclesiale se si vive la dimensione profondamente misterica della Chiesa in quanto è la preghiera l’atto costitutivo della comunità. La preghiera è l’atto mediante il quale la moltitudine diviene una cosa sola, ed è l’atto del Cristo che si fa presente, non come un terzo che si aggiunge ma come colui che fa l’unità del suo corpo. Bastano anche due persone e tutta la Chiesa è presente. Addirittura ogni battezzato nella Chiesa è tutta la Chiesa, in quanto non esiste come singolo ma come “soggetto di comunione”. A tal proposito Barsotti amava spesso citare una famosa espressione di san Pier Damiani: Ecclesia est in omnibus una et in singulis tota. La Chiesa è nello stesso tempo una nella pluralità dei suoi membri e tutta quanta in ciascuno. Il mistero della comunione nella chiesa riproduce quella comunione d’amore che è in Dio Trinità: qui è l’unità della natura nella distinzione delle persone divine, là è l’unità di tutti i credenti nel corpo di Cristo: «La comunità è Cristo, e l’atto del Cristo è la preghiera, la lode: tutta la comunità non vive che per la preghiera; e la comunità, d’altra parte, è qualche cosa di più che una riunione di uomini: due uomini, siano pure peccatori, siano deboli, siano bambini, son sempre il Cristo; l’umiltà della loro natura, la povertà della loro vita spirituale non toglie nulla alla grandezza di una presenza del Cristo. Cristo si fa presente». Solo allora si vive la carità fraterna, quando davvero il Cristo è presente, quando l’atto del cristiano diviene l’atto stesso del Cristo, l’atto di Dio che ama. Non possiamo non citare la riflessione conclusiva di Barsotti a proposito del perdono nella parabola dei due debitori con cui termina questa sezione del vangelo. Il filo conduttore è 15


la carità fraterna: «“Da questo conosceranno che siete miei discepoli”, perché la carità fraterna è il segno visibile di una grazia invisibile, è il segno precisamente di una presenza misteriosa di Dio nel cuore dell’uomo. La carità fraterna è il sacramento della presenza operante di un’agàpe divina, è il segno di una comunione ineffabile che lega ormai gli uomini a Dio e Dio agli uomini tutti. Senza la carità fraterna Dio stesso ritorna al suo puro mistero, al suo puro silenzio: tu non lo conosci più. Egli non si rivela più, perché Egli neppure si fa più presente fra gli uomini». Padre Martino Massa CFD

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Nota

Purtroppo nelle meditazioni di Barsotti quasi mai sono riportati per esteso i brani del Vangelo. Pertanto è difficile stabilire quale traduzione del Vangelo egli ha utilizzato. Sembra che egli si sia servito di diverse traduzioni scegliendo liberamente di volta in volta ora l’una ora l’altra. Tra queste solo una è facilmente individuabile: è quella che sicuramente Barsotti ha preso dall’edizione italiana del commento a Matteo di Josef Schmid, autore consultato e citato varie volte nelle sue meditazioni su Matteo. Dalle citazioni risulta che egli ha utilizzato la seguente edizione: J. Schmid, L’evangelo secondo Matteo, Brescia, Morcelliana, 1957. Sulle altre versioni da lui usate si possono fare solo congetture a motivo della lacunosità del testo. Dovendo comunque scegliere per questioni di uniformità una sola tra le tante traduzioni italiane esistenti abbiamo optato per l’ultima versione CEI che si trova nella Bibbia di Gerusalemme.

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Meditazioni sul Vangelo di Matteo Capitoli 14-18



Esecuzione di Giovanni Battista

Mt 14, 1-12 In quel tempo il tetrarca Erode ebbe notizia della fama di Gesù. 2Egli disse ai suoi cortigiani: «Costui è Giovanni il Battista risuscitato dai morti; per ciò la potenza dei miracoli opera in lui». 3 Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodiade, moglie di Filippo suo fratello. 4Giovanni infatti gli diceva: «Non ti è lecito tenerla!». 5Benché Erode volesse farlo morire, temeva il popolo perché lo considerava un profeta. 6 Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodiade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode 7che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse domandato. 8Ed essa, istigata dalla madre, disse: «Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». 9Il re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data 10e mandò a decapitare Giovanni nel carcere. 11La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la portò a sua madre. 12I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù. 1

Siamo giunti alla parte centrale del Vangelo di san Matteo. Prima si è avuta una specie di introduzione – il Vangelo dell’infanzia – poi si inizia il Vangelo propriamente detto, che è anche l’inizio del ministero pubblico di Gesù che entra nella scena del mondo preannunciato e additato da Giovanni il Battista come Colui che doveva venire, ed è battezzato da lui 21


dovendo questo battesimo essere l’inizio precisamente della missione del Cristo. Si inizia ora la parte mediana del Vangelo. Non più il lento aprirsi di questa nuova era messianica, ma il pieno entrare del Regno di Dio nel mondo nella confessione di Pietro e nei segni messianici che distinguono propriamente il ministero pubblico del Cristo: la moltiplicazione dei pani, la trasfigurazione... L’introdursi del Cristo nella scena del mondo, anche in questa parte del Vangelo come nella prima parte, ha una funzione primordiale: Giovanni il Battista, il profeta che annunciò e introdusse Gesù nella scena del mondo, all’inizio, sul limitare di questa parte centrale, è ancora presente. Ma ora Giovanni il Battista non predica più, non battezza più. Ormai l’Antico Testamento è venuto meno, tutta la sua funzione è finita: la preparazione ha dato luogo finalmente all’adempimento. E così l’Antico Testamento scompare, e rimane solo Gesù. Finora l’Antico e il Nuovo coesistevano, Gesù era ancora del popolo di Israele. Ora invece l’opposizione che la nazione in qualche modo ha manifestato già nei suoi capi realizza una divisione: nasce il nuovo Israele e l’antico Israele scompare. Non scompare storicamente, scompare come popolo eletto, scompare perché in qualche modo ripudiato da Dio nei suoi capi. Solo Gesù rimane. Sul limitare della seconda parte Giovanni non appare più nemmeno direttamente; si parla di lui come già morto, se ne parla, sembra incidentalmente, a proposito di una parola di Erode nei confronti del Cristo: «È Giovanni resuscitato», dice Erode (Mt 14, 2). Poi Matteo apre una parentesi; Giovanni, infatti, era stato ammazzato. Non ha più peso, non è in primo piano, Giovanni; si parla di lui come di una cosa ormai passata, che non ha più alcuna funzione. La figura di Erode Vediamo allora che cosa ci insegna prima di tutto la parola 22


di Erode, secondariamente il racconto che Matteo fa della morte di Giovanni il Battista. Dice Matteo che Erode ebbe notizie di Gesù, e il commento che fa Erode al sapere quello che Gesù compie è il commento di uno che era stato impressionato dalla grandezza morale dell’ultimo dei profeti e dal rimorso che provava per avergli dato la morte. Risulta da questo passo, come da altri passi dei vangeli sinottici, che Erode era quasi conquistato dalla potenza di Giovanni il Battista; e questo risulta anche dagli ultimi capitoli dei vangeli sinottici quando, nella cattura di Gesù, Erode vuol ritrovarsi di fronte a Lui per liberarsi del suo rimorso (Lc 23, 8). Forse Giovanni non è morto, vive ancora – poteva pensare – la morte che io ho ordinato e che mi è stata carpita non ha avuto effetto! Erode dunque crede che in Gesù si incarni in qualche modo la forza stessa di Giovanni cui egli ha dato la morte. Erode non è di fronte all’avvenimento messianico: egli crede nella potenza taumaturgica di Gesù come aveva creduto nella potenza taumaturgica di Giovanni, ma né Giovanni era per lui l’annunciatore del Cristo, né Gesù era Colui che era stato promesso dai profeti. Continuava l’Antico Testamento, continuava l’antica alleanza in una presenza attiva di Dio in questo popolo che suscitava, come Egli voleva, degli uomini che erano testimoni della elezione divina. In fondo, in questa presentazione di Erode, Matteo e tutti i vangeli sinottici ci dicono come il peccato di Erode impedisse alla sua anima naturalmente religiosa di accedere al mistero. Noi ritroveremo questo anche negli Atti degli Apostoli quando Paolo parlava a Felice e Felice non accettava la testimonianza di Paolo perché anche lui moralmente non aveva una condotta esemplare (At 24, 22 ss.). Sono anime chiamate da Dio, anime nel cui fondo la grazia lavora ma il peccato impedisce che la luce si faccia nel loro cuore, pure aspirando, pure cercando! Si vede quale importanza abbia, per accedere alla fede, la disposizione morale di una coscienza: essa deve liberarsi dal male, dal peccato. Trovare Dio non si può per un cammino soltanto di intelligenza, nemmeno per un solo 23


cammino di pietà: ci vuole la purezza del cuore, ci vuole una disposizione di umiltà, di obbedienza, di purezza interiore. Erode è indubbiamente presentato piuttosto bene in tutti i vangeli sinottici. L’unico che ne parla male è Nostro Signore: «Dite a quella volpe...», dice Gesù (Lc 13, 32). Ma i vangeli sinottici non sono di questo parere. Certo, mica che gli evangelisti vadano contro un giudizio dato da Nostro Signore! Ma certo i vangeli sinottici, quando ci presentano Erode, ce lo presentano in una luce piuttosto benevola che malevola: lo si vede qui. San Matteo nei racconti condensa le cose: anche a proposito di Giovanni dice qui che Erode lo voleva uccidere, ma non è mica vero! Chi lo voleva uccidere era la donna con la quale conviveva; lui aveva cercato di salvarlo fino all’ultimo, perché «ne aveva paura», dice il Vangelo di san Marco (Mc 6, 20): aveva paura di questa forza, di questa potenza misteriosa di Dio che era in lui. Erode era un’anima religiosa che avvertiva il mistero della vocazione divina di Giovanni. E così poi avrà paura di trattare con Cristo; non lo vorrà liberare perché anche lui, come Pilato, non vuole inimicarsi la folla inferocita contro Gesù, ma cercherà di salvarlo nel migliore dei modi, meglio anche di Pilato, vestendolo da pazzo (Lc 23, 11). I pazzi in fondo erano protetti nell’antichità: non si potevano toccare, perché erano considerati come invasati da una forza soprannaturale. Erode veste Gesù da pazzo forse per liberarlo, per salvarlo; scherza su di Lui, lo sottopone alla beffa quasi per evitare di sottoporlo alla pena, alla condanna. Era questo un certo modo per salvare Gesù. Erode si trova di fronte al mistero di Dio, e ha paura. Non ama: ama la moglie di Filippo suo fratello, non Dio. Non ama Dio ma lo teme. Però questo timore non essendo sufficiente a liberarlo dal peccato non gli dà la capacità di riconoscere Dio che viene, di accogliere la grazia; e come, nell’occasione, egli non potrà liberare dalla morte Giovanni, così ora, nella presenza del Cristo, egli non avrà la capacità di riconoscerlo come il Figlio di Dio, come Colui che i profeti avevano promesso; egli pensa che è Giovanni che è risorto e che la po24


tenza di Dio agisce in lui, una potenza però che non giudica, che non condanna gli uomini, che non salva le coscienze: egli piuttosto sta a vedere i miracoli, i miracoli di un Dio che si vuol manifestare, che vuol dare la dimostrazione della sua potenza agli uomini, non per salvarli e neppure per condannarli. Erode vuol vedere qualche miracolo di Gesù per divertirsi! E così rimane staccato da Dio, si chiude ancor più a questo intervento divino nell’intimo del proprio cuore. Se Erode vuole che Dio gli faccia vedere dei miracoli, non gli permette però di entrare nella propria coscienza per esser liberato dal proprio peccato, non gli permette di entrare nella propria anima per esser salvata dal male. Erode vuol vedere Gesù per vedere i miracoli che Egli poteva fare, non per ascoltare la sua parola, né tantomeno per accogliere la sua legge. L’anima religiosa di Israele chiusa nel timore non riconosce Colui che è venuto. In Erode, che indubbiamente è l’uomo più rappresentativo della nazione ebraica, in Erode che non riconosce il Cristo, è tutta la nazione che ormai è chiusa e non lo accoglie più. La nazione ufficiale ormai è chiusa: nemmeno lo rifiuta! Non lo ha riconosciuto! Certo, il non riconoscerlo derivava dal peccato. Ecco l’opposizione, anzi, l’estraneità. Gesù solo è presente, si diceva. Giovanni il Battista muore, perché Israele ormai si è reso estraneo a quel Dio che lo aveva eletto. Ora Matteo parla, come per incidenza, di questa morte di Giovanni il Battista. No, no, Gesù non è Giovanni il Battista: Giovanni il Battista è morto, e in che modo è morto! In che modo muore l’Antico Testamento con Giovanni Battista? In un festino, in un banchetto, non di nozze ma di peccato, di adulterio, di incesto, di lussuria e crudeltà. Muore nei bagliori sinistri di questo lusso obbrobrioso, di una festa che è la sfacciata esaltazione del vizio. Erode che temeva Giovanni non ha accolto però la sua parola, accoglierà invece la parola di una bella fanciulla che danza. Ecco chi ascolta Israele: Israele è chiuso ad accogliere la Parola di Dio. Erode accoglie la parola della ballerina, si piega al suo volere. È pauroso l’insegnamento che ci viene da questa pagina: 25


ci dice che l’uomo è capace di qualunque cosa quando lascia anche una sola fessura aperta al male. Quale rovina, quale devastazione si può compiere! Erode stesso è trascinato a compiere il peggiore dei misfatti, perché egli sa che il Battista è l’uomo di Dio; non lo riconosce come il profeta che aveva annunciato il Cristo, ma lo riconosce come uomo di Dio, e pur riconoscendolo e temendolo e avendo per lui anche una certa venerazione, è portato tuttavia, per questa fessura che ha lasciato aperta nel suo cuore al vizio, a operare questa suprema devastazione: con le sue stesse mani distruggerà quanto di grande egli ha riconosciuto, egli stesso darà la morte a questa presenza divina che egli temeva e venerava, che egli anche ascoltava. San Marco ci dice che Erode faceva con Giovanni il Battista dei discorsi segreti e importanti. È pauroso quel che ci dice questo brano evangelico: non c’è nulla di più grave, di più pauroso; ci fa vedere fin dove ci può portare il male, di che cosa l’uomo è capace. È impossibile anche renderci conto della grandezza cui ci può portare la grazia divina se noi lasceremo anche un pertugio a questa grazia perché entri nel nostro cuore, ma è impossibile anche immaginare la devastazione che può produrre il male in noi se noi lasceremo anche un solo pertugio perché il male si infiltri nella nostra coscienza. Se noi non arriveremo all’ultimo dell’abiezione è perché Dio lo impedirà nella sua misericordia: senza questa misericordia in noi potremmo scendere nel più basso del male. Se noi non raggiungeremo le supreme vette della santità, lasciando a Dio appena un pertugio perché Egli possa insinuarsi nell’anima, è perché una volta aperto il nostro cuore poi lo vorremmo richiudere, poi vorremmo in tutti i modi impedire alla grazia di portare a effetto quanto ha intrapreso nell’anima nostra. L’uomo è immenso, nel bene e nel male! Erode è un’anima religiosa! Può sembrare strano, ma è così. Altra cosa è il senso religioso della vita, altra cosa è la moralità. Che Erode abbia il senso di Dio si vede ogni qualvolta ci appare nei vangeli; eppure è Erode che arriva a dar 26


l’ordine di uccidere il Battista! Pilato non arriverà a tutto questo: è meno diretta la sua partecipazione al delitto nella morte del Cristo. Erode arriverà a questo! Lussuria e crudeltà, il ballo e la morte; e come trionfo della lussuria e della crudeltà, la testa mozza portata nel piatto, come ultimo cibo a soddisfazione dei commensali, in questa orgia di peccato che, incominciata col ballo, è finita nella decapitazione dell’uomo di Dio. Ecco come termina l’Antico Testamento! In questi bagliori sinistri. Questa è la pagina che dice precisamente la fine dell’antica alleanza. Ora non è più il profeta il testimone di Dio. Ora solo il Cristo; solo, perché Erode non lo riconosce, ha paura piuttosto che in lui sia risorto Giovanni della cui l’uccisione egli sente tutta la responsabilità; ha paura anche perché sa che il suo delitto nulla può contro i divini decreti, contro la potenza di Dio. Erode non ha certo potuto sopprimere la forza che agiva in Giovanni, perché chi agiva in Giovanni era Dio, e se egli aveva ucciso il profeta non aveva potuto uccidere Dio. La presenza di Gesù era come una manifestazione anticipata di una condanna. Erode non riconosce Gesù come Dio, non riconosce Gesù come il Cristo: riconosce l’inanità almeno della presenza del Cristo, della morte che egli aveva dato a Giovanni. Un profeta era morto e lo accusava, ne risorgeva un altro per accusarlo ancora. Egli rimaneva nel suo peccato: la sua potenza non poteva salvarlo, non poteva difenderlo dalla condanna.

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