Serena Milaneschi
nasce ad Arezzo nel 1985 e si laurea in letteratura dell’America del Nord alla facoltà di Lettere e Filosofia di Firenze. La Val di Chiana è la sua casa, ma Firenze è la sua città. Fin da bambina resta incantata quando le raccontano le storie e scrive racconti da che si ricorda. È profondamente innamorata della letteratura in ogni sua forma, da quella per bambini, alla poesia, fino ai grandi classici europei e statunitensi. Nel 2013 pubblica Negli occhi di chi guarda (Giovane Holden Edizioni).
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Serena Milaneschi
Undici storie che raccontano la ricerca di una tenerezza che sembra scomparsa, personaggi che vivono nella polvere e dalla polvere cercano di risollevarsi, storie di vita e drammi quotidiani ma anche storie d’amore, di quell’amore che unico riesce a guardare con compassione e tremore. Il titolo, che riprende la celebre poesia di Alda Merini, Non voglio dimenticarti amore, racchiude il bisogno disperato di uno sguardo d’amore proprio nelle storie di vita più comuni, uno spiraglio di luce che squarci la tenebra dell’indifferenza e della mediocrità. «Bastava una inutile carezza a capovolgere il mondo»: persino nelle storie più semplici, la tenerezza si rivela l’arma più forte per risollevare lo sguardo, sempre.
Bastava una carezza
«bastava una carezza, solo un gesto di tenerezza per ricominciare a vivere»
Serena Milaneschi
Bastava una carezza Racconti
SocietĂ
Editrice Fiorentina
© 2015 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-361-3 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Foto di copertina © lolostock.com Copertina a cura di Andrea Tasso, borgoognissantitre
Di sotto al cappello abbassato sul viso, Achab lasciò cadere una lacrima nel mare; e tutto il Pacifico non conteneva ricchezze pari a quell’unica piccola goccia. (Herman Melville, Moby Dick) L’unica cosa che valga sul serio è la tenerezza. (Evgenij Aleksandrovič Evtušenko)
A Matteo, all’uomo che è. A Elia, all’uomo che sarà.
Ringrazio i miei figli che, ogni giorno, mi mostrano cosa sia la tenerezza. Occhi di terra lei, occhi di cielo lui.
Bastava una carezza
Il vigneto
Il banco frigo era mezzo vuoto e sul tavolo del pane c’era rimasta una focaccia del giorno prima. La verdura era finita e nel cesto della frutta c’era una mela su cui ronzava una mosca. Era giovedì e Nora non c’era. «Allora Lapo, cosa ti do?». Non sapevo cosa rispondergli, ero lì solo per vedere Nora, era giovedì e Nora non c’era. «Lapo?». «Quella focaccia, grazie». La padrona della bottega era una vecchia con i capelli tinti di nero e le calze arrotolate sulle caviglie gonfie. Portava sempre gonne ampie e si lamentava dei dolori alle gambe. Mi rendeva nervoso perché faceva sempre un sacco di domande e mi fissava. «Allora, com’è andata la vendemmia quest’anno?». La vendemmia era finita due mesi prima e lei sapeva benissimo che non era andata bene, che il nubifragio che c’era stato a giugno aveva dimezzato il vigneto. «Insomma, poco vino». «Poco vino, eh? E il prossimo come sarà?». Faceva di queste domande che non richiedevano risposta e le poneva a voce alta, per farsi sentire da tutti i clienti della bottega. Presi la busta con la focaccia e feci per andarmene quando la sentii dire: «Oggi la Nora è in città con il suo fidanzato», lo disse a una signora che neppure glielo chiese e la vidi lanciarmi un’occhiata. «Le ho detto “Nora, ci sarebbe parecchio da fare 11
in bottega ma volesse il cielo che ti fidanzi! Vai e divertiti!”, che dovevo fare?» e rise forte. «Hai fatto bene Domenica, la Nora è giovane e bella e deve divertirsi», replicò la signora che si sentiva in dovere di rispondere a quell’annuncio gratuito. Io me ne andai, salii sulla bici e pedalai verso casa. Nora era con un uomo in città. Sarà stato vero? Avevo qualche volta il dubbio che la Domenica si divertisse a raccontarmi balle per prendersi gioco di me o forse per tenermi lontano da Nora. La mia casa era proprio dove cominciava il vigneto che si estendeva per quindici ettari nelle colline intorno. Era un rustico dei primi anni del Novecento che il proprietario del vigneto aveva ristrutturato per il cantiniere. Da fuori sembrava una casa signorile con gli archi sopra le finestre e un piccolo stemma mediceo sopra al portone di legno verde ardesia. Era un portone molto imponente e dava importanza alla casa. Il padrone aveva ristrutturato solo un terzo della casa e io vivevo praticamente in due stanze oltre al bagno, il che mi andava bene perché stavo sempre in cucina. La cucina era piccola ma la stufa a legna la rendeva intima e accogliente. La prima cosa che facevo, ogni sera appena tornavo a casa, era accenderla; il rumore delle fiamme che scoppiettavano mi faceva sentire meno solo, mi pareva che ci fosse qualcun altro nella stanza. Avevo messo un divano che faceva anche da letto e capitava spesso che passassi le notti lì, davanti alla stufa con la televisione accesa. Soprattutto d’inverno, quando pioveva tanto e in camera da letto gocciolava l’acqua dal tetto. L’altra ala della casa, che era più della metà, era chiusa da un portone interno, da cui passavano gli spifferi del vento e qualche scarafaggio. In cucina, eccetto la stufa, il divano, un mobiletto rosso con due cassetti che faceva da dispensa e il tavolino dove mangiavo, non c’era altro. Oltre alla televisione. Poteva sembrare squallida ma quella stanza calda e illuminata dal fuoco della stufa era il mio mondo, oltre alla cantina. 12
Quando aprii il portone Totò era lì ad aspettarmi e mi fece le fusa strofinandosi alla mia gamba. «Lo so che hai fame, Totò». Io invece non avevo granché fame, presi la focaccia e mi stesi sul divano, davanti alla televisione. Nora non può avere un fidanzato. E dove lo tiene nascosto? Non si è mai visto qui in paese e mi sarebbe giunta la voce. La Lia sicuro me l’avrebbe detto, quella è un gazzettino. Dio, forse avrei dovuto chiederle di uscire. Il vento si era alzato e mormorava tra le foglie degli alberi e si agitava nella canna della stufa. La porta di camera sbatteva per via degli spifferi che entravano dalle finestre e la fiamma della stufa si dimenava in lotta con i soffi del vento. La casa era molto isolata e all’infuori della cantina non c’erano case nel raggio di quattro chilometri. Di notte, soprattutto, era così buio che se uscivi non vedevi a un metro dal tuo naso. Solo con la luce della luna si poteva vedere qualcosa ma forse quel posto non piaceva nemmeno a lei, tanto si vedeva di rado. Erano già cinque anni che abitavo in quella casa e avrei voluto cercarne un’altra. Ma non l’ho mai fatto. La verità era che quel posto non mi piaceva e nemmeno il paese. Non avrei voluto trovare un’altra casa in quella zona ma non sapevo dove cercarla. Solo per lei sarei restato. E per il vigneto. Tre anni prima il vigneto era stato attaccato dal mal dell’esca, una malattia della vite che aveva distrutto quasi la metà della vigna. Le piante malate erano state allontanate e riuscimmo a salvarne ben poche, quasi tutta l’uva che era pronta per la vendemmia fu perduta. Il padrone era disperato e lo vidi piangere. Da quel momento la vigna divenne la mia casa e appena finivo le analisi o quello che avevo da fare in cantina, mi precipitavo a controllare i tralci, le foglie, i grappoli d’uva, la terra. Passeggiavo per i filari e accarezzavo le foglie, affondando gli scarponi nella terra. C’era silenzio e ogni sera il sole tramontava su di me e d’estate mi facevo cullare dall’odore del mosto. Il sole sorgeva e moriva dalla collina e io me ne stavo lì piantato su quella terra che amavo più di me stesso. 13
Quella mattina la nebbia si era alzata tanto da coprire il vigneto, i filari si perdevano nel pallore del cielo e la nebbia si abbassava sempre di più fino a toccare la terra, gli scarponi scomparivano nelle nuvole. I mesi che seguono la vendemmia si passano in cantina e quel giorno dovevo cominciare a fare i travasi per far ossigenare il vino e separarlo dalle fecce più grossolane. Per togliere gli ultimi ettolitri di vino dovevo sporgermi dentro il tino con un tubo, aspirando dalla superficie. Tenevo il tubo con entrambe le mani e più aspiravo più si faceva pesante e lo tenevo a fatica. Ero invaso dall’odore acre delle fecce e quello pungente dell’anidride carbonica che ancora persisteva dopo la fermentazione. Fissavo il vino che scendeva e pensavo alla mia vita, a cosa ne avrei fatto. Cosa avrei costruito? A parte il lavoro non avevo niente, ero solo. Chi mi avrebbe voluto bene? Forse era giunto il momento di lasciar perdere Nora. Forse non avevo capito niente e lei davvero aveva un fidanzato. Ma quei sorrisi allora, perché? Perché veniva sempre lei a prendere il vino che serviva alla bottega, mentre avrebbe potuto mandarci la megera o il ragazzo che gli portava le scorte? Perché chiedeva di me quando non mi trovava in cantina? Era dicembre e presto sarebbe stato Natale. Quella sera decisi di andare a dormire in camera da letto, presi Totò e lo portai su, insieme a me. Pioveva forte e mi ripiegai sotto le coperte con il gatto che faceva le fusa. Dormivo profondamente quando fui svegliato da un colpo secco che mi fece sussultare. Pensai fosse stato un fulmine che era caduto su un albero e rimasi immobile, in attesa. Quello che sentii furono i rumori degli sportelli della credenza che sbattevano e dei passi. Erano decisi, agitati. Non riuscivo a muovermi da sotto le coperte ma Totò era balzato sulle zampe e aveva piegato indietro le orecchie. Saltò di volata sotto il letto, lo sentivo soffiare, impaurito. Scostai le coperte e feci per alzarmi quando sentii qualcosa di appuntito pungermi il collo, un coltello, credo. «Dammi tutto quello che hai e non muoverti». 14
Non mi mossi ma non riuscivo ad aprire bocca, ero convinto che fosse un sogno. Ma il coltello si spinse nella carne e sentii tagliarla. «Te la taglio la gola se non mi dai tutto». «Ma io non ho niente», riuscii a farfugliare. «Guarda che sarà peggio per te se mi fai incazzare». «Te lo giuro!». Mi prese per il braccio e mi trascinò fuori dal letto sbattendomi la testa sul muro. Io non riuscivo a muovermi, il sangue scendeva dal naso e me ne stetti lì accovacciato, per un istante. Interminabile. Mi avrebbe ucciso ed ero pronto al peggio. «Ho l’orologio sul comodino e dei soldi nel cassetto!», dissi. Lui prese l’orologio e aprii il cassetto: «Mi prendi in giro? Questo non è niente!». «Ma io non ho niente!» ribadii piano. «Abiti in una villa e mi vuoi dire che non hai niente?». Quello che ricordo di quella notte fu solo questo dialogo perché i calci che seguirono mi fecero perdere i sensi quasi subito. Sdraiato sul pavimento freddo, ricordo il muso di Totò che mi fissava immobile da sotto il letto e i calci che mi alzavano da terra per poi farmi ricadere. Quando mi svegliai, entrava la luce dalla finestra, la faccia mi faceva male e la sentivo gonfia. Aprii gli occhi con difficoltà, Totò era rimasto sotto il letto e mi stava leccando la mano. Pioveva ancora e sentivo scrosciare dentro casa, intuii che la porta era spalancata. Mi alzai a fatica, la gamba destra mi doleva e non riuscivo a respirare bene. Poggiai una mano sul petto, era come se dei vetri si fossero conficcati nella carne, ogni movimento era atroce e mi sentivo svenire. La casa era sotto sopra e i cassetti rivoltati. Era chiaro che il ladro non avesse trovato niente, non c’era niente da trovare. Solo l’orologio e qualche banconota. Guardai la cucina, la stufa spenta e i cassetti sul pavimento. Il frigorifero aperto, come il portone da cui entrava la pioggia, la pozza d’acqua che si era formata nell’ingresso. L’impronta 15
della scarpa impressa nel portone che era stato sfondato con un solo calcio. Mi misi a piangere e più piangevo più il petto mi faceva male e più mi faceva male più singhiozzavo. Mi alzai e uscii, presi la bicicletta e pedalai di corsa sotto la pioggia, l’acqua mi schiaffeggiava il viso tumefatto, gli occhi gonfi semichiusi. Tutto mi faceva male ma non potevo più stare lì e pedalavo piangendo. Quando arrivai davanti alla bottega, la megera stava aprendo il bandone, mi vide e sobbalzò. «Santa Madre di Dio!». «Dov’è?», le chiesi. «Ma che ti è successo?». «Dov’è?», urlai. Quando la vidi arrivare, gettai la bicicletta e m’incamminai zoppicando verso di lei. Nora mi vide e rimase impietrita, capii che dovevo avere un aspetto orrendo. Mi avvicinavo a lei e mai come in quel momento le mie gambe camminarono decise, la fissavo e lei si ritrasse, pensai che dovesse avere paura di me, visto il suo sguardo sperduto. Era ferma in piedi nascosta in un giaccone blu, il berretto che tratteneva i capelli lunghi, color miele e gli occhi neri, quegli occhi neri a cui pensavo ogni sera. L’afferrai per il braccio e la baciai furibondo, con la fronte che colava acqua e il terrore che se fossi morto mai avrei potuto avere quel bacio. La baciai forte e la strinsi a me e piangevo. E la pioggia cadeva su di noi mentre l’alba rischiarava le nuvole nere e il vigneto s’illuminava piano. Ma l’alba era sorta ed era un trionfo di luce. Quello che non sapevo è che lei mi strinse più forte.
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indice
Bastava una carezza
Il vigneto
11
17
Hanno tagliato il grano e sono andate via le lucciole
25
Lo scandalo
33
Bastava una carezza
43
La vicina di casa
53 L’eclisse
61 Solidad
75
La questione del male
83
Tutti quei giorni sarebbero stati nostri
91
Soffio di vento
99
Una parrucca di nome Jessika