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UNGARETTIANA
albertobertoni
SocietĂ
Editrice Fiorentina
traversate
ungarettiana 5
collana di poesia, traduzioni e saggi diretta da Paolo Valesio e Alessandro Polcri
«Ungarettiana» si interessa a un’esperienza di poesia che sappia fare convivere un forte senso della situazione italiana con una significativa apertura internazionale. Nel repertorio della collana rientrano libri monolingui in italiano, libri bifronti (tradotti in italiano) e saggi. Siamo convinti che la poesia sia in prima istanza ricerca di linguaggio e linguaggio della ricerca. Ma quello che noi in ultima analisi cerchiamo non è, come spesso accade di trovare nella lirica contemporanea, un eccesso di esistenza al ribasso, spesso ridotta a catalogo di fatti insignificanti narrati con una lingua scolorita; è, semmai, una nuova e accresciuta quantità di vita e di pensiero. Lo stile sarà la forma di quella quantità e sarà a volte semplice, a volte – perché no? – complesso e seletto. Ma saranno i poeti che sceglieremo a condurci là dove ancora non sappiamo di voler andare.
Alberto Bertoni
Traversate prefazione di
Paolo Valesio
SocietĂ
Editrice Fiorentina
© 2014 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-286-9 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Studio Grafico Norfini - Firenze In copertina Franco Guerzoni, Strappo d’affresco, 2012 (per gentile concessione dell’autore)
per Adriana
In ogni uomo il pensiero, l’espressione, la parola, la voce, così come il moto, hanno un ritmo che è il rapporto di ciascuno con la morte che ha in sé; che è il modo con cui ognuno supera questa morte, cioè incorpora questa morte alla sua vita. (Andrea Emo, Quaderno 253, 1962)
prefazione
una spietata pietà
Fra i critici/poeti che io conosco Alberto Bertoni è il più raffinato nell’equilibrio che sa mantenere fra le due dimensioni del suo lavoro. Ma questo sincero elogio potrebbe suonare come una limitazione della sua poesia, visto che nella critica della poesia un atteggiamento di lieve paranoia sembra avere raggiunto lo statuto di requisito professionale. (È un po’ come quello che accade in certe conversazioni politiche quando qualcuno osa dichiarare di non sentirsi né di destra né di sinistra, e quasi sempre saltano su certi campioni dell’ideologia a sentenziare che questa è già una posizione di destra). Allora voglio specificare che io qui guardo al Bertoni poeta come a uno scrittore autonomo in questa sua attività, senza bisogno di appoggiarmi a quella che peraltro è una componente fondamentale della sua personalità culturale, cioè il magistero bolognese di grande modernista che ne ha fatto uno dei più creativi rappresentanti della tradizione (meglio che “scuola”) di Ezio Raimondi. Analogamente: quando noto ciò di cui sono convinto, vale a dire che Traversate appare come il risultato più maturo raggiunto finora dalla poesia di Bertoni, sono ben consapevole di sfiorare pericolosamente il cliché di tante presentazioni librarie, dove questo apprezzamento si è svuotato fino a divenire un complimento generico – quando non sia addirittura (ancora la leggera paranoia, se vogliamo) un modo maliziosamente diplomatico
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di limitare il valore delle raccolte precedenti. Mi affretto dunque a spiegare chiaramente ciò che intendo con questa osservazione. Nel suo viaggio poetico fino ad ora – un viaggio fatto di risultati sempre alti – Bertoni ha mantenuto e rafforzato certi elementi di scrittura mentre al tempo stesso ne ridimensionava altri. Per esempio, la genealogia montaliana (e Montale è un autore di cui Bertoni è anche critico autorevole) si è nel tempo diluita, così che Bertoni è divenuto completamente proprietario della sua voce. Soprattutto, questa voce si è fatta sempre più ambiziosa – con un graduale processo sul quale avevo già avuto occasione di soffermarmi nel 2003, in una lettera (non so se mai spedita) di quel Natale, parlando di una raccolta uscita nell’anno. Scrivevo fra l’altro: «A una prima sfogliata di libro, e riflettendo sul titolo Le cose dopo, mi era sembrato di veder confermata una certa poetica neocrepuscolare […]. Ma poi, leggendo con attenzione, mi son reso conto che la tua sfida poetica mira più in alto […] la tua sfida-risposta qui va al di là del crepuscolarismo per rivolgersi direttamente al fondatore della modernità poetica: tu stai dialogando con il “dandy” poetizzato da Baudelaire». Ma in Traversate troviamo una tappa ulteriore e diversa, in cui la figura del dandy è ormai scomparsa. In questo libro è giunto a completa fioritura un elemento già presente nella poesia bertoniana: l’elemento della pietas. Ciò che è veramente distintivo peraltro è che Alberto sa evitare il sentimentalismo edificante che spesso (per ragioni umanamente comprensibili) si accompagna alle poesie che mettono a tema il rapporto con i defunti. Alberto taglia netto: il suo è in un certo senso un libro spietato – attributo che uso con valenza nettamente positiva,
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e che in ultima analisi non è un ossimoro. Parlando di spietatezza, infatti, il riferimento è alla rigorosa lucidità della rappresentazione; la quale non indebolisce – tutt’al contrario – l’esplorazione di tenebra e di ricordo. «Parlare con i morti: questo vuole la poesia e a questo si dispone», scrive Bertoni nella prosa che introduce alla sua peculiare Via Crucis; e in un’altra prosa: «Non la morte ma i morti mi raggiungono oggi e mi abitano, come padroni delle notti»; e una delle sue più belle poesie comincia: «Noi dei morti sappiamo / che si vedono poco», ecc. ecc. È qui pertinente ciò che scrive Kierkegaard: «Sii cauto con i morti! Perché chi è morto è una persona che ha finito, che si è deciso; non è come noi, sempre in cerca di avventure, nel corso delle quali possiamo sperimentare molti avvenimenti eccitanti, e dimenticare per diciassette volte quello che avevamo detto. Quando hai detto a un morto: “Non ti dimenticherò”, fai conto che lui ti risponda: “Bene! Puoi stare tranquillo che non dimenticherò mai che l’hai detto”». Ma il pensoso danese esce subito da quel che vi può essere di oscuramente minaccioso in questa riflessione, esortando: «Vai dunque, e fai questo: ricorda i morti, e ciò facendo impara ad amare i vivi disinteressatamente, liberamente, fedelmente. Nei tuoi rapporti con i morti tu hai uno standard su cui puoi misurare te stesso». (Cito dall’informale e acuta antologia compilata negli anni Cinquanta da un grande poeta e ripubblicata nel 1999 da The New York Review of Books: W.H. Auden, The Living Thoughts of Kierkegaard.) Lo standard di Bertoni è certamente alto – ma un momento: di chi esattamente stiamo parlando? Alberto ha una forte fiducia nella sovrapponibilità dell’autore con il soggetto che parla nella poesia – fiducia che alcuni
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di noi non condividono. Ma non è poi un gran contrasto, perché la distinzione è meno netta di quel che può sembrare: in poesia, ogni autobiografia è in fondo un’invenzione e ogni invenzione è fondamentalmente autobiografica. (Peraltro, la differenza fra il poeta che dice “io” e il poeta che si rifiuta di dirlo, anche se non è una distinzione ontologica, pertiene pur sempre al metodo e allo stile; dunque è a suo modo essenziale.) Lo standard di Alberto Bertoni, dicevo, è alto; nel senso dell’intensità della sua pietas. Il ruolo strategico in questo libro è giocato dalla serie di testi in memoria di un amico, definiti da Alberto come «paradosso di una Via Crucis concepita da un ateo per un altro ateo». È di questi paradossi che vive ogni autentico cammino spirituale; e del resto, il dialogo con il non-credente è forse la sfida maggiore di ogni esperienza di fede (specialmente di fede cristiana) oggi. Con l’avvertenza, però, che qui non si parla di dialogo al plurale, fra gruppi o masse di credenti e non-credenti – in occasioni che evocano le dichiarazioni solenni e più o meno diplomatiche; e nemmeno ci si riferisce a un genere letterario abbastanza alla moda: i libretti in cui un più o meno esimio credente discorre con un più o meno illustre non-credente, con una serie di mosse coreografiche. Il dialogo che ho in mente coinvolge il singolo con un altro singolo; e non è tramato su dichiarazioni dirette (nessun vero dialogo lo è), ma si svolge in modo indiretto ed esistenziale, senza pretese aprioristiche di conversione. In fondo, se definire che cosa sia un cristiano è molto difficile, definire che cosa sia un ateo è pressoché impossibile: i due camminano fianco a fianco, ognuno con la sua passione, facendosi (indirettamente, ripeto) coraggio – fischiettando nel buio.
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Un’esperienza come quella appena descritta è per eccellenza – ma non esclusivamente – l’esperienza della poesia. E in effetti io vedo questo “paradosso” come il punto da cui partire per mettere un certo ordine in questa ricca raccolta, tentando una sintesi dei suoi elementi di scrittura. Considero le due pagine di prosa (“Antefatto, vestibolo”) che introducono la Via Crucis come un poemetto in prosa; e sono per me uno dei punti poeticamente più alti di tutto il libro: «Gli ho dato un ultimo bacio fugace, andandomene, vicino alla bocca, distorta negli ultimi disperati tentativi di risucchiare aria»; dove il colpo d’ala è nel dettaglio: «vicino alla bocca». Da qualche parte Jung invita a prestare attenzione ai temi su cui uno continua a fare ritorno nel suo parlare, senza preoccuparsi troppo del tono – positivo o negativo, scettico o convinto – con cui questi temi sono enunziati; e in effetti leggendo poesia mi colpiscono le menzioni, le nominazioni – piuttosto che le valutazioni che potrebbero incorniciarle. Per esempio quando leggiamo: «Credulone, ascolto la badante / vieni, tuo padre dorme / aspetta la tua mano / per svegliarsi» (nella poesia per la morte del padre), è abbastanza inutile chiedersi se la badante o il poeta abbiano la consapevolezza della citazione, così come non è troppo importante decidere se l’epiteto di «credulone» vada inteso in senso forte o debole. Perché quella che in ogni caso persiste è l’eco obiettiva delle parole di Gesù (Gv 11, 11), quando invita i discepoli ad accompagnarlo in un viaggio potenzialmente pericoloso: «Il nostro amico Lazzaro s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». (I discepoli, come ricordiamo, non vedono l’urgenza di questo trasferimento ed esortano il maestro a lasciar perdere, visto che lui stesso ha detto che Lazzaro sta semplicemente dormendo … qui i disce-
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poli, non ancora maturati in apostoli, rappresentano la modernità nella sua terribile vocazione per la superficie.) E allora non posso non seguire questa traccia fenomenologica: in espressioni come «dentro il tuo corpo transustanziato»; nel macro-enjambement fra l’explicit di una poesia («la nostra scena muta alla domanda / Chi è Dio?, rivoltaci bambini al catechismo») e l’incipit della poesia seguente («Per ripugnanza in fondo a pronunciarlo / il superlativo improprio, Perfettissimo») – dove l’appunto grammaticale è giustificato, ma il prezioso superlativo continua a risuonare; nel ricordo di una divergenza rispetto all’amico: «contro il tuo feroce calvinismo» – dove il termine andrà inteso in senso rispettosamente forte, e non degradato a etichetta superficiale – e ne è una riprova il fatto che la frase «il tuo feroce calvinismo» era già apparsa, con riferimento allo stesso amico, in una raccolta precedente: Il catalogo è questo (Poesie 1978-2000). E ancora, in una delle poesie in morte della madre: «Ma io lo so che solo per mia colpa / mia colpa mia massima colpa / di troppo caldo sei morta» – dove l’eco della preghiera liturgica fa rimpiangere la prosaicizzazione moderna, che ha sostituito a quel forte “massima” un più grigio “grandissima”; mentre in un’altra delle poesie per la madre si legge un’impressionante contrapposizione: «E il rigo implume del suo ventre / l’insulto dell’utero macchiato / quel taglio da cui sono sbucato» ecc., seguito dal fulmineo verso finale: «e frutto del suo seno» – dove l’evocazione mariana arriva con un sobbalzo, dopo la descrizione spietata. Ancora: «Chiuso nel mio fortino / delle sei e poco del mattino / non mi inginocchio» – dunque non ha detto che s’inginocchia ma ha specificato che non si inginocchia; sì, ma intanto ha parlato di inginocchiarsi, e
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la vita spirituale si accontenta di poco. (Direi che questo è un non-inginocchiarsi col trattino divisivo/unitivo, ovvero un “inginocchiarsi -no”, che è cosa diversa dal semplice non inginocchiarsi; così come – mi si conceda l’analogia – se astenersi dal voto elettorale è un semplice non votare, votare scheda bianca o annullare la scheda è invece un non-votare, ovvero un votare-no.) E ragionerei allo stesso modo per una frase nella prosa poetica che fa parte della raccolta Il letto vuoto del 2012: «E la resurrezione? ti interrompo: ma la resurrezione è solo tregua, spazio vuoto, la salvezza di una particola di vita, briciola o nervo, davanti a questo muro» (frase che peraltro non è conservata in questa prosa poetica quando essa riappare in Traversate). In questo contesto, perfino un’espressione come «per il piede sinistro di Dio» che appare nell’evocazione di una partita di calcio, dunque fa probabilmente parte dell’iperbolismo proprio del gergo sportivo, potrebbe assumere una più fonda risonanza. Ma l’insistenza sul tout se tient è sempre pericolosa – in poesia come nelle altre zone della vita – e il panorama estetico delle Traversate va colto anche nella sua varietà. A proposito, per esempio, delle poesie in morte della madre, versi come: «Sposa vestita di rosa / della mia cosa» non sono da riportare alla forte genealogia dantesca («Vergine Madre, figlia del tuo figlio») dell’ultimo canto del Paradiso, bensì alla tenera e lieve genealogia caproniana della madre-fidanzata. E poi bisognerebbe fare almeno un accenno al variare, in questo libro, del registro stilistico tra il colloquiale e l’eufemistico: da un lato per esempio c’è la rima, calcolatamente imperfetta ma efficace, fra la più rude e più usata esclamazione italiana e la parola «marzo»; e d’altro canto invece c’è l’eufemizzazione: «Buttarle nel fango / o in qualcos’altro che
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taccio» – eufemizzazione che altrove ha addirittura una giustificazione ideologica che oggi fa quasi tenerezza: «delle mie corna prese e date / – uso apposta il termine volgare / fra compagni da non usare». A proposito poi di rime eterodosse c’è per esempio l’assonanza «Navona/Roma»; ma molti sarebbero gli esempi, come pure i casi di varie altre raffinatezze retorico-stilistiche – e mi limito a ricordare la repetitio nella poesia in cui tre vocaboli («barche», «baracche», «crostacei») fanno la loro comparsa separatamente in quest’ordine nella prima strofa, in tre versi successivi, mentre nella seconda costituiscono un verso unico: «e le barche, le baracche, i crostacei» (il che sottolinea l’effetto paronomastico dei primi due vocaboli); o l’interessante rovesciamento della metafora in: «Come un cervello / la casa può bruciare», dove la scelta più facilmente “leggibile” sarebbe stata quella di un cervello surriscaldato di cui si potrebbe dire che brucia come una casa. E a proposito di ideologia: i versi «dove il privato era politico / ma mai il contrario» ben si prestano a caratterizzare tutta un’epoca delle nostre vite – un’epoca che per molti di noi dura ancora, mentre per altri è nel frattempo divenuto vero appunto il contrario. A proposito infine di ideologia più metrica: versi come «quando a bruciapelo mi chiedevi / non perché non ero / mai stato comunista / ma come mi salvava la certezza», si può notare come il riferimento politico sia abilmente introdotto di straforo e per negazione; ed è anche notevole come quell’apparentemente prosaico «non perché non ero» rientra in realtà nel gioco di due versi brevi (di misura sei-settenaria) incorniciati da due endecasillabi. Non si dovrebbero nemmeno trascurare gli intarsi di versi dalle grandi genealogie poetiche dentro un dettato
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per altri rispetti piano – intarsi che nella poesia contemporanea sono spesso ombreggiati dal sospetto della gratuità. Mi limito a citare l’esempio più convincente: «perché è proprio di ogni fatto naturale / alla fine di sembrare fioco / prima che il grido riconquisti / modulazione e fiato»; che è una bella ripresa dei versi 61-63 del canto iniziale dell’Inferno dantesco descriventi la prima apparizione di Virgilio. Infine non si può chiudere nemmeno una breve e informale sintesi bertoniana come questa senza menzionare il ruolo fondamentale che l’ippica e il calcio giocano nell’immaginario di questo poeta; e a proposito di calcio, mi permetto una testimonianza diretta. Non più tardi del marzo del 2014 Alberto, commentando uno dei suoi testi nel corso di un laboratorio di poesia a Bologna, ha rievocato il suo shock di quando, ragazzino, vide perdere in una partita allo stadio il Modena sua squadra. Nulla di insolito, naturalmente, in questa rievocazione di per sé; ma quello che ha colpito almeno uno dei suoi ascoltatori è stato che, nella pur breve descrizione di quell’episodio, era chiaro che Alberto provava molto vivamente, ancora nel momento in cui ne parlava, la sofferenza (non trovo altra parola) di quella lontana giornata. È vero peraltro che l’esperienza di spettatore calcistico è in Bertoni strettamente connessa al ricordo del padre; e non è allora per piacere astratto di simmetria che debbo tornare al punto iniziale, alla pietas. È sempre rischioso racchiudere un libro di poesia in una formula riassuntiva. Eppure debbo dire che per me questo libro alto di Alberto Bertoni si situa, con risolutezza e commozione, sotto l’egida di una religio laica (continua lezione per i credenti) della pietas familiare e amicale. Paolo Valesio
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Commiato a mio padre Gilberto
i Mi sembrava un attimo fa e invece era già nel millennio passato l’ultima volta che abbiamo parlato ii Sveglio di soprassalto ascolto fare forza le mie dita sulla tua fine già trasmessa alle gambe, al buco della bocca iii Credulone, ascolto la badante vieni, tuo padre dorme aspetta la tua mano per svegliarsi iv Lei, lei che senza sapere raccoglie l’ultima frase, il singulto
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e anche la discrezione del gesto – mi fermo un momento, riposo v Sulla mia mano esploso questo blocco unico di ghiaccio rantolo e niente più respiro solo un attimo dopo vi Quell’attimo dopo che arrivo anche oggi, sicuro, sconfitto neanche di un millimetro sul filo vii Dal roteare degli occhi la bava sul cappotto i piedi in abbandono sento che sei morto viii Sento ma non ci credo e come uno scemo mi chiedo se è giusto per così poco fare il 118 ix Una perdita fulminea di calore e di fiato fino al freddo totale nelle ossa la maschera di gesso
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x Mantengo la tua calma il nero della barba ma non ci riesco, non so riconoscerti salma xi Ingegnere mi avresti sognato, alla Ferrari e io tutto diverso inadatto a ogni senso concreto incapace di renderti nonno xii Come un inverno nostro lago di sale, rostro l’arte di recidere ramaglie lottare solo xiii Vivo il berretto di traverso tutto sgonfiato il resto ad angolo retto sul pianerottolo storto xiv A-s turnàmm a catèr, va là mè e tè da ’na quèlch pèrt atàch a cal ciòld ruznèint scutmài cavécc xv Ci rincontriamo senz’altro io e te in un qualche posto
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appesi a quel chiodo arrugginito nomignolo cavicchio xvi Oggi non c’è il babbo? chiede il cameriere grasso e non sa cos’avrei pagato per trascinarti a pranzo xvii Ma cazzo, cazzo, cazzo cosa ci porto, un morto nella domenica di marzo fredda di foglie e di marmo? xviii (Buttarle nel fango o in qualcos’altro che taccio lirica e grammatica da liceo classico)
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