Di mestiere facciamo i perdenti

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Carla Bianco

Di mestiere facciamo i perdenti Romanzo

SocietĂ

Editrice Fiorentina


© 2009 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-092-6 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata

Copertina a cura di Andrea Tasso Foto di copertina di Carla Bianco


a Renato e ad Armanda, le mie radici



Di mestiere facciamo i perdenti



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Quasi la metà delle donne del suo paese si chiamavano come Annunziata. Anche la chiesa sbiadita proprio a ridosso del porto era dedicata alla Madonna e portava lo stesso nome. Seduta sulla sua vecchia sedia di legno intrecciato che profumava di antico, in attesa che il tempo passasse, amava accomodarsi nel patio malconcio dinanzi alla sua piccola dimora sul porticciuolo, colorata come tutte le case della sua isola, di due piani pittati di azzurro stinto dal tempo. Erano tutte dipinte con colori diversi, tinte pastello asciugate dalle ore e dall’aria del mare, le case dell’isola, in modo che i pescatori potessero riconoscere le proprie, tornando ai luoghi familiari dopo i giorni trascorsi sul mare, a volte fruttuoso, a volte nemico. Quando erano ancora sulle sue acque, potevano respirare l’aria dei loro miseri focolari attraverso la memoria e la nostalgia, ridurre lo spazio di acqua salmastra che ancora li separava dall’abbraccio con le proprie mogli, i propri cari. La casa di Annunziata non era la casa di un pescatore. L’ora estiva del tardo pomeriggio, poco prima del tramonto, fa assumere al cielo e al mare un aspetto sereno. Annunziata aveva sempre preferito il tramonto all’alba. L’alba le trasmetteva un senso di angoscia, il peso di una nuova giornata da dover affrontare, la gravità del vivere. A molti che conosceva, invece, suscitava la forza e la speranza della nascita e del rinnovamento che ogni giorno si ripete, infondendo energia attraverso i suoi colori vivi e luminosi. Ma a lei non era mai piaciuta la luminosità. Anche ora, che in tarda età, poco le era rimasto, e, tra le poche cose, la contemplazione serena dei mutamenti dell’atmosfera riposata e can3


giante nell’ora più attesa della giornata. Tutti se ne erano andati. Sul suo patio, con la sua sedia, Annunziata lasciava andare la memoria rassegnata, attraverso quel filo impercettibile che unisce il presente al passato, le sensazioni lasciate e quelle affioranti dopo che tra i fatti e il ricordo si è insinuato il tempo. Era seduta su quello stesso patio, sempre fatiscente, nonostante la minore corrosione degli anni, e doveva essere più o meno la stessa ora di una calda giornata all’inizio dell’estate, perché i colori del cielo e del mare erano gli stessi che vedeva adesso. Da una barca che attraccò nel piccolo porto ancora chiassoso, vide scendere un uomo nuovo. Non succedeva mai nulla di straordinario, durante le giornate nell’isola sempre uguali a se stesse, dove i gesti, le voci, le faccende riempivano ogni giorno una vita. Nella quale, ad osservarla dall’esterno, non si sarebbe potuto distinguere il giorno prima dal giorno dopo. In apparenza, però, qualche evento poteva considerarsi inusuale perché la sua ciclicità aveva un corso più lento e passava più tempo tra il verificarsi e il suo ripetersi. L’arrivo di una persona sconosciuta era uno di questi. Suscitava un formicolio di voci e stimolava l’immaginazione. In fondo la piccola isola colorata non era stata sconvolta più di tanto dalla guerra. Nulla era mutato, ogni cosa era rimasta immobile. Anche quel momento di follia collettiva, quando il dittatore aveva dato l’annuncio senza l’audio e gli ungheresi sabotatori erano stati linciati e mandati ai campi, pure quello era stato dimenticato in fretta. «Cerco un posto per dormire» aveva detto l’uomo a un vecchio pescatore che, piegato sul bordo scrostato della sua barca, ricuciva le reti, per rendere almeno più agevole il compito ai figli giovani, che avevano preso il suo posto sul mare. Annunziata non aveva nemmeno sentito la risposta del vecchio. Della realtà esterna non le arrivavano che degli stimoli, sui quali la riflessione di lei era talmente immediata che perdeva tutto il resto. Non era come le altre. È vero, era una donna… e poi, una donna neanche degna di essere considerata al livello, pure umile, delle altre! Lei era una di quelle 4


che la gente non saluta alla luce del giorno, che cerca con accanimento, ma senza farsi scoprire. Naturalmente, non aveva ricevuto alcuna istruzione, come tutte, del resto; un poco, però, era riuscita ad allontanarsi dal ruolo di donna ridotta alle sue funzioni naturali e a quelle che un eterno ordine sociale aveva creato con la pretesa, la sicurezza quasi, che tutto rimanesse immutato. «A che mi serve questa, eh?». Così l’aveva accolta il padre. Una “femmena”, nemmeno buona per portare da mangiare a casa, per occuparsi della misera barchetta. L’immagine del padre che emergeva dalla sua memoria era sempre uguale da anni, nella sua figura pesante, con quelle mani grosse e rudi, inadatte, pure se fossero state sostenute dalla volontà, anche alla più naturale manifestazione affettiva. Il desiderio di una carezza, di un bacio, di un’approvazione era rimasto immutato con il passare degli anni, dopo la sua morte. A più di sessant’anni, la sensazione che provava, lì, sola sul suo patio, era la stessa di quando, tredicenne appena, rifletteva nella sua minuscola stanzetta, buttata sulle lenzuola. Sentiva addosso l’odore dell’umidità, nonostante tutta la fatica che faceva a strofinarle con le mani colanti di sapone. Con sua madre, dopo averle lavate, le stendevano fuori al sole e allora tutta l’aria sembrava profumarsi. Ma poi si impregnavano subito di quel tanfo sgradevole di tutta la casa. Solo d’estate, quando il sole caldissimo asciugava tutto, le riusciva di assaporare il profumo della biancheria appena lavata. Si chiedeva spesso come aveva potuto anche solo sfiorarla, l’idea che il padre avrebbe potuto darle quell’affetto che le venne a mancare, quando la madre morì. L’aveva sentita gridare talmente forte. La signora Tina andava e veniva, raccogliendo asciugamani, lenzuola, tutto quello che trovava; poi il silenzio assoluto. Non era neanche riuscita ad insegnarle a difendersi: dal padre prima, dall’ambiente meschino e ignorante che la circondava, poi. «Aah… sì cresciuta, né, Nunziati’…!». 5


Mentre pronunciava quelle parole, le stringeva il seno con quella mano grossa. Tenne lo sguardo allucinato e vicinissimo e lo sentì mentre spingeva. Ma non era cresciuta solo per lui. Finalmente, poteva cominciare a portare qualche denaro a casa. Il suo aspetto le consentiva, ancora giovanissima, di suscitare i desideri di quegli uomini rozzi e sempre uguali. Come pensare, poi, di vivere diversamente una volta liberata dall’ombra del padre? Ormai era Donna Annunziata, le cui finestre, di notte, attraverso le persiane scorticate che una volta erano state blu, lasciavano sempre intravedere, fino a tardi, una luce fioca. Ciò nonostante, non era infelice. Non era neanche felice. La vita le scorreva addosso, quasi imprigionandola, ma Annunziata prendeva la sua rivincita analizzandola e giudicandola con la vivacità della sua intelligenza. La donna ventenne, attraente e procace, messa di forza sulla strada che percorreva, era la stessa che, quasi anziana, ricordava gli avvenimenti degli anni trascorsi, adagiata pesantemente sulla sua sedia di legno. Quella volta non ci volle molto perché l’uomo venuto dalla terraferma si accorgesse di lei. Sembrava che la vita prorompesse attraverso le forme del corpo abbronzato, anche durante la stagione invernale, generoso, sempre disponibile, invitante, come può esserlo, per un bambino, un decolté pieno e sinuoso. Si rivedeva, attraverso lo schermo della memoria, avvolta nei vestiti stretti, le cui poche pieghe si muovevano al vento leggero delle sere della prima estate. Si rivedeva e sorrideva. In fondo, all’inizio, per lei era stato quasi indifferente che l’uomo venuto dalla città la notasse o meno. Era lei che lo aveva notato e questa era già una novità. Aveva un nome, quell’uomo, ma l’appellativo con cui gli isolani lo designavano sottolineava la sua estraneità al loro mondo, per il solo fatto di non esservi nato. Dotto’, lo chiamavano. Succede sempre, è un approccio inconsapevole. Serve a mettere le cose al loro posto. Come se il modo di chiamare un uomo possa definire il cerchio delle sue azioni, solo per6


ché provenienti da uno che era “di fuori”, dato che tra di loro nessuno usava il nome di battesimo e tutti fingevano di ignorarlo. A tal punto che, alla fine, il registro dello stato civile diveniva finzione e nessuno ricordava più quel nome, né di averlo mai saputo. Poco importava chi era, cosa aveva fatto in passato, da dove veniva: nulla interessava agli isolani se non ciò che accadeva sotto i loro occhi. Quell’uomo poteva essere chiunque. Dopo l’armistizio, era stato il caos. Sulla piccola isola gli eventi si erano proposti con intensità minore, ma le notizie del momento arrivavano lo stesso. E così tutti sapevano del paese diviso in due, delle truppe sbandate, della liberazione di Mussolini, dell’occupazione tedesca; e, ancora, dello sbarco degli americani, della salvezza portata dalla generosità dei liberatori. Nessuno si stupiva, allora, che personaggi sconosciuti, senza passato, mettessero piede in luoghi mai visti, cominciando a vivere come se il tempo prima non fosse esistito. Annunziata non notava mai gli uomini. Il rapporto che aveva con essi era veloce, istantaneo, senza parole, una sorta di esasperazione della sua professione. Era come se, per lei, nessun rappresentante del genere maschile avesse una personalità. Non si sarebbe mai aspettata che uno di loro potesse coinvolgere la sua sfera emotiva, della quale lei stessa era inconsapevole. E invece quest’uomo le si rivolse come nessuno aveva mai fatto, con una inaspettata confidenza, senza accenno alcuno alla vita di lei, anche perché, probabilmente, non ne sapeva nulla. Se lo ricordava come se fosse ieri: la trattenne, solo mostrando un po’ di curiosità per lei quando già si stava allontanando. Suscitò, per la prima volta dopo tanto tempo, i meccanismi che muove il rapporto umano. La sua capacità di provare emozioni era rimasta come sepolta, soffocata. Cominciava a rendersene conto a mano a mano che lo straniero le rivolgeva frasi sempre più lunghe, cortesi, giorno per giorno. Divennero amanti, e ricevette amore (perlomeno così le sembrava) e ne restituì senza essere pagata. 7


Una mattina, avvolto in un’alba cianotica di novembre, un pescatore scendeva per il sentiero ripido che portava ad una delle piccole insenature dell’isola. Faceva fatica a trattenere i piedi dallo scivolare sul terreno misto a sabbia, reso insicuro dai ramoscelli selvatici e dall’umidità che si era depositata durante la notte. Perciò di rado distoglieva lo sguardo da terra. Non si aspettava certo, guardando in direzione della piccola spiaggia, di vedere qualcosa che le onde trascinavano avanti e indietro sul bagnasciuga. E non ci mise molto a realizzare che si trattava di un corpo. Nella fretta cadde e la sabbia bagnata dalla notte gli impastò i vestiti senza andare più via. Camminava a fatica, cercando di affrettare il passo. Era, effettivamente, il corpo di un uomo. Lo riconobbe, anche se non lo conosceva bene. Era o’ Dottore.

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