Il grido del pavone Alessandro Tassoni tra fascinazione eroica e demistificazione scettica Studi 51
Gabriele Bucchi
Il grido del pavone
Alessandro Tassoni
tra fascinazione eroica e demistificazione scettica
Il volume è pubblicato con il contributo della Commission des publications de la Faculté des lettres de l’Université de Lausanne
© 2023 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it
isbn: 978-88-6032-649-2 ebook isbn: 978-88-6032-695-9 issn: 2035-4363
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e della Societé Académique Vaudoiseai miei amici di ieri e di oggi
«non sine humore»1
1 «Lapis qui dum secatur latice infuso remollescit cum ea inscriptiuncula non sine humore quo symbolo etiam significavit Auctor, absque ope Academiae, nihil se operis elaborati moliri posse». Impresa di Alessandro Tassoni nell’Accademia degli Umoristi in Silvestro Pietrasanta, De symbolis heroicis libri 9, Antuerpiae, ex Officina Plantiniana Balthasaris Moreti, 1634, p. 433.
Indice
9 Nota bibliografica
11 Introduzione
1. Da Alessandro Magno al Leone del Nord. Paradigmi e occasioni dell’eroico tassoniano
31 1.1 L’ira di Alessandro: eroismo ed esercizio della forza nei primi scritti tassoniani
49 1.2 «Un vano nome di clemenza e di bontà»: figure dell’eroico tra Medioevo ed età moderna
60 1.3 Dal condottiero al burocrate: l’impasse antieroica del moderno
67 1.4 Il vero eroe dei tempi moderni: il boia
74 1.5 La “ragione” del vincitore: l’ora eroica del 1613
82 1.6 Da Carlo Emanuele a Gustavo di Svezia: ultime incarnazioni dell’eroico
2. Oltre la regio ridiculi. Effrazione del limite e strategia della ridicolizzazione nell’opera di Tassoni
93 2.1 Tassoni e la riflessione rinascimentale sul ridicolo
103 2.2 «Il peggiore animale che viva»: riso e pessimismo antropologico
112 2.3 «Turpitudo cum dolore»: la catarsi impossibile
120 2.4 «Una tragedia scherzante»: il riso tra violenza simbolica e nichilismo tragico
3. Tassoni e la storia
133 3.1 Alla scuola di Tacito: il teatro della storia tra comparatio temporum e riflessione morale
155 3.2 «L’istoria bella e vera». La riscrittura della storia medievale nella Secchia rapita tra denuncia ed evasione
186 3.3. Il “manico” delle cose. Scetticismo e visione antiprovvidenzialista della storia
215 Conclusioni. Le bastonate di Don Chisciotte ovvero le nozze impossibili tra storia e poesia
Bibliografia generale
231 (a) Opere di Alessandro Tassoni
234 (b) Testi e fonti storiche
238 (c) Bibliografia critica
247 Indice dei nomi
Nota bibliografica
Le opere di Alessandro Tassoni, edite ed inedite, sono citate secondo il sistema di abbreviazioni indicato in bibliografia (A). Le edizioni antiche sono citate per pagina o per carta a seconda della numerazione originale, per f./ff. nel caso dei manoscritti. La trascrizione di manoscritti e autografi tassoniani per i quali non si disponga di un’edizione moderna (come la parte inedita degli Annali) è condotta con criteri conservativi dell’uso grafico dell’autore, ma inserendo la punteggiatura per agevolarne la lettura. I rimandi alla bibliografia sono effettuati la prima volta in forma completa, successivamente con titolo abbreviato. Il riferimento completo nella bibliografia generale finale (sezioni B/C) si individua scorrendo l’ordine alfabetico per cognome dell’autore. Nel caso di opere miscellanee le opere sono inserite sotto il nome dei curatori in ordine alfabetico, quando questo è assente, per prime parole del titolo. La traduzione di brani in lingue straniere, quando non diversamente indicato, è mia. Il luogo d’invio delle lettere di Tassoni (citate seconde la lezione e la datazione, talvolta congetturale, dell’edizione a cura di Pietro Puliatti) è sempre Roma, quando non altrimenti specificato. Le sigle seguenti identificano le biblioteche in cui si trovano i documenti citati:
BAV = Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana
BEU = Modena, Biblioteca Estense e Universitaria
ASCM = Modena, Archivio Storico Comunale
BNCF = Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale
BNCR = Roma, Biblioteca Nazionale Centrale
BLCR = Roma, Biblioteca dell’Accademia dei Lincei e Corsiniana
BSCS = Subiaco, Biblioteca Statale del Monumento di Santa Scolastica
Introduzione
Alla fine del 1632 Alessandro Tassoni, di formazione dottore in legge, di professione segretario a occupazione intermittente, decideva, durante un soggiorno a Bologna, di non rientrare più a Roma e di tornare a Modena. A spingerlo a far ritorno nella città che gli aveva dato i natali sessantasette anni prima erano probabilmente, oltre alla morte improvvisa del suo ultimo protettore (il cardinale Ludovico Ludovisi) le lusinghiere promesse di uno stipendio fisso e di un alloggio confortevole nel castello ducale, in una corte governata (finalmente!) da un Este che non si perdeva dietro alle «gesuiterie». L’approssimarsi del settantesimo anno gli doveva dare qualche pensiero. Benché il giorno della sua nascita (il 28 settembre) venisse a coincidere, secondo i suoi stessi calcoli, «con quello in cui dall’eterna mano di Dio fu creato il primo uomo», egli credeva fermamente che quel mese, «avendo il nome del numero settenario per essere il settimo in ordine […] pare che generalmente sia d’infelice condizione impercioché, lasciando che molte cose cattive e d’infelice riuscita sieno terminate da lui […], gli anni 49 e 56 e 63 e ’l 70 dell’età dell’uomo, che tutti sono formati di settenarî, vengono comunemente tenuti per climaterici e pericolosi di morte». Troppi erano gli esempi di calamità e sventure avvenute nella storia dell’umanità in anni posti sotto il segno dello sfortunato numero ed egli stesso, curioso osservatore degli astri e dilettante di lungo corso in fatto di oroscopi, ne aveva fatto menzione in un quesito più volte aggiornato della sua curiosa enciclopedia, i Pensieri (ii, 13)1. Nella prima edizione di quest’ope-
1 Con attenzione però a non coinvolgere, con mossa tipicamente tassoniana, in pronostici funesti i potenti del passato recente e di un oggi cui non si doveva chiudere troppo bruscamente la porta della speranza: «Né è da dire che le morti di principi grandi raccontate di sopra il facciano più infelice di quello che ’l facciano fortunato e di buono augurio i natali d’Augusto, di Germanico, d’Antonin Pio, di Solimano, di Francesco I re di Francia, di Luigi che oggidì regna, del cardinale Scipione Borghese, del cardinal Francesco Barberino, ambidue nipoti di romani pontefici, e di tanti altri principi avventurosi che nacquero in settembre» (Pensieri, ii, 13, Se le stelle della Libra sieno infe-
ra (con la quale, nel 1612, ancora poco o per nulla conosciuto alla repubblica delle lettere, aveva cercato di acquistarsi fama di homo universalis) si era a dire il vero lasciato andare a un bilancio piuttosto amaro e particolarmente ricco di dettagli autobiografici, poi espunti dalle edizioni successive. In quelle pagine il quasi cinquantenne Tassoni si lamentava contro la sorte
che nelle fasce mi lasciò senza padre e madre e senza parenti, attorniato da una mano di liti che mi levarono il meglio di quel poco patrimonio ch’io avea e dopo, con varie infermità lunghe e nimicizie pericolose avendomi perseguitato tutto il corso della mia gioventù, mi condusse finalmente nella Corte di Roma, dove per sedici anni continui fra mille rancori e mille disgusti agitato, senza che m’abbia mai potuto giovare né fedeltà né fatica né industria di sorte alcuna, ho veduto coloro tutti che prima v’erano o che dopo vi sono capitati, degni e indegni, cavarne frutto o d’onore o di roba e io solo, in cambio d’acquisto, avervi consumato quasi tutto l’avanzo di quel poco che delle prime sciagure m’era rimaso2
Era lo sguardo di un uomo già deluso, il cui destino sembra segnato fin dalla nascita da ostilità e risse con rivali più scaltri che gli attraversano la strada (ieri chi voleva depossederlo degli averi familiari, oggi di chi gli passa avanti nella distribuzione degli uffici di curia), ombreggiato dalla coscienza di aver scommesso troppo (rimettendoci, come tanti peraltro, di tasca sua) sulla possibilità di avere una qualche parte dietro le quinte del più grande teatro politico allora esistente: Roma. Tassoni vi era giunto pieno di speranze trentasette anni prima per entrare al servizio di un giovane e dotto cardinale (Ascanio Colonna) nel cui nome riverberava la luce eroica del padre Marcantonio, il vincitore di Lepanto3. Lo sfogo contro la sorte (uno dei tanti che gli capiterà
lice col Sole e se il nascere di Settecembre sia di buono o di triste augurio, p. 438. La menzione del Barberini fu aggiunta nell’edizione dei Pensieri del 1627, posteriore all’elezione di Urbano VIII: cfr. l’apparato dell’ed. Puliatti: ivi, pp. 1064-1065).
2 Tutto il paragrafo è espunto nell’edizione del 1620 e successive: cfr. l’apparato di Puliatti in Pensieri, pp. 1063-1064.
3 Per la biografia tassoniana il riferimento più recente e informato è l’eccellente voce del dbi di Andrea Lazzarini, Tassoni Alessandro, in dbi, xcv, 2019, pp. 150-155. Oltre alla sistemazione biografica muratoriana, per certi aspetti ineguagliata per erudizione e misura di giudizio (benché incline a smussare i tratti più eterodossi e anticlericali del carattere e dell’opera del modenese come rilevava già Pietro Puliatti, La biografia come itinerario intellettuale. Muratori e Tassoni, in Il soggetto e la storia. Biografia e autobiografia in L.A. Muratori, a cura di Martino Capucci, Firenze, Olschki, 1994, pp. 165-194: 176), per i primi trent’anni della vita del modenese (quelli per cui si dispone di meno notizie e però anche i più importanti per la sua forma mentis) sono ancora utili gli studi eruditi di Giuseppe Campori, Appunti intorno Alessandro Tassoni, in «Indicatore modenese», ii, 1852, pp. 3-4, 9-11, 17-18, 25-27, 33-35, 41-42: 3-4; Processo contro Alessandro Tassoni in Bologna, in «Atti e memorie delle Rr. Deputazioni di Storia patria per le antiche province modenesi e parmensi», 8, 1876, pp. 373381, e di Venceslao Santi, Alessandro Tassoni tra malfattori e parassiti, in «Giornale storico della Letteratura Italiana», xliii, 1904, pp. 259-277, al quale è da aggiungere più recentemente (per l’episodio del «diavolo nell’ampolla», sintomatico, oltre che delle sue credenze e pratiche parareligiose, del suo spregiudicato operare nei confronti della donna che gli aveva dato un figlio) Grazia Biondi, Quel diavolo del Tassoni. Una disavventura con l’inquisizione di Modena, in Alessandro Tassoni. poeta, erudito, diplomatico nell’Europa dell’età moderna, a cura di Maria Cristina Cabani e Duccio Tongiorgi, Modena, Panini, 2017, pp. 199-211.
di scrivere) era destinato a sparire dai Pensieri, ma anche vent’anni dopo, nell’imminenza del ritorno in patria, il bilancio non era mutato, così come non era mutata (anzi si faceva più forte) l’ambivalenza per quella Roma così ingrata, così poco eroica e virile, nella quale però – come forse in nessun’altra corte d’Europa – si poteva osservare la macchina del potere, la «vicissitudine delle cose», la dissimulazione delle passioni. Il 1632 in ogni caso era segnato da pessimi auspici: la morte del Ludovisi lo lasciava ancora una volta senza un’affiliazione prestigiosa nella Roma dei Barberini, dalla quale, anche per un uomo tutto sommato poco sensibile agli effetti splendidi del mecenatismo artistico, era difficile staccarsi, come confessava da Bologna, ancora incerto sul passo da fare, all’amico Cassiano Dal Pozzo:
Resto obbligatissimo a V.S. che non solamente mi compatisca della perdita fatta del signor cardinal Lodovisio, che sia in gloria; ma s’offerisca ancora di favorirmi col signor cardinal Barberino Suo signore per sollevare la mia fortuna abbattuta. Io veramente ero di pensiero di tornare a Roma, se non a goder delle speranze, almeno della libertà; ma la cattiva sorte ch’io ci ho provato in trentasett’anni nel servizio di quattro cardinali, sotto cinque pontefici, dove sono state distribuite tante centinaia di migliaia di scudi d’entrate ecclesiastiche né mai il mio nome è stato riputato degno d’entrar dentro le porte della dataria, m’ha fatto risolvere ad accettare il partito propostomi dal signor Duca di Modana, mio principe e signore, di ritornare alla patria onorato del titolo di suo servidore attuale con provisione di 300 scudi l’anno e le stanze fornite e cucina e legna, senz’altro obbligo che d’andare alle volte in carrozza con questi principi. Io non sarò veramente in Roma né in città da paragonare a Roma; ma credami V.S. ch’io ho gusto di partirmene in capo di 37 anni immaculato e senza aver potuto mai ottenere il valor d’un baiocco, e di poter vantarmi che in me solo sia falsa quella massima che dice che la Corte di Roma non è mai a lungo andare stata ingrata ad alcuno percioché, se l’aver faticato trentasett’anni non meritasse alcun premio, sono sicuro che la maggior parte di quelli che oggidì ci faticano non lo dovrebbero sperare4.
Gli ultimi tre anni di vita Tassoni (che sarebbe morto puntualmente a settant’anni, confermando il pronostico funesto consegnato ai Pensieri) li avrebbe trascorsi a Modena, impegnato nel lavoro di revisione e accrescimento dell’opera che l’aveva occupato più di ogni altra (il compendio degli Annali ecclesiastici e secolari del cardinal Baronio), nonché in nuove liti e perfino risse in cui non mancò, come aveva fatto quarant’anni prima, «per privilegio dot-
4 Lettera da Modena del 22 dicembre 1632 a Cassiano Dal Pozzo in Lettere, ii, pp. 325-326. E già sedici anni prima si lamentava con Albertino Barisoni sempre facendo ricorso all’astrologia: «Roma non è capace delle mie speranze né io son capace delle sue, idest i nostri geni non si confanno. Io ho nella nona Cancro, ch’è opposto al Capricorno, ascendente di Roma. Guido Bonato dice che quelli che hanno Cancro in nona bisogna vadino in Costantinopoli» (15 gennaio 1617, in Lettere, i, p. 314). La credenza e la pratica dell’astrologia anche nella sua forma giudiziaria è un fatto ben assodato nell’esperienza dello scrittore (e che probabilmente gli costò il posto di segretario di Maurizio di Savoia), sebbene manchino studi d’insieme su questo aspetto (un altro di quelli che mostra anche l’influsso dell’opera e della personalità di Cardano sul modenese), vedi i rilievi di Giovanni Nascimbeni, La filosofia naturale di Alessandro Tassoni, Jesi, Tipografia Cooperativa Editrice, 1905, pp. 38-40.
tore ma pronto di mano più che soldato», a ricorrere indirettamente alla violenza per mano altrui, riuscendo sempre impunito5. Il 30 marzo del 1635 faceva, per l’ennesima e ultima volta, testamento. Tra i beni lasciati a parenti e amici c’erano gli affitti di terre che gli avevano dato più o meno da vivere – pur senza scialo – a Roma, i vestiti da secolare e da prete (aveva preso la tonsura nel 1602, forse nella speranza di una pioggia di benefici ecclesiastici), libri (in parte già venduti a Roma) e manoscritti, alcune suppellettili d’argento con l’arme dei Tassoni e qualche raro dipinto6. Tra questi, oltre al celebre autoritratto con un fico in mano (emblema delle speranze deluse dalla corte), anche un ritratto del re di Svezia Carlo Gustavo (morto a Lützen nel 1632), un quadro «con la Fortuna che esalta un asino», una copia del Cristo della moneta di Tiziano. Attraverso quelle immagini che lo accompagnarono fino agli ultimi giorni, lo scrittore modenese rivedeva e inscenava quotidianamente la propria storia (l’intellettuale incompreso e sfortunato) quale l’aveva a un tempo subìta e forse però anche incosciamente propiziata attraverso un pensiero oscillante tra posizioni di conformismo e di contestazione, di celebrazione ambigua e di satira dissimulata, un piede dentro e uno fuori dal “sistema”. Quelle immagini (qui riprodotte: immagini 2 e 5) erano però anche l’ipostasi delle sue passioni: la diagnosi sarcastica e impietosa della figura del letterato nella società moderna, la fascinazione per figure di sovrani guerrieri capaci d’incarnare l’eroismo antico, la Fortuna e il caso visti come signori degli eventi umani (col conseguente grottesco trionfo degli asini), la storia come lotta tra forze opposte incarnate dalla Chiesa e dallo Stato, di cui il quadro di Tiziano (il tributo di Cristo a Cesare) era proprio alla corte estense il ricordo di un’antica vocazione
5 Nel gennaio del 1633 fece bastonare a tradimento da anonimi, dopo aver simulato un’apparente riappacificazione, il vicario del convento francescano di Modena, Arcangelo da Bologna, per avere l’ultima parola in una tenzone poetica cominciata anni prima da un altro membro dell’ordine (Livio Galanti, teologo di vasti interessi, processato per eresia nel 1612 e morto nel 1630) che aveva scritto un sonetto polemico contro il modenese. Sulla vicenda hanno fornito documentazione Venceslao Santi, Alessandro Tassoni e il cardinale Ascanio Colonna, Modena, Vincenzi, 1902, pp. 10-11 e, anche per un profilo del Galanti, Gian Luigi Betti, Una dura polemica tra Alessandro Tassoni e frate Livio Galanti da Imola, in «Il Carrobbio», xii, 1986, pp. 61-70. La strategia era insomma quella già collaudata in occasioni delle incursioni e violenze giovanili nel territorio di Nonantola nel 1595 (nel corso delle quali fu definito appunto «per privilegio dottore ma pronto di mano più che soldato»: Venceslao Santi, Alessandro Tassoni tra malfattori e parassiti, cit., p. 265 per la citazione).
6 Da ricordare che, salvo durante il periodo del servizio presso il Colonna e in parte di quello della vecchiaia presso il Ludovisi (1626-1632), il train de vie dello scrittore sembra essere stato generalmente assai modesto, basato essenzialmente (come rendite fisse) sugli affitti ricevuti dalle terre modenesi, non sempre con l’attesa regolarità, via il fedele amico Annibale Sassi e sull’intermittente affiliazione a famiglie di cardinali quali quelle di Bartolomeo Cesi e poi del Ludovisi. Forse proprio per le modeste condizioni il nostro si ritirò in quella che era una zona suburbana di Roma a partire al 1620 a fare vita dei campi (Lettere, ii, p. 111), mentre due anni dopo parla esplicitamente di «povertà» (ivi, ii, p. 128). In una lettera al Sassi (16 aprile 1616 in Lettere, i, pp. 272-273) Tassoni si rappresenta nel suo giardino diuturnamente «zappando o vangando o potando qualche cosa» e si paragona a «Fabrizio che aspetti la dittatura» [probabilmente Gaio Fabrizio Luscino la cui leggendaria povertà è ricordata da Valerio Massimo, iv, 3.6] in quella luce di rudezza guerriera e spartana autarchia che, sul piano intellettuale come politico, è il suo ideale e il suo sogno.
filoghibellina e imperiale che la storia recente aveva più d’una volta amaramente smentito (vedi la devoluzione di Ferrara).
La presenza di Tassoni nella memoria dei posteri è stata da sempre garantita, se pur con una certa discontinuità e non senza forzature (si pensi al Tassoni antispagnolo profeta del Risorgimento caro a Sismondi e a Foscolo), quasi soltanto da una sola opera: il poema eroicomico la Secchia rapita, composto nel 1614-1616 e pubblicato a Parigi nel 1622 dopo lunga circolazione manoscritta. Ancora oggi il nome dello scrittore è infatti legato essenzialmente alla Secchia, forse più citata e ricordata che davvero letta (salvo da un ristretto numero di specialisti), i cui obiettivi appaiono a chiunque la legga o rilegga fortemente eterogenei e per di più, all’interno dell’opera, continuamente mutevoli (satira del contemporaneo, rappresentazione storica, polemica intraletteraria, scetticismo filosofico, intervento politico) tali da renderne la lettura, al di là della indubbia felicità di alcuni momenti, spaesante e interlocutoria (come dimostrano interpretazioni anche notevolmente divergenti sul significato dell’operazione tassoniana). Un dato è sicuro: nella molteplicità dei campi di studio toccati dal modenese e consegnata dallo stesso scrittore a una lettera del 1624 a Valeriano Castiglione («… ho fatto come Acheloo che, per vincer la forza d’Ercole, si tramutò in varie forme e finalmente si rimase scornato. Io volea vincer la forza della mia contraria fortuna e ho tentate forme diverse or di leggista, or di segretario, or di filosofo, or d’istorico, or di politico, or di poeta e sempre mi son ritrovato peggio che prima») la posterità (o almeno quella delegazione simbolica della posterità rappresentata dagli studiosi) sembra aver deciso: questo beffardo motteggiatore dei poeti (non di questo o quel poeta, ma dei poeti in quanto servitori del potere e della menzogna, propagatori di sconcezze e di fatti inverosimili che fanno a pugni con la storia e con la scienza) vive oggi negli studi soprattutto come poeta7. Tale destino sembra essersi profilato già pochi anni dopo la morte, se nel 1641 l’ambiguo elogio che Gabriel Naudé scriveva per il ritratto tassoniano nella biblioteca di Cassiano dal Pozzo ricordava tra le opere del modenese unicamente la Secchia, addirittura paragonata (per lode iperbolica o malinteso dovuto a conoscenza approssimativa dell’opera?) all’Eneide8 .
7 La lettera al p. Valeriano Castiglione del 27 gennaio 1624 in Lettere, ii, p. 150.
8 L’epigramma suonava come una garbata e un po’ sussiegosa replica a quello scritto dallo stesso Tassoni per il suo autoritratto col fico (una copia del quale era nella biblioteca di Cassiano dal Pozzo: «Cur ficum, Tassone, manus gerit altera, teque | ex studiis aliud nil retulisse putas | cum Situla excivit tantas quae apta ruinas, | aequalem faciat te prope Virgilio? | Scaliger hanc regnis merito praeferret avitis | fortunam, qui te vinceret ingenio» («Perché, Tassoni, quel fico, in mano tu tieni, e dagli studi non più credi d’avere tratto altro, mentre la Secchia, che tante addusse rovine, quasi a Virgilio ti accosta, o addirittura ti eguaglia? Scaligero [e con ragione] preferirebbe tal fama ai regni aviti: ed è uomo, forse, d’ignegno maggiore»; Gabriel Naudé, Epigrammi per i ritratti della biblioteca di Cassiano dal Pozzo, a cura di Eugenio Canone e Germania Ernst, traduzione di Giuseppe Lucchesini, Pisa-Roma, Serra, 2019, p. 34). Significativo, mi pare, che nessun cenno fosse fatto ai Pensieri. Tramite della conoscenza dell’opera del modenese per il Naudé sembra probabile sia stato proprio
Dopo il lungo e ancor oggi benemerito lavoro di edizione e promozione dell’intera opera tassoniana da parte di Pietro Puliatti nella seconda metà del secolo scorso9, è merito della monografia di Maria Cristina Cabani (La pianella di Scarpinello. Tassoni e la nascita dell’eroicomico) l’aver dato un nuovo impulso, in corrispondenza con la nuova edizione critica del poema (quella a cura di Ottavio Besomi), a una finissima auscultazione della poetica tassoniana attraverso i complessi rapporti che questa intesse con la tradizione poetica precedente (particolarmente con quella in ottave) nonché con quella contemporanea (da Bracciolini a Marino a Stigliani)10. Gli studi successivi sul genere eroicomico di Clotilde Bertoni (Percorsi europei dell’eroicomico, 1997) e Guido Arbizzoni e i contributi raccolti nel recente volume collettivo l’Eroicomico a cura di Giuseppe Crimi e Massimiliano Malavasi hanno permesso di dare alla tante volte autoproclamata posizione tassoniana quale capostipite di un nuovo genere una consistenza storica maggiore nella lunga durata e allo stesso tempo anche una nuova problematicità, permettendo agli studiosi di interrogarsi su quanto della lezione del modenese sia stato davvero compreso e recepito, attraverso cambiamenti di direzione e malintesi anche fecondi, dagli epigoni sei e settecenteschi italiani11. È però soprattutto nell’ultimo decennio che gli studi tassoniani hanno ripreso a infittirsi, attraverso nuovi contributi su singoli aspetti dell’opera letteraria (puntualmente ricordati nel corso di questo volume) grazie a numerose iniziative, tra le quali sono da ricordare in particolare la prima lettura collettiva del poema canto per canto e le celebrazioni in occa-
il Dal Pozzo. Su Naudé e l’Italia vedi Lorenzo Bianchi, Naturalismo, scetticismo, politica. Studi sul pensiero rinascimentale e libertino, Firenze, Sismel, 2019, pp. 209-235.
9 Avviata con la Bibliografia di Alessandro Tassoni, Firenze, Sansoni, 1969-1970, 2 voll., proseguita con l’edizione delle Lettere (Roma, Laterza, 1978), indi con i volumi delle opere edite da Panini (Pensieri e scritti preparatori, Modena, Panini, 1986; La «Secchia rapita» e scritti poetici, ivi, 1987; Annali e scritti storici e politici, 2 voll., ivi, 1990). Sebbene incompleta e (soprattutto negli ultimi volumi dedicati agli Annali cui mancano le note al testo e indici) talvolta di poco agevole consultazione, il lavoro editoriale e gli studi di Puliatti rappresentano a tutt’oggi il tentativo più completo di inquadramento dell’opera tassoniana nel suo insieme (limitata cioè non solo alla Secchia) sia sul piano editoriale, sia su quello critico. Nonostante le occasionali imperfezioni e lacune, essa costituisce uno strumento indispensabile di cui non si può non riconoscere ancor oggi l’utilità.
10 Maria Cristina Cabani, La pianella di Scarpinello. Tassoni e la nascita dell’eroicomico, Lucca, Pacini e Fazzi, 1990. Della stessa studiosa vedi anche gli importanti saggi dedicati a Tassoni nella sua monografia Eroi comici. Saggi su un genere secentesco, Lecce, Pensa Multimedia, 2010. L’edizione critica del poema è quella uscita in due volumi a cura di Ottavio Besomi (Padova, Antenore, 1987 per la prima redazione e ivi, 1990).
11 Guido Arbizzoni, Poesia epica, eroicomica, satirica, burlesca. La poesia rusticale toscana. La “poesia figurata”, in Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, vol. v, La fine del Cinquecento e del Seicento, Roma, Salerno editrice, 1997, pp. 727-770; Id., «Poema misto nuovo e secondo l’arte». L’eroicomico secentesco, in Gli “irregolari” nella letteratura. Eterodossi, parodisti, funamboli della parola, Atti del convegno di Catania (31 ottobre-2 novembre 2005), Roma, Salerno editrice, 2007, pp. 193224. Si veda anche Clotilde Bertoni, L’eroicomico, in Letteratura europea, diretta da Piero Boitani e Massimo Fusillo, ii, Torino, Utet, 2014, pp. 37-51; L’eroicomico, a cura di Giuseppe Crimi e Massimiliano Malavasi, Roma, Carocci, 2020. Mi permetto anche di segnalare L’eroicomico dall’Italia all’Europa, Atti del convegno, Università di Losanna, 9-10 settembre 2011, a cura di Gabriele Bucchi, Pisa, Ets, 2013.
sione del quattrocentocinquantesimo anniversario della morte12. A questo si sono aggiunte significative acquisizioni nella ricostruzione del profilo del Tassoni lettore dei classici in volgare (Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto) e del linguista (oggetto di recenti monografie e nuove ricognizioni da parte di Luca Ferraro e Andrea Lazzarini)13. Con qualche eccezione (si veda ad esempio l’attenzione suscitata in anni recenti dal frammento colombiano dell’Oceano), la critica di oggi sembra dunque avallare sostanzialmente la linea inaugurata da Muratori, secondo la quale – per citare Puliatti – «la fisionomia dello scrittore nella globalità dei suoi aspetti ha finito per combaciare esclusivamente con il cantore della Secchia e la specificità del suo rilievo esaurirsi nella connotazione burlesca della sua gnoseologia»14.
Ne risulta che, salvo qualche raro caso, le incursioni in campi quali la scienza, la filosofia (particolarmente l’etica), la storiografia, il pensiero politico, sociale e persino demologico – anche in quelle opere che noi inseriremmo più facilmente nella categoria «letteratura», come il poema e le Considerazioni sul Petrarca – risultano un po’ marginalizzate rispetto alla centralità accordata quasi unanimente alla riflessione sulla poesia, alla rivendicazione del nuovo genere eroicomico, al ruolo svolto dal modenese quale (supposto) iniziatore della querelle tra antichi e moderni. Prima e più che come poeta, Tassoni volle infatti imporsi, attraverso i Pensieri, quale scrittore enciclopedico e quasi homo universalis, in un’epoca in cui gli spiriti universali (alla Cardano o alla Bodin, non a caso due filosofi ammirati dal modenese) si facevano, per la progressiva specializzazione dei saperi, sempre più rari. Se nessuno studioso di oggi può ovviamente avventurarsi in tutte queste discipline, obliterare completamente quelle ambizioni e archiviare il pensiero – pur asistematico e farraginoso – che ne deriva rischia, a mio avviso, di limitare il ritratto di questo scrittore a un solo pur seducente profilo, dimenticando di fatto una cultura che non si nutrì solo di letteratura e di polemiche letterarie. Tassoni fu senza dubbio un lettore caustico e arguto (ma anche non di rado – non si può tacere – corrivo e conformista) dei poeti antichi e moderni, ma non va dimenticato che egli fu un lettore
12 Lettura della «Secchia rapita», a cura di Davide Conrieri e Pasquale Guaragnella, Lecce, Argo, 2016 (d’ora innanzi citata come Lettura Sr); e si veda il ricco catalogo della mostra Alessandro Tassoni spirito bisquadro (12 dicembre 2015-13 marzo 2016), a cura di Grazia Biondi e Cristina Stefani, Musei Civici-Deputazione di Storia Patria, 2015, gli Atti del Convegno Alessandro Tassoni. Poeta, erudito, diplomatico nell’Europa dell’età moderna, a cura di Maria Cristina Cabani e Duccio Tongiorgi, Modena, Panini, 2017, e la recente pubblicazione di Alessandro Tassoni e il poema eroicomico, Atti del convegno di Padova, 6-7 giugno 2019, a cura di Elisabetta Selmi, Francesco Roncen, Stefano Fortin, Lecce, Argo, 2022, uscito quando questo volume era già quasi ultimato, ma di cui pure ho cercato di tenere conto.
13 Luca Ferraro, Nel laboratorio di Alessandro Tassoni: lo studio del «Furioso» e la pratica della postilla, Firenze, Cesati, 2018; Andrea Lazzarini, «Pazza cosa sarebbe la poesia». Alessandro Tassoni lettore del Trecento fra Barocco ed età muratoriana, Modena, Franco Cosimo Panini, 2020.
14 Pietro Puliatti, Profilo storiografico del Tassoni, in Alessandro Tassoni, Annali e scritti storici e politici, pp. ix-xxxii, pp. xv-xvi. A una lettura originale e innovativa del poema è dedicato in gran parte il volume di Alessio Peluso, L’Arridottore. Saggio su Tassoni e la Secchia, s.e., 2020.
altrettanto curioso e aggiornato di un canone di pensiero che comprende filosofi, storici, medici, teologi, scienziati, politici, moralisti quali Machiavelli, Cardano, Patrizi, Porzio, Huarte, Lipsio, Sigonio, Le Roy, Telesio, Bodin (per fare solo qualche esempio tra i moderni): frequentazioni talvolta ai margini del connubio ideologico dominante aristotelico-cattolico della Controriforma, quando non francamente eterodosse e per ciò rivelatrici di attrazioni e tendenze di cui pure è necessario tenere conto15. È da un’idea di cultura più vasta, dunque, benché certamente ancora lacunosa e affrontata a prezzo di qualche compromesso con l’ingente bibliografia esistente su ognuno di questi autori, che ho inteso riesaminare in questo volume alcuni nodi centrali dell’opera tassoniana: l’eroico, il comico, la visione della storia16.
Il rapporto di Tassoni all’eroismo, già indicato da Puliatti come fondamentale in un suo studio (Il Tassoni e l’epica) che fornisce l’orizzonte da cui partire17, qui affrontato nel primo capitolo (Da Alessandro Magno al boia: paradigmi e occasioni dell’eroico tassoniana), sembra essere, almeno a un primo sguardo, scoraggiato o addirittura smentito da un poema (la Secchia) in cui comparirebbero solo pseudorei millantatori vestiti in modo improbabile, armati di pitali e pentole, in lotta per obiettivi ridicoli come il recupero di un secchio senza valore. Se si concede tutt’al più alla satira tassoniana il velo malinconico di un certo disincanto, risultato dell’imminente tramontare degli ideali cavallereschi d’antan nella prima modernità (quasi facendo talvolta del modenese un misconosciuto e un po’ improbabile Cervantes di casa nostra), la ricostruzione di quale fosse concretamente la sua idea di eroismo e a quali figure storiche egli guardasse, al di là dell’ambigua satira del poema, non sembra aver attirato particolarmente gli studiosi. Eppure, come dimostra una lettura ravvicinata delle opere tassoniane e persino, come abbiamo visto, la valorizzazione di alcuni dettagli non trascurabili dell’ambiente in cui l’autore della Secchia visse fino agli ultimi giorni (il ritratto del re di Svezia), la fascinazione per un eroismo basato sull’azione (non sulla contemplazione), sull’impeto (non sulla saggezza), sulla forza fisica e persino, all’occorrenza, sulla subordinazione del diritto alla forza (sulla violenza insomma) non tramontò mai nel modenese e lo accompagnò, si può dire, lungo tutta la vita.
Nato nel 1565, Alessandro Tassoni aveva poco più di sei anni quando gli eserciti cattolici comandati da don Giovanni d’Austria e Marcantonio Colonna
15 Come sottolineava già nel suo importante e forse un po’ dimenticato saggio Giovanni Nascimbeni, La filosofia naturale di Alessandro Tassoni, cit.
16 Ho preso in considerazione l’intera produzione tassoniana, con l’esclusione dello scritto pubblicato da Puliatti col titolo Sopra l’editto publicato da Enrico IV (Annali e scritti storici, cit., vol. i, pp. 137-145) per il quale manca allo stato attuale qualsiasi possibilità di verifica sul piano materiale (non si conosce infatti né l’ubicazione del ms. usato da Puliatti, né l’origine dell’attribuzione a Tassoni, mancando per questi volumi la nota al testo che doveva seguire il vol. ii).
17 Pietro Puliatti, Il Tassoni e l’epica, in «Studi secenteschi», xxv, 1984, pp. 3-52: 16, un saggio che fissa un quadro ideologico-culturale ancor oggi indispensabile per la comprensione dell’opera tassoniana nel suo insieme.
inflissero alle forze della Gran Porta una memorabile sconfitta a Lepanto (7 ottobre 1571). La vittoria cristiana, ottenuta non senza compromessi e dissidi all’interno dell’esercito degli alleati, ebbe – com’è noto – un impatto considerevole, grazie alla abbondante pubblicistica e al rifiorire dell’epica cristiana sulla scia del poema tassiano, sull’immaginario eroico della fine del Cinquecento18. Quale fosse l’impressione sul giovanissimo Tassoni di quell’avvenimento non possiamo saperlo, ma egli, verosimilmente durante i suoi anni di apprendistato universitario (1582-1585) o poco dopo, la annotò come un fatto memorabile in una cronologia comparata dall’origine del mondo fino all’anno 1582 stesa per uso personale19. Tra i pochissimi avvenimenti registrati negli anni a lui più vicini (1550-1570) troviamo infatti, ricordati senza commenti, i fatti più sanguinosi relativi alle guerre di religione tra cattolici e protestanti (massacro del gesuita Ignazio de Azevedo e dei suoi compagni nell’arcipelago delle Canarie nel luglio 1570, repressione del movimento protestante in Francia, sollevamenti delle Fiandre contro la Spagna) e, per il 1571, appunto, il ricordo della vittoria cristiana («Die octo octobris fusus est excercitus Turcarum et captae a nostris 160 triremes»). Più tardi, negli anni del servizio in qualità di segretario presso il cardinale Ascanio Colonna (1598-1604)20, Tassoni avrebbe provato a cantare l’impresa di Lepanto in una canzone encomiastica (Per Marcantonio ed Ascanio Colonna) in cui il tragico e sublime spettacolo del «fior d’Africa» disfatto dai cristiani sembra attirare il poeta assai più che il valore e l’eroismo dei litigiosi alleati (Venezia, la «reina del mar» la Spagna, l’esercito pontificio):
Gemea Nettun sotto l’orribil soma delle navali squadre che estinte avean le selve d’Orïente, quando il folgor di Roma dall’italico ciel mosse il gran padre; onde atterrar repente la reina del mar vide e l’Ibero l’empio furor dell’ottomano impero.
18 L’impatto e la varietà della produzione attorno alla battaglia è apprezzabile grazie al repertorio stilato da Simona Mammana, Lepanto: rime per la vittoria sul Turco. Regesto (1571-1573), Roma, Bulzoni, 2007.
19 La cronologia è conservata in autografo unitamente a una specie di piccola enciclopedia e compendio di scrittori sacri (Index scriptorum ecclesiasticorum) nel ms. San Carlo 4 della BEU. In realtà le tavole cronologiche stese da Tassoni arrivano fino al 1572, con una sola annotazione per il periodo seguente a quest’anno (la correzione del calendario voluta da Gregorio XIII nel 1582 (a f. 182r). Il ms. non è datato, ma sembra da assegnare comunque, per caratteristiche di scrittura, agli anni giovanili. Le schede sugli scrittori ecclesiastici mostrano però interventi successivi (anch’essi però non databili con sicurezza), forse da ricondurre al lavoro per il compendio degli Annali del Baronio cominciato nell’anno 1600 e continuato fino alla morte.
20 Fiorella Sacchiero Parri suggeriva che già nel 1598 Tassoni fosse stato, se pur in modo estemporaneo, al servizio del Colonna, seguendo poi stabilmente a partire dall’aprile 1599: cfr. Lettere e minute inedite di Alessandro Tassoni (1600-1604), a cura di Fiorella Sacchiero Parri, Lugano, Tipografia etf, 1997, p. iv
Dell’una e l’altra Esperia al gran valore fu allora l’Ionio angusto, né tutti ricoperse i corpi estinti. Quivi d’Africa il fiore cadde, quivi lasciar l’onor vetusto d’Asia abbatuti e vinti i regni, e monti alzar meravigliosi d’armi e di membra in mezzo i campi ondosi.
Ancor più significativa risulta la seconda parte della canzone, quando l’encomio si volge dal padre condottiero (cui sono dedicate le prime tre stanze) al figlio cardinale, i meriti del quale consistono nell’essere stato eletto nel Sacro Collegio dal «gran Sisto» (Sisto V) per volontà del «re ispano» (Filippo II):
… ché se rischi tremendi corse quegli [scil. il padre Marcantonio] coll’armi invitto in guerra, tu glorïoso in pace col consiglio governi e a parte il pondo sostieni della Chiesa, anzi del mondo.
Ben vide sul fiorir maturo il senno di quell’alma il re ispano e l’additò al gran Sisto e gliel dipinse; ond’egli a tanto cenno, gli occhi volgendo al tuo valor sovrano, il nobil crin ti cinse d’ostro e provvide con lodato esempio di sì ferma colonna al divin tempio.
Ma tu mi lasci, o Clio, onde cede il mio canto al gran disegno e a soggetto immortal mortale ingegno21
Le imprese guerresche non soccorrono più l’encomio e bisogna passare a cantare la pace e le gravi cure del cardinale, rappresentato come un novello Atlante sotto un peso schiacciante, ma squisitamente burocratico-amministrativo («… glorïoso in pace | col consiglio governi e a parte il pondo | sostieni della Chiesa, anzi del mondo»). La lode deve insomma spingersi sul crinale scivoloso dell’iperbole (quello battuto anche dal Marino nella dedica a Paolo V delle Dicerie sacre), con Filippo II e Sisto V trasformati in divinità onnipo-
21 Per Marcantonio ed Ascanio Colonna, in Rime (1880), pp. 39-40. La canzone, non datata, è da assegnare ovviamente agli anni in cui Tassoni fu al servizio del Colonna (1598-1604). Da ricordare che nel contesto della polemica con l’Aromatari sul commento a Petrarca (nel 1611) Tassoni cita proprio queste due stanze, senza indicarne l’autore, come esempio di stile sublime (Avvertimenti Pepe, pp. 3334), segno che ai suoi occhi la canzone, al di là del tema, aveva un qualche valore anche a distanza di anni.
tenti (come nel venturo concilio degli dèi della Secchia), ma per arrestarsi poi bruscamente, grazie al provvidenziale topos dell’ineffabilità e all’abbandono da parte della Musa preposta alla materia storica («Ma tu mi lasci, o Clio, | onde cede il mio canto al gran disegno…»)22.
Si potrebbe liquidare lo squilibrio evidente tra la lode sublime del grande condottiero vincitore dei Turchi e quella del figlio cardinale come una malriuscita prova di poesia cortigiana, magari estorta a forza al Tassoni. Al contrario, essa pare sintomatica di un rapporto all’eroico e alla guerra (qui incarnati dalla figura di Marcantonio, il «grande eroe, | che fé di sangue moro | e trace e siro e greco | già di Lepanto il mar rosso e vermiglio», cui Tassoni tributava all’incirca negli stessi anni anche un elogio in latino) che accompagnerà il modenese per tutta la vita, dando origine a un atteggiamento che è fatto sì di disincantata e cinica negazione (come si è spesso ripetuto), ma anche (e ciò è rimasto forse più in ombra) di nostalgia, di idealizzazione, di indefessa ricerca di una figura eroica capace di essere posta a fianco, non solo di quelle antiche, ma anche di figure più vicine, sebbene sempre più rare23. Se infatti gran parte dell’opera tassoniana è dedicata – come sappiamo – alla critica (quando non alla demolizione) di idola giudicati indegni della fama e del prestigio acquisiti (non di rado grazie alla complicità degli scrittori e in particolare dei poeti), si tratta di capire se tale movimento critico-polemico conservi traccia di un’adesione – più o meno esplicita, più o meno cosciente – a modelli a vario titolo giudicati esemplari. Si tratta insomma di cercare un nucleo positivo nascosto all’interno della persistente impresa demolitoria o demistificatrice di sempre nuovi obiettivi (la poesia petrarchesca, la poesia pseudoeroica di uno Stigliani e di un Bracciolini, la storia ecclesiastica del Baronio): una dimensione celebrativa che, lungi dall’essere oscurata o smentita dal progetto eroicomico,
22 Sarebbe interessante riflettere sul rapporto tra dediche (serie) e la gestazione dell’eroicomico come fenomeno non solo d’autore, ma frutto di un’epoca che aveva spinto la lode su un crinale in cui (agli stessi dedicatari) poteva suonare incongrua e ridicola. Sulla dedica delle Dicerie sacre mariniane, quasi provocatoriamente iperbolica (il pontefice vi viene definito «armato di doppia spada, spirituale e temporale – il cui impero si termina con le stelle – al cui scettro ubbidisce il mondo, trema l’Inferno») vedi le osservazioni di Clizia Carminati, Giovan Battista Marino tra Inquisizione e censura, Roma-Padova, Antenore, 2008, pp. 133-135 e il commento di Erminia Ardissino in Giovan Battista Marino, Dicerie sacre, introduzione, commento e testo critico a cura di Erminia Ardissino, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 59-60.
23 Il ricordo della battaglia di Lepanto come esempio di successo bellico dovuto alla «presta esecuzione» (uno dei temi prediletti dal pensiero di Tassoni sulla guerra), i cui effetti furono però vanificati dagli indugi dell’anno successivo (in cui, com’è noto, furono le flotte turche ad avere la meglio) torna nei Pensieri: viii, 37, Che sia più essenziale nella guerra o la buona elezione o la presta esecuzione, pp. 743-744 (e già in Parte de’ quesiti, cxlix, p. 174 e, con qualche variante, nei Quesiti e risposte, clxxx, p. 319). Sulle dinamiche della battaglia rimando alla sintesi di Michel Lesure, Lépante. La crise de l’Empire ottoman, Paris, Gallimard, 2013 (19721) e per il ruolo del Colonna alla biografia di Nicoletta Bazzano, Marco Antonio Colonna, Roma, Salerno editrice, 2003, pp. 121-161. Per l’elogio tassoniano di Marcantonio Colonna, padre del cardinale, rimando al testo pubblicato in Gabriele Bucchi, Autografi e scritti sconosciuti di Alessandro Tassoni nell’Archivio Colonna di Subiaco (Elogio di Marcantonio Colonna e Annotazioni sopra Cornelio Tacito), in «Studi di erudizione e di filologia italiana», x, 2021, pp. 379-436.
resta intatta e viva, pur mutando di referenti, in tutta la vicenda intellettuale di Tassoni. Alessandro Magno (più che Cesare), Traiano (più che Adriano), Giuliano l’Apostata (più che Costantino), Federico II di Svevia, i primi Estensi (non quelli dei suoi tempi), Ezzelino da Romano, condottieri e capitani del XVI sec. quali Giacomo Medici o Marcantonio Colonna (il vincitore di Lepanto), re guerrieri quali Francesco I ed Enrico IV di Francia, l’irrequieto Carlo Emanuele di Savoia, il già citato re svedese caduto a Lützen: sono figure su cui Tassoni proiettò, con improvvisi entusiasmi accompagnati in qualche caso da cocenti delusioni (il duca di Savoia), ideali e persino sogni eroici e guerrieri.
La ricerca di un paradigma eroico nella Difesa d’Alessandro il Macedone, non pubblicata ma rifluita in vario modo nelle opere successive (dal Discorso sul duodecimo dell’Inferno ai Pensieri al compendio degli Annali baroniani), per non parlare di scritti solo in apparenza minori come il Discorso in biasimo delle lettere e lo sconcertante e troppo trascurato Elogio del boia, permette di fissare non solo una galleria personale di esempi e controesempi illustri, ma di enucleare anche l’orizzonte di valori in materia di governo e, come si direbbe oggi, di leadership militare (la sola che per l’autore della Secchia conti davvero).
Il risultato è una contestazione vigorosa, quantunque spesso obliqua, nei confronti di tutta una doxa controriformista e della relativa mitografia del buon capitano prudente e pio, immortalata per tutta una generazione di scrittori dal Goffredo tassiano. A tale modello esemplare, celebrato abbondantemente dalla trattatistica del tardo Cinquecento, Tassoni oppone, se pur in modo dissimulato, figure pre o addirittura a-cristiane (come quella dell’imperatore Giuliano l’Apostata), in completa opposizione a quelle armi pietose che per Tassoni sono, prima ancora che un’espressione infelice sul piano grammaticale o il motto memorabile di un blasone letterario arrivato al capolinea (donde nascerebbe l’eroicomico come nuova via rispetto a un epos esauritosi), un vero e proprio ossimoro sul piano etico: la pietà e la clemenza non sono per il modenese virtù del guerriero e forse, in generale, non sono per nulla virtù encomiabili. Anche per Tassoni, come scrisse esemplarmente Gino Benzoni a proposito degli elogi post mortem del poco letterato Cosimo I de’ Medici, «il comando si dissocia dalla cultura»24.
Alla funzione del comico (o, come forse sarebbe preferibile dire, del ridicolo) nell’opera tassoniana è dedicato il secondo capitolo (Oltre la «regio ridiculi». Effrazione del limite e strategia della ridicolizzazione). Quasi ogni pagina uscita dalla penna del modenese – dagli scritti storici al poema, da tante pagine dei Pensieri alle lettere inviate agli amici più fidati – porta la traccia e si vorrebbe dire la necessità incontrollabile di deridere qualcosa e soprattutto qualcuno. La derisione è dunque consustanziale alla sua visione del mondo,
prima ancora che questa visione si trasformi in discorso letterariamente atteggiato (vedi le lettere)25. Sebbene Tassoni, in particolare nei paratesti che accompagnano la Secchia rapita, si diffonda soprattutto sulle proprie innovazioni in materia di genere e di stile, a mio avviso è possibile e forse produttivo interrogarsi sulla sua idea del ridicolo anche al di fuori di quelle coordinate autodifensive, peraltro non sempre univoche (comico plebeo vs comico “d’arte”, naturalità del comico vs artificosità pedante, comico universale e tipologico vs satira ad personam). In particolare, è sembrato utile reimmettere nella discussione due tipologie di approccio non strettamente retorico-stilistiche, ma relative da un lato alla sfera della morale e della psicologia della derisione, dall’altro al ridicolo come fenomeno dotato di un suo perimetro storico e sociale. Il riso – considerazione banale ma spesso dimenticata – non è un fenomeno astratto dalla società che lo accoglie (e lo vigila). Il derisore, come ci insegna la riflessione novecentesca (da Bergson a Freud, soprattutto, da Propp a Koestner), per avere successo deve continuamente confrontarsi non solo con il destinatario, ma soprattutto con ciò che è considerato lecito e ammissibile deridere nella società in cui vive. Se il comico può venire affrontato e descritto secondo categorie a-storiche, è però anche in rapporto a ciò che di volta in volta viene considerato lecito dalla società (a quella che già Cicerone chiamava la regio ridiculi) che il suo significato come strategia di complicità tra autore e pubblico va valutato. Mi è parso per questo utile dedicare spazio, sulla base di un’ampia bibliografia esistente, alla ricostruzione del dibattito cinquecentesco sui ridicula per cercare di indagare quale sia la posizione e la prassi del modenese in merito. L’indagine sul ridicolo porta, inoltre, alla luce l’atteggiamento di Tassoni rispetto ad alcuni nodi del pensiero filosofico-morale più in generale. La presenza pervasiva del riso e della derisione nell’opera tassoniana non è, infatti, unicamente un processo di degradazione stilistica effettuato nel laboratorio del poeta né di risentimento intriso di sdegno e moralismo contro nemici e avversari (sebbene sia anche questo), ma è il sin-
25 L’epistolario tassoniano, notoriamente di scarso rilievo sul piano dell’evocazione storicoculturale del tempo e dell’autoriflessività autoriale (cfr. Martino Capucci, Ritratto del Tassoni dalle lettere, in Sr 1990 (atti), pp. 13-18) è però, diversamente da altri epistolari secenteschi (Chiabrera, Marino), una testimonianza inestimabile, forse ancora sottovalutata, a parte le lettere sulla Secchia, dell’indole e del pensiero dello scrittore che, soprattutto con l’intimo amico Annibale Sassi (il corrispondente privilegiato del corpus epistolare conosciuto), si lascia andare ad affermazioni a bassissimo grado di autocensura, che ci permettono in più di un caso di attingere quella postura di fronte al mondo e alla società che gli scritti ufficiali o le lettere a destinatari illustri non sempre ci permettono di conoscere. Non stupisce che Tassoni fosse circospetto sulla publicazione delle proprie missive, che (come confessava a Onorato Claretti, che gliele chiedeva per una raccolta poi mai realizzata: su cui cfr. Clizia Carminati, L’epistolario di A.T., cit., pp. 58-61) avevano tutte «qualche canchero incurabile di cose aromatiche che né a V.S. né a me sarebbe sicuro da publicare» (lettera del 1 febbraio 1614 in Lettere, I, pp. 132-133). L’importanza dell’epistolario tassoniano sul piano della storia economica (particolarmente importante per un’epoca di crisi come gli anni Venti del XVII sec.) fu riconosciuta da Sébastien Camugli, Notes sur la vie de Tassoni, in Mélanges de philologie, d’histoire et de littérature offerts à Henri Hauvette, Paris, Les Presse Françaises, 1934, pp. 295-299.
tomo di un pensiero antropologico nutrito di pessimismo scettico e di fatalismo tragico. Si tratta di una visione che (semplificando) può essere detta antiumanistica, in quanto espressione di un pensiero che, sulla base di una linea che va da Pomponazzi a Porzio a Cardano, rimette in discussione i fondamenti su cui l’umanesimo si era costruito più di un secolo prima e che Tassoni, per ragioni di indole personale e di reazione a correnti più conformiste e pacifiche, sente particolarmente congeniale e produttiva per dire e contraddire il mondo dei suoi tempi.
Al tentativo di fissare alcune coordinate di quella che, con una parola un po’ impegnativa ma efficace, si potrebbe dire la filosofia della storia di Tassoni è dedicato il terzo capitolo (La visione della storia). Il Tassoni storico resta ancor oggi in ombra (forse un po’ troppo) rispetto al poeta, benché già più di quarant’anni fa Pietro Puliatti ricordasse come quella vocazione «condiziona in qualche misura l’opera di poesia, specie nei suoi risvolti politici, e riveste funzione di valore civile»26. Almeno dalla metà del XVI sec. la scrittura della storia era diventata, com’è noto, un terreno di confronto importante a livello europeo (anche come quantità di titoli immessi nel mercato), al centro di un dibattito che toccava non soltanto l’aggiornamento del canone umanistico degli storici antichi (Tacito vs Livio per fare un solo esempio), ma innescava discussioni inedite sul valore gnoseologico della storia, sul rapporto tra questa e la cronaca, tra la missione dello storico e la sua pericolosa prossimità (se non addirittura la sua alleanza) col potere. Più che a un approccio rigorosamente speculativo (a lui poco congeniale e non più tentato nella forma del dialogo dopo l’archiviazione della Difesa d’Alessandro), Tassoni sembra interessato alla pratica della scrittura storica come discorso teso allo smascheramento degli interessi e al disvelamento delle passioni di chi agisce, in uno stile che oscilla tra quello del cronista, del moralista e del satirico. In questa missione il suo maestro è ovviamente Tacito, e più precisamente il nuovo Tacito di Giusto Lipsio. Il «principe degli scrittori politici» (per dirla con Boccalini) domina nel canone storico (almeno fino alle contestazioni di un Famiano Strada e di un Mascardi) non solo come uno dei più grandi scrittori dell’antichità, ma anche come l’interprete di un’epoca (quella descritta in particolare nei primi libri degli Annales) che poteva servire da specchio alle dinamiche dell’assolutismo tardorinascimentale. La prospettiva attualizzante e la comparatio temporum inaugurata da Lipsio nella dedica a Massimiliano d’Austria della sua edizione tacitiana, come dimostrano proprio gli scritti tassoniani, calzava a pennello anche per quella monarchia un po’ speciale (ma pur monarchia) che era la corte pontificia in cui si trovava a operare il modenese.
L’interesse per la rivisitazione del passato come trampolino e schermo del contemporaneo (un portato del tacitismo praticato dal Tassoni almeno a par-
tire dall’ultimo decennio del XVI sec.) è evidente anche nel progetto eroicomico, in cui tuttavia (almeno a partire dagli studi eruditi di Venceslao Santi) l’attenzione degli studiosi si è concentrata soprattutto sugli obiettivi satirici legati al contemporaneo e, soprattutto in passato, al gioco indiziario dell’individuazione dei referenti reali nascosti dietro le maschere medievali, mentre l’ambientazione e i personaggi storici del XIII sec. (da re Enzo a Salinguerra, da Ezzelino al legato Ubaldini) sono stati relegati a semplici silhouettes con funzione di depistaggio o schermo. Se sarebbe senz’altro esagerato ribaltare completamente questa tesi, minimizzando la portata satirica del poema, è sembrato tuttavia interessante provare a sondare più da vicino l’investimento ideologico tassoniano nel campo della ricezione della storia medievale e in particolare delle lotte tra Papato e Impero che fa da sfondo, almeno a partire dal secondo canto, alla Secchia. Già vent’anni prima nel Ragionamento sopra il duodecimo dell’Inferno e poi in non pochi passi dei Pensieri e negli Annali, il Medioevo affiora negli scritti del modenese come un’epoca cruciale per comprendere i rapporti di forza tra potere spirituale e potere temporale. È questo uno degli aspetti della storia occidentale che interessa Tassoni più da vicino e costituisce per lui un filo rosso che percorre le vicende umane dai primi secoli del cristianesimo al Medioevo fino a quell’età contemporanea in cui il pastorale tornava a imporsi sulla spada, in un braccio di ferro condotto con modalità nuove, certo (cardinali armati sul campo di battaglia non se ne vedevano più), ma non meno vittorioso in termini simbolici e politici per la Chiesa (dalla devoluzione di Ferrara all’interdetto contro Venezia). In questa prospettiva ho ritenuto utile dare maggior visibilità a un’opera che, salvo poche eccezioni, sembra ancor oggi restare fuori dagli interessi della bibliografia tassoniana: il Ristretto degli Annali ecclesiastici e secolari del cardinal Baronio27 .
27 Vista l’importanza dell’opera, cui ci si riferirà spesso in seguito e che è accessibile agli studiosi solo parzialmente (fino cioè all’anno 756 d.C.) in edizione moderna (quella pubblicata da Puliatti nel vol. ii degli Annali e scritti storici sulla base della redazione autografa manoscritta in cinque tomi: Modena, BEU, mss. It. 154 A/B, 155-157), per agevolarne la collocazione nel quadro dell’opera tassoniana è forse opportuno ricordare qui alcuni dati storico-crologici. Per testimonianza dello stesso Tassoni, il lavoro agli Annales del Baronio fu avviato «l’anno santo» (cioè nel 1600), quando il modenese, stando a una lettera al Sassi (del 26 dicembre 1615 in Lettere, i, p. 240), compendiò in latino i primi otto volumi (gli unici fino ad allora apparsi). Sulla base del primo compendio latino (sul quale non si hanno maggiori notizie) Tassoni si rimise al lavoro attorno al 1615 per una versione in italiano («Io son dietro a compendiare in volgare gli Annali del Baronio e spero, se non vengo distornato, di finirgli in un anno e dir più cose e più distinte e più brevemente che niuno degli altri compendiatori latini»: ibidem), menzionata anche nel carme indirizzatogli da Antonio Querenghi nella sua raccolta poetica latina uscita nel 1616 (si cita dalla stampa di due anni più tardi: Ant. Quaerengi Hexametri carminis libri sex, Romae, apud Bartholomaeum Zanettum, 1618, pp. 65-66). Nel 1618 si interessava alle polemiche sorte in campo protestante attorno alla storia del Baronio (Lettere, i, p. 367) facendo venire alcuni libri dalla Germania. Agli inizi del 1622 il lavoro si dava per finito e Tassoni cercava uno stampatore per pubblicare l’opera a Venezia in un tomo in folio (prevedendo evidentemente già le difficoltà che incontrava in quel momento la Secchia a Roma: lettera dell’8 gennaio 1622 in Lettere, i, p. 113). L’opera dovette passare in una data imprecisata alla revisione ecclesiastica per l’imprimatur. L’affare comincia a complicarsi e dal testamento del 7 luglio 1630 (che istituisce erede dei beni e dei mss. tassoniani il cardinale Ludovisi) sappiamo che il ms. degli Annali si trovava in quel momento presso il maestro del Sacro Palazzo (dal
Fatta la tara dei soliti umori polemici talvolta un po’ effimeri, la storia universale di Tassoni, nel suo dare spazio (come ha giustamente sottolineato Massimiliano Malavasi in uno dei rari contributi sugli Annali) alle vicende del potere civile in parallelo (e spesso in opposizione) a quelle della storia ecclesiastica, nel suo disinnescare costantemente una lettura provvidenziale e teocentrica delle azioni umane si profila, a mio avviso, come la più originale e audace delle opere tassoniane e forse la sola che può garantire al modenese un posto credibile nella storia del pensiero scettico e libertino della modernità, anticipando per certi aspetti di critica all’uso strumentale del potere religioso una delle opere fondative della storia moderna come le Siècle de Louis XIV di Voltaire.
Mi resta da spiegare il titolo del volume, che trae spunto da una pagina poco nota dei Pensieri in cui Tassoni affronta un problema che tocca ogni uomo: quello dell’invecchiamento e della decadenza del corpo e, più in generale, del posto dell’uomo nel mondo28. Riporto qui il quesito (v, 43) pressoché
1629 Niccolò Riccardi, il “padre Mostro” censore delle opere di Stigliani, Galileo, Campanella, Sarpi su cui vedi Clizia Carminati, Giovan Battista Marino tra Inquisizione e censura, cit., pp. 249-250; Thomas F. Mayer, The Roman Inquisition. Trying Galileo, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2015, pp. 121-146). L’opera tassoniana, nonostante la mole, comincia a essere nota negli ambienti dell’Oratorio e in curia, dove diversi cardinali ne fanno fare una copia (vedi quanto ne scrive da Modena a Cassiano dal Pozzo nel 1634 riferendosi a fatti avvenuti anni prima: lettera del 14 aprile 1634 in Lettere, ii, p. 330). Nel 1631 Tassoni riottiene il ms. dal padre Mostro, grazie ai buoni uffici di Cassiano Dal Pozzo, ma il secondo tomo (che copre gli anni 395-796 d.C.) è stato scambiato con una copia censurata e Tassoni protesta per riavere la sua (vedi l’eloquente nota di protesta apposta successivamente sul tomo ii, oggi in BEU, ms. It. 155, qui riprodotta, immagine 7). Nel 1632 Giambattista Brugiotti (quello stesso che otto anni prima aveva stampato la Secchia rapita corretta da Urbano VIII e fratello di Andrea copista del cardinal Baronio) avverte il modenese che Cesare Becilli, ex medico e poi padre filippino, ha già pronte alcune risposte in difesa del Baronio contro di lui (su cui vedi Massimiliano Malavasi, «Nelle cose d’istoria la santità non ha luogo». Il Tassoni di fronte al Baronio, in A.T. poeta, erudito, cit., pp. 77-96: p. 94). Nel testamento dello stesso anno (il sesto), il ms. viene destinato alla Comunità di Modena, anche se T. si ripromette di fare nuove aggiunte a quanto già scritto (Testamenti, 6 maggio 1632, p. 318); mentre successivamente il ms. verrà destinato all’amico Fulvio Testi, con preghiera di farlo stampare (Testamenti, 30 marzo 1635, p. 324), ma della stampa non se ne farà nulla. Come mostrato già da Malavasi in uno dei pochissimi contributi su quest’opera (Massimiliano Malavasi, «Nelle cose d’istoria la santità non ha luogo», cit., pp. 85-86) e come ricorderò altrove in questo volume, l’opera mostra aggiunte e correzioni fino all’ultimo anno di vita dello scrittore. Tassoni fu impegnato dunque in questo progetto di storia universale per trentacinque anni e dunque (un fatto che non pare trascurabile) negli stessi anni in cui attendeva al poema eroicomico (1614-1618). Purtroppo, l’edizione di Puliatti non riporta le cassature (d’autore?) di frasi in più di un caso particolarmente audaci nei confronti del potere ecclesiastico: necessario è dunque il riscontro sui mss.
28 Se non ho visto male nella bibliografia tassoniana la pagina è ricordata, ma di sfuggita, solo da due studiosi: Giovanni Semprini, Aspetti e motivi filosofici negli scritti di Alessandro Tassoni, in Studi tassoniani. Atti e memorie del convegno nazionale di studi per il iv centenario della nascita di Alesssandro Tassoni, Modena 6-7 novembre 1965, Modena, Aedes Muratoriana, 1966, pp. 319-338: 324 e in quello di Andrea Battistini, Avvisaglie del moderno in Alessandro Tassoni, in A.T. poeta, erudito, cit., pp. 3-18: 16, che ne cita un breve estratto come esempio di demistificazione tassoniana della vanagloria dell’uomo. A me preme collegare questa pagina a quella visione tassoniana materialistica e scettica dell’esistenza (di cui il biasimo della vanagloria è a mio avviso più un corollario che il vero primo motore), che ho tentato, attraverso la lettura delle opere, di far emergere in questo volume. A questa componente ha richiamato l’attenzione, nell’ambito della polemica antipetrarchesca, anche Andrea Lazzarini, «Pazza cosa sarebbe la poesia», cit., pp. 136-141, 150-156.
nella sua interezza, giacché esso rappresenta a mio avviso, uno dei momenti più seri, memorabili e profondi dell’opera di questo scrittore originale, arguto, talvolta audace, ma certo non sempre profondo, e insieme una delle pagine in cui meglio si esprime la sua visione antropologica:
Perché l’uomo, avendo l’anima immortale, abbia il corpo di così breve vita
Che ’l temperamento del corpo umano avanzi di gran lunga di perfezione quello di tutti gli altri animali non è da mettere in dubbio. Che similmente l’uomo viva con più riguardo di sé medesimo che non fanno gli altri animali che s’abbandonano dietro all’appetito e al senso non ha contradizione di sorte alcuna. E che, oltr’a ciò, l’uomo, quando da qualche infirmità si ritrova aggravato, curi se stesso con più esquisitezza e industria che gli altri animali non fanno, niuno il mi negherà. E con tutto ciò molti animali si trovano abietti e di niun uso, si può dire, nel mondo che campano più di lui. Onde sproporzione grandissima pare che in un dono della natura tanto eccellente quanto è la vita, di cui ella non può dare il maggiore, il re degli animali sia inferiore ad un’oca o ad una cornacchia e che abbia accoppiato con un’anima immortale un mortalissimo corpo che di bellezza e di perfezione di stormenti avanza tutti gli altri corpi animati e di fragilità rimane inferiore ai più vili. Spettacolo miserando vedere un corpo umano che par fattura di paradiso, le cui membra tutte spiran vaghezza, le cui carni vincono di candore la neve, di morbidezza il latte, di pulitezza l’avorio, che dalle statue di pietra rapirebbon gli abbracciamenti; vedere un volto che d’animate rose bianche e vermiglie par mirabilmente composto, che da due occhi splendenti come stelle nel più sereno cielo lampeggia fiamme d’invisibil fuoco, che dalla bocca e dal riso piove soavità e dolcezza, i cui tremuli, ondeggianti e dorati capelli par ch’allaccino l’alme, i cui gesti, i cui motti tutti spirano amore, e in un girar di ciglio vederlo tutto cangiare e languire e morire e illividirsi e putrefarsi e convertirsi in fetentissimi vermi. Onde a ragione esclamava quell’infermo nel trattato di Senocrate della Morte: Heu hac luce iisque bonis privabor, iacebo obscurus, gustu visuque captus putrescam, in vermes ferasque convertar. Natura ingrata e maligna, a che produrre al mondo cose così belle per farne poscia sì lagrimevole strazio, sì miserabil dispregio? Nondimeno, a chi ben rimira, il tutto è stato mirabilmente disposto e con grandissima providenza ordinato percioché l’uomo è veramente animal religioso e porta questo istinto seco dal nascimento; ma dall’altra parte è di maniera ambizioso e vago di sé medesimo e delle pompe sue che con tanti privilegî sovra gli altri animali di discorso, di lume d’intelligenza e di corporal bellezza e attitudine a tutte le cose, chi non gli avesse posto un fren rigoroso, sarebbe salito in superbia tale ch’a guisa di Lucifero avrebbe idolatrato se stesso o sprezzato Dio. Il freno fu la brevità della vita e ’l continuo timor della morte, nella qual rimirando subito abbassa l’ali, sprezza le pompe sue e dal vagheggiamento di sé medesimo si rivolge a conoscere e adorare il suo creatore. Così veggiamo che il pavone, spiegata che ha la ruota delle sue occhiute penne, pompeggiando e vagheggiando se stesso, se volge lo sguardo a’ piedi difformi e neri ch’egli ha, subito strigne l’ali, lascia cader la coda, discompone le piume e stride con alta voce, quasi riconoscendo l’ambizione sua folle e la sua vana superbia29
29 Pensieri, v, 43, pp. 568-569. Il pensiero si chiude con due esempi, qui omessi, quello di Serse e di Tolomeo Filadelfo, il quale disse che «i poveri che mangiavano sotto le sue finestre erano più felici di lui». La citazione da Senocrate deriva dal dialogo, oggi posto tra gli apocrifi platonici, Axiochus che Tassoni cita secondo titolo e attribuzione trasmessi dalla traduzione latina del dialogo, dovuta a Marsilio Ficino (a stampa nel Cinquecento per es. nell’antologia platonica Alcinoi philosophi platonici de doctrina Platonis liber. Speusippi Platonis liber de Platoni definitionibus. Xenocratis philosophi
Nella pagina, costruita su un movimento in tutto simile a quello che, applicato alla forma dell’ottava, sarà poi divulgato sul piano stilistico dal poema eroicomico (la caduta dall’alto al basso: principio gnoseologico di rappresentazione della decadenza consustanziale alla vicenda umana, dunque, più che semplice artificio con funzione burlesca o genericamente “degradante”), il «re degli animali», la «fattura di Paradiso» si trasforma «in un girar di ciglio» nientemeno che in «fetentissimi vermini». Nonostante l’evocazione fuggevole di Dio (che parrebbe però esistere, nella teodicea tassoniana, soprattutto per dare la possibilità alla natura doppia dell’uomo di esprimersi nel suo versante ribellistico e diabolico), è qui espressa quella visione materialistica e puramente fisiologica dell’esistenza che, pur tra reticenze e scappatoie prudenziali, affiora in tante pagine tassoniane (e infatti il quesito prende le mosse da considerazioni sul temperamento del corpo umano attraverso uno degli autori antichi più cari al modenese, Galeno). Davanti al principio di decadenza e corruzione che governa l’unica cosa di cui egli sia padrone (il proprio corpo), l’uomo è un pavone, ma non il pavone della poesia barocca, l’animale simbolo (per ricordare un celebre libro di Jean Rousset) dell’ostentazione edonistica e della meraviglia30, «l’occhiuto augel di più color fregiato, | e del bel lembo che s’indora e inostra | di fiori incorrottibili gemmato, | dilettoso spettacolo a chi ’l mira» cantato nell’Adone (vi, 79, 4-7). Il pavone di Tassoni non è il protagonista di un «dilettoso spettacolo» in cui la bellezza ha l’ultima parola sulla morte («di fiori incorrottibili gemmato»), bensì il patetico commediante di un «miserando spettacolo» in cui è sempre la morte a vincere («Nel regno della morte non si dà felicità» come si legge in una frase dei Quesiti poi cassata dai Pensieri)31. È insomma lo spettacolo tragico e ridicolo allo stesso tempo di una condizione umana vista dal modenese come fatalmente prometeica e luciferina, ma ultimamente effimera e infelice (più infelice di quella «di un’oca o di una cornacchia») e che ha il suo emblema nei piedi deformi e nel grido disperato con cui l’animale, più impotente e rabbioso che davvero pentito della propria superbia, sconsolatamente li contempla.
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platonici liber de morte, Basileae, 1532, la citazione di Tassoni a p. 112). Da notare che la citazione tassoniana (corrispondente al paragrafo 365c delle edizioni moderne: Platon, Oeuvres complètes, xiii, 3, Dialogues apocryphes, texte établi et traduit par Joseph Souilhé, Paris, Les Belles Lettres, 1962) deriva dal discorso che il moribondo Assioco fa prima della dimostrazione dell’immortalità dell’anima da parte di Socrate, a conferma dell’adesione più a una prospettiva materialista che a quella di una consolazione ultraterrena, cristiana, platonica o neoplatonica che essa sia.
30 Jean Rousset, La littérature de l’âge baroque en France. Circé et le Paon, Paris, Corti, 1953, pp. 219-221.
31 Quesiti, lxxxix, Qual sia il più felice animale dall’uomo in poi, in Quesiti, p. 146. La frase citata con cui prende avvio il quesito sembra scomparire nelle edizioni successive dei Pensieri (cfr. Pensieri, v, 28, Quale sia l’animale più simile all’uomo, p. 549).
Questo libro è il frutto di un decennio di ricerche su Alessandro Tassoni. Tolto qualche spunto anticipato in due saggi (La tragedia e la farsa delle cose umane: Tassoni e Tacito, in «Studi secenteschi», lv, 2015, pp. 3-29; Derisione, punizione, nostalgia: il riso ambiguo dell’eroicomico, in L’eroicomico, a cura di Giuseppe Crimi e Massimiliano Malavasi, Roma, Carocci, 2020, pp. 249-266) e qui rifuso rispettivamente nei capitoli 2.3 e 3.1, esso è interamente inedito. Nel congedarmi dal mio lavoro, oltre alle scuse più o meno sincere di prammatica per non aver saputo osservare l’aureo monito di Giambattista Vico («non doversi gravare di più libri la repubblica delle lettere, la quale per tanta lor mole non regge»)32, mi piace ricordare anzitutto gli studiosi con cui ho potuto condividere, in occasioni di incontri di studio o di scambi personali (alcuni dei quali ormai lontani nel tempo) alcune idee su singoli aspetti dell’opera tassoniana, ricevendo sempre – anche quando i nostri approcci e le nostre vedute non coincidessero – il conforto di una bella conversazione intellettuale e l’esempio di un confronto maturo e disinteressato. Grazie dunque a Guido Arbizzoni, Maria Grazia Bianchi, Clizia Carminati, Luca Ferraro, Massimiliano Malavasi, Alessio Peluso, Anna Laura Puliafito, Tiziana Provvidera, Emilio Russo, Enrico Zucchi. Ad Andrea Lazzarini devo in particolare la generosa condivisione di materiali tassoniani rari o inediti, nonché uno scambio sempre proficuo attorno agli studi tassoniani di ieri e di oggi. Al dott. Marco Capriotti va un sincero ringraziamento per l’aiuto prezioso nella stesura dell’indice dei nomi. Esprimo in questa occasione la mia riconoscenza anche al personale delle biblioteche italiane che mi hanno fornito, spesso gratuitamente, informazioni e riproduzioni a distanza: Biblioteca Estense e Universitaria di Modena, Archivio Storico Comunale di Modena (in particolare Giuseppe Bertoni), Biblioteca del Monumento Nazionale di Santa Scolastica di Subiaco, Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Biblioteca dell’Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana (nella persona del direttore e amico Marco Guardo), Biblioteca della Fondazione Luigi Firpo di Torino. A Francesco Ferretti e Matteo Residori, oltre alla consolazione inestimabile di una lunga amicizia, devo anche il sostegno nella ricerca dei fondi per la pubblicazione del volume. Per i tanti, noti e ignoti, che mi furono di conforto nella malattia non ci sono parole per esprimere la mia profonda riconoscenza.
[Losanna, 28 agosto 2022]
32 «Ond’egli godé non aver dato alla luce queste orazioni, perché stimò non doversi gravare di più libri la repubblica delle lettere, la quale per tanta lor mole non regge, e solamente dovervi portare in mezzo libri d’importanti discoverte e di utilissimi ritrovati», in Giambattista Vico, Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, a cura di Pasquale Soccio, Milano, Garzanti, 2006, p. 39.
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