Piero Capelli
il male Storia di un’idea nell’ebraismo dalla Bibbia alla qabbalah
© 2012 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn:
978-88-6032-230-2
Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Grafica e layout Marianna Ferrara In copertina Cover photograph ©Cliff 1066tm
Indice
Introduzione 9 Premessa 15 I. L’ira di Dio nella tradizione ebraica. Dividuazione e individuazione di un protagonista letterario
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II. Il peccato accovacciato alla porta. Responsabilità dell’uomo e responsabilità di Dio nel mito di Caino e Abele 41 III. Il male al plurale. Le molte risposte ebraiche a un problema teologico nel periodo del Secondo Tempio 73 IV. Quando il sesso diventò peccato. Eros e purità nella letteratura ebraica antica e tardoantica 93 V. Il Diavolo: genesi e metamorfosi. La figura del Maligno tra ebraismo e cristianesimo antico 119 VI. Il male dentro e fuori. Istinto al male e mitologie del male nel pensiero rabbinico e nella qabbalah 153 VII. Conclusioni 169 Bibliografia 173 Indice delle fonti antiche e medievali 191 Indice degli autori e degli studiosi moderni 201
A mia madre Giampaola
Introduzione
Il plesso di idee che verte intorno al problema del male e della sua spiegazione è centrale nell’evoluzione dell’ebraismo antico e tardoantico nelle sue diverse declinazioni, e nella gemmazione da queste dei vari cristianesimi e gnosticismi. Fu in quel periodo della storia del pensiero che presero forma le idee di male, peccato e salvezza quali divennero fondamentali nelle coscienze occidentali postantiche. Queste idee sono documentate da una grande quantità di testi, sia tramandati all’interno della tradizione ebraica rabbinica (la Bibbia e la letteratura rabbinica più antica), sia fatti propri dai cristianesimi delle origini (i cosiddetti libri deuterocanonici, apocrifi e pseudepigrafi ebraici e lo stesso Nuovo Testamento), sia rappresentativi di tradizioni minoritarie estinte e restituiti da scoperte archeologiche fortuite e fortunate (i testi del gruppo di Qumran). La distinzione tra testi canonici e non canonici, ebraici e non (o non più) ebraici, non ha alcun senso o utilità ai fini della ricostruzione di queste idee e dei modi in cui furono trasmesse attraverso la storia —a meno di non utilizzarla come strumento di analisi nei casi in cui un testo già anticamente riconosciuto come autorevole (per esempio la Torah) viene recepito e magari rielaborato criticamente in un testo meno antico il cui autore intendesse proporlo come ugualmente autorevole. È sorprendente, quindi, che nelle voci sul male e sul peccato incluse in un fondamentale classico della storia delle idee, il Dictionary of the History of Ideas, non si trovi nessun accenno alle fonti ebraiche extrabibliche.1 1 Ph.D. Wiener (ed.), Dictionary of the History of Ideas. Studies in Selected Pivotal Ideas, 5 voll., Charles Scribner’s Sons, New York 1968-1974; vedi le voci Evil di R.A. Tsanoff, II, pp. 161-169: pp. 163-164, e Sin and Salvation di S.G.F. Brandon, IV, pp. 224-234: pp. 226-228. Invece, la voce Demonology di H.P. Trimpi, I, pp. 667-670, presenta le basi della demonologia ebraica antica in maniera corretta (a parte alcune incertezze cronologi-
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Negli strati più antichi della letteratura ebraica superstite (essenzialmente incorporati nel TaNaK), le asimmetrie morali che caratterizzano la realtà vengono pensate come una dialettica di opposti inscritta nella psicologia di Dio stesso o nel progetto divino della creazione (che un pensatore pagano avrebbe chiamato “natura”). Esse vengono quindi narrate in termini mitici, come nel racconto yahwista della tentazione di Eva. Durante il periodo del Secondo Tempio, le coscienze e gli intelletti degli autori ebrei presero a rivolgersi a questa problematica con intensità crescente. L’influsso del pensiero zoroastriano e di quello ellenistico su questo sviluppo del pensiero ebraico è un luogo comune della storiografia, e come tutti i luoghi comuni ha un ineludibile fondo di verità. Israele fu sottoposto per secoli alla Persia prima e ai regni ellenistici poi, e questo controllo politico aprì la via agli influssi intellettuali e a intensi fenomeni di acculturazione. Se ne vede un esempio manifesto nei modi diversissimi in cui il problema del male e della giustizia divina è affrontato in Giobbe e nel Qohelet: l’autore di Giobbe rifiuta la teodicea retributiva tradizionale, relegandola nei discorsi degli amici di Giobbe che Dio stesso zittisce, ma opta infine per una risposta apofatica secondo cui l’agire di Dio si può esperire ma non giudicare (“Mi metto la mano sulla bocca... Ho parlato senza capire... ma ora i miei occhi ti hanno visto”, Giobbe 40,4; 42,3.5); invece, per un intellettuale del periodo tolemaico quale Qohelet, il tentativo di conciliare tradizione sapienziale e razionalismo ellenistico è uno sforzo lacerante, in ultimo irrealizzabile, ma comunque non più evitabile. La cultura zoroastriana e quella greca nelle sue varie tendenze avevano già affrontato e strutturato la problematica del male in modi —sia mitici sia razionalistici— che l’ebraismo importò e rielaborò al fuoco della sua costruzione (allora in corso) del monoteismo. Di questi variati modi di pensare il male, le diverse tradizioni spirituali e intellettuali dell’ebraismo non si sbarazzarono mai, e continuarono a lavorarli e a riraccontarli per secoli. È impegnativo individuare linee precise nello sviluppo storico di questo plesso di idee, e impossibile delineare il sistema ebraico antico e tardoantico di pensiero sul male e le sue origini. Ogni testo —vale a dire, ogni autore— si poneva il problema in rapporto alle tradizioni esistenti, ma collocandosi rispetto a esse in maniera diversa. Gli elementi che componevano queste tradizioni furono strutturati in un sistema mutevole di antinomie, condizionate dal progressivo affermarsi del cosiddetto “monoteismo che) e documentata anche sulle fonti extrabibliche. All’epoca della pubblicazione del Dictionary, il mondo accademico di lingua inglese aveva accesso ai cosiddetti apocrifi e pseudepigrafi da più di mezzo secolo attraverso la silloge edita da R.H. Charles (The Apocrypha and Pseudepigrapha of the Old Testament in English, 2 voll., Clarendon, Oxford 1913), e anche i principali testi del mar Morto erano da tempo accessibili in inglese (M. Burrows, The Dead Sea Scrolls. With Translations by the Author, The Viking Press, New York 1955; Th. Gaster, The Dead Sea Scriptures in English Translation, Doubleday, Garden City, NY 19561).
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etico”, cioè l’idea che Dio dovesse essere uno e unitario —avendo risolto nella propria personalità quelle antinomie del reale che, invece, nei sistemi dualistici (Persia) e politeistici (Grecia) non creavano troppi problemi teoretici. Quando il protagonista divino delle parti preesiliche della Bibbia, ancora esplicitamente lacerato fra benevolenza e collera, ebbe finito di evolversi nel personaggio giusto e perfetto che è nella letteratura postesilica, il pensiero ebraico dovette ricondurre a questo personaggio l’origine del male, o viceversa da esso allontanarla, attribuendone la responsabilità ad altri esseri sovrumani —sebbene non pari a Dio— oppure direttamente all’uomo. Un mito, quello di Adamo ed Eva, fu accolto dall’establishment sacerdotale come spiegazione/soluzione canonica del problema, e questa affermazione condizionò la costruzione del canone biblico. Ma altri miti e altri modi di impostare il problema furono pensati e scritti, e ne rimangono amplissimi resoconti nei libri ebraici che, appunto, non furono scelti come canonici dall’establishment rabbinico che del canone biblico completò la costruzione nei primi secoli e.v. Comunque, anche la tradizione rabbinica continuò a confrontarsi con queste scritture alternative e a riprenderne molti elementi, di volta in volta riposizionandoli in nuove narrazioni e contesti. Nella letteratura ebraica antica e tardoantica giunta fino a noi, come detto, il problema del male è trattato in un linguaggio prevalentemente mitico. Se l’interprete moderno applica ai significati di quel linguaggio una sistematizzazione teoretica, viene individuato un nucleo di antinomie centrali per tutta la mentalità ebraica antica (e non solo antica né solo ebraica): -- il Dio unico vs. una pluralità di esseri superni; -- il Dio “che dà il benessere” vs. il Dio “che crea il male” (Isaia 45,7); -- l’opposizione puro/impuro come struttura della realtà delle cose vs. la stessa opposizione come categoria morale propria dell’uomo; -- il male spiegato antropologicamente (mito della disobbedienza di Adamo ed Eva) vs. il male spiegato angelologicamente (mito della disobbedienza degli angeli); -- il personaggio del Dio unico vs. il personaggio ugualmente unico di un anti-Dio (sia esso chiamato Diavolo, Satana, o con uno dei suoi tanti altri nomi). Questo nucleo di antinomie fu oggetto di continui sforzi di reductio ad unum per opera di generazioni di pensatori e scrittori ebrei antichi. Di questo lavoro intellettuale e spirituale in continuo divenire cercherò, in questo libro, di rintracciare il percorso fino al medioevo. Il I capitolo è dedicato a un’analisi letteraria del tema dell’ira divina nella letteratura biblica, ovvero all’emergere delle tensioni interne (per esempio, tra l’attributo della benevolenza e l’attributo del rigo-
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re) che caratterizzano il Dio d’Israele come oggetto di pensiero religioso e come personaggio letterario. Nel II capitolo esamino i problemi filologici ed ermeneutici posti dal turbamento psicologico che investe Caino quando Dio rifiuta le sue offerte, e dal sibillino messaggio con cui Dio tenta di metterlo in guardia (forse contro la tentazione fratricida) usando esplicitamente il termine “peccato” per la prima volta nella letteratura biblica secondo l’ordine canonico (Genesi 4,7). Il III capitolo consiste in un’analisi diacronica di come, nella letteratura ebraica antica, il male sia stato progressivamente tematizzato come problema, e di quante e quali spiegazioni di tale problema siano state pensate. Analogamente, nel IV capitolo prendo in esame la tematizzazione della sessualità e la sua connessione originaria con la sfera concettuale del puro/impuro; mano a mano che questa sfera concettuale venne rivestita di connotazioni morali, i comportamenti sessuali vennero regolati secondo una normativa rigorosa; le espressioni della sessualità al di fuori di tale norma vennero così gradualmente assunte come il peccato per eccellenza (ciò di cui fanno fede fin dall’antichità le interpretazioni in termini sessuali del racconto di Adamo, Eva e il Serpente). Il V capitolo analizza l’ipostasi del male nella figura letteraria di un arci-antagonista di Dio, e l’evoluzione di questa figura nella letteratura e nelle dottrine ebraiche antiche fino ai primi testi rabbinici. Il VI capitolo delinea la complessa continuazione delle tematiche del V nella letteratura rabbinica e mistica della tarda antichità e fino al medioevo, cercando di chiarire in che modo questa evoluzione sia il frutto di una dialettica tra influssi esogeni e dinamiche interne all’ebraismo. A proposito dell’apocalittica ebraica nel periodo del Secondo Tempio, Paolo Sacchi scriveva nel 1989: Fare la storia di una corrente di pensiero non può significare descriverne i concetti come se dovessero formare un sistema coerente, ma solo la loro evoluzione, le loro concatenazioni via via diverse, i cambiamenti di prospettiva degli autori.2
Questo metodo rimane valido anche quando il suo fine non sia delineare la storia di correnti di pensiero specifiche: obiettivo, questo, assai arduo per l’ebraismo del Secondo Tempio e della tarda antichità, di cui gli ultimi sessant’anni di studi (con la riconsiderazione della letteratura non canonica, la scoperta dei testi del mar Morto e l’indagine sul mondo ideale della letteratura mistica più antica) ci hanno restituito un’immagine molto più dettagliata e meno monolitica, e quindi anche assai più ardua da delineare. Ciò che si può ricostruire è la formazione e l’evoluzione di un’idea (o di più idee tra loro collegate) attraverso l’osmosi tra correnti di pensiero diverse. Quello che rimarrà alla fine, anziché una mappatura teorica di grup2
P. Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1989, p. 13.
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pi (le “sette ebraiche del tempo di Gesù” della storiografia d’antan e anche di oggi)3 che conosciamo come tali quasi soltanto da fonti indirette, saranno le idee nel loro divenire attraverso la storia, documentate dalle fonti primarie che le esprimevano e le mettevano in circolazione. Data la tipologia della documentazione di cui disponiamo, una storiografia sociale della religione ebraica del Secondo Tempio e della tarda antichità è inevitabilmente in buona parte ipotetica. Credo che porsi come obiettivo una storia delle idee e delle rappresentazioni religiose, tra le varie tradizioni ebraiche e quelle non ebraiche con cui vennero a contatto, sia un modo di procedere altrettanto “storico” e perfino più concreto.
3 Vedi il classico M. Simon, Les sectes juives au temps de Jésus, Presses Universitaires de France, Paris 1960, ma ancora il titolo di A.I. Baumgarten, The Flourishing of Jewish Sects in the Maccabean Era: An Interpretation, Brill, Leiden-New York 1997. Per una discussione della problematica vedi S. Stern (ed.), Sects and Sectarianism in Jewish History, Brill, Leiden-New York 2011.