Mariella Carlotti
Il bene di tutti Gli affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena presentazione di
Bernhard Scholz prefazione di
Andrea Simoncini
SocietĂ
Editrice Fiorentina
© 2010 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it blog www.seflog.net/blog facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account www.twitter.com/sefeditrice isbn 978-88-6032-135-0 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata L’autrice desidera ringraziare Francesco Mori per il prezioso e intelligente aiuto ed esprime tutta la sua gratitudine a Marco Barbone senza la cui amicizia questo libro non ci sarebbe
Referenze fotografiche Archivio di Stato, Siena (aut. n. 830/2010) pp. 20, 26 Comune di Siena per le riproduzioni del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti, di Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini (p. 36) e della Maestà di Simone Martini (p. 38) Foto Lensini, Siena per tutte le immagini pubblicate a esclusione di quelle alle pp. 20, 23, 103 Francesco Mori p. 103 Opera della Metropolitana, Siena (aut. n. 406/2010) p. 23 Provincia dei Frati Minori - Convento Osservanza, Siena pp. 102-103 È vietata la riproduzione o duplicazione, con qualsiasi mezzo, delle immagini contenute nel volume
Presentazione
Un libro sugli affreschi del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti verrebbe, normalmente, considerato come un libro artistico destinato a una minoranza di intenditori. Questo libro di Mariella Carlotti è, invece, un libro che parla della vita di ognuno di noi ed è di interesse per tutti. Gli affreschi del Palazzo Pubblico di Siena dimostrano una volta in più che l’arte è uno strumento potente e docile per prendere coscienza, attraverso la forza attraente della bellezza, delle aspirazioni più profonde della propria umanità nella sua dimensione personale e sociale. Quando si parla di “governo” si parla della possibilità di sostenere il bene o di favorire il male, di valorizzare le iniziative e gli sforzi di ognuno per il bene di tutti o di far decadere la società in una massa amorfa, controllata dal potere, fino al suo inevitabile declino. Ma le allegorie di Lorenzetti presentano una reciprocità nel rapporto fra governo e società: tutte le virtù che caratterizzano il Buon Governo di Lorenzetti si originano da un tessuto socia-
le in grado di determinare le intenzioni e le decisioni di chi ha la responsabilità di governare. I cittadini della città, o, più in generale, la società civile non sono semplicemente una realtà passivamente governata, ma una realtà viva e feconda che può trasmettere e rafforzare direttamente o indirettamente i valori e i principi delle persone che la governano. E purtroppo c’è anche il rischio di una reciprocità negativa, come fanno vedere le allegorie del Malgoverno. In un mondo che sembra sempre più affidarsi a progetti e sistemi le allegorie nel Palazzo Pubblico di Siena sono di estrema attualità: esse ricordano l’importanza del soggetto che prima crea e poi realizza i vari programmi. Il bene di una società non nasce da un automatismo o da un meccanismo sociale o economico, non può essere semplicemente organizzato da programmi governativi. Tutto prende il suo avvio dalla persona, tutto nasce dalla persona, dalla sua cultura e dalla tensione ideale che realmente vive. Con il crescente numero di istituzioni
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pubbliche e private, di imprese profit e non profit, di cooperative e di consorzi, di scuole e di università, sono nati nella modernità tanti “governi”, che detengono una grande responsabilità sia per le tante persone che collaborano al loro interno, sia per la società e il territorio nel quale si inseriscono. Senza che le persone che fanno parte di questi migliaia di “governi” si assumano liberamente e “virtuosamente” la loro responsabilità personale per il bene di tutti, il bene comune rimane una pia intenzione o rischia di diventare un’ideologia. Quando Ambrogio Lorenzetti ci fa “vedere” le quattro virtù cardinali della fortezza, della prudenza, della temperanza e della giustizia ci parla della tensione ideale della singola persona e non di una etica astratta, ci parla prima di tutto della coscienza che la persona ha di sé e quindi delle relazioni con gli altri uomini. In questo senso potrebbe essere utile introdurre l’esperienza e la saggezza che traspare dalle allegorie di Ambrogio Lorenzetti nella diffusa discussione pubblica e scientifica sulla “governance” delle diverse realtà sociali e sulla “leadership” come capacità di guidarli in modo adeguata. Gli affreschi del Palazzo Pubblico ci presentano una sapienza di vita che vale, non solo per la Siena del Duecento e Trecento, ma per tutti i tempi e ce la trasmettono con una bellezza commovente che riesce a penetrare, proprio attraverso l’allegoria, la corazza della nostra su-
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perficialità quotidiana per toccarci in quel punto che si chiama cuore. Ed è proprio perché il cuore dell’uomo possa riaprirsi al suo destino, possa generare le virtù che lui stesso desidera, possa trovare il suo compimento, che la Verità stessa ha aperto il suo cuore, come ricorda il crocefisso di Lando di Pietro, presentato alla fine del libro. Quest’ultimo capitolo non è un’aggiunta casuale, ma risponde alla domanda decisiva che le allegorie di Lorenzetti impongono a chiunque le guardi con la serietà di un desiderio vero: da quale fonte può nascere una umanità capace di un buon governo, di una società impegnata per il bene di tutti? Ringrazio di cuore Mariella Carlotti per la passione, l’intelligenza e il coraggio con i quali ci presenta un capolavoro dell’arte senese come possibilità per ognuno di conoscere di più se stesso e la grandezza della propria vita nella sua profonda relazione con la vita di tutti. È un libro di speranza in un momento dove tutti intravedono la fine di un individualismo esasperato ma dove il futuro rimane ancora velato e deve essere riscoperto non solo tramite, pur indispensabili, ricerche e programmi ma prima di tutto attraverso una riscoperta di sé e dalla propria umanità. Bernhard Scholz Presidente di Compagnia delle Opere
Prefazione «La bellezza salverà il mondo»1
Il Buon Governo, il Malgoverno e loro ef fetti: questi sono i soggetti del grandioso affresco dipinto da Ambrogio Lorenzetti e che Mariella Carlotti presenta in questo volume. Ma, a ben riflettere, gli stessi titoli potrebbero costituire altrettanti capitoli d’un libro sulle riforme istituzionali ovvero i punti del programma di una qualche forza politica impegnata in campagna elettorale. È davvero sorprendente, ma dal Trecento ad oggi, la domanda su come si possa governare una società (sia essa una Città, uno Stato o una Unione di Stati), su quale sia il segreto di un governo buono e quale la strada per evitare quello malvagio, è ancora una questione del tutto aperta. Solo di fronte a un affresco medievale come quello di Siena si ha una chiara percezione di quanto sia profonda e “strutturale” nella storia umana la ricerca del governo giusto. E non è un caso, come rivela la curatrice del volume, che questi titoli
(Buongoverno e Malgoverno) siano stati attribuiti alle pareti dell’affresco solo a partire dal ’700. In origine, erano conosciuti come la Pace e la Guerra e così li chiamava nelle sue prediche un oratore del fascino di san Bernardino parlando al suo amato popolo senese. Per la gente medievale, gente “terra terra”, abituata a ragionare delle cose che si vedono per giudicare quelle che non si vedono (e non viceversa), per gente così la pace e la guerra erano i criteri più semplici per giudicare se un governo era buono o cattivo, “dai frutti giudicate l’albero”. Dal Settecento, invece, inizia l’astrazione: al fatto si sostituisce la “fattispecie”, all’uomo buono si preferisce la bontà (come regola) e così via. La lettura di questo libro, dunque, consente un’esperienza davvero singolare: da un lato, siamo introdotti alla comprensione di uno dei capolavori della storia dell’arte medievale
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e probabilmente d’ogni tempo, ma dall’altro queste stesse pagine (e le immagini) compongono una sorta di manuale di teoria delle istituzioni o, se si vuole, un saggio di scienza politica, utilissimo per orientarsi nel dibattito politico attuale. Ed è proprio su questa seconda valenza che vorrei suggerire qualche riflessione: cosa ha da dire un affresco della metà del Trecento senese sul tema del bene comune e delle istituzioni pubbliche a uomini e donne del XXI secolo? il bello per comunicare il giusto
Il Medioevo ha un genio espressivo “pubblico” che a mio avviso è mancato alle epoche successive. Le chiese e i palazzi civici sono i luoghi in cui ci si ritrova e per questo sono luoghi in cui si insegna, ci si esprime, si comunica ciò che tutti devono sapere. La città di Siena, giunta al suo apice sul piano politico, culturale, economico decide di spiegare a tutti qual è il segreto della sua forza, della sua vitalità. Come comunicarlo? Da un lato ci si affida alla scrittura: il Costituto Senese – lo Statuto comunale – come ricorda la curatrice, viene redatto nel 1309; in esso le regole della vita comune sono fissate attraverso la scrittura; ma, attenzione, si im-
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pone che la scrittura sia effettuata in volgare, nonostante la lingua professionale dei giuristi del tempo fosse ancora il latino. «Bene leggibile […] acciocché le povare persone et altre persone che non sanno grammatica […] possano esso vedere» – perché chiunque potesse comprendere. Ma la scrittura, ancorché accessibile al volgo, non basta. Al testo, si affianca il principale mezzo di comunicazione di massa che allora era disponibile: la pittura. E il Comune non sceglie un “comunicatore” qualsiasi, incarica un artista dello starsystem di allora – Ambrogio Lorenzetti – per un compito delicatissimo: che tutti possano capire da dove nasce la forza dell’istituzione senese. Questa è una prima osservazione che traggo da queste pagine e che a me pare di straordinaria attualità: è la bellezza il mezzo che si sceglie per comunicare il giusto. Il diritto con le sue leggi da secoli cerca di rispondere all’eterna domanda: come influenzare i comportamenti umani? Un cartello con scritto “divieto di sosta” non è nient’altro che il tentativo (spesso fallito) di indurre le persone a comportarsi in un certo modo in vista di uno scopo comune. Il punto è che per i senesi concittadini di Ambrogio è del tutto evidente che quello che
mette in moto la volontà non è l’esistenza di una regola o di una legge astratta, quello che attrae, che “attira”, è la bellezza del buon governo e lo splendore dei suoi effetti, così come il deterrente che induce a evitare il malgoverno è l’orrore della scena infernale che lo descrive. Questo è un primo mònito attualissimo per chi vuole governare: per dare una “disciplina” al comportamento umano si possono inventare regole sempre più dettagliate e penetranti, ma nessuna regola potrà orientare la libertà umana come un “esempio”, nulla polarizza la volontà come qualcosa di desiderabile; la regola del diritto è persuasiva solo quando esprime una ragione, qualcosa per cui val la pena obbedire. Compito supremo dell’istituzione è, quindi, favorire che esistano questi esempi: città, rapporti umani, campi e prati, opere e imprese… “belle”, cioè corrispondenti ai desideri dell’uomo; questo orienta, “dispone” il singolo al bene comune. Solo questo giustifica ragionevolmente il sacrificio del proprio interesse “particulare”; il bene comune attiene quindi, innanzitutto la vita delle persone e le loro relazioni, le regole possono solo “riconoscerlo”, mai crearlo. D’altronde, la frase che riecheggia nelle diverse stanze del Palazzo Pubblico di Siena
tra la Maestà di Simone Martini e l’affresco di Ambrogio è «Diligite iustitiam qui iudicatis terram», chi vuole giudicare le cose della terra ami la Giustizia. E basta anche solo uno sguardo alla bellezza della “Giustizia” dipinta da Ambrogio, per capire come sia “naturale” per chiunque innamorarsene. Così come non possiamo non restare stupiti quando, guardando l’affresco, ci accorgiamo che anche lei, la Giustizia, guarda ad altro. Fissa la Verità, tende alla Sapienza. La Giustizia – per il pittore Lorenzetti – non è una misura, ma è uno sguardo verso la Verità, è una tensione, più che un traguardo. «lex est rationis ordinatio» Debbo ai corsi di storia del diritto del prof. Paolo Grossi, frequentati durante i miei anni d’università, la scoperta entusiasmante (sentimento che non mi ha più abbandonato) del modo in cui i medievali sentivano la legge, il diritto. S. Tommaso d’Aquino è indubbiamente il vertice espressivo di quella sensibilità. Tommaso muore – lavorando alla sua Summa – nel 1274, proprio pochi anni prima dell’avvento di quel Governo dei Nove che in
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un settantennio produrrà la fioritura di Siena e il cui frutto maturo sarà reso immortale dal Lorenzetti. Spiegava Grossi ai suoi studenti: «la definizione di lex è quella arcinota, felicissima nella sua sinteticità: quaedam rationis ordinatio ad bonum comune, ab eo qui curam communitatis habet promulgata»2: un certo ordinamento operato dalla ragione rivolto al bene comune e “promulgato” da chi ha il governo di una comunità. E più avanti sempre nella Summa: «lex proprie, primo et principaliter respicit ordinem ad bonum comune» oppure «lex est aliquid rationis», «est quoddam dictamen practicae rationis»3. La legge propriamente, nel suo significato primo e principale, rispecchia (respicit) un ordine vòlto al bene comune; la legge è qualcosa di razionale, è un certo dettame della ragion pratica. La legge quindi rispecchia4 l’ordine che la ragione coglie nella realtà, non lo produce. Tant’è vero che Tommaso, commentando la famosissima espressione del Digesto romano secondo cui «la legge è la volontà del re», dirà che questa frase può essere accettata a patto che la volontà del re sia in qualche modo regolata dalla ragione («sit aliqua ratione regulata»), altrimenti essa sarebbe più iniquità che legge («alioquin voluntas principis magis esset iniquitas quam lex»)!
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Ammirando gli affreschi del Lorenzetti illustrati in questo libro, immediatamente mi son tornati alla mente questi insegnamenti. Basta anche uno sguardo rapido alle stanze affrescate del Palazzo dei Nove per rendersi conto di quanto il “buon governo” rispecchi (respicit) un ordine e quanto la tirannia, al contrario, esprima un ultimo dis-ordine. Soprattutto se guardiamo gli effetti del primo e della seconda. Oggi abbiamo un’istintiva repulsione per la parola ordine, per quanto essa s’è intrisa di violenza e di omologazione durante i regimi totalitari che hanno insanguinato il Novecento. “Ordine” è diventato sinonimo di una simmetria artificiale che pretende di creare chi detiene il potere pubblico, stabilendo gli standards cui tutti debbono “obbedire”. E invece negli occhi di Ambrogio l’ordine è nelle cose prima che nell’intelletto, tanto che la ragione è proprio lo strumento – il detector – di cui l’uomo è dotato per registrare questa musica di fondo della realtà. Due sono le parole che più ricorrono nelle definizioni medievali della legge. Ordo e ratio: ordine e ragione. La ragione, infatti, è quella disposizione, quell’antenna che c’è nell’umano e che consente di cogliere l’ordine, sia quello nascosto che quello esplicito del cosmo, quella concor-
dia che rende l’universo una grande analogia di Dio. […] le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l’Universo a Dio fa simigliante (Dante, Paradiso, i, 103)
Per i medievali, dunque, è chiarissimo il nesso tra l’ordine della realtà e il bene. «Ordo… rerum ad invicem est bonum universi. Nulla autem pars perfecta est a suo toto separata»5. L’ordine vicendevole delle cose è il bene dell’universo. Ogni parte ha la sua perfezione solo in connessione con il tutto. E così il mio professore sintetizzava questo stato di cose: l’ordine «non è soltanto il regno della natura cosmica. A questo ordine secreto, essenziale, appartiene anche la natura della società e consequenzialmente la sua ossatura più riposta, il diritto. Il diritto, quello vero, e non la violenza legale del principe tiranno, appartiene alla dimensione ordinativa, è ordo». Ragion per cui, «se il volto essenziale del mondo è ordine, se ordine è immancabilmente relazione tra entità ed è garanzia di armo-
nia – di consonantia – proprio perché compara, collega, congiunge, l’essenza di questo mondo sta tutta, più che nella singola entità solitaria, nel reticolato di rapporti unitivi»6. Come non pensare all’immagine stupenda, nell’affresco del Buon Governo, in cui una corda, che nasce dalla Giustizia, tramite la Concordia lega i cittadini tra loro e per il loro bene nel Comune? Ciò che vediamo sui muri di Siena è proprio la trasposizione visiva di questa idea centrale della teoria politica medievale. Senza un valore riconosciuto (ciò cui la stessa Giustizia guarda) non è possibile il bene comune e – si direbbe con il linguaggio odierno dell’Unione Europea – la coesione sociale. La concordia, l’unità, infatti, non è la mera somma degli interessi individuali. È qui che si radica l’errore tanto delle teorie individualistico-utilitariste quanto di quelle collettivistico-comuniste, errore che la storia, poi, s’è incaricata di svelare. Né l’individuo assolutizzato (ab-solutus) nella sua autonomia, né l’individuo annullato nella collettività, sono uno sguardo realistico sulla persona. La persona è unica e irriducibile solo in quanto è rapporto con un valore assoluto, questo le consente di obbedire e sacrificarsi
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(di legarsi), senza per questo rinunciare alla propria libertà. art.
1: la sovranità appartiene
al popolo…
Ma c’è un’ultima considerazione che colpisce un giurista contemporaneo che si trovi a osservare l’affresco di Ambrogio. Come nota acutamente la prof.ssa Carlotti, c’è una differenza cruciale tra l’affresco del Buon Governo e il suo opposto: nel Malgoverno manca il popolo. È proprio così: mentre sotto il Comune nel Buon Governo c’è la schiera dei cittadini (non solo quelli bravi, anche i colpevoli), sotto il Tiranno-Diavolo del Malgoverno non c’è nessuno; qualche soldato, molti morti, la Giustizia legata, ma soprattutto desolazione, «desert and void», direbbe Eliot, “deserto e vuoto”. E, simmetricamemte, nei rispettivi effetti: il buon governo produce (ed è prodotto da) una città viva e vitale, piena d’opere, di lavoro, di scuole e costruzioni, insomma il segno più chiaro di un’istituzione giusta è che per suo mezzo la società vive. Ma è vero anche il contrario: solo una società responsabile può impedire all’istituzione di trasformarsi in una tirannide.
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L’ordine e la concordia della società, proprio perché non sono prodotte dall’istituzione, la de-limitano, ne rappresentano il contesto esterno e, dunque, la migliore garanzia. Laddove, invece, «per voler el ben proprio in questa terra, sommess’è giustizia a tyrannia», allora scompare qualsiasi coesione; il panorama si popola d’individui in lotta tra loro, lupi famelici (per riprendere l’immagine di Hobbes) che solo armi e soldati possono cercar di piegare al rispetto delle regole. E ancora una volta il dipinto di Ambrogio ci sorprende per la sua bruciante attualità: come ricordava don Julián Carrón in un recente intervento all’Assemblea Generale della Compagnia delle Opere (22 novembre 2009, Assago, Milano): «Questo, infatti, è il paradosso della modernità: più incoraggia l’individualismo, più è costretta a moltiplicare le regole per mettere sotto controllo il “lupo” che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere. Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi». Andrea Simoncini Ordinario di Diritto Costituzionale Univerità degli Studi di Firenze
Introduzione
«Ogni epoca agogna un mondo più bello», scriveva il grande storico Huizinga7. Nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena il mondo medioevale ha dipinto il suo ideale di vita comune. Giudicare un’epoca è giudicare il suo ideale, magari mille volte tradito: un uomo, un popolo non è ciò che riesce a realizzare – in questo entrano in scena fattori non determinabili dalla volontà –, ma ciò che desidera, ciò che costituisce il movente di ogni pensiero e di ogni azione. La fede cristiana condivisa rendeva i senesi del Trecento tesi a realizzare una concordia in cui trovasse strada il compimento storico di ognuno. Negli affreschi di Lorenzetti si vede l’opposizione drammatica tra la ricerca del bene proprio – origine di ogni violenza – e la tensione al bene comune, che mentre realizza una convivenza armonica, salva l’io, conservandone le dimensioni proprie, non riconducibili a un piccolo possesso, sproporzionato al suo animo. L’effetto è un mondo più bello, una città e una campagna – come sono ancora quelle senesi, proprio per questa eredità – sulle quali si
è stampata l’armonia di un’epoca. Un mondo più bello che è l’anticipo, come dice Jacopone da Todi, di quel «regno celesto / che compie omne festo / che ’l core ha bramato»8, quello dipinto da Duccio e da Simone nelle loro celeberrime Maestà. Oggi c’è bisogno di riprendere in mano le ragioni di una convivenza che appare sempre più connotata da un individualismo che soffoca chi lo vive prima di chi lo subisce; c’è bisogno di capire perché la tensione al bene comune è l’unica dimensione adeguata del proprio tentativo. Sulla porta che si apre a chi arriva da Firenze, Porta Camollia, c’è scritto: Cor magis tibi Sena pandit (Ancora di più – della porta – Siena ti apre il cuore). Siena è una città in cui è leggibile il cuore della nostra tradizione culturale: per questo la sua storia e quanto della sua coscienza si è impresso nell’opera dei suoi artisti possono aiutarci a ricomprendere perché il bene di tutti è proprio il bene di ognuno. Mariella Carlotti
introduzione
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Indice
5 Presentazione di Bernhard Scholz 7 Prefazione. «La bellezza salverà il mondo» di Andrea Simoncini
43 gli affreschi della sala dei nove 51 l’allegoria del buon governo
13 Introduzione
65 gli effetti del buon governo 67 Gli effetti del buon governo in città 75 Gli effetti del buon governo in campagna
15 «sena vetus, civitas virginis» (antica siena, città della vergine) 17 Siena, figlia della strada, città della Vergine 22 La scuola senese e Ambrogio Lorenzetti
29 31 34 37
il potere e la bellezza Il Governo dei Nove: il Campo e il Palazzo Pubblico Gli affreschi del Palazzo Pubblico La Maestà di Simone Martini
85 87 93 96
il malgoverno L’allegoria del malgoverno Gli effetti del malgoverno in città Gli effetti del malgoverno in campagna
99 conclusione. il crocifisso di lando di pietro 104 Note 105 Bibliografia