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patriziasanti
UNGARETTIANA
caromarzo
SocietĂ
Editrice Fiorentina
ungarettiana 18
collana di poesia, traduzioni e saggi diretta da Paolo Valesio e Alessandro Polcri
«Ungarettiana» si interessa a un’esperienza di poesia che sappia fare convivere un forte senso della situazione italiana con una significativa apertura internazionale. Nel repertorio della collana rientrano libri monolingui in italiano, libri bifronti (tradotti in italiano) e saggi. Siamo convinti che la poesia sia in prima istanza ricerca di linguaggio e linguaggio della ricerca. Ma quello che noi in ultima analisi cerchiamo non è, come spesso accade di trovare nella lirica contemporanea, un eccesso di esistenza al ribasso, spesso ridotta a catalogo di fatti insignificanti narrati con una lingua scolorita; è, semmai, una nuova e accresciuta quantità di vita e di pensiero. Lo stile sarà la forma di quella quantità e sarà a volte semplice, a volte – perché no? – complesso e seletto. Ma saranno i poeti che sceglieremo a condurci là dove ancora non sappiamo di voler andare.
Patrizia Santi
Caro marzo prefazione di
Mauro Roversi Monaco
SocietĂ
Editrice Fiorentina
Š 2020 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-570-9 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina Remo Marchesi, Primavera, 1981, tempera su tela, 30x40, collezione privata
oltre l’esordio
prefazione
Ho avuto occasione di leggere una decina di brevi poesie di Patrizia Santi, reperibili in rete. Mi hanno portato indietro di più di mezzo secolo, cioè alle antologie liceali di poeti greci; e mi hanno portato molto a Levante, nello spazio: intendo in Cina e in Giappone. L’ultima “cosa conosciuta” riguardo ad esse è il sorriso rugoso e profondo di Giuseppe Ungaretti. Mormorai fra me e me: Rara avis in terris, nigroque ecc. Questi riferimenti non sono solo suggestioni oleografiche. Ora mi trovo davanti alla parola nuda, una parola affatto nuova per me; io pure ignudo, e con la penna in mano. Ritengo che per scrivere Caro marzo ci voglia prima di tutto un gran coraggio, quello che una volta chiamavano “animo”. Nella sua introduzione, insolitamente pregnante, che è una sorta di guida nella quale palesa la piena avvertenza e il deliberato consenso al suo coinvolgimento totale, la Santi afferma che l’esistenza incontra «crude sporgenze», e poiché sussegue «abisso-soglia», mi sento autorizzato a considerarle su pareti verticali, aggetti da Giano bifronte che sono discrimine fra i cieli e l’abisso. Ma anche l’endecasillabo petrarchesco ricordato poco prima ha questo aspetto ancipite. Se vogliamo, in «che quanto piace al mondo è breve sogno» non è detto che “al mondo” sia complemento di termine riferito a “pia-
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ce”. Potrebbe essere il “breve sogno” a riferirsi al mondo; inoltre quell’«al» potrebbe fungere da «nel» screziandosi di stato in luogo: la cesura a volte è un’anguilla. Protuberanze, tornando a bomba, estruse da millennî di movimenti tellurici e quindi dell’anima mundi – siamo segmenti di un animale immortale – concepibili solo da chi ha drizzato per tempo il collo al pan degli angeli, le quali potrebbero essere trampolino pel risucchio del vuoto o rampa di aggancio per la scala di Giacobbe. Per noi che «entomata in difetto», vediamo l’azzurro solo quando è lontanissimo. Eppure ne facciamo parte: noi facciamo parte del “paesaggio”, ed esserne al corrente e saperlo dire è appunto il frutto del molto coraggio dell’autrice. Coraggio che fu pure dell’endecasillabo Arturo Benedetti Michelangeli, l’unico che trasse dalla dissociazione, dalla schizofrenia iniziatiche l’arcana arte di sapersi ascoltare cercando il glorioso paradosso di scomparire, lui, perché restasse la sola musica. Io non ho mai conosciuto Patrizia Santi, ma son sicuro che Cristina Campo osserverebbe: «Occhi consapevoli. Hanno visto la bellezza e non sono fuggiti». «Sino allo stato che diviene continuo, doppio, contrasto, singolo-altro, presenza-perdita»; «parole-frammento che avanzano ridimensionando ed espandendo ciascun accaduto come a proiettare una corrente continua», leggiamo risalendo come salmoni questa introduzione, che pare “spiegare” il simbolo taoista del Tai Chi Tu, con i due “pesci-gocce” intrecciati. L’ossimoro del frammento continuo, del solve et coagula del soggetto, dove il battere e il levare della voce creano corrente («Come nelle macchine a strofinio», direbbe Gadda), arricchisce il simbolo riconoscendogli anche la funzione di condensatore elettrico, dove è lecito
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giocare su “corrente” d’acqua (eloquio, discorrere…) e sui tre stadi di essa acqua-parola in interazione commutativa: liquido, vapore, ghiaccio. Ma “condensatore”, in linea con l’apoteosi congiunta dell’hic et nunc, dell’illico et immediate del presente assoluto polisemico sottesi all’opera, che definirei “al bianco” perché summa di tutti i colori in rotazione veloce, ha anche un’altra valenza, riferentesi allo schiacciamento spaziotemporale quale si ritrova nel sogno: la condensazione onirica. Tableau: mi si asserpola il pensiero sul lemma in senso poetico-musicale. Non quelli di Rachmaninov, volti talora a compiacer la platea, ma quelli di Baudelaire, quelli magistrali di Quadri di un’esposizione, le cui tante trascrizioni per orchestra (non sempre il solito Ravel!) la dicono lunga sulla pregnanza introspettiva del capolavoro. Perché poi dove siamo? Io mi permetto di raccogliere l’invito di Goidanich: siamo nella prosa numerosa, e numerosa soprattutto internamente, di significati. Qui fanno capolino Pitagora, Pacioli, Fibonacci; hanno luogo cessioni di ioni di pensiero, per dir così, che creano frattali. Queste per me sono poesie condensate, schiacciate a volte da una tremenda forza di gravità, altre sparse come i semi del Soffione dal vento. Densissime (in isparpaglio o in contrazione), ricche di allusioni, di riferimenti, di cadenze a inganno. Dentro ogni pezzo c’è un continuo movimento sinusoidale, c’è un perenne travasarsi di concetti, d’idee, di immagini. Questa dinamica, questo ritmo, quest’agogica dei significati è poesia quintessenziata, e la scabra armonia che ne promana mi ricorda i Tedeschi “tosti”: Max Reger, Paul Hindemith; o Gianfrancesco Malipie-
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ro. E nell’uso affatto speciale della punteggiatura, ravviso la sincope, quando tempo forte e debole s’invertono. La delectatio morosa, l’apoteosi del fantasticare che Zolla rimprovera all’ultimo Joyce, qui non c’è. Qui c’è coesione nel mutamento, ci sono correlazioni fisiologiche, questo è l’uso corretto della facoltà immaginativa quale descritto da Zolla appunto in Storia del fantasticare. Un testo non facile: ma affrontarlo significa compiere «un esercizio calistenico per lo spirito», se mi è consentito inventarmelo. Che può aiutarci a comprendere che non siamo affatto tutti uguali – oggi il laido ritornello è di gran moda – ma che ognuno di noi può, se ne ha l’ardire, rendersi conto che qualcosa di misteriosamente intelligente ci sovrasta, e di esso rechiamo una particola nel nostro foro interiore. Ripeto, ci siamo dentro anche noi e saperci vedere in mezzo alle innumerevoli interconnessioni, saperci seguire col cuore-mente (i Cinesi li accorpano) è già sapienza poetica. È tale la semplice presa d’atto; la bellezza è gratis, se il cuore è sincero e la mente lucida. La nostra massima presenza è la nostra assenza: allora sì che possiamo vederci testimoni delle cose, dando loro voce, ed essere tanti piccoli Benedetti Michelangeli. Quello di oracolare, di legittimamente oscuro che c’è nella Santi non va perso nelle foglie lievi, è qui, a disposizione di tutti (democraticamente, no?): carta canta. «Le note sottostanti le liriche» – ci avverte l’autrice – «nominate Lasso susseguente…»: ecco, a me sarebbe venuto istintivo parlare di “poemetti”; ma quel lasso, senza tanti bizantinismi, lo vedo sostantivo, da lapsus: lasso di tempo, di spazio. E la lassa, come strofe antica, mi fa capolino, a sua volta «estensione di pensiero».
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Poiché sono nato il 31 di marzo, e il titolo mi chiama in causa, aggiungo due parole su Tornare un mattino d’inverno, della sezione «Provvidenze». Lo considero speciale, una rapsodia davvero arcana, ci sento nenie malinconiche da carovaniere. Io lo vedo principiare con due novenari; e torna, il novenario, in «A sera, lo schianto vitale», con assonanze e anche una rima: vitale, vicolo, ospedale, mirabile, solo… «come il sangue di mia madre per l’inoltro a questo mondo» mi altalena nella mente come doppio ottonario. A parte l’orecchiabilità, sono suggestivi quei due infiniti quasi montaliani, seguiti dal contrasto fra un mattino freddo e il rosso cupo dei coppi che diventa sangue di parto, visto come vidimazione, timbratura, francobollo per venire fra noi. Misteriosissimi lo “schianto vitale” e “il vicolo”: ho pensato a Santa Maria della Vita, a San Giobbe, per voluto anacronismo: ma non riesco, e non è affatto necessario che io riesca, a interpretare. Potrebbe peraltro essere la Maternità di via D’Azeglio considerando via Tovaglie “vicolo”. L’inciso «essere luogo contato» lo vedo come un’apparente triade di apposizioni, ma chi legge dovrebbe inserire un trattino ideale fra i primi due termini («le parole tue sien conte…»); «precisarne l’aria per tocchi» mi sa di Spagna, di quei minimi interventi del chitarrista Mario Gangi sulla voce splendida di Arnoldo Foà, che “tirava su” Garcia Lorca anche quando compila cartoline illustrate («Un andaluso di professione», lo definì Borges). Ma la magia è anche l’aria d’inverno, che spiove dai tetti e diventa luce in chi la vede per la prima volta. Tria sunt… Mauro Roversi Monaco
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introduzione
Una vita che si dipana, una precisa identità nell’incedere della propria storia emotiva, circoscritta da memorie: «Ho pianto l’accertamento [22:01], la grazia, dopo la vampa»; «L’amore, quello di una donna triste che reggeva fra le mani una massa inquieta e raccolta, uscita piano da quel tempo»; e ancora «Corso Buenos Aires magro. Sporadico il disinnesco natatorio, l’inizio subacqueo»; «Les Annales, Lucien Febvre, Braudel, corsi e ricorsi di un fine millennio», come uno stadio temporale che fuma di un appena. Il viaggio esistenziale che la raccolta Caro marzo ci presenta giunge sino all’escoriazione più intima dell’esistenza stessa, sino al punto dove il silenzio si fa, per tratti, irreversibile: «Ho rinvenuto nella mia debolezza, la tua, resa celebre, a un certo punto della storia dal nitore di un cielo svelato, sotto al quale, pure io ho camminato, ad incontrare, per poco soltanto la sofferta beatitudine»; «La riedizione è un mesotelio poroso conficcato nello scafoide, sacche mattone, meno scure della terra nella mano che stringe l’amato tempo d’intesa, che stringe altro destino» nello stato che diviene continuo, doppio, contrasto, singolo-altro, presenza-perdita: «Ho lasciato un gancio di sangue sulla sponda, un cristallo sbucciato, ho lasciato un volo semplificato di pelle embrionale. Affiorare è ancora morire»; «Ma per certo, non era il freddo eterno che volevi per me, ma solo l’assaggio
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temporaneo di come fosse il clima, dalle tue parti, dopo l’arcobaleno, comparso all’improvviso, sulla strada di casa, segnale, ponte biblico sul quale camminava la tua vita nel viaggio per la trascendenza». Caro marzo riferisce di un fondale-trama che procede attraverso minute didascalie, quanto basta ad esprimerne lo stato d’animo, a mezzo di parole-frammento che avanzano ridimensionando ed espandendo ciascun accaduto, come a proiettare una corrente continua sul grembo-raccolta. L’architettura-vita viene evocata nell’alternarsi delle sezioni: «Sintomatico, l’abito bianco ai piedi del letto, nell’ora che non era in pericolo, nell’occhio non ancora profanato: “La dose d’inferno quotidiano, ancora non mi basta, mi si confà la vita fatta a pezzi”1»; «E sia allora risorsa, non dare per avere o avere per dare, ma essere o non essere, perché di questo si è tratta, di respirare amore e non l’odore di un’antica cattedrale che ancora ci segue a ruota», dove a procedere è l’abbandono dell’assunto: «[…] e ’l riconoscer chiaramente / che quanto piace al mondo è breve sogno»2, ricondotto alla sola, primigenia, onda vitale, in quando l’esistenza stessa, nel suo procedere incontra crude sporgenze, fatiche, umiliazioni: «Praticare ogni via, un metodo inflazionato, così, la Proclamazione, mi era parsa, a un certo punto del tempo, un peccato da espiare, non la carta buona da giocare»; «Fortuna è coincidenza, cara, aveva detto l’uomo-merito dall’anima ortogonale»; «Dalla villeggiatura invernale, dalla rotta migratoria al lunedì dell’Angelo, se sarà […]». 1 Eugenio Montale, I Falchi, 12, Xenia ii, in Satura, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1990. 2 Francesco Petrarca, Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, a cura di Rosanna Bettarini, Torino, Einaudi, 2005, i, vv. 13-14.
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A definirsi in raccolta è quindi un abisso-soglia come fattore proprio del destino di ciascuno, nel confine conclamato che è fra l’essere vita e l’essere morte, nel compromesso nostalgico ma tenace, che ci viene ribadito nella quinta e ultima sezione Provvidenze: «Tornare un mattino d’inverno, salire da Piazza VIII Agosto, ai giardini dove lo zenit sono ardesie e tetti rossi come il sangue di mia madre per l’inoltro a questo mondo»; «A oltranza, il succedersi del giorno, l’istinto di conservazione. Il tramonto è una fodera ardente che incendia ogni indifferenza», come funzione ad altra durata, ad altra vigorosa, vitale, emorragia. Patrizia Santi
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SEZIONE I
Hora prima
Quello sarebbe venuto più tardi, quando la vita aveva cominciato a correre così veloce che accettare avrebbe preso il posto di capire e di credere. William Faulkner, Luce d’agosto
“22:01” Miglia e miglia. Buio e luce. Matrici ingannevoli sulla maschia speranza. Nel salone verde bottiglia era ad arco perfetto, il mio corpo, sulla garza; le stelle, il circo d’inverno, pure loro nella stanza d’avvio. Ho pianto l’accertamento [22:01], la grazia, dopo la vampa. E dopo, dopo ho resistito altrove. Dove sto. Nelle fasi di transizione mi capita di pensare a quel tessuto ospedaliero come la sola copertura che continua a scagionarmi.
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indice
9 Prefazione di Mauro Roversi Monaco 15 Introduzione
sezione i. hora prima
Miglia e miglia. Buio e luce L’amore, quello di una donna triste Pulviscolo smunto, volteggiava Avevo chiamato fingendomi un’altra Tu non sai che abito vicina Corso Buenos Aires magro Linea B, fuori zona, quel mattino I fienili nel pieno fuoco dell’estate Sono tornata da Hispaniola Les Annales, Lucien Febvre, Braudel Capsule al fosforo
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sezione ii. seconda vigilia
Le ombre di ottobre si allungavano come sterpi La stanza 86, poi, la 91 Il barbagianni ruotava la testa piumata
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Dal 5° piano, l’ultrasuono A Emily House nulla smette di battere Il passaggio a livello al casamento disabitato I mattini globalmente ventosi Le sfide erano tese come elastici Destabilizzata dal risultato E a ridursi, erano state, quel giorno, le ore di luce
sezione iii. cronache cliniche
Op, op, op, racconta, racconta Le campane dell’indulgenza sono in estensione Lo spazio nella stanza dilata Nuvole secche, non sono che una parte soltanto La mia bocca ha un peso calibrato Un albero di cartilagini appese Fieno greco, pistacchi, al cronicario Ragguagli che cadono sull’ultimo furore del giorno Il posacenere, un pomeriggio di marzo L’esercizio maggiore coincide con la notte E la stagione insegue un tempo Libri impilati nel vagone merci Foglie salmone, in giardino Dalla villeggiatura invernale Ho rinvenuto nella mia debolezza, la tua
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sezione iv. sussistenze
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Radicano nel chiaroscuro domestico, le ore Tetti imbiancati da resistenze invernali Neve colorata fuori il serraglio
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Dialogo con pezzi di carta sfilacciati Le stanze dell’abitato sono ossa leggere Percorro dimessa. L’irreparabile è sospeso Campo viola, cinque pozze
sezione v. provvidenze
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La notte langue di malinconia Milano, via Bigli Tornare un mattino d’inverno È accaduto altro, dall’inizio del viaggio E torno a ripulsare una circostanza concessa Tutto è possibile, nel giorno colore della lince Muore l’estate nel grano del cocomero Sul tavolo resti violati, ritmico ticchettare Come seta cruda, la luce dei fanali È assetato il mio viaggio Scatole ipertrofiche, esterne, la metropolitana
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Note precisate come Lasso susseguente
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Nota biobibliografica
ungarettiana 1. Emma Pretti, I giorni chiamati nemici, pp. 84, 2010 2. Vera Lucia de Oliveira, La carne quando è sola, pp. 72, 2011 3. Leopoldo María Panero, Ianus Pravo, Senz’arma che dia carne all’«imperium», pp. 92, 2011 4. Patrizia Santi, Frammenti, periferici, pp. 56, 2013 5. Alberto Bertoni, Traversate, pp. 152, 2014 6. Marco Sonzogni, Ci vuole un fiore, pp. 72, 2014 7. Mario Moroni, Recitare le ceneri, pp. 96, 2015 8. Antonio Barolini. Cronistoria di un’anima, Atti dei Convegni di New York e di Vicenza nel centenario della nascita, a cura di Teodolinda Barolini, pp. xxx+342, 2015 9. Antonio Bux, Kevlar, pp. 144, 2016 10. Mauro Roversi Monaco, Mauritania, pp. 108, 2016 11. Attraversare le parole. La poesia nella Svizzera italiana: dialoghi e letture, a cura di Tania Collani e Martina Della Casa, pp. xx156, 2017 12. Michele Marullo Tarcaniota, Poesie d’amore, testo latino a fronte, a cura di Pietro Rapezzi, pp. 148, 2017 13. Corrado Paina, Largo Italia, pp. 92, 2018 14. Mallarmé. Versi e Prose. Traduzione italiana di F.T. Marinetti, seconda stesura inedita, a cura di Giuseppe Gazzola, pp. 164, 2018 15. Angelo Scipioni, De renuntiatione. Scritture di mari(lyn)ologia, prefazione di Guido Monti, pp. 208, 2019 16. Simona Mercuri, Umanesimo latino e volgare. Studi su Fonzio, Poliziano, Pico e Machiavelli, a cura di Anna Corrias, Eva Del Soldato, Marcella Marongiu, Laura Refe, pp. xvi+292, 2019 17. Prospettive incrociate. La poesia nella Svizzera italiana: dialoghi e letture, a cura di Martina Della Casa e Clémence Bauer, pp. xx-180, 2019 18. Patrizia Santi, Caro marzo, prefazione di Mauro Roversi Monaco, pp. 96, 2020