Franz

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Mimmi Cassola

Franz Romanzo

SocietĂ

Editrice Fiorentina


© 2013 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it blog www.seflog.net/blog facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice isbn 978-88-6032-270-8 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Studio Grafico Norfini (Firenze)


A chi mi ha voluto bene e a chi non me ne ha voluto



Franz



Da bambino aveva sognato spedizioni gloriose nell’Africa inesplorata, misteriose sorgenti, e maschie amicizie con alteri capo-tribù; ne avrebbe riportato in patria un cucciolo di leone, per poi dire agli amici timorosi, indicando con un gesto indifferente la splendida belva: «Un ricordo dallo Zambesi». Se fosse fiume o paese, lo Zambesi, non sapeva con precisione: ma il nome gli suonava bello e selvaggio. In seguito aveva scoperto che l’Africa non è più inesplorata: non se ne dolse, perché ormai nutriva altri sogni. Cresciuto, avevano smesso di chiedergli: «Cosa farai da grande?». Da ragazzino rispondeva, volutamente banale: «L’ingegnere». Chi gli aveva posto la scontata domanda si congratulava con lui, e non insisteva. Invece le scienze esatte, più o meno applicate, gli ripugnavano: ma come dire a un estraneo: “Voglio fare l’esploratore”? I sogni vanno tenuti per sé: solo così possono respirare e sopravvivere, nell’infida atmosfera della realtà, per morire poi di morte naturale, senza strascichi di rimpianto. Mentre uno sguardo stupito o ironico può ferire la delicata trama del sogno. «Franci farà l’ingegnere», diceva sua madre alle amiche, compiaciuta, porgendo il vassoio dei pasticcini; e il ragazzetto abbassava sugli occhi un sipario di ciglia; poi lasciava il salotto e scivolava nel giardinetto, dove un palmizio nano e una siepe di alloro intisichito lo celavano in un suo scampolo di giungla. Franci per la madre, Franco per il padre, Franz per se stesso (dopo che ebbe letto L’aiglon di Rostand) e in seguito per gli amici, Francesco Rogiani nutriva la sua infanzia di segrete 3


speranze. Cresceva schivo e silenzioso. Poi vennero gli anni del liceo, i primi amici, i primi timidi amori: e il mitico leone della fanciullezza si ritirò dalla sua strada, quasi inavvertito. Altri angeli gli scortarono i passi. Dopo la Maturità s’iscrisse a Legge, facendo felice suo padre, che non avrebbe saputo a chi altri lasciare lo studio: «Visto che Alessandro vuole studiare Medicina…». Alessandro, Alex per tutti tranne il babbo, era il fratello minore, un ragazzetto allegro e cocciuto. «Hai fatto bene a rinunciare a Ingegneria», disse ancora il padre. «Non eri tagliato per quegli studi, Franco». Franz annuì, distratto. A vent’anni era alto e sottile, ma forte, con un viso magro severamente sbarbato; gli occhi chiari, di un colore indefinibile tra il grigio e l’azzurro, conservavano le lunghe ciglia che da bambino gli avevano conferito un fascino ambiguo, quasi di fanciulla. Rabbiosamente ne domava la grazia infliggendosi un taglio di capelli di militaresco rigore, così che, sporgendo dal cranio quasi rapato, gli orecchi sembravano a sventola, mentre quelli dei suoi compagni sparivano tra le ciocche scomposte. «Prussiano», lo prendevano in giro gli amici. «Sudicioni», replicava lui, scherzoso: «io il collo e gli orecchi me li lavo». Effettivamente in lui colpiva un’aria di pulizia, quasi garanzia di moralità, che incantava le amiche di sua madre: ce n’era sempre qualcuna che cercava di accarezzarlo sul ruvido velluto dei capelli, fingendo di vederlo ancora bambino. «Carino», gli dicevano, leziose, «bel ragazzo». Lui le scansava arrossendo, e in segreto le detestava, anche per il suo stesso arrossire, una caratteristica questa che aveva sempre considerato vergognosa: “Vecchie civette!”. Del resto le incontrava di rado. «Franci farà l’avvocato», diceva la madre, compiaciuta. Era una brava donna, e amava sinceramente i figlioli. Pareva 4


non sapesse quasi parlare d’altro. La frequentavano volentieri le signore che avevano figlie giovani. «L’avvocato?», dicevano. «Ma che bravo». E accettavano un’altra tazza di tè. Fu solo verso il second’anno di Università che Franz cominciò ad interessarsi al fratello, ormai approdato al ginnasio. Ci correvano troppi anni fra loro; per lui Alex era stato un bimbetto noioso, poi una ragazzino impertinente. Traccagnotto, con gli occhiali, non mandava in estasi, come Franz, le amiche della madre: ma c’era in lui una gioiosa vitalità che non mancava di fascino. Già da piccolo ripeteva di voler fare il medico; ancora alle medie, di nascosto aveva operato il gatto, a suo dire sofferente di appendicite: senza poter trovare nulla di sospetto nei poveri visceri sanguinolenti, aveva ricucito la pelle, e la bestiola, incredibilmente, era sopravvissuta. Del riuscito intervento andava fiero, anche se in seguito ne sorrideva come di una bambinata. Restavano, a ricordarlo, le fughe precipitose del povero Muffi, non appena lo vedeva apparire. Dal fratello maggiore Alex veniva tollerato a fatica, e per lo più ignorato, finché non fu, appunto, al ginnasio. Sette anni di distanza avevano creato fra loro non una vera barriera, ma un vasto spazio d’indifferenza. La presenza noiosa e inevitabile del fratellino non scalfiva la solitudine di Franz, che era cresciuto così come un figlio unico; tale del resto era rimasto a lungo. Ma, lasciate le medie, il ragazzino parve improvvisamente cresciuto: la sua fondamentale allegria si fece più interiore, meno chiassosa; molto tempo ormai doveva dedicarlo allo studio, soprattutto al greco che non gli piaceva, forse anche perché aveva tanto insistito, senza spuntarla, per andare allo Scientifico invece che al Classico: «Siccome farò Medicina…». «Puoi sempre cambiare idea», aveva detto il padre, «senza contare che tutti i termini medici derivano dal greco. E poi, la formazione filosofica che dà il Classico…». Gliene era rimasta un’ostilità per il greco, che gli sembrava il simbolo di una sconfitta. 5


«Franco», disse un giorno il padre, «dovresti dare una mano ad Alessandro per il greco. Mi sembra che non ingrani». «Va bene, babbo», sospirò Franz, e ne ebbe in cambio una gelida occhiata del fratello. Ma quel dover lavorare insieme sullo stesso testo finì per generare un legame, dapprima solo per le occhiate che tutti e due scoccavano all’orologio, sì che, scoprendosi uguali nel gesto, ne sorridevano; poi per l’interesse che la reciproca scoperta suscitava: perché tra una frase e l’altra tradotte dal greco insinuandosi altre frasi, casuali e spontanee, in entrambi i fratelli nacque una divertita attenzione per quell’estraneo così familiare che l’altro era. Ne venne un’amicizia ben più vera di una scontata fratellanza, come può esistere fra due persone che non devono nulla a una consuetudine d’obbligo, ma hanno libertà di scelte e di orizzonti. Altri amici aveva Franz: ma tutti un poco distanti, poiché qualcosa sempre si frapponeva fra lui e loro, impedendogli un completo abbandono, una confidenza totale: quasi che una parte di sé fosse troppo intima e sacra per potersi rivelare, troppo delicata per essere realmente compresa, troppo fragile, certo troppo preziosa, troppo sua. Così, più delle ore passate con gli amici, gli erano care quelle passate in solitudine, in camera sua o nella libera indifferenza delle strade affollate, così come da bambino si era rifugiato, ai tempi dell’Africa Inesplorata, dietro la siepe di alloro. Ma altro era il sogno da nutrire in segreto, per una bellezza ignota, più misteriosa di una terra perduta o vagheggiata, e più lontana: eppure sempre imminente. Ma ancora non incarnata. Solo un’idea, vaga eppure a suo modo precisa, di un qualcosa da dire o di un modo di dirlo, un modo e un qualcosa nuovissimi perché suoi, unici perché solo suoi: possibili forse, tanto da illuminarne una vita. Per questo “qualcosa”, la poesia, infatti viveva. 6


Non ne aveva mai parlato a nessuno. Non ne parlò ad Alex. Franz era uno studente discreto: senza eccellere, non era però dei mediocri. Lo studio impegnava solo una parte del suo interesse. Lo considerava un lavoro come un altro, necessario per il suo futuro mestiere: non una vocazione, non lo scopo primario della sua esistenza. «Tanto hai la poltrona paterna che ti aspetta», gli diceva Gianni. «Non dovrai affannarti a trovare un posto, tu». Gianni era quello, dei suoi amici, con cui era più in confidenza. Figlio di un ferroviere che rimandava di anno in anno il pensionamento per mantenerlo all’Università, s’impegnava a fondo nello studio. Per questo Franz lo vedeva meno degli altri: studiava di più, e dava anche lezioni di latino e greco ai ragazzi del ginnasio. Franz lo ammirava, ma senza tentare di imitarlo. Gli pareva di fare già abbastanza così. Non mirava ad allori forensi, lui; e poi, come aveva detto l’amico, un posto l’aveva già bell’e pronto. Fu proprio alla festa per il compleanno di Gianni, nel febbraio di quel secondo anno di Università, che Franz conobbe Maddalena Manetti. Erano in casa di Alberto Biscaglia, un altro del gruppo, perché le tre stanze del ferroviere non si prestavano alle danze. Franz, che non ballava, andava poco volentieri alle feste; ma Gianni aveva insistito: «Non vorrai mancare proprio tu?». E dato che Gianni era il suo cosiddetto migliore amico, Franz si era rassegnato a una giornata noiosa. Era stata la ragazza a notarlo: per quei suoi insoliti capelli corti, all’inizio, e per l’aria assorta con cui stava seduto sul divano, da solo. «Ve li tagliano ancora così corti, i capelli?». Lui sussultò: «Come?». «A voi soldati. Ne ho visti altri…». «Non sono un soldato», l’interruppe lui. 7


Lei si stupì: «E allora, i capelli?». Lui alzò le spalle. «Come ti chiami?», insisté lei. «Francesco». Non gli andava di dirle il nome con cui chiamava se stesso, riservato agli amici. Con quel discorso sui capelli corti l’aveva infastidito. Non le aveva dedicato più di uno sguardo. Ma stava arrivando Gianni dalla cucina: «Ah, Franz», disse, «hai conosciuto Maddalena?». «No», disse subito lui, «non direi conosciuto». Lei sorrise. «Ti chiamano Franz? È più bello di Francesco. Perché avevi detto Francesco?». Di nuovo lui alzò le spalle. «Lei è una mia amica», gli disse Gianni. «Se non te ne ho ancora parlato…». Tacque. Franz lo guardò: «Non importa», disse. Davvero non gli importava. «Hai finito di trafficare in cucina, Gianni?», chiese Maddalena. «Sì». «Allora balliamo?». Il festeggiato guardò l’amico, che gli sorrise: «Dai, va’ a ballare». «Non ti annoi, qui da solo?». «Ma no, vi sto a guardare. Mi diverto». «Allora vado». Era un ballo agitato, di quelli che Franz non capiva. Gli sembrava che non ci fossero coppie, ma danzatori isolati che si muovevano a caso: come la folla che sciama per le strade, quando le persone si sfiorano senza vedersi. “Una cerimonia triste e insensata”, pensava. Era un rito senza bellezza. Fu di nuovo lei ad accostarlo, la settimana seguente, mentre passava in fretta per il cortile dell’Università. 8


nota di edizione

Scrissi questo libro nella primavera 1983. Non fu pubblicato allora, ma non per ragioni che lo riguardassero. Dopo tanti anni l’ho trovato ancora “vivo”, e ne ho provato una grande gioia. Nel mese di ottobre 2012 l’ho ripreso in mano, riveduto e corretto. Penso che adesso si possa dare in lettura agli amici, e perfino ai parenti. E chissà che qualcuno non s’innamori di Franz e di Maddalena, come me. M. C.

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nota biografica

Mimmi Cassola, nata nel 1940, toscana di origine e di tradizione, è cresciuta a Milano, dove ha seguito gli studi classici, specializzandosi in lingue moderne. Pur avendo cominciato a scrivere molto precocemente, solo nel 1973 pubblicò il suo primo libro, una raccolta di annotazioni e pensieri. Seguirono poi sedici romanzi, tutti pubblicati presso la Jaca Book. Dal 1978 si è trasferita a Firenze, dove vive in collina, vicino a San Miniato, pur continuando a mantenere assidui contatti con Milano. Per anni è rimasta assolutamente isolata dall’ambiente letterario, portando avanti il suo lavoro in solitudine, al di fuori da qualsiasi tendenza o scuola. Dopo il 1993 ha cominciato ad apparire in pubblico per far conoscere i suoi libri e il pensiero che li ispira. Nel marzo 1995 è stata invitata dal Comune di Roma a presentare la sua opera in Campidoglio, nella Sala d’Ercole. I suoi manoscritti sono custoditi presso la Biblioteca Comunale di Milano, in Palazzo Sormani, dove ha anche presentato il suo 18° libro, nella Sala del Grechetto. Opere La via di Emmaus, 1973 Un’estate, 1976 Storia d’amore per due voci pari, 1977 Il giorno e l’ora, 1978, ristampa 1994 Racconti per le ore vuote, 1980 Gli ostaggi, 1981 Il discepolo, 1982 112


L’agguato, 1883 Di là dal muro, 1985 Oltre la porta, 1986 Due felicissimi anni, 1992 Pietro e Francesca, 1994 Il grande gioco, 1996 Alato, 1997 La grande famiglia (trilogia): L’assente, 1999, vol. 1 Arrivi e partenze, 2001, vol. 2 Amici cari, 2003, vol. 3 Non essere o essere, 2011

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