«Che mi riarrò?». Chiacchierate in sestese con il fisioterapista

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Giovanni Matulli «Che mi riarrò?» Chiacchierate in sestese con il PrefazionefisioterapistadiCarloLapucci

Dello stesso autore Mi dole il groppone. Occasioni per sorridere con il fisioterapista

Editr ice F iorent inaSoc ietà Giovanni Matulli «Che mi Chiacchierateriarrò?»insesteseconilfisioterapista prefazione di Carlo Lapucci

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Ai protagonisti di questo libro che non ci sono più

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Giovanni si è fatto le ossa, cosa che, data la sua attività, non deve essergli stata difficile. Infatti ha vin to completamente l’impaccio iniziale di fronte al suo lavoro, cosa che già gli era venuta spontaneamente senza timi dezza davanti al rilevamento e alla trascrizione. Al tempo

Si nota anche una maturazione in tutti i sensi, attivata sia dall’esperienza dell’autore, sia dall’accoglienza che ha trovato presso il pubblico, che non è certo stato avaro di consensi.Dunque

Prefazione

Il nuovo volume di Giovanni Matulli conferma quanto si sospettava: che il suo primo libro non era un gioco riu scito, un passatempo o un diversivo. Era qualcosa di più serio e queste pagine lo dimostrano. Messe insieme alle precedenti infatti vengono a formare un consistente do cumento che prima si segnalava per la spontanea felicità di scrittura, d’osservazione, d’ironia, ora, nell’insieme, si è sviluppato in un documento non secondario della vita, della storia, della società, della lingua e di altri aspetti di Sesto Fiorentino.

La zona d’osservazione si è ampliata, si è inspessito il mondo umano delle figure, i livelli sociali sono ben rap presentati, il numero delle figure è considerevole e per mette anche una piccola indagine sociologica: si tratta insomma di un rilevamento, fatto senza cifre, assi cartesiani, statistiche, ma che proprio per questo risulta molto più vivo, interessante e importante; soprattutto più piacevolmente leggibile.

8 stesso ha preso atto che la presenza dell’italiano corretto, ufficiale, codificato, non doveva essere un modello da se guire timidamente nella restituzione della parlata seste se, quale lui ascolta e raccoglie, quasi chiedendo scusa di sfondoni e improprietà che si trova a scrivere. La parlata è un’altra cosa rispetto alla lingua nazionale e deve andare per la sua strada. I lettori del primo Mi dole il groppone gli hanno fatto capire che si tratta di due cose diverse e l’hanno inco raggiato verso la sua istintiva fedeltà agli originali, perché qui, quello che a scuola si doveva segnare con una matita blu (e sarebbe quasi tutto) è la sostanza del testo. Così Giovanni ha aderito con completa naturalezza alle fonti del linguaggio popolare, che non importa essere Sherlock Holmes per indovinarlo, è in gran parte anche il suo, pur se nel testo prende le dovute misure.

Così si segue nel flusso delle parole anche il modo di ragionare diretto, di riflettere, di dimostrare: come le persone di una certa età ricordano d’aver sentito prima che l’invasione dei mezzi di comunicazione desse mano all’ingessatura e all’anestetizzazione della lingua e dei no stri dialetti, con una caterva di banali frasi fatte, nuovi e sbiaditi luoghi comuni, ritornelli melensi e anglismi in gran parte superflui, detti solo per illusoria esibizione di cultura, inciampi continui per la gente semplice.

La prova della pubblicazione ha dato un altro risul tato: il linguaggio sestese ha preso il suo corpo naturale e trovato la sua dimensione anche in dialoghi sviluppati, monologhi, brani che prendono quasi le mosse del teatro, tanto sono vivaci. In queste scene di vita vissuta si può se guire lo sviluppo dell’eloquio vivo, con tutte le esitazioni, gl’inciampi, gli slittamenti di significati, i fraintendimenti, le creazioni di chi usa il linguaggio soltanto per esprimer si, libero dalla preoccupazione di parlar bene.

A questo si aggiungono, oltre le forme appartenenti a un gruppo familiare, anche quei termini che vengono messi nella forgia e martellati poi, lì per lì, modellandoli in modo che si adattino a esprimere quello che serve a colui

Non so che impatto possano avere in chi si trova a es ser giovane oggi senza aver avuto dimestichezza col lin guaggio pre-industriale e pre-mediatico. Qualche effetto lo dovrà fare, se la mia impressione è quella di respirare aria fresca e pulita, d’aver davanti persone meno in posa di quelle che si trovano nei caffè del centro di Firenze, gente che si presenta per com’è, senza recitare una parte.

piazzette,

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Spesso gli attori di questo teatro povero si esibiscono in tirate, invettive, lamenti, monologhi, argomentazioni che possono ricordare il discorrere fresco, arguto, libe ro e creativo dei personaggi di Carlo Goldoni, come già abbiamo osservato, che parlano come parla la vita nelle nei calli, sotto i portici e nei caffè veneziani.

Rispetto a Mi dole il groppone anche dal punto di vi sta linguistico c’è stato un passaggio verso una maggiore consapevolezza dell’opera di trascrizione. Guardandosi dal fare una documentazione, l’autore è stato aderente al parlato in modo tale che anche il lessico ha rivelato nuove forme fino ad arrivare al lessico familiare, ovvero a quei modi talmente singolari da avere corso in una cerchia ri stretta di persone, poco più d’una famiglia, e che dunque sono fuori anche da studi specialistici del passato, peral tro assai attenti a queste singolarità.

Comunque sia il testo non lascerà indifferenti né giova ni, né meno giovani, in quanto non è né una requisitoria, né un rimpianto. È una bella testimonianza, uno specchio vivace e fedele d’un angolo del mondo: guardare la vita con intelligenza e ironia è forse uno dei divertimenti più antichi, piacevoli e più istruttivi.

10 che parla, invece di fare l’operazione contraria: costringere chi parla ad adeguarsi allo schema linguistico. Gli esempi sono infiniti. Possiamo prendere un titolo: Ma domani icché si desina? Il protagonista Mauro pone una domanda in modo tale da rendere specifica una frase generica, al fine di sapere subito quello che interessa a lui. Per questo rende il verbo desinare transitivo da intransi tivo, cosa possibile, dato che nulla vieterebbe, se non la consuetudine, di dire: Domani desino un piatto di rigatoni e un coscio di pollo. Si capirebbe benissimo. Se avesse detto: Domani icché si mangia? avrebbe potu to riferirsi a tutta la giornata, alla colazione, al pranzo, alla merenda come alla cena. Invece Mauro taglia corto e si fa capire benissimo con una concisione e una precisione lin guistica da far impallidire Basilio Puoti e il Padre Segneri: vuole sapere semplicemente cosa si mangerà a desinare.

Nello stesso capitolo si trova un altro termine d’una singolare espressività. La Wanda dice che l’acqua fred dissima le ha screpolato le mani, ovvero, nella sua lingua: M’enno venute le setole alle mane. La frase viene approvata e chiosata dal marito che mostra una certa propensione alla linguistica. Che altro può indicare meglio quella fa stidiosa sensazione che s’avverte quando si screpolano le mani per il gelo che rovina l’uniformità della pelle apren dovi crepe, ferite, se non questo avvicinamento alla pre senza di setole, peli ispidi?

Questo vuol dire che, oltre la parte convenzionale e ripetitiva del linguaggio, usa quella creativa e germinante dell’espressione, scegliendo la forma più opportuna. Non è cosa da poco poter ancora disporre di un potente gene ratore della comunicazione. La frase è tanto ben scolpita che l’autore l’ha presa per fare il titolo.

Più ancora nelle Avventure di Oliviero si usa il termine barri come plurale di bar, che non ha una forma specifi-

Sono convinto, a parte i valori letterari del testo, che il mondo venturo avrà sempre più bisogno di documen ti come questo, che sono veri e propri specchi, per rive-

Bisogna fare attenzione: si trovano anche cose come le valigi, plurale di valigia, che però è un termine dialettale piovuto chi sa come a Sesto: si trova nel parlato senese, dove è comune o da altre parlate toscane. Una sindrome rara presenta traversità per traversie, che è un vero esem pio di manipolazione del linguaggio verso una immediata espressività.Diquesti esempi il lettore può trovarne quanti ne vuole e ne sarà sempre gratificato e ricreato, perché sono aria buona nel nostro linguaggio ingabbiato alle famose seicento parole della comunicazione necessaria per sopravvivere. Non sono forme né cervellotiche né cialtrone, perché sono spontanee, immediate, per nulla leziose o esi bizionistiche: sono vere, dette da persone vere.

Delle qualità della narrazione abbiamo detto già dopo la lettura del primo lavoro di Giovanni: il suo tono accat tivante, coinvolgente, amicale qui gode anche dei frutti dell’esperienza e si è fatto uno stile. Il racconto ha sempre l’apparente andamento di cronaca, il più semplice che si conosca, con giorni, orari precisi, notizie sul tempo per prendere presto, con un particolare curioso, singolare, l’attenzione di chi legge e avviare il racconto come da ami co ad amico, facendo il narratore stesso personaggio della vicenda; ma senza strafare, senza protagonismo, perché anche lui, come il lettore, è un curioso di questo mondo rimasto abbarbicato vitalmente nei fondali della storia.

11 ca; lo stesso con beri, plurale del sostantivato verbo bere, come bevute. Già nell’uso accettato esiste il termine man giari, costruito con lo stesso procedimento.

maggiore

12 dersi quando si sarà posato un po’ il polverone di questa traumatica metamorfosi imposta prima dalla Rivoluzione industriale e poi da tutte le altre piccole e grandi che si è portata dietro, rendendoci estranei a un modo che noi stessi abbiamo creato.

Sono infatti le ultime documentazioni di un universo umano che conosceva la propria misura, come tutti gli esseri umani conoscevano la propria, almeno in misura di quanto questo si verifichi oggi. Di conse guenza ognuno sapeva meglio di oggi quale era il proprio posto, il proprio limite e su questi stabiliva rapporti uma ni equilibrati in un sistema di valori sociali non devastato dalle pretese, le velleità, le illusioni, le illusorie prospettive che si sono insinuate nella vita quotidiana nello schermo in cinemascope d’una virtuale e incerta globalizzazione.

I protagonisti di Giovanni, nella loro formale sganghe ratura, sono integri interiormente: hanno grandi qualità umane, prima di tutte l’amore e la fiducia nella vita: è gen te che soffre, che s’arrabatta in letti di malati, in carroz zine, stampelle, carica di dolori, di solitudine, a un passo dalla fine, ma non rinnega la vita. Le coppie, ben assortite e mal assortite, litigano, urlano, imprecano, dicono bufa le, si mandano a quel paese, ma si aiutano, si assistono, si soccorrono, si consolano, perché fondamentalmente si comprendono e si rispettano nel profondo. Detto in paro le povere hanno un’idea della vita, dell’uomo, del prossimo, un canone di valori e di comportamento: conoscono il limite che contiene e forma la vita e vi si adeguano con proteste, insofferenza, maledizioni, ma anche con pazien za, amore, ironia e molta simpatia, che la penna dell’auto re ha saputo rilevare e descrivere.

Carlo Lapucci

Fin dai primi anni di lavoro mi sono sempre più in teressato alla riabilitazione del paziente in età geriatrica. Sono convinto che il fisioterapista, per ottenere il massimo dal paziente e per potergli dare il massimo debba en trarci in sintonia, in empatia; un rapporto freddo e distac cato è sicuramente limitante, anche in termini di risultati ottenuti e Ripensandoottenibili.alle

prime lezioni del Corso di Laurea in Fisioterapia, ricordo che il prof. Antonini, direttore del corso e della cattedrale di Geriatria e Gerontologia dell’Università degli Studi di Firenze, ci fece riflettere su quanto tempo fisioterapista e paziente passassero insie me, molto di più rispetto alle altre figure sanitarie, come infermiere e medico. In certi casi la riabilitazione si protrae anche per mesi, con frequenza bi-tri-settimanale, con sedute di circa quarantacinque minuti. È facile, se non proprio spontaneo e naturale, che fisioterapista e pazien te instaurino un rapporto di fiducia, complicità, apertura, dialogo, confidenza.

Nato a Firenze nel 1970, abito a Sesto Fiorentino dal 1975. Sono fisioterapista dal 1994, anno in cui, terminato il cor so universitario di Terapista della Riabilitazione presso l’Università degli Studi di Firenze, ho aperto insieme al mio socio Luigi il Centro di Riabilitazione Sestese, una struttura ambulatoriale privata a Sesto Fiorentino.

introduzione

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E così le nostre sedute, non con tutti i pazienti ma spesso, diventano occasioni e momenti per una piacevole

14 chiacchierata e, considerata l’età dei miei pazienti, è molto facile che questi ultimi utilizzino parole, verbi, modi di dire, espressioni dialettali sestesi, frequentemente usate dalla generazione precedente la mia, o da quella prima ancora, ormai non più in uso o quasi e destinate con il passare del tempo a cadere, fino a scomparire. Inoltre, le sedute domiciliari spesso si svolgono in ca mera, sul letto del paziente, in un ambiente privato, inti mo, in cui forse anche per questo motivo il paziente piano piano si apre, si rilassa ed è facile che inizi a raccontare qualcosa della sua gioventù ormai lontana, del lavoro che svolgeva, della Sesto durante la guerra e dell’immediato dopoguerra, degli amici di giovinezza; qualcuno racconta della moglie o del marito che non ci sono più. Questi di solito gli argomenti più frequenti. Negli ultimi due anni anche il virus, «le corone», il «covis» o, per qualcuno, «quell’affare fuori», fatto troppo grave e misterioso da non essere nominato. In questi racconti la donna sicuramente è molto più aperta e incline al dialogo rispetto all’uomo. Durante alcune sedute con i pazienti più anziani e più brillanti, negli anni mi sono divertito a raccogliere, me morizzare, in qualche modo appuntare queste espressioni dialettali per poi, spesso la sera dopo cena e nei pochi momenti liberi, trascriverle, provando a descrivere breve mente i pazienti e il contesto. Questo nuovo libro rappresenta il continuo del mio primo, Mi dole il groppone (Società Editrice Fiorentina, 2018). Una nuova raccolta che contiene ventiquattro rac conti, tutti autentici e vissuti in prima persona, occasioni per sorridere ma anche occasioni per sentire nuovamente la voce dei nostri nonni sestesi. Per ovvie ragioni ho solo cambiato i nomi dei protagonisti.

Alla fine del primo volume c’erano, oltre a numerose frasi di pazienti, le ricette di Anna, trascritte parola per

a parte è rappresentato da Ciao Maestro, un saluto a un paziente speciale, che ho seguito, a periodi, per diciassette anni, bellissimi e molto costruttivi; un ami co e un grandissimo artista. Le nostre sedute sono state spunti di riflessione e occasioni di crescita. Il suo ricordo è sempre molto vivo e presente, nonostante gli anni che passano. Questo è anche l’unico capitolo in cui i nomi non sono stati modificati.

Buona lettura e buon divertimento, Giovanni

Alla domanda «Che mi riarrò?», tipica espressione se stese, spesso una delle prime domande che mi vengono ri volte quando un nuovo paziente si presenta e mi elenca la lunga serie di dolori e acciacchi da cui è afflitto, la risposta non può che essere «Un tu t’hai a riaere!».

15 parola così come mi erano state dettate. In questo nuovo volume, dopo un lungo capitolo dedicato a numerose frasi e battute, mi sono divertito a presentare, in ordine alfabetico, i nomi di battesimo dei miei pazienti o dei loro familiari: onomastica molto interessante e prova inequi vocabile del trascorrere del tempo, di generazione in ge nerazione.Uncapitolo

«Che mi riarrò?» ChiaCChierate in sestese Con il fisioteraPista

Giuditta

«Siamo noi, ci siamo trasferiti…». «O un lo so! Ora lo so, ma lì per lì e un lo sapevo. Ero rimasta che vu eri sotto il treno, ora invece vu siete alla stazione. Benino… meglio vvà». Un attimo di silenzio, poi

19 «Pronto? Giovanni?». «Sì, sono io, chi è?».

Inizia così la telefonata, una mattina fredda ma serena di febbraio, mentre mi trovo allo studio a Sesto. In effetti questo nome non mi ricorda nessuna paziente al momen to; nemmeno il timbro della voce mi è di aiuto, mentre il volume evidenzia seri problemi di udito. «E son tutta sconquassata, l’è tanto che dico bisogna che richiami quel giovine… E l’è un po’. Poi come se un bastasse lunedì scorso ero nell’andito e sono andata a ca talesse e allora ho detto “bisogna proprio che lo richia mi”. Ma lì per lì un mi ricordavo il nome e non trovavo il numero. Poi una mia amica la mi ha detto che l’è stata da un bravo manovratore che si chiama Giovanni: “Preciso! L’è lui! L’è quello che conosco anche io”, gli ho detto. Guarda le coincidenze, a volte. Poi la m’ha detto che l’è stata nel viale della stazione: “e no vvà! Allora unn’è lui”. Gli ha a essere un altro con il medesimo nome…». «No no, siamo noi, ci siamo trasferiti…». «Come? La parli più forte che sono doventata un po chino sorda ultimamente».

«E son la Giuditta. Ma la un si avrebbe a ricordare di me, l’è anni che un ci semo visti».

Vocia t’ho detto». «Domani verso le 16?». «Bono. A domani allora. E sto al 34…».

20 aggiunge: «A sparte che per me l’è uguale sotto o sopra il treno, unn’avrei a stramutammi io; bisogna che la venghi a casa, perché un mi muovo più con questa cascata».

codesta. Quando la viene da me?». «Guardiamo l’agenda. Allora, domani pomeriggio ver so le 16 «Come??».

Il giorno dopo mentre suono il campanello improvvi samente mi ricordo quando parcheggiavo la moto pro prio qui davanti al cancellino di questa abitazione. La Ducati rossa… Sono ormai dodici anni che non mi sposto più in motocicletta ma la sensazione è ancora la stessa, il ricordo preciso nei dettagli; mi sembra di essere appena sceso, aver chiuso guanti e casco nel bauletto ed essere in piedi, intirizzito dal freddo, ora come allora, ad aspet tare davanti al cancellino. Sulla porta di casa appare una donna molto alta e robusta, capelli neri corti corti e spalle larghe, molto sovrappeso. Non sembra italiana. Mi fa en-

«Va bene, non ci sono problemi. Dove sta di casa?». «Eh? La voci, un sento bene. L’ha a essere questo te lefono…».«Midia l’indirizzo. Dove abita?». «Tun lo sai? T’un te ne ricordi?». «Mah, ora così su due piedi…», provo a prendere un po’ di tempo perché in realtà ancora non ho capito chi parla dall’altra parte del telefono. «E sto sopra il campo sportivo, in quella strada a senso unico che dai giardini…». «Sì sì mi ricordo. Quella casa a mattoncini…», ricor dando l’abitazione mi torna alla mente anche la paziente, simpatica ottantenne, trattata ormai diversi anni fa. Di versi anni «Preciso!fa…Proprio

Spingo la carrozzina al tavolo di cucina e mi siedo di fianco alla mia paziente. La signora che mi ha aperto, sen za dire una parola, se ne è andata in salotto a stirare, come indica il rumore del vapore che di tanto in tanto il ferro emette. La paziente, dopo aver indicato con il dito indice in direzione dell’altra stanza, e dopo averlo portato verti cale davanti al naso, riprende a parlare:

«Mi racconti della caduta. Ha dei referti? Mi faccia vedere un po’…».

21 trare senza dire una parola. A sinistra, dietro la porta di ingresso c’è la mia paziente, in carrozzina. Un urlo sotto linea che sono arrivato: «Eccolo! Ecco Giovanni! Madonna… ma tu sei sempre«Buonaseraeguale!». Giuditta. Magari! Gli anni passano anche per«Magari«Come?».me…».fossi sempre uguale, gli anni passano…». «Sie! Tussei sempre medesimo. Ma quanti anni la c’ha ora?».«49 «Un».tulli dimostri davvero. E io invece 89. O piglia! Comunque, a sparte che l’altra settimana e andiedi a ca talesse, proprio costì dietro a te, distesa tutta lunga per le terre, comunque, a sparte questo, e a sparte che sono tutta scassata, che un ci sento bene, che sono rimasta sola, a sparte tutto un mi voglio lamentare».

«Che referti? Un sono mica andata al Pronto Soccorso. Sie, un vò fare altro, almeno ci si stea una serata. Viense la dottoressa e disse che l’è stata una cascata… e basta. Ma vieni di qua, mettiamoci in cucina».

«O «Eh?brava».Bisogna tu parli un po’ più forte» e si indica l’o recchio destro con il dito indice.

«Hai visto come sono condita? Mi ci vuole la vagante…».«Giuditta, a questa età…». «Sì sì, lo so, lo so: e son sola, e son vecchia, e casco, e un posso più stare da sola. E l’è tutto vero, ma… non lo accetto. E poi questa. Questa proprio la un mi garba per nulla… ma per nulla. Me l’avevano raccomandata dicen do che l’è una lavoratora, mah… io dico che l’è nata stan ca, altro che! Altro che lavoratora. E poi la un mi garba via, un ci si intende, già la parla poco, la intende poco, io intendo poco icché la dice, insomma, la un mi garba. E la vaga per la casa, la gira in qua e in là. Ma icché l’ha a fare, povera donna anche lei: l’è una vagante! Ma la vita l’è così: la mi ha dato anche la vagante. Poi l’è grassa, hai visto come l’è grassa, si fa prima a saltarla che a girargli intorno. E la un mi garba, via! L’è piaccicona. Io invece quande ero ne mi cenci e ero di molto svelta. Ma di mol to svelta. Le mie amiche le dicevano sempre “Guarda la Giuditta come la va: la pare che la torni!”». Un attimo di silenzio, poi: «Le mie amiche sai, loro si che le stanno bene, altro «Giudittache…».haragione, non deve essere facile ma…». «O bellino, e lo so, e lo so, ma dai retta a me, l’è dura. Comunque le mie amiche le stanno tutte meglio di me». «In che «In«Come?senso?».Vocia!».chesensolesue amiche stanno meglio?». «L’enno belle morte! Loro si che le stanno meglio ora!». Indicando nuovamente la stanza di là, riprende il di scorso della badante: «Uggiosa che la unn’è altro. Uggiosa. L’altra notte la chiamai. Madonna, unn’avessi mai fatto. Pensavo la mi tirasse il quartiere addosso. La si invelenì la pareva una serpe pestata: pensavo la mi ammazzasse. La cominciò a

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23 vociare “Non mi deve chiamare in continuazione, io dormire, io dormire”, “Mah, e io pisciare! E io pisciare!” gli dissi. Avevo da pisciare e la chiamai, unn’avrei a farla nel letto. Ma dice che ho il pannolone. Ma la non lo intende: non mi riesce farla da distesa. O questa? O questa d’icché la sa? Eppure non mi riesce farla da diacere, e bisogna che mi levi. E allora la chiamo. E giù voci, pareva il giorno del castigo. O la mi dica lei, che l’è dottore, icché vuol dire che non mi riesce pisciare da distesa? Un mi è mai riescito». «Mah, Giuditta…». «Essai, non mi è mai riescito. Benino potessi farla da distesa… e invece nulla. La mi scappa e non mi riesce. La mi dica chi posso chiamare? Perché l’è smanioso alzarsi di notte per farla. E poi mi tocca chiamarla e allora… vien giù il palco dalle voci. O chi posso chiamare? Ci vuole gente che riguarda la… la persuasa!». «Che cosa?» chiedo incuriosito da questo nuovo ter mine.«La persuasa! La natura… insomma chiamala come tu vuoi, t’hai inteso! Insomma mi ci vuole una che guarda sotto: una levatrice?». «No, ma che levatrice. Lo ha detto alla dottoressa?».

«Lo«Chie?».hadetto alla dottoressa?». «Meglio. Quella davvero. Dice che ho il pannolone… o piglia. Sai che bellezza farsela addosso. Mah, che la se la facci lei se gli garba tanto! Ma sie… Ma io dico l’è stata la strettomia, perché quande mi operonno di strettomia totale mi fruzziconno parecchio. Mi scavonno tutta, dice che mi levonno anche l’appendicite e persino le… le ton sille».«Ma che c’entrano le tonsille, Giuditta?». «No… forse mi sbaglio. Le… le… O come le si chia mano… roba di donne».

«Intanto vediamo come vanno i movimenti? Andiamo sul «Ora?letto?».A letto ora? O pe’ icché? Semo a chiacchierare chiacchieriamo, si anderà la prossima volta». Indica nuovamente la stanza accanto e poi con entram be le mani aperte mi fa segno di parlare piano, oscillando le brevemente in su e giù, «L’è uggiosa come aver pestato una merda con le scarpe da gennastica!». Non riesco a non«Turidere.ridi eh? Beato te, a me mi verrebbe ma da piangere. Tu mi dicessi una preghiera di morire presto…». «Macché morire presto. Andiamo a fare due esercizi sul «Ovvialetto…».giù, gnamo». Spingendo la carrozzina passiamo in salotto davanti alla badante che sta stirando ed entriamo in camera da letto.«Chiudi l’uscio, un mi garba che la senta icché si dice…». Appena chiuso Giuditta ricomincia: «Dice che al suo paese la faceva le arte marziale, di quelle che si tirano dietro le sciabole. E la le deve scansare… Mah, io dico la la mira

«Le «Preciso.ovaie?».Proprio

quelle. Mi scavonno tutta e mi le vonno anche quelle. Io dico l’è quello, fruca fruca gli han no a aver toccato qualcosa nella persuasa… Ma l’è tanto oramai! Comunque fino ad anno e mi levavo da me sola, ma ora non è il caso, e barcullo di giorno, figurati di notte. E no vvà! E poi in quella camera non c’è nemmeno roba adatta per appoggiarsi. Il mobilino gli è lustro, se tu ti appoggi si parte che l’è una meraviglia; la seggiola l’è alta e stretta, prima mi appoggiavo allo schienale ma la si rizza subito; il cassettone unn’ha maniglie, gli ha solo quella chiave che la sporge… l’ho belle sbarbicata una volta: sganasciai tutta la serratura anche».

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«E lo so, e lo so. Me lo disse anche la dottora. Comun que, a sparte questi discorsi, vorrei fare due massaggi, se non moio subito che sarebbe meglio; vorrei fare due mas saggi per stare diritta, per rimanere in piedi. E per lavarmi sotto da me».

bene a stare in piedi, con attenzione e prudenza ma fa bene». «E sto attaccata al cassettone, t’ho detto, unn’avrei a stramutarlo, sennò davvero…». «Brava Giuditta, secondo me deve solo muoversi di più, stare troppo ferma e sempre seduta in carrozzina non le fa bene ai muscoli».

«E magari per essere un po’ più sicura e autonoma in casa», aggiungo io.

25 anche un cieco, hai visto come l’è tonda?». Un attimo di pausa, poi riprende: «Ma poi che hai visto come l’è brutta? Che l’hai vista bene? La pare fatta con i pezzi avanzati!». Cerco di non ridere ma non è facile. Cerco di cambiare discorso, di spostare l’attenzione su altro, sulla caduta, sulla«Giuditta,riabilitazione:cela fa ad alzarsi?». «Sicuro, in piedi ci sto, ma barcullo di molto. Comun que sul letto ci monto da me. Stai a vedi». E infatti senza nemmeno troppe difficoltà, la signora si alza lentamente dalla carrozzina e, mossi due passi, si siede prima sul letto e successivamente si sdraia. «Accidenti Giuditta è stata bravissima». «Bravissima? Perdie, per essermi sdraiata sul letto? Accidenti, allora tu mi pensavi belle ita, belle morta! O unn’istò tutte le sere in piedi, appoggiata al cassettone, si capisce, a dire il Rosario! Secondo lei che mi fa bene stare in piedi a dire il rosario? Il tempo di dire cinque o sei Ave Marie? Che mi fa bene o mi fa male alla persona mia? Icché tu «Dicodichi?».chefa

26 «Ma due passi li fo di già. Comunque morissi ora, intra fine fatta, un sarebbe meglio per tutti? O Giovanni quan de «Non«Eh?».«Chemorirò?».loso…».loso,non si può sapere».

detto diverse volte ma unn’ho inteso nulla. Avanzo sono sorda, comunque un nome strano».

«Via, cambiamo discorso con il morire, quando sarà il momento…».«Saràunbel momento! Almeno smetto di partire e quella di là la si leva di torno, e la torna al suo paese a farsi tirare dietro le sciabole».

«In qualche modo la chiamo, vedrai semo in due, se la sente chiamarsi e la risponde. E semo in due, semo. Comunque morissi sarebbe meglio per tutti, primo per me».

«Via Giuditta invece di pensare a morire proviamo a fare due esercizi. Vediamo come si muovono queste gambe».Distesa

«E lei come fa a chiamarla?».

«Chi si può sentire? Che lo conosce lei un indovino?».

sul letto Giuditta inizia a fare i primi esercizi attivi agli arti inferiori, senza apparente difficoltà e senza limitazioni articolari.

«Un indovino?» chiedo incredulo. «Un indovino, sì, o uno che fa le carte; mi ci vorreb bano gente così, che mi dicano quande morirò», insiste convinta la mia paziente.

«Via Giuditta, non ricominciamo; e poi la signora… come si «Boh,chiama?».meloha

«Brava Giuditta, ha visto che gli esercizi, questi primi esercizi, riesce a farli proprio bene? Secondo me, così a prima vista, ci sarebbe solo da farli con una certa regolari tà, per prendere più forza nelle gambe, più sicurezza negli

… Vocia! Ma vocia piano, sennò quella di là la sente unnicosa d’icche si dice noialtri». «Certamente. Rinforzando i muscoli barculla meno e si sente più sicura negli spostamenti».

27 spostamenti, e di conseguenza essere più sicura e avere meno«Almenopaura».barcullerei meno?». «Come?«Certamente».Unn’intendo

«Quegli… come si chiamano… quegli in più al man giare, no proprio medicine…». «Gli «Preciso.integratori?».Propriocodesti. Che c’enno per i muscoli?». «No no macché integratori». «Degli unguenti? Delle pomate? Come si dice… delle creme, uso striscialle sulle cosce?». «Macché creme da strisciare! Cosa vuole ottenere con le creme… ci vogliono gli esercizi…». «O vocia t’ho detto. E unn’intendo nulla e poi mi toc ca ridirti di ridirlo. E unn’ho mica inteso. Che vanno bene gli «No.unguenti?».Niente unguenti». «Possibile che un ci siano delle medicine per i musco-

«Proprio icché mi ci vuole. Ma, a sparte gli esercizi, non ci sarebbano delle medicine da prendere?». «Per che cosa?». «Per la muscolazione. Per farla più forte. Non c’enno medicine per rinforzare i muscoli?». «No Giuditta, non ci sono. I muscoli vanno rinforzarti con la «Ci«Eh?ginnastica».Nonintendo».vuolelaginnastica per rinforzare i muscoli, non le medicine».«Manemmeno due vitamine?». «No no, lasci perdere».

«Quello… Il più di tutto… O come si chiama…». «Boh… ma di che sta parlando?». «Come? L’è mezz’ora si parla di medicine, ora sorte fuori a dire di che si sta parlando… a me tummi fai schiantare! O un semo a parlare di medicine per i muscoli?». «Non esistono medicine per i muscoli, ci vogliono esercizi».«Nemmeno

quello fa bene? O come si chiama? Quel lo… più di tutti…?». «Ma che vuol dire quello più di tutti?»… «Quello che fa bene a unnicosa… quello che lo dan no per unni cosa… per i dolori, per unnicosa, o come si chiama…».«Ilcortisone?»

«Quello… più di tutto…?». «Che sarebbe? Che vuol dire?».

cerco di indovinare, un po’ a tentativi. «Preciso!», un urlo sottolinea la risposta esatta. «Proprio il cortisone. Un va bene per i muscoli?». «No no, macché cortisone!». «Morissi allora! Uh benino. Come starei bene. Senza gennastica, senza esercizi, senza la vagante. Morissi… La bara sai, altro che pomate, altro che gennastica, altro che esercizi. Mi ci vorrebbe ma la bara. Una bella bara…».

Un attimo di silenzio, distesa sul letto, poi mi guarda ed esclama: «La facesse il becchino lei invece che il fisio terapista… un sarebbe meglio per tutti e due?».

li… Per rinforzarli. Possibile tutte le genti che fanno gli sport che un piglino roba per i muscoli…». «Giuditta ci sono dei farmaci per i muscoli ma fanno male, lasci perdere». «Allora icché ho a prendere?». «Niente. Ci vuole ginnastica, esercizi».

28

191 frasi di

Queste pagine completano il quadro delineato dai rac conti con una serie divertente di improprietà e sfondoni linguisti che, oltre al divertimento, offrono la possibilità di farsi un’idea del quadro mentale con il quale i vari protagonisti si rappresentano il mondo. Prima di tutto manca qualunque timore reverenziale che una volta la gente di poca cultura aveva nei confronti dell’ufficialità e dell’istituzionalità e ridu ce tutto alla propria misura, piuttosto che adeguarsi ai mo delli che il mondo (soprattutto quello dei media) propone.

Per un sociologo sarà facile rilevare come si sia attenuata la sudditanza psicologica verso il sapere arrogante con cui i grandi complessi e le organizzazioni una volta intimidivano e schiacciavano l’individuo debole e sprovveduto, che si è stancato di subire e ora capisce quello che capisce e agisce di conseguenza. C’è una frase tra queste che mostra in poche parole questa reductio ad minimum: dall’avveniristico trascendentale al casalingo tradizionale. Una voce chiede: «Giovanni, per questa caviglia svitata, è meglio il laser o una chiarata con la stoppa?».

Il piccolo repertorio facilita al lettore più attento, che vuol approfondire l’aspetto di documento del volume, la ricognizione linguistica, uno dei lati più singolari di que ste pagine.

Pazienti

Questo repertorio di frasi di pazienti che Giovanni offre ai lettori come dessert o ciliegina finale, sta bene in fondo a un’opera che ha in controluce aspetti molto interessanti, oltre l’aspetto letterario.

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interessanti sono in particolare i travisamenti e gli che esemplificano l’uso particolare della lingua di cui si è già detto, ma testimoniano anche il momento in cui il nuovo entra nel vecchio come due iceberg che si stritolano.

stravolgimenti,

Questo appare dalle originali deformazioni dei termini che il mondo del passato opera spietatamente nei con fronti del tracotante avanzare del tecnologico, della ter minologia straniera e di tutti i neologismi cervellotici, gli acronimi superflui. Questo bagaglio farraginoso di parole va prendendo, nei confronti di anziani e meno provveduti, il posto del latinorum che Don Abbondio e Azzeccagarbugli usavano per confondere il povero Ren zo. Questa è la mite vendetta del debole.

Questo capitolo si può leggere come una divertente rassegna di spropositi, come una base per varie ricogni zioni che riguardano le dinamiche familiari d’un mondo marginale, una visione del mondo che s’affaccia al passato, la sintesi d’un ordine di valori che oggi è sempre meno condiviso.Aspetti

superflue

Carlo Lapucci

Ho tanto male a questa persona mia. Ho un nervo della schiena accecato. Con questa influenza ci sono due milioni di accasciati. Tu ti sei fatto i baffi alla Clark Gable [pronunciato così come si scrive], tu mi pari un co-boi tipo Gion Vaine.

Finalmente venerdì si parte! Con la nave. Dal porto di… SabatoPistoia.

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c’è stata la partita tra Real Madrid e Atletico Madrid. Ha vinto il Madrid. Indò tira vento, indò c’è la foce, si respira meglio. Con tutti questi telebani, un se ne pole più.

Dottore mi è nato un nipotino ieri. Gli ho comprato una tutina taglia «che nasce ora». Faccio le scale acconsentita. Ho un ginocchio in comunicativa con l’anca.

Dopo questo trattamento sono rinata al mondo.

Ho le vertebre tutte rassettate.

Dice che gli hanno dato anche la cattedra: la mi’ nipote la mi ha detto che da poco gli è doventato un professore, sanitario, cattedrale, dirrò.

E viddano un film triste… e piansano tutti insieme. Ma dimmi di’ mi’ cognato: o icché c’entr’egli a ottant’anni di non si fare la barba? E pare un barbone come quegli che si buttano per le terre sui cartoni. Mah! Gli ha a essere impazzato! Unn’anderà mica in pazzeria? Speriamo di no! E no vvà!

Il marito della mi’ nepote gli è un dottore, un professo re via, gli ha studiato talmente tanto che ora gli insegna all’università.

Per il mal di gola e ci vuole di farsi un bell’impiastro di granchio schiacciato bene e metterselo sulla gola, uso a vecchia maniera. Oppure se un v’è il granchio un impia stro di midolla di pane bollita nel latte e si fa una palla e la si mette sulla gola: ci si sente riaere!

Il referto delle lastre che te lo posso mandare con lo Stappen? Con lo zappen? Insomma, come si chiama?

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Dottore ho avuto il virus di tanto mal di pancia e con l’anUnadare. mi’ amica ha quella malattia del sangue con le bestioline: c’enno delle bestioline nel sangue, a giro per le vertebre della spina, bestioline di quattro qualità diverse, che quande le si scontrano nelle vene e viene un pizzicore da impazzare, un prudore a giro per tutto il corpo… Che la conosce come malattia?

indiCe7 Prefazione di Carlo Lapucci 13 Introduzione 19 Giuditta 29 All’estero 36 Attenzione ai medicinali 41 Ginnastica quasi mortale 48 Il trapano avvitatore 56 Il dente 65 Il limone 70 Il plantare 75 Ciao maestro 81 La ciabatta 88 La maglia bucata 92 Le avventure di Oliviero 100 Ma domani icché si desina? 105 Una sindrome rara 111 La dottoressa… 117 Le corone 125 Lo stretching

131 Nel dopoguerra 144 Sul tetto 151 Il giro d’Italia 158 La piastrella 167 Una nuova professione 175 Il trasloco 180 Mario e Pia 191 Frasi di pazienti 221 Nomi di pazienti 227 Ringraziamenti

Filo diretto con l’autore www.giovannimatulli.it

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