Roberto Corsi
Donne di fiori di cuori di (ri)picche
Quadri di atletica al femminile prefazione di Mabel Bocchi postfazione di Claudia Giordani
SocietĂ
Editrice Fiorentina
Dello stesso autore Stelle senza polvere. Atletica leggera “palestra di vita� Dio salvi la regina. Atletica leggera tra impianti e rimpianti
Roberto Corsi
Donne di fiori, di cuori, di (ri)picche Quadri di atletica al femminile prefazione di Mabel Bocchi postfazione di Claudia Giordani
SocietĂ
Editrice Fiorentina
Filo diretto con l’autore robecorsi@tin.it
© 2012 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it blog www.seflog.net/blog facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account www.twitter.com/sefeditrice isbn 978-88-6032-209-8 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Le immagini presenti nel libro provengono dagli archivi fotografici degli atleti, che le hanno gentilmente concesse per la pubblicazione. L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte Copertina a cura di Andrea Tasso (foto istockphoto.com)
Alla memoria di mia moglie Patrizia, la donna dei tulipani della mia vita
prefazione Mabel Bocchi
Madri, figlie, mogli, single, contadine, impiegate, dirigenti, nate con la camicia o sfigate nere, riservate, estroverse, simpatiche, aggressive, pazzoidi, giudiziose, temerarie, timide. Atlete. Uniche e diversissime, ma tutte con un comun denominatore: appartenere a quella metà del cielo che nello sport, soprattutto nello sport, è spesso ignorata. Per far vedere che esistiamo, a parte rare eccezioni, occorre proprio andare alla grandissima, un record mondiale, un oro olimpico, qualche volta un argento o un bronzo, o purtroppo, una maglietta particolarmente attillata… Cose che capitano quando a “teleparlare” o a scrivere di noi donne sono gli uomini, la stragrande maggioranza, ma non succede a Roberto Corsi, ben lontano da certe scontate insulsaggini. Da buon fiorentino a Roberto le battutine non mancano di certo, qualche frecciata qua e là, inframmezzate da azzeccatissime ed erudite citazioni del tipo «è impossibile godere appieno dell’ozio se non si ha un sacco di lavoro da fare», ma ciò che emerge con una prepotenza dirompente è l’enorme rispetto che lui prova per ognuna delle sue 26 prescelte. Alcune le ho conosciute personalmente, altre viste in diverse occasioni. Con Rita Bottiglieri ho addirittura diviso un’accogliente cameretta al san Matteo di Pavia, dove ci ritrovavamo entrambe conciate da buttar via (lei il tendine d’Achille, io il ginocchio) sotto le amorevoli cure chirurgiche del mitico professor Boni. Con Silvia Chersoni ho giocato a basket in una squadra dal nome che era tutto un programma: “Le prigioniere del sogno”. Eravamo tutte ex e andavamo a giocare per riuscire a goderci goliardicamente insieme una bella pizzata e vino. Con molte altre mi sono incrociata in uno dei tanti convegni su “donna e sport” che da trent’anni a questa parte si fanno regolarmente in ogni città e regione d’Italia, invitando sempre le stesse persone, dicendo sempre le stesse cose, rivendicando sempre le stesse cose, avendo sempre le stesse non-risposte. Ma forse, non è proprio così del tutto. Qualcosa in effetti è cambiato. Oggi, sui campi di atletica esistono oltre agli spogliatoi maschili anche quelli femminili. Ci si allena due volte al giorno, anziché una volta ogni due giorni. Non potremo più gioire per un record del mondo conquistato da una tale che era riuscita a raggiungere l’Arena di Milano all’ultimo momento solo grazie a un’ora di permesso concessa dal suo capoufficio. Quella tale era Paola Pigni. Ora va un po’ meglio, ci seguono di più, magari ci danno anche qualche lira, vii
pardon, finché resiste, qualche euro, o ci inseriscono nelle Forze Armate, ma devi essere fortunata, non certo come Marzia Caravelli che, pur essendo stata per oltre un lustro una delle due migliori ostacoliste italiane, non trova un cane a puntare su di lei. E vogliamo parlare degli infortuni? Questo solo argomento meriterebbe un intero libro. Eh, sì, perché è risaputo, noi donne ci spacchiamo molto di più dei nostri colleghi maschietti. La scienza dice questione di ormoni. Sarà! Sta di fatto che a differenza dell’ipocondriaco “sesso forte” (sarà un caso, ma il mio papà, nonché mio fratello e i miei migliori amici non passano giornata senza reclamare un qualche dolorosissimo male in una qualche non ben definita parte del corpo) noi donne li viviamo come dolorosi fatti della vita, da cui si può e si deve venirne fuori. Ce lo racconta molto bene Emma Quaglia attraverso la penna di Roberto: «Un atleta è abituato a pretendere il 100 per cento dal suo corpo, quando invece vedi che ti abbandona è triste». Emma si era beccata dapprima la mononucleosi, ma nessuno lo sapeva, tant’è che la incolpavano di non esserci più con la testa. Poi a seguire il morbo di Basedow e un tumore alla tiroide. Un calvario durato due anni in cui la difficoltà non era correre, ma camminare. Ma Emma, che in cuor suo non ha mai rinunciato all’atletica, quando ritorna in pista (forse la vedremo alle Olimpiadi di Londra) si limita a dire: «Sono stata malata, mi sono curata e sono guarita». Se poi parliamo d’amore, attenzione uomini, seppure atleti, perché non avete scampo se per caso incontrate una mezzofondista, una quattrocentista o una ostacolista. Qui la tenacia, la forza di volontà, la perseveranza nonostante svariati rifiuti e fughe della controparte non hanno limiti, sino a quando il traguardo è raggiunto: il fatidico sì. Merito della dura lezione dell’atletica che ti abitua a non mollare mai? Questa è la convinzione di Laura Fogli. Ma anche di tante altre che, a differenza delle soubrettine, letterine e altre “ine” che non mi vengono in mente (già tutti questi diminutivi qualche dubbio lo mettono…) e che occupano le copertine patinate delle innumerevoli riviste “gossippare”, diventano famose per il numero di separazioni e divorzi, loro (un po’ di nomi, eccoli: Giuliana Cassani, Paola Pigni, Silvia Chersoni, Giusi Leone, Donata Govoni, ecc.) silenziosamente, senza tanto clamore, ma felicemente e serenamente si godono i loro trentennali matrimoni.
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introduzione «Una parola non è la stessa in uno scrittore e in un altro. Uno se la strappa dalle viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito». (Charles Peguy)
Come slogan l’avevo inventato carino. Un mazzo di carte, toscano, al completo. «In alternativa a Scuola Quadri, noi facciamo scuola cuori, però ci rispondono sempre picche nonostante si offra fiori». Per uno timido e imbranato come me, l’approccio al mondo femminile era più difficile di una scalata dell’Everest. Domenico Brandolini, un romano che faceva il militare a Firenze, si guardava bene dall’incoraggiarmi e mi innaffiava di gelido realismo. «Embé Robbè, sai che te dico? Tanto, se t’ennamori, quella nun ti s’ennamora…». Ancora lontana l’epoca di you tube, non avevo mai avuto modo di ascoltare i consigli – una vera e propria ars amandi in salsa partenopea – di Sergio Bruni contenuti nella canzone Canti nuovi. «Chi vuole con le donne aver fortuna / non deve mai mostrarsi innamorato. Dica alla bionda che ama più la bruna / dica alla bruna che è dall’altra amato». Erano i primi anni ’70. La Scuola Quadri in questione era quella di un noto movimento ecclesiale, alla quale i neofiti come me non erano invitati a partecipare (ma fu per poco tempo). La scuola cuori si riferiva, ovviamente, a vari tentativi di liberarsi della condizione… scapolare. Alla fine una che non rispose picche la trovai. Si chiamava Patrizia. Evidentemente aveva apprezzato i fiori recisi dal campo di Monteloro, la campagna dove abitavano i miei. Per un suo compleanno le regalai dei tulipani, accompagnati da un biglietto: «Ora che abbiamo riscoperto la libertà d’invecchiare, anche il compleanno torna ad essere una cosa bella. Come un mazzo di tulipani». Rituffarmi nei ricordi della gioventù mi è servito per trovare un titolo a questo nuovo excursus nell’atletica, questa volta al femminile, dopo Stelle senza polvere e Dio salvi la regina. Anche questo libro è pieno di fiori, come quelli dati in omaggio alle vincitrici, di ieri e di oggi. Quelle che ho illustrato sono di indiscusso valore, ma voglio precisare subito, anche per non stuzzicare caratteristiche femminili meno nobili, che la mia non è una classifica di merito. Ad esempio, sarebbe stato d’obbligo inserire Sara Simeoni e Gabriella Dorio, ma di loro avevo già parlato nel primo libro e… Paganini (sì, paga Nini, cioè il sottoscritto) non ripete. ix
Vi sono rappresentate anche leggiadre donzelle cui venivano regalate rose rosse da parte di qualcuno che aveva scoperto, sulle piste o sulle pedane, un cuore che batteva all’unisono con il proprio. Così le rose rosse si sono trasformate in fiori d’arancio, perché l’amore non ha bisogno della gabbia, a differenza del martello. Fedele all’aurea regola “tra moglie e marito non mettere il dito”, ho voluto che fossero loro stessi a raccontare le loro storie d’amore. Non se ne adonteranno se mi sono concesso la licenza prosaica di inserirle tra le ri-picche. Depurata dai suoi aspetti meno eleganti, la parola indica una costanza nel raggiungere un obiettivo, come hanno fatto le nostre con l’uomo prescelto. E loro, i maschi atletici, della canzone di Sergio Bruni avevano imparato anche la seconda strofa. «Il cuore delle donne è una fortezza / che prender non si può senza assaltare. Lotta con forza e cede con dolcezza / e vinta ne puoi far quel che ti pare». Non ho avuto dubbi, invece, nell’assegnare le cuori. Sono storie di donne tenaci, non tutte baciate dalla fortuna, che, spesso, nell’amaro della lacrime hanno trovato la forza per risorgere ancora. Come diceva Fedor Dostoevskij, «il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma nel sapere per che cosa si vive». Sistemate le fiori, le cuori e le ri-picche, c’era il problema delle quadri. Mi è venuto in soccorso Doriano Prato, un torinese che la passione per l’atletica ha portato ad essere mio grande estimatore. Ricambiato. È stato lui a darmi l’idea del sottotitolo. In effetti questo libro è un insieme di quadri aventi per tema il genere femminile. È l’occasione per una ulteriore rivincita verso me stesso. Incapace di fare una “o” con il bicchiere, all’esame di storia dell’arte non volli dare contro alla innata umiltà, rifiutandomi di aderire alla richiesta del professore, che mi chiedeva di criticare un dipinto di Giotto. Fui bocciato. Rimedio ora, dipingendo a modo mio, con il computer invece che non il pennello, questi quadri al femminile. Potrei chiamarli quadretti ma non farei torto all’autore, bensì alla grandezza delle persone rappresentate. Se a qualcuno questo approccio all’atletica apparisse troppo floreale e sdolcinato, posso rimediare rendendolo ariostesco. «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto». La forzatura riguardo alle armi è solo apparente. In primo luogo perché non c’è gara di velocità senza pistola di starter e, secondariamente, provatevi a prendere in testa un disco o un peso. Altro che armi… Il capitolo finale dedicato all’Arena è anche un omaggio al luogo dove è nata l’idea di questo libro, partorito dall’intuizione di Giuliana Cassani, infaticabile addetta stampa della Fidal lombarda, spalleggiata dalla presidente milanese Sabrina Fraccaroli. x
Fra le molte persone che mi hanno dato i loro preziosi consigli, mi limito a ringraziarne due, le più stagionate: Augusto Frasca e Vanni Loriga. Per chi come me che non ha mai giocato a pallacanestro (per… ovvi motivi) né inforcato un paio di sci, è motivo di orgoglio avere la prefazione di Mabel Bocchi, la più grande giocatrice di basket italiana della storia, e la postfazione di Claudia Giordani, grandissima campionessa nello slalom. Mi piace interpretarlo anche come l’omaggio a uno sport, l’atletica, che è alla base di tutti gli altri, compreso il loro. Devo molto anche alla benevola accoglienza delle persone che ho incontrato. In pratica sono loro che, con le loro imprese, hanno scritto questo libro. Da qui l’invito manzoniano ai lettori: vogliatene bene a chi l’ha scritto, e anche un pochino a chi l’ha raccomodato. Roberto Corsi
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Donne di fiori ovvero il profumo della vittoria
quando un(a) leone diventa una gazzella «Negli occhi tuoi passavano / una speranza, un sogno, una carezza… / avevi un nome che non si dimentica / un nome lungo e breve: giovinezza» (dalla canzone Signorinella)
«Tutti mi dicon Maremma, Maremma, ma a me mi pare una Maremma amara…». Il canto dei pastori che vi portavano le pecore (transumanza), spesso lasciandoci la pelle per la malaria, non è certo quello di Giuseppina Leone. Lei in Maremma ci va da molti anni, dopo averci acquistato una bella casetta immersa nel verde di Punta Ala. «Che settembre magnifico! – esclama accogliendomi –. Pensi che la settimana scorsa abbiamo fatto il bagno». Se sia stata solo l’aria della Maremma non so, ma certo l’ex velocista, medaglia di bronzo all’Olimpiade di Roma, presenta una buona cera. Ottima direi, se vogliamo riecheggiare il celebre Carosello. Trovarla a Punta Ala è una vera fortuna anche per me, perché mi risparmia un viaggio a Torino, la città dove è nata e risiede. «Sono venuta qui con mia nipote, che lavora nientemeno che a Singapore. Ormai sono un po’ troppo in là con gli anni per sobbarcarmi un viaggio da sola da Torino». Prima l’accompagnava un altro autista. L’ha guidata per quasi cinquanta anni, poco prima che potessero festeggiare le nozze d’oro. «Ho incontrato l’uomo della mia vita, Mario Paoletti, alle Universiadi di San Sebastian, nel 1955. Anche lui era un atleta ed era lì con la nazionale. Lui abitava a Roma, io a Torino. Ci siamo sposati subito dopo l’Olimpiade di Roma, quando io ho smesso di gareggiare. Dovendo decidere la residenza da sposati, si è optato per Torino. Lui era laureto in legge e ha fatto una bella carriera alla Fiat». La ferita è recente e sanguina ancora un po’. Soprattutto per come si è verificata. «Siamo stati sfortunati, perché ha avuto una malattia strana, conosciuta nel 1984. Una malattia progressiva che gli aveva preso i nervi del moto, non quelli sensoriali». Non deve essere stato facile assistere impotenti al progredire della malattia. «È stata una cosa lunga. Abbiamo fatta la nostra vita, per carità, ma mi stringeva il cuore vederlo così. A lui piaceva muoversi, anche qui a Punta Ala facevamo il giro di questo campo da polo, da Torino andavamo a sciare a Gressoney. Almeno avessimo saputo con precisione che malattia era. Lui aveva molti impegni di lavoro, per questo rimandavamo alla pensione il 3
piacere di qualche viaggetto, che non avevamo fatto. Invece… Per fortuna aveva un carattere magnifico e ha saputo reagire bene. Io ho amato lui e lui ha amato me». Non c’è da meravigliarsi se il morso della solitudine ogni tanto si fa sentire. «Adesso abito da sola. Ho una sorella che sta a Ivrea, ma mi tiene compagnia soprattutto un’amica torinese. È come avere un’altra sorella. Mi stava vicino anche quando mio marito era in ospedale. Spesso vado a cena da lei, ma quando rientro a casa e vedo quelle stanze vuote… Mi sento disorientata, perché, anche se le cose le decidevamo insieme, era lui, mio marito, il promotore». Capisco bene la signora Leone. Conosco la materia. Però sono venuto in Maremma anche per conoscere l’altra materia, quella che fa di lei un monumento nazionale, un pezzo pregiato della storia atletica femminile. Ci sarebbe anche la preistoria, rappresentata da Gabre Gabric e dal duo bolognese Ondina Valla e Claudia Testoni. Di Gabre Gabric ho già parlato nel mio libro Stelle senza polvere. Ha 97 anni, lasciamola lanciare peso e disco in giardino, facendo ingrullire le figlie. Certo che, memore della sua Olimpiade a Berlino, anno domini 1936, potrebbe riecheggiare il John Kennedy del muro: anch’io sono berlinese. Lo stesso avrebbe potuto fare Trebisonda Valla detta Ondina. Pare quasi che, mettendogli quel nome, i genitori fossero consapevoli che la trebisonda l’avrebbe fatta perdere alle avversarie. Però la sua specialità erano gli 80 ostacoli, nei quali vinse la medaglia d’oro, anche lei a Berlino. Due anni più tardi toccò a Claudia Testoni vincere l’oro agli europei di Vienna. Compagne di scuola, si diedero poi battaglia sulla velocità, sugli ostacoli e nel lungo. Lascio la preistoria perché ho davanti a me la storia. Giusi Leone non si è mai misurata con la Testoni, avendo una ventina d’anni in meno, ma ha battuto il suo record italiano (12”) nel 1952, ritoccandolo poi altre sette volte. Sui 200 invece, il record battuto dodici volte era quello di Rosetta Cattaneo. Sarà poi Cecilia Molinari a portare via i record a Giusi, quello dei 100 nel 1971 e quello dei 200 nel 1973. Ma era già l’epoca del tartan, non più delle piste in terra battuta. E, comunque, dall’esordio fino al ritiro del 1960, non c’è stata nessuna italiana che sia riuscita a battere Giusi in una qualsiasi gara. Il silenzio sotto i pini di Punta Ala è la cornice adatta per riandare all’origine di una meravigliosa carriera. «Io riuscivo bene nel salto in alto, tanto che la mia insegnante mi diceva che avrei dovuto fare atletica. In realtà praticavo il nuoto, ma era una cosa limitata ai venti di giorni di vacanza. Il resto dell’anno lo passavo a Torino con mia mamma, che era impiegata, e con mio padre, che era operaio». 4
L’incoraggiamento a fare qualcosa in più è venuto da Marcello Pagani, un atleta che abitava di fronte alla Leone e che poi sarebbe diventato un dirigente sportivo e un politico di primo piano. Interessandomi un po’ di politica, ricordo anch’io quel nome. Nell’ambito della corrente democristiana di Forze Nuove, era il braccio operativo di Carlo Donat-Cattin, che invece mi affascinava per la sua oratoria («ci sono degli amici che invece di portare a spasso il cane viaggiano con la volpe sotto le ascelle»). Giusi si complimenta per questo ricordo e prosegue il suo racconto. «Pagani mi ha accompagnato e presentato ai dirigenti della Sipra, che aveva una squadra di atletica. Ho espresso all’allenatore il mio desiderio di fare qualcosa ed egli mi ha mandato in campo, senza che io avessi l’abbigliamento adatto. Avevo 17 anni ed eravamo sul finire della stagione. Nell’inverno successivo mi sono allenata un po’ in palestra e ho fatto le prime gare vere». Fra quelle, ce n’è una che Giusi ricorda bene. La colloca storicamente. «Allora c’erano tre categorie: la prima, la seconda o la terza (come le buste di Mike Bongiorno a Lascia e Raddoppia, nda), in ordine di importanza. Io, ovviamente, avendo appena iniziato, ero nella terza. Stavo facendo i 200 metri quando, superata la curva, mi sono sentita urlare fermati, fermati. Non capivo il perché: questi sono impazziti… L’allenatore era preocupato perché se avessi fatto un tempo troppo buono non avrei potuto partecipare alla terza serie, nella quale avevo maggiori possibilità di vittoria. Ho un po’ rallentato, ma alla fine il tempo era decente. Così ho cominciato a fare velocità». Il 1952 è anche l’anno dell’Olimpiade di Helsinki. Nella sua prima gara la Leone corre i 100 in 12”4, battendo Maria Musso, altra piemontese che andava bene. I responsi cronometrici parlano da soli, per cui Giusi viene convocata alla selezione per la staffetta 4x100 in funzione olimpica. Non che ci fosse grande fiducia in lei. Non conoscendola, erano piuttosto scettici che avesse davvero fatto quei tempi. Giusi risponde alla convocazione milanese accompagnata dal suo allenatore, perché non era mai uscita dalla famiglia ed era molto timida. Gli fanno fare la prima frazione perché non ha dimestichezza con i cambi. Gli viene contrapposta la Musso, ma alla fine sono diversi i metri di distacco che la separano da Giusi. La strada per Helsinki è aperta, ma c’è prima da fare un allenamento collegiale a Varese. La mamma di Giusi è di quelle all’antica. Dalla figlia vuole sapere dove va, con chi, per fare cosa. Le proteste di Giusi, recalcitrante per l’iperprotezione, non muovono la madre che la segue a Varese, con sollazzo dei giornalisti: mamma Leone in veste di chioccia. Comunque è l’occasione per parlare con l’allenatore e spianare la strada a Giusi, che in quell’ambiente non conosceva nessuno. 5
Il ricordo di quell’Olimpiade, soprattuto della cornice ambientale, è ancora vivo nelle memoria della velocista. Anche il viaggio in treno è pieno di allegria, con il discobolo Tosi che invitava la matricole a portargli fiaschi di vino. La città è bellissima, la gente molto sportiva, su quei bei prati ci si può allenare senza problemi («io, appena arrivata all’atletica, mi commovevo quando per strada fermavano il grande Adolfo Consolini: una cosa meravigliosa»). A Helsinki Giusi vince la propria batteria ma non va oltre; gareggia con la staffetta, subito eliminata. Oltre all’atletica, c’è la scuola. Studia ragioneria, anche se poi non prosegue con l’università. Le piace l’ambiente sportivo, decisamente familiare sia alla Sipra che, poi, alla Fiat. Lì ci sono tante campionesse, fra cui Piera Tizzoni e Alda Rossi. Si ritrovavano anche in nazionale, estendendo anche negli allenamenti collegiali quel clima di vera amicizia («stavamo bene insieme, non c’era invidia, almeno da parte mia perché ero la migliore di tutte») che c’era già fra di loro. «Avevamo due allenatori: Ragni, che aveva fatto l’Olimpiade, e Cuccotti. Con quest’ultimo scherzavamo, tanto che a Formia gli facevamo anche il sacco nel letto». Alla Fiat, le offrono anche un posto da impiegata. Giusi al mattino lavora e poi al pomeriggio gode di permessi per allenarsi. Ovvio che non era né l’atletica né il mondo di adesso. «I primi tempi ci allenavamo a giorni a alterni, un giorno i maschi e uno le femmine. Era tutta un’altra mentalità. C’era qualcuna che aveva i pantaloncini un po’ più corti, talvolta rischiando la squalifica per questo. E anche le piste erano un’altra cosa. In terra battuta, quando pioveva era pesante. Piantavamo noi i blocchi in terra con i chiodi…». Agli europei di Berna del ’54, Giusi sfiora il podio (quarto posto) e conquista il bronzo nella staffetta con Musso, Bertoni e Greppi. All’Olimpiade di Melbourne, due anni dopo, poteva fare meglio: quinto posto nei 100 (come la staffetta) ed eliminazione in batteria sui 200. Vi era arrivata con il record europeo raggiunto a Bologna (11”4) ma non si trova bene, con quel clima ventoso. Giusi non si sottrae a un confronto tra le due distanze. «Io ero più portata a fare i 200 per un semplice motivo: non avevo una grande partenza ma un progressivo formidabile. Anche la curva mi riusciva bene. Non posso dirlo, ma se mi avessero allenato diversamente, facendomi correre i 200 più dei 100 oppure se mi avessero fatto fare una corsa sola, forse avrei raggiunto risultati migliori». Accennato al quinto posto sui 100 agli europei di Stoccolma del ’58, bissato da quello della 4x100, arriviamo al più grande risultato della sua carriera e al più grande rimpianto. L’Olimpiade di Roma si potrebbe chiamare Olimpiade torinese, vista la medaglia d’oro di Livio Berruti sui 200 e quella di bronzo di Giusi sui 100. Ma ecco il rimpianto. 6
«Nella finale dei 200 c’era Wilma Rudolph (quella con cui Livio Berruti passeggiava mano nella mano per il villaggio olimpico, nda) che aveva qualcosa più di tutte. Nella gara, come corsia, era dietro di me. Io, dopo la curva, ho visto una che mi sorpassava ma non ho riconosciuto la Rudolph, pensavo che fosse un’altra. In quei momenti non si ragiona. Io, non che abbia rallentato, ma non ho spinto come dovevo e sono finita sesta. In questi ultimi tempi ho rivisto varie volte quella gara. Se avessi corso come avrei dovuto, sono sicura che sarei arrivata seconda. C’è anche da considerare che a quei tempi si facevano semifinale e finale nello stesso giorno. Io, da scema, ho dato tutto in semifinale, vincendo. Se non avessi speso tante forze, magari ne avrei avute di più in finale, ma inutile piangere sul latte versato. Certo, sarebbe stato bello l’argento sui 200 accanto al bronzo nei 100». Stavo per passare sotto silenzio le Universiadi. Quella del ’55 a San Sebastian non è stata importante solo per avere incontrato l’uomo della sua vita, ma anche per la doppietta sui 100 e sui 200. Due anni dopo, a Parigi, gareggia solo nei 100, conquistando il bronzo. Nel 1959 le Universiadi si sarebbero dovute disputare a Roma, ma gli impianti non erano pronti. Nebiolo colse la palla al balzo per realizzare la sua idea, trovando nella sua città, Torino, le strutture necessarie già in funzione e anche la disponibilità da parte degli Enti pubblici che intravidero nell’evento sportivo una prova generale dei festeggiamenti per il centenario dell’Unità d’Italia nel 1961. Fu un trionfo anche per i torinesi Livio Berruti e Giuseppina Leone, che si aggiudicò sia i 100 sia i 200. Il matrimonio, celebrato subito dopo l’Olimpiade, coincide con la fine dell’attività agonistica («ho fatto un paio di gare l’anno dopo – mancava qualche staffettista – per portare un po’ di punti alla Fiat»). Giusi non è ancora ventiseienne, ma ha voglia di qualcosa di nuovo. «Se andavo avanti avrei potuto fare un’altra Olimpiade, ma avevo voglia di un po’ di libertà. Non che l’atletica impegnasse a livelli parossistici come oggi, però c’erano limitazioni e sacrifici da fare. La dieta no, non c’erano tutti i dietisti di oggi. Prima delle gare mangiavamo minestrine e bistecche. Visite mediche praticamente nessuna. Però per fare i tempi bisognava allenarsi, altrimenti i giornalisti erano pronti a sparare: la Giusi Leone non va…». Al Centro Sportivo Fiat, guidato da Luigi Sambuelli, Giusi si era trovata bene. «Non c’era solo atletica, ma anche lotta greco-romana, nuoto, canottaggio, pallacanestro. Avevano il loro spazio anche le attività ricreative come le bocce e le gite per i dipendenti. In quell’ambiente sono rimasta fino alla pensione, come impiegata». L’atletica le piace ancora. Anche se non va alle manifestazioni, in tv la guarda sempre, appassionandosi ancora. Non riesce a spiegarsi perché oggi nel settore della velocità, sia maschile sia femminile, non ci siano più atleti di valore internazionale, nonostante i maggiori mezzi esistenti. Maga7
ri ottime mezzofondiste e fondiste, che rappresentano bene la tenacia del sesso presunto debole, ma velociste no. Un’idea Giusi ce l’ha. «Mi ricordo che una volta ne parlai con Giovanni Lievore, ex giavellottista che allenava alla Fiat. Secondo lui era perché i ragazzi iniziano tardi a gareggiare. Non sono d’accordo. Io ho iniziato a 17 anni, prima non avevo fatto niente, eppure… Io penso che i ragazzi a dodici anni vogliano divertirsi, non puoi star lì con il cronometro in mano». O almeno, una volta non si faceva così. «Mio marito mi diceva che andavano ad allenarsi allo stadio delle Terme. Dopo l’allenamento, tutti insieme, andavano a mangiare pane e salame dai frati. Deve essere così». Oggi non si accontentano più di pane e salame, preferiscono i meeting dagli ingaggi suntuosi. «Eh, sì – annuisce Giusi –. Io li capisco pure, perché è cambiato il mondo, ma il nostro premio era una confezione di Felce Azzurra Paglieri. L’unica cosa che ho conservato sono le medaglia d’oro che mi davano ogni volta che battevo un primato. Sul retro c’era scritto la data e il luogo. Avevo anche tanti giornali che parlavano di me, messi uno sull’altro, ma divisi per anno. Quando siamo andati in pensione, io e mio marito abbiamo deciso di metterli un po’ a posto, facendo degli album con le mie foto e le sue. È stato un lavoraccio, ma è meglio non guardarli, perché sono la testimonianza che gli anni passano». Io invece li voglio vedere. Andrò a Torino appositamente. Molte foto saranno – immagino – in bianco e nero, un po’ ingiallite, ma avranno il profumo migliore: quello della gioventù. Altro che Felce Azzurra…
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Postfazione Claudia Giordani
Ritratti d’autore. Racconti intensi e appassionati, quelli che compongono la variegata “galleria” di campioni e umili atleti scritta da Roberto Corsi. Fotografie che solleticano la memoria e accendono i ricordi. Protagoniste di questo terzo atto grandi donne di sport, limpidi esempi del femminilpensiero più deciso e fedele ai propri obiettivi. Cavaliere supremo, chi da sempre le ha seguite, ammirate e valorizzate nel contesto più amato e caro, l’atletica leggera, dama regnante di tutto il mondo agonistico. Immagini e parole sorprendenti per molti credo, invece per me così familiari da provocare anche qualche brivido. Stessi infatti i cenni più “vintage” riferiti ai campi gara, alle trasferte, alle attrezzature improvvisate, agli scherzi, alle modalità di allenamento, agli incitamenti di tecnici e tifosi raccontati anche da mia madre, Francesca Cipriani, azzurra della pallacanestro del dopoguerra, forte pivot con due splendidi scudetti nel cuore. Molte le assonanze e le similitudini, identica la fierezza di chi ha saputo aprire nuove strade, oltrepassare confini, sperimentare novità, godere di nulla divertendosi provando a migliorarsi insieme a compagne e avversarie. Di chi non ha mai smesso di vivere sportivamente, di chi ha trasmesso a figlie e figli i veri valori olimpici, più che la grinta o l’ossessione per il risultato. Stessi anche i riferimenti alle sensazioni e pure alle provocazioni vissute anche personalmente sin da quando bambina e poi adolescente – prima di essere attratta ed assorbita dalle piste sciistiche – frequentavo il Campo XXV Aprile a Milano con il mitico professor Caldana saltando in lungo e facendo gli ostacoli veloci. Oppure quando sedevo sugli spalti dell’Arena a vedere i campioni della Pasqua e della Notturna. E ancora quando alle Olimpiadi di Monaco ’72 assistevo ai salti di Sara Simeoni, con pelle d’oca indimenticabile, e a quelle di Montreal ’76 a condividere qualche momento di allenamento di Gabriela Dorio. Anche in casa Giordani (piacevolmente fissata su palla a spicchi e parquet non solo per seguire le telecronache di papà Aldo), era l’atletica lo spettacolo più ambito e ricercato e i nomi delle atlete tanto abituali. Per me principiante sportiva, qualcosa di più che richiami e allusioni. Vere e proprie “madrine” inconsapevoli e più avanti “compagne” di storia e di battaglia, in quella sfida fantastica che portò all’affermazione dello sport femminile nel nostro paese, alla sua visibilità e dignità completa all’interno delle istituzioni. Se negli anni ’70 anche a me capitava di correre per le strade del paesino al mare per alle165
narmi e la gente mi squadrava come fossi un fenomeno, un marziano un po’ matto, una folle stravagante in cerca di guai (nella già grande metropoli milanese non c’era nessuno che correva nei parchi) e l’universo donna era totalmente sconosciuto alle aziende produttrici di abbigliamento e attrezzatura sportivi, fu lo stesso per tante mie coetanee e ancor di più per chi ci provò prima di noi. La fatica fu doppia: competere sul campo e combattere la mentalità chiusa della scuola, della società e dell’ambiente stesso per nulla predisposto all’evoluzione. Fu veramente difficile far accettare l’essere sportive, praticanti alla pari degli amici uomini, capaci di migliorare, vincere e creare un movimento sano e positivo. In certi momenti fu una vera lotta, una sfida nella sfida, un obiettivo in più da raggiungere. Ma insieme a tante altre ragazze di tanti altri settori, in Italia e nel mondo, campionesse o semplici appassionate, ce l’abbiamo fatta! Oggi le donne fanno sport e sono più che rispettate, ammirate, acclamate. Impersonificano un modello di successo invidiato e ricercato. C’è ancora molto da fare in tal senso. Sono ancora poche le donne nella politica dello sport, tra i dirigenti e nei settori tecnici. Da poco si vedono segnali confortanti e le presenze si stanno facendo più significative. Ancora una volta, si tratta di impegnarsi di più, migliorarsi, farsi conoscere e crederci. Non dimenticando il passato e anzi trovando ogni occasione per rispolverarlo e portarlo a contatto con le nuove generazioni. E in questo i libri, così puntuali e coinvolgenti come quelli di Roberto Corsi – in particolare quest’ultimo originale e assolutamente autentico – sono insostituibili e decisivi. Le testimonianze devono poter vivere al di là della cronaca, esprimendo concetti e valori capaci di essere d’esempio e trascinare emotivamente. Devono poter essere diffuse e valorizzate perché convincano di quanto siano preziose la passione e la convinzione e che ciò che conta, per donne e uomini, in particolare ragazzi e giovani, è mettersi alla prova e dare tutto di sé. Con un sorriso, consapevolmente e tenacemente. Che fare sport è una grande opportunità perché è stata una conquista e oggi e domani dovrebbe diventare quasi un dovere. Noi che abbiamo dato tanto e ricevuto di più dallo sport, sappiamo che è fondamentale restituire tempo e dedizione a favore dei ragazzi sportivi e alle loro famiglie. Tocca a noi non mollare nemmeno ora, per far sì che lo sport sia sempre di più il sentiero guida della vita di molti e della società che tutti noi ci auguriamo.
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Donata Govoni
indice
vii Prefazione di Mabel Bocchi ix Introduzione di Roberto Corsi
Donne di fiori ovvero il profumo della vittoria
3
Quando un(a) leone diventa una gazzella
9
Quando vincere sempre può essere un handicap
17
Magalì Vettorazzo, la selvaggia eclettica
23
Paola Pigni, una vita a pallino
30
Quando Rita non è Pavone
35
Agnese metallurgica ferita nell’amore (all’atletica)
44
La grande maratoneta nella piccola Venezia
50
Per chi suona la campana
Donne di (ri)picche ovvero fiori d’arancio
59
Elena Sordelli – Massimo Vanzillotta
62
Patrizia Spuri – Fabrizio Donato
65
Giuliana Cassani – Luciano Bolognini
67
Monica Mutschlechner – Antonino La Mantia
69
Carla Barbarino – Mauro Biagetti
71
Silvia Chersoni – Claudio Trachelio
Donne di cuori ovvero la forza dell’animo
77
La vita è un piatto di ciliegie. Senza noccioli
84
L’Africa all’Acqua Acetosa
91
Dove osa la Quaglia
96
Doriana, la Rai
102
La lepre con la faccia di bambina
110
Quando il destino ti chiude la porta in faccia
117
Quando la Gazzetta non è rosea
125
Sordi, sardi, tardi
Donne di quadri ovvero atletica familiare
137
Anna Chiara, la figlia della disobbedienza olimpica
142
Johanna non gioca con l’allegro chirurgo
147
Umano, troppo umano
151
Il ragazzo di Calabria e la ragazza delle ceste
157
L’Arena ti ha dato
165 Postfazione di Claudia Giordani