Gli eroi della soffitta

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Giuseppe Aurelio Costanzo

Giuseppe Aurelio Costanzo

egli Eroi della soffitta di Giuseppe Aurelio Costanzo (1843-1913), poeta siciliano notissimo ai suoi tempi e oggi dimenticato dal grande pubblico, la critica si è interessata con giudizi spesso negativi, anche se con molte distinzioni ed esitazioni. L’autore fu percepito come un caso letterario di non facile soluzione: troppo copiosa la sua vena poetica per passare inosservata, troppo marcata la tematica sociale, che gli valse l’assegnazione alla sociologia. Gli Eroi della soffitta, la cui irruenza polemica viene ricondotta, nell’introduzione, non ad una matrice ideologica, ma alla sensibilità umanitaria di Costanzo, testimoniano una figura di poeta aggiornato, colto e, insieme, sperimentale, capace di riversare le inquietudini del suo tempo e le vicende di disperata bohème di personaggi reali e sfortunati, nelle forme convenzionali di una grande tradizione di poesia civile.

Gli Eroi della soffitta

a cura di Guido Tossani

Guido Tossani è nato a Firenze nel 1981. Laureatosi in lettere nell’ateneo della sua città, ha conseguito l’abilitazione alla SSIS (Scuola di Specializzazione all’Insegnamento Secondario). Attualmente è docente di Lettere nella scuola media inferiore e superiore. Ha insegnato nel Centro di Cultura per Stranieri dell’Università di Firenze. Ha curato la riedizione di Osiride, raccolta di sonetti del poeta triestino Giuseppe Revere (1812-1889) ed è autore di un’Introduzione allo studio del Decameron, nella quale ha delineato i tratti più significativi del capolavoro di Boccaccio, evidenziandone i valori estetici nel quadro dell’emergente società umanistica.

ISBN 978-88-6032-269-2

e 14,00

9 788860 322692

Gli Eroi della soffitta

studi 13



studi 13



Giuseppe Aurelio Costanzo

Gli Eroi della soffitta a cura di

Guido Tossani

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Š 2013 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-269-2 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


Indice

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Il poema degli esclusi Nota al testo

li Sinossi

gli eroi della soffitta per g. aurelio costanzo

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Canto I

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Canto II

23

Canto III

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Canto IV

50 Note 55 Appendice 93 Indice dei nomi



Il poema degli esclusi

1. Scrive Giuseppe Rando che «i piccoli poeti sono spesso frustrati nella loro ingenua presunzione di grandezza»1. Giuseppe Aurelio Costanzo in realtà, pur essendo oggi annoverato fra i poeti minori dell’Ottocento, non visse una vita agitata da inquietudine e frustrazione, come accadde ad altri grandi ‘minori’ del suo tempo, in quanto alle critiche, talvolta feroci, di alcuni contemporanei, si contrapposero le lodi, anch’esse talvolta smisurate, di altri critici che di lui s’interessarono. Ma il problema del ricono­scimento pubblico del suo valore non turbò mai Costanzo, che, ad un certo punto della sua vita, non esitò a sacrificare la propria vocazione poetica alle esigen­ze della professione di funzionario dello Stato, dalla quale traeva, come egli stesso ebbe a dire con rassegnazione, il suo sostentamento. Altri, ai quali la vita pratica aveva riservato minori soddisfazioni, avevano reagito ben diversa­mente alla mancata glorificazione: ricordiamo il disperato egocentrismo di Giu­seppe Revere, che, passato dai trionfi giovanili all’oscurità degli anni maturi, si allontanò, fiero e sdegnato, da un mondo da lui ritenuto insensibile e irricono­scente. Un altro dei più grandi “poeti minori” dell’Ottocento, Giovanni Prati, sperimentò a sua volta, adattandovisi con pacata rassegnazione, il tramonto del­la sua gloria e «quando la popolarità cominciò a disertarlo, quando la critica si venne facendo verso di lui sempre più arcigna, quando la sua poesia non susci­tò più echi intorno […] egli poté ritrovare nel suo animo il cantuccio dell’orgo­glio, dello schietto orgoglio e rifugiarvisi»2. Gli Eroi della soffitta, il poema al quale è legata la perdurante notorietà di Costanzo, comparvero nel 1880, editi dalla Libreria Alessandro Manzoni di Antonio Tenconi di Roma ed ebbero subito un buon successo. Molti quoti Giuseppe Rando, L’oboe solitario. Giuseppe Aurelio Costanzo, Messina, EDAS, 1992, p. 9. Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Giuseppe Laterza & figli, volume I, 1947, p. 13. 1

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diani e riviste letterarie ne parlarono positivamente, talora anche esagerandone il valore ed identificandone l’autore come poeta sociale, cantore dei poveri e dei derelitti. Il titolo stesso ottenne, con il suo scorrevo­le ossimoro dell’eroismo relegato nella polvere della soffitta, vasta popolarità e le parole che lo compongono entrarono subito nel linguaggio quotidiano. La notorietà risolse a Costanzo il problema del vivere quotidiano: De Sanctis, ministro della Pubblica Istruzione di quel tempo, lo premiò facendolo assumere come docente di letteratura italiana nel R. Istituto superiore di Magi­stero di Roma quale sostituto di Prati. Si gloriò più tardi De Sanctis: «Se non avessi fatto altro durante il mio governo che nominare Giuseppe Aurelio Co­stanzo professore ordinario di letteratura italiana nel R. Istituto Superiore di Magistero di Roma, avrei fatto abbastanza»3. Per minore che fosse considerato dalla critica più arcigna, Costanzo non po­teva, dunque, passare inosservato, non fosse altro che per la mole della sua produzione complessiva. Proprio l’irrefrenabilità della sua vena (e Limpida vena fu il titolo che nel 1914 Giulio Natali, critico letterario e genero del poeta, dette ad un florilegio di poesie di Costanzo), interpretata come stancante prolis­sità, fu addotta dalla critica meno benevola come riprova della sua mediocrità. Basti pensare a Benedetto Croce, che lo definì un poeta ridondante, un valente verseggiatore come furono molti altri4. Citando Ovidio si potrebbe dire che l’arte e la capacità poetica furono in Costanzo così sovrabbondanti che «sponte sua carmen numeros veniebat ad aptos et quod temptabam dicere versus erat»5. E, in effetti, l’inclinazione al verseggiare e la tendenza ad esprimersi poeticamente furono in Costanzo così sovrabbondanti, che spesso ci si scopre in presenza di pensieri e concetti di ardua decifrazione perché tutti risolti nell’eufonia e nella rima, con qual­che non rara crisi semantica. È l’eccessiva facilità nel verseggiare, dunque, che lo rende sospetto alla critica. La sua poesia nasceva spontanea e i suoi pen­sieri venivano alla luce sotto forma di versi tecnicamente perfetti. L’incontrollata copiosità della personalità poetica di Costanzo fu già sottolineata da Baldacci, che fece dipendere le sue «insufficienze poetiche» proprio da una «sovrabbondanza di vena»6. E se la nota stroncatura crociana fu ritenuta «osservazione giusta se riferita al troppo che il Costanzo scrisse»7, negli Eroi della soffitta Baldacci vide l’espressione di un «disagio morale» e definì il poema come «una disamina severa e nello stesso tempo un’apologia della disperazione ‘scapigliata’, non soltanto nel proprio ristretto impegno letterario, ma anche come attitudine generale di vita»8. 3 Citato da Michele Federico Sciacca, Pagine di critica letteraria 1931-1935, cap. XI, Giuseppe Aurelio Costanzo, Milano, Marzorati, 1969, p. 211. 4 Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, cit., p. 229. 5 Ovidio, Tristia, vv. 25-26. 6 Poeti minori dell’Ottocento, tomo I, a cura di Luigi Baldacci, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1958, p. 787. 7 Ibidem. 8 Ibidem.


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In realtà le prime produzioni di Costanzo, risalenti agli anni Sessanta, ri­ sul­tarono apprezzabili ed ap­prezzate. Guerrazzi, l’amico Aleardo Aleardi, Dal­ l’Ongaro lo esaltarono, ma furono soprattutto Settembrini, Borghi e un parsimonioso Manzoni a porre l’at­tenzione sul poeta melillese. Manzoni in particolare, ricevuti in omaggio i Ver­si, primo frutto della copiosa produzione costanziana (il volume fu edito a Na­poli da Bruto Fabbricatore, letterato e tipografo, nel 1869, in un tempo in cui la fama del Prati e dell’Aleardi era ancora notevole e si facevano conoscere Rapi­sardi, amico di Costanzo, Zanella e, soprattutto, Carducci con i suoi Levia Gra­via), si compiacque col poeta siciliano e giudicò quei versi «ricchi nella loro brevità di concetti che, arrivando inaspettatamente alla mente del lettore, appa­riscono, subito dopo, naturali, ma d’una naturalezza squisita»9. Manzoni, che mai commentava positivamente per convenzionale cortesia, arrivò ad intrave­dere in Costanzo il nuovo Leopardi, fondando la sua lode su quella ‘brevità’ che imbarazza il lettore moderno, cui è più familiare l’immagine di Costanzo come poeta copioso e, come abbiamo detto, prolisso. Fra il sincero entusiasmo di Manzoni e di molti altri letterati dell’epoca e la freddezza delle generazioni successive, presto cristallizzatasi in un deciso ridi­mensionamento della sua poesia, la critica moderna si è in gran parte affidata al giudizio di Croce, che lo ritenne, come si è detto in preceden­za, qualcosa di più del verseggiatore e qualcosa di meno del poeta: un buon rap­ presentante del gusto e delle tendenze del suo tempo, ma nulla più. Il giudizio crociano coglie, con qualche asprezza, il non grande valore che alla poesia di Costanzo si assegna oggi in termini di confronto con altri, maggiori poeti del suo e del nostro tempo, ma esso non esprime, come vedremo, l’essenza della poetica di Costanzo, come invece, in un certo senso, aveva creduto di espri­ merla Manzoni: non l’esprime per il semplice motivo che, secondo Croce, la poesia di Costanzo non è poesia. È vero che non esiste, per fortuna, un criterio quantitativo atto a stabilire il grado di eccellenza di un artista e la molta poesia non è sempre bella poesia e talora nemmeno poesia, ma l’ovvietà di questo as­sunto non comporta che il poeta “facile” sia un semplice verseggiatore. Se non altro i facili versi dei poeti minori, come Costanzo, rappresentano al meglio lo spirito del loro tempo, così come Proust diceva a proposito della musica popo­lare rispetto alla musica colta. Croce, però, fu uno dei pochi a non avere esitazioni nello stroncare Costanzo. Dopo l’attenzione giornalistica, che diffuse e consolidò la fama letteraria di Costanzo, infatti, cominciò a tenersi da parte degli ambienti letterari più o meno specializzati un atteggiamento fra il circospetto e il reverente, come se si temesse che nella sua copiosa produzione ci fosse qualcosa che potesse essere sfuggito, sul momento, alla acribia critica. Si prenda, per esempio, il giudizio di 9 Alessandro Manzoni, Lettere, a cura di Cesare Arieti, Milano, Adelphi, 1986, p. 398. La lettera citata è datata 2 settembre 1871.


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Luigi Piran­dello a proposito del poema lirico Dante10, strutturato in una lunga serie di so­netti, con il quale l’autore si proponeva di dimostrare che nella Divina Comme­dia i numeri uno, due, tre e nove rappresentano non simboli cabalistici, come fino allora creduto, ma addirittura «la sostanza, il fine e la forma» del poema stesso: l’uno e il due avrebbero rappresentato l’unità e la dualità di Cristo, l’uno e il tre l’unità e la trinità di Dio, il tre le tre persone della Trinità e il nove (tre moltiplicato per se stesso) i nove cieli divisi per tre terne. Pirandello recensì il poema e si mostrò alquanto imbarazzato nel suo giudi­ zio, tanto che chi oggi legga attentamente quella recensione cade in quel so­ spetto accennato sopra, cioè che il critico dubiti di non aver ben compreso il senso dell’opera ed esiti a pronunciarsi sul suo valore estetico: Forse l’argomento, per se stesso arduo e duro […], non si prestava molto alla trattazione poetica; la scelta poi del metro (il sonetto settenario, quantunque tratta­to con libera maestria e grande varietà) ha reso for­s’anche più difficile questa trattazione e talora il ra­ gionamento troppo fitto e acuto […] fanno sì che quel calore, quel movimento, sentiti dal poeta, nell’accin­gersi all’opera, qua par che si raffreddi, là che si arre­sti11.

«Forse», «fors’anche», «pare»: come non vedere il critico, critico, poi, non del mestiere, nell’imbarazzo di fronte all’opera esaminata, che, senza quel­ l’imbarazzo, avrebbe volentieri stroncata? Andiamo all’ambigua conclusione pirandelliana: «E alla fine questi trecento sonetti ci dan l’immagine di tanti ser­pentelli vivi e arguti, lanciati arditamente nel gran tempio dantesco dalle cento colonne, a mordere col veleno del dubbio la rigida fede e a dar l’assalto alla fie­ra e dura giustizia che hanno in esso altare e trono». Quel che è chiaro è il reve­rente sbalordimento per il numero impressionante dei sonetti settenari, che sono, in realtà, non trecento, ma trecentododici. Pirandello o arrotondò per di­fetto o si fermò al trecentesimo. Costanzo proveniva da famiglia modesta e la raccolta dei Versi, che abbia­ mo citato per l’entusiamo che suscitò in Manzoni, gli assicurò la nomina a pro­fessore di lettere a Cosenza e, successivamente, in altre città, fino a portarlo a Roma: «non c’era da scialare, ma il pane era assicurato»12. Certamente non rea­lizzava il suo sogno di vivere di letteratura, ma poneva termine, in età ancora giovane, a tribolazioni economiche: Oh l’arte, l’arte, la mia vita! è il tarlo che mi sfarina, però ch’io baratto per un pezzo di pan l’anima mia13. 10 Giuseppe Aurelio Costanzo, Dante, Torino-Roma, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, 1903. 11 Luigi Pirandello, Dante, poema lirico di G. A. Costanzo, in «Nuova Antologia», 16 gennaio 1904, ora in Saggi, Poesie, Scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio - Musti, Milano, Arnoldo Mondadori editore, pp. 973-974. 12 Giulio Natali, Giuseppe Aurelio Costanzo: discorso tenuto a Siracusa il 4 ottobre 1939, Urbino, R. Istituto d’arte del libro, 1939, p. 10. 13 Giuseppe Aurelio Costanzo, A Luigi Settembrini, in Juvenilia, Roma, Oreste Garroni editore, 1910, vol. III.


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E fu lavorando a contatto con i giovani che cominciarono a prendere forma sia I Ribelli sia Gli eroi della soffitta. In realtà la sua carriera di scrittore era cominciata prima, nel 1859, col poe­ metto lirico Le ricordanze, testo esageratamente lungo e monotono e di chiara imitazione leopardiana e dantesca, nel quale Costanzo cantava il suo «triforme affetto»: «nel primo ricordo cercai ritrarre l’infanzia, le sue memorie […], nel secondo ricordo volli ritrarre i lieti giorni delle consonanze e dissonanze amorose […], nel terzo finalmente svolsi l’affetto della patria»14. Le varie ispirazioni sono evidenti nel lessico e nell’iconografia: Dante («aere maligno», «anima romita», «occiduo polo», «s’ingigli», «dove risplende e regge/Colui che è moto e legge dell’Universo», «Colui che tutto puote: da le superne ruote», «dolci desiri», «Raccoglie ormai le vele la navicella mia»), Leopardi («acerbo fato», «sudate carte», «passata la tempesta», «le donzelle venir dalla campagna»), ma anche Foscolo («d’alte glorie superba e di sventura», «upupa solitaria», «muto cenere») e Petrarca («ove che stampi orma il suo sacro piede»)15. Tutta la sua poetica giovanile era di imitazione, ma l’imitazione, oltre che fluida e scorrevole, riluceva di lampi di personalità, perché «egli era nato poeta: vibra nelle Ricordanze qualche nota personale, che preannunziava il Costanzo migliore»16. L’imitazione dei grandi è elemento formale ed espressivo sempre presente nelle sue produzioni giovanili sia come eredità di formazione e riferimento stilistico sia come aspirazione ad una poesia non indegna del mondo dei classici. Questa tendenza andò decrescendo, pur senza mai scomparire del tutto, dal 1864 in poi, quando si fece avanti un Costanzo più autentico, che non si limitava a “riscrivere” testi già noti. Nella dedica delle Rivelazioni (1869) a Dall’Ongaro è Costanzo stesso a riferire che l’amico e collega, sei anni prima, gli aveva detto «Ricordati, Aurelio, d’esser sincero nel sentimento, limpido nello stile». In realtà l’utilizzo di temi già noti non sarà mai abbandonato: basti pensare al carme Cinque illustri contemporanei del 1866, chiara imitazione dei Sepolcri di Foscolo. Anche I Ribelli (1875), dramma in cinque atti rappresentato, con risultato negativo, nel Teatro de’ Fiorentini di Napoli e pubblicato, con identico esito, dalla casa editrice Pernotti, nasceranno dopo un’acquisizione culturale, ossia dopo la lettura dei Refractaires di Jules Vallès. Chi sono i ribelli? «Questi, questi sono i veri ribelli, tutti questi che san di tutto e non fan niente, che sono stati ad ogni scuola e non sono né patentati né laureati; ribelli tutti costoro che vogliono uscire di carreggiata: il professore senza alunni, il pittore senza tela, il violinista senza archetto, il tenore senza gola»17. I ribelli sono uomini comuni, illusi, insofferenti delle regole sociali dominanti, ma anche artisti che non riescono ad ambientarsi nella società po­strisorgimentale, letterati che vivono Idem, Le Ricordanze, Roma, Oreste Garroni editore, 1909. Giuseppe Rando, L’oboe solitario, cit., pp. 17-18. 16 Giulio Natali, Giuseppe Aurelio Costanzo, cit., p. 16. 17 Giuseppe Aurelio Costanzo, I ribelli, a cura di Gisella Padovani, Enna, Papiro editrice, 2005, Atto II, 2. 14 15


xii    Gli Eroi della soffitta

di speranza e non si sentono compresi e accettati da Roma o da Napoli, come, probabilmente, non sarebbero accettati da nessun’altra società ordinata e conformista e finiscono col vivere ai margini della società. E anche se I ribelli non corrispondono agli Eroi della Soffitta e i personaggi che vi agiscono non sono sovrapponibili a quelli, rappresentano sicuramente un interesse decisamente orientato verso la tematica del disadattamento. Le due opere hanno la stessa matrice sociale e culturale, si occupano delle stesse figure, osservate in maniera non convenzionle e giudicate con spirito acuto e nuovo, non esclusivamente moralistico, ma, per molti versi, oggettivamente sociologico, che mette in luce il contrasto fra i comportamenti delle masse e quelli degli individui refrattari alla massificazione. Mentre le masse finiscono con l’integrarsi senza troppe difficoltà nelle nuove realtà, spinte soprattutto da esigenze di pratica convenienza, gl’intellettuali rispondono a motivazioni ideologiche radicali: esasperano e perpetuano la discrasia fra quello che sarebbe dovuto essere e quello che è stato e finiscono con il trovarsi spiazzati o “spostati” e con il rinunciare ad ogni ruolo attivo, o semplicemente propositivo, nel nuovo mondo che nasce difforme dai loro desideri. Scelgono, per lo più, di vivere, o di sopravvivere, fuori delle regole; sono, rispetto ai parametri correnti, falliti e, come tali, destinati ad essere puniti e spregiati. La storia letteraria del secondo Ottocento è ricca di esempi di letterati alle prese con il contrasto fra vita ideale e vita reale. Col tempo alcuni di essi si adattano: Prati è un buon esempio di intellettuale integrato, ma ancor più convincente è l’omologazione di Carducci, già poeta satanico, anticlericale, antimonarchico, nel mondo sabaudo della nuova Italia. Costanzo non fu mai personalmente un ribelle. Così Gisella Padovani riassume il pensiero politico e sociale del poeta: «ancorato ai valori risorgimentale e a un’incrollabile fede monarchica lo scrittore si attestò sulla linea di un cauto riformismo, auspicando nella maggior parte dei suoi scritti una ricomposizione dei conflitti di classe»18. Né rivoluzionario né radicale, dunque, e nemmeno portatore di una ben precisa ideologia, non potendosi definire come tale né il vago e generico umanitarismo che accende la sua poesia né il linguaggio forte e colorito con il quale egli intende sfogare uno sdegno che non sa altrimenti esprimere. La fama di poeta “sociale” deriva dall’ambiente nel quale si muovono i suoi personaggi, dalla loro condizione umana ben più che dalle invettive e dai sarcasmi con le quali egli intercala le sue scene poetiche. In questa scelta dei personaggi e dell’ambiente finiscono le consonanze e le affinità del dramma con il poemetto. Ribelli ed eroi non corrisposero in nient’altro, neanche nel risultato davanti al pubblico. Se i Ribelli furono un fiasco clamoroso (che, in una riflessione successiva, portò l’autore stesso a dubitare della propria opera, definendola «aborto che ancora non vuole proprio rassegnarsi a morire»19), gli Eroi ebbero un apprezzamento duraturo, con l’ec Ivi, p. XIV. Lettera a L. A. Vassallo, in «Novale» (luglio-agosto, 1931).

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Il poema degli esclusi    xiii

cezione di Croce, come si è accennato, il cui giudizio di non poeticità si fa apprezzare per la logica che lo sottende, la quale testimonia un’opinione ben radicata, anche se non a pieno condivisibile: <Costanzo> scrisse […] una commedia: I ribelli, che non ebbe fortuna, e poi il poemetto: Gli eroi della soffitta, lavoro vivace, ma sbagliato da cima a fondo. Poemetto? È, invece, un saggio sociologico, in cui tutto lo sforzo dello scrittore si appunta nel classificare gli spostati, ricercarne le varie prove­nienze, descriverne le costumanze, ritrarre il neces­ sario decorso delle loro vite, giudicarli nei rapporti con la società e col progresso. Onde, in luogo di rappresentazioni, si accalcano le definizioni20.

Oltre al contenuto, neanche la forma viene risparmiata dall’impietosa analisi crociana: L’agitazione artificiale e monotona, ottenuta con l’avvicendamento dei settenari sdruccioli e degli en­decasillabi rimati, con l’incalzarsi precipitosi di nomi e di verbi, sinonimi o usati come sinonimi, con le chiuse fragorose delle strofe e con le tirate a razzo, cerca di simulare l’impeto lirico. L’enumera­zione infierisce nel poemetto quasi una manìa. E se la forza artistica non ha saputo rinserrare in perso­naggi concreti e in iscene dai contorni precisi le os­servazioni che l’autore veniva facendo intorno agli “eroi della soffitta”, neppure (sia detto di passata) la sua indagine di sociologo riesce soddisfacente, per­ché è chiaro che egli ha mescolato insieme uomini e casi di svariatissima natura e valore, non giudicabili alla stessa stregua21.

Croce già aveva detto che Costanzo era “un verseggiatore meridionale: vo­ glio dire, quali se ne sono avuti per secoli nel Napoletano e nella Sicilia: canto­ re melodioso, ma ridondante e superficiale”. Lo stesso concetto, nel quale la minimizzazione delle virtù poetiche viene aggravata da un’ulteriore diminuzione localistica, è stato espresso in tempi re­ centi da Giuseppe Rando, che ha definito Costanzo «poetino siciliano». Si ponga a confronto questa definizione di Rando con quello che, ancora nel 1933, scrisse Sciacca: «Con Giuseppe Aurelio Costanzo, morto dopo il Carducci, il Pascoli, il Rapisardi e nello stesso anno del Graf, può dirsi che si sia spento l’ultimo dei maggiori poeti della nuova Italia, se si eccettua il D’An­ nunzio»22. Ma, già nella prefazione dell’antologia curata da Sciacca, Vaccalluzzo lasciava intendere che quell’entusiasmo gli sembrava eccessivo e scriveva che Costanzo non era stato, com’egli stesso si era dichiarato, l’ultimo tra i poeti d’Italia, ma aveva avuto «una sua fisionomia personale […], un suo nucleo poetico, non di suoni larghi, non di echi profondi o di sconfinati orizzonti, ma pur degni di attenzione e di simpatia che non morrà […]. Il fondo Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, cit., pp. 232-233. Ivi, p. 235. 22 Giuseppe Aurelio Costanzo, Antologia di poesie e prose scelte. Introduzione, commento e note di Michele Federico Sciacca. Prefazione di Nunzio Vaccalluzzo, L’Aquila, Secchioni Editore, 1933, vol. I, p. XIII. 20 21


xiv    Gli Eroi della soffitta

della sua poesia migliore è sempre di natura idillica. I soggetti sociali e filosofici non modificano questo tono generale della sua lirica»23. La rilettura è spesso più decisiva della lettura nella formulazione di un giu­ dizio di valore estetico: a volte smorza gli entusiasmi, a volte li accende, il più delle volte dà una visione equilibrata e serena di quel che viene riletto. A questo ci si accinge nei confronti di Costanzo sia per provare a oggettivare quali siano le sue vere dimensioni di poeta al quale ogni cosa dava occasione di verseggia­re, sia per cogliere, attraverso la psicologia di un uomo privo di riferimenti ideologici e politici rigorosi, ma ricco di coscienza so­ciale e di solidarietà umana, il ritratto, fisico e spirituale, di un’epoca amara, brutale e iniqua, il quadro di una società irrisolta, deviata dalla passione nazionale degli anni gloriosi del Risorgimento, uscita perdente dal confronto fra le illusioni del passato e le delusioni del presente, fra l’umanità di prima e la disumanità di poi. Nei versi degli Eroi il lettore vede, con gli occhi del poeta, il ritratto, fisico e spirituale, di un’epoca amara, di una società allontanatasi dagl’ideali patriottici e solidaristici degli anni gloriosi. 2. Come in una società siffatta possono nascere gli eroi? E chi sono questi eroi finiti in soffitta? Costanzo esprime un concetto di eroismo di soffitta, cioè non più utile e, dunque, sprecato, che vale per qualsiasi uomo di qualsiasi condizione professionale, sottolineandone, tuttavia, la specifica pertinenza con la professione artistica e letteraria e citando, a tal fine, il nome di alcuni scrittori, per lo più riconducibili, almeno in senso esistenziale se non propriamente letterario, al mondo della scapigliatura. Ponendo a noi stessi queste domande, già siamo andati oltre il dato storico e localistico. Gli spunti poetici e narrativi non sono da ricercarsi nella cronaca italiana e, in particolare, romana di quegli anni, ma la trascendono e la sublimano perché alimentati dall’intimo cuore del poeta. La ricerca degli eventuali antecedenti degli Eroi della soffitta non può avere inizio più pertinente che nel dramma in prosa I Ribelli, composto cinque anni prima, nel 1875. Ma quei cinque anni che intercorrono fra I Ribelli e Gli Eroi furono trascorsi nella conquista di una maturità stilistica ed espressiva che, applicata allo stesso campo di osservazione, dette esiti diversi. I Ribelli costituiscono un testo di scarsissimo valore drammatico, ma sono un utile repertorio di situazioni tipicamente costanziane e si situano, dal punto di vista dell’evoluzione del linguaggio e dello stile, come un momento di apprendistato, rappresentando la premessa, non solo cronologica, degli Eroi. Eroi si diventa in maniera improvvisa, quasi casuale; ribelli, invece, si sceglie di diventarlo. I ribelli del dramma dovrebbero essere tali per ragioni di scelta politica, ma se l’autore è, come si è accennato, lontano da problematiche ideologiche e solo pieno di buoni sentimenti, la costruzione di caratteri che nella politica 23 Nunzio Vaccalluzzo, Prefazione a Giuseppe Aurelio Costanzo, Antologia di poesie e prose scelte, cit., nota 11, pp. IX-X.


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