& POESIE ITALIANE E CARMINARIMERIMECAPITOLILATINEPIACEVOLI a cura di MARCO LEONE, QUINTO MARINI, MATTEO NAVONE, MASSIMO SCORSONE STUDI TESTI 12 GIOVANNI DELLA CASA
studi e testi collana diretta da Simone Magherini, Anna Nozzoli, Gino Tellini 12
comitato scientifico internazionale
Andrea Dini (Montclair University), Marc Föcking (Università di Amburgo), Gianfranca Lavezzi (Università di Pavia), Paul Geyer (Università di Bonn), Elizabeth Leake (Columbia University), Alessandro Polcri (Fordham University), Pasquale Sabbatino (Università di Napoli “Federico II”), William Spaggiari (Università di Milano), Gino Ruozzi (Università di Bologna), Michael Schwarze (Università di Costanza).
La collana «Studi e Testi» prevede pubblicazioni in formato cartaceo e digitale con un modello di diffusione a pagamento o ad accesso aperto (open access).
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La collana «Studi e Testi» intende promuovere e diffondere, in campo nazionale e internazionale, studi e ricerche sulla civiltà letteraria italiana, nonché edizioni critiche e commentate di testi della nostra letteratura, dalle origini alla contemporaneità.
Giovanni Della Casa
MatteoMarcoRimeCapitolipiacevoliRimeCarminaacuradiLeone,QuintoMarini,Navone,MassimoScorsone
Editr ice F iorent inaSoc ie tà
Poesie italiane e latine
© 2022 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 Riproduzione,ebookisbninfo@sefeditrice.it5532924www.sefeditrice.it:978-88-6032-653-9isbn:978-88-6032-673-7Proprietàletterariariservatainqualsiasiforma,interaoparziale, vietata
Il volume è stato pubblicato con i fondi di ricerca del DIRAAS, Dipartimento di Italianistica, Romanistica, Antichistica, Arti e Spettacolo dell’Università degli Studi di Genova
Indice vii Giovanni Della Casa poeta xix Nota biografica xxv Nota capitolibibliografica 3 Introduzione 23 Nota al testo 35 Capitoli rime piacevoli 97 Introduzione 103 Nota al testo 107 Rime piacevoli rime 145 Introduzione 175 Nota al testo 185 Rime carmina 457 Introduzione 471 Nota al testo Carmina 479 I. Pars prior. Carminum liber 559 II. Pars altera. Carmina extravagantia
633 Tavole metriche
641 Indice dei nomi citati nelle opere
645 Indice dei nomi citati nelle introduzioni e nei commenti
tavole e indici
637 Indice dei capoversi
L’attività poetica di Giovanni Della Casa inizia a Roma nella prima metà degli anni Trenta del Cinquecento. Non nuovo nella città del papa (vi è praticamente cresciuto dopo che il padre, facoltoso mercante, ha trasferito lì la famiglia dal Mu gello, dal 1504 al 1524, e vi ha trascorso sporadici soggiorni tra il ’29 e il ’31), quan do vi ritorna quasi trentenne, nel 1532, ha serie intenzioni di intraprendere la car riera ecclesiastica, anche in ragione di un’ormai consolidata formazione umani stica acquisita in grandi centri culturali.
GIOVANNI DELLA CASA POETA
Nella sua Firenze ha seguito le lezioni di Ubaldino Bandinelli; quindi ha vis suto un fruttuoso periodo in quel di Bologna, dove, abbandonati gli studi di dirit to imposti dal padre, ha seguito i corsi di retorica e poesia di Romolo Amaseo, ha frequentato il circolo di Girolamo Casio de’ Medici, ha conosciuto Francesco Maria Molza, Alfonso e Galasso Ariosto, e ha stretto amicizia con Carlo Gualte ruzzi, Giovan Agostino Fanti e Ludovico Beccadelli. Con quest’ultimo, nel suo Mugello, tra il 1525-1526 ha condiviso un’intensa stagione di studi dedicati a Cice rone e ai classici; nel 1528 si è trasferito a Padova, dove ha studiato il greco presso Benedetto Lampridio e ha potuto approfittare di un ambiente culturale di primo livello nell’Italia del tempo, frequentato da personalità come Gasparo Contarini e Reginald Pole e dai vari intellettuali del circolo veronese di Matteo Giberti e Galeazzo Florimonte. A Padova ha stretto rapporti con Trifone Gabriele, Lazzaro Buonamico, Cosimo Gheri e soprattutto ha conosciuto Pietro Bembo, all’apice del successo dopo le Prose della volgar lingua e prossimo alla prima edizione del suo canzoniere, col quale intratterrà una deferente relazione per tutta la vita (i rapporti tra i due si consolideranno durante i soggiorni nella villa di Beccadelli a Predalbino, frequentata nel tempo anche dal Gheri e dal Gualteruzzi, da Ludovi co Boccadiferro e da Flaminio Tomarozzo).
Quando decide di stabilirsi a Roma, Della Casa non porta solo questo retag gio di amicizie importanti e una preparazione culturale di tutto rispetto, ma probabilmente anche qualche abbozzo di opera letteraria che possa dargli visi bilità in un contesto così denso di tensioni carrieristiche. Mentre la sua prosa
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Poesie italiane e latine
Si è tuttavia soliti, parlando della produzione poetica del Casa, iniziare dal la sezione burlesca perché tutta sicuramente circoscritta tra il 1533 e il 1535-’36 e perché fu un’esperienza presto conclusa e in seguito, se non rinnegata (non era proprio possibile, dal momento che fu tra le poche cose dellacasiane passate subito alla stampa), quasi sempre elusa. Tale esperienza fa capo a una fase della vita romana che lo stesso Della Casa presenta come scapestrata agli amici Bec cadelli, Gualteruzzi e Gheri, chiedendo loro aiuto per tornare sulla retta via, ed è legata alla sua partecipazione alle riunioni della cosiddetta Accademia dei Vi gnaiuoli, guidata dal ricco patrizio Uberto Strozzi, nipote del Castiglione, già al servizio del cardinale Pompeo Colonna e dal 1532 funzionario di rango presso la Curia vaticana. In lui probabilmente Della Casa intravvede una chiave d’ac cesso per le proprie ambizioni curiali, ma non va escluso – in quella Roma no stalgica e incupita dopo il sacco del ’27 e il declino di Clemente VII – il piacere di una certa verve intellettuale a margine di allegri banchetti, intrattenimenti musicali, recite di parodie letterarie e di versi burleschi. Maestro riconosciuto di tali componimenti è il Berni e tra i suoi accoliti, negli anni della frequenta zione dellacasiana, figurano Giovanni Mauro d’Arcano, Lelio Capilupi, Agnolo Firenzuola, Giovanni Francesco Bini, Giuseppe Giova, ai quali vanno aggiunti altri personaggi coinvolti nelle iniziative di questa accademia: Francesco Maria Molza, Mattio Franzesi, Trifone Benci, Gandolfo Porrino, Annibal Caro, Carlo Gualteruzzi.DellaCasa, forte della tradizione burlesca toscana, vi compone cinque capi toli in terza rima secondo due tipologie allora in voga, quella della lode e quella del biasimo. Della prima tipologia fa parte il capitolo più malfamato, e poi facile bersaglio dello scandalo che Vergerio solleverà nel ’55, Il forno, metafora dell’or gano femminile e dei vari modi di praticarlo. Seguono, nel medesimo gruppo, Il bacio, sui rapporti sessuali tout court, e La stizza, sulla collera o insofferenza (da qualche critico intesa anche come eccitazione sessuale), cantata per paradosso. Alla tipologia del biasimo pertengono invece il Capitolo sopra il Nome suo, dove il
sarà indirizzata ad accreditarlo negli ambienti umanistici (la sua prima prova è la quaestio misogina An uxor sit ducenda e più avanti si farà apprezzare per il ben più impegnativo trattato De officiis inter potentiores et tenuiores ami cos), la sua poesia sembra aperta su tre fronti: quello della lirica amorosa, ovvia mente sulla scia del canzoniere bembiano, quello del genere burlesco in capito li e quello della lirica latina, impiegata già nel ’35 in una lunga satira autoapolo getica diretta a Cosimo Gheri (il carmen I, iii, in cui cita Bembo, Molza e Bandinelli), ma anche in un licenzioso epigramma su una prostituta e un pederasta romani (il carmen II, iv, pure inviato al Gheri prima del ’36). Si può ragionevol mente supporre che alcuni sonetti del futuro canzoniere siano stati scritti nei primi anni Trenta, se quello già stilisticamente perfetto Alla gelosia (viii nelle Rime) è databile con sicurezza nel 1533 in base a due lettere dell’autore al Gual teruzzi, nella seconda delle quali ci rivela già in atto il confronto «paurosissi mo» con Bembo.
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poeta ripudia scherzosamente il proprio nome, e Il martello, contro il tormento amoroso.Lamusa ‘vignaiuola’ del Casa fu però rapidamente ridotta al silenzio proprio nel momento in cui otteneva la sua consacrazione a stampa, prima con i tre capi toli del Martello, del Nome suo e della Stizza, usciti adespoti in due edizioni del veneziano Curzio Navò nel 1537, e l’anno dopo, ancora per i medesimi torchi, in una silloge più ampia, che, dopo le terzine del Berni e del Mauro, pubblicava Le terze rime de messer Giovanni Dalla Casa, di messer Bino e d’altri, dando finalmente alla luce la serie completa dei cinque capitoli. Causa di tale silenzio, oltre alla di spersione del gruppo ‘vignaiuolo’ dietro il mutato clima della Roma di Paolo III, fu probabilmente l’inizio della carriera ecclesiastica di Della Casa, proprio nel ’37 nominato chierico della Camera apostolica e intenzionato a ben diverso impe gno intellettuale. Del resto, come ha mostrato la critica recente, la polemica verso le forme più istituzionali della letteratura coeva (dall’umanesimo classicista, al petrarchismo, alla rimeria encomiastica legata alla cortigiania e al mecenatismo), in più di un ‘vignaiuolo’, corrispondeva solo a un divertissement artistico e Della Casa, in particolare, l’aveva gestita con prudenza ed esibita con toni così distacca ti e poco risentiti da agevolargli la successiva presa di distanza, nonché l’esplicita condanna del «genus scurrile» nella Petri Bembi vita. Fino a giustificare Il forno come un innocuo iocum giovanile nell’autodifesa della Dissertatio adversus Pe trum Paulum Vergerium e del carme Ad Germanos Tuttavia, la musa burlesca non abbandonò completamente Della Casa, ma, ridimensionata in una più patinata vena comica – il mutamento non è di poco conto –, confluì nelle cosiddette Rime piacevoli, che comprendono otto com ponimenti (sonetti semplici e caudati, ottave singole e in gruppo) di complica ta tradizione testuale. Cinque di essi, dal iii al vii, costituiscono un blocco abbastanza compatto, giunto alle stampe da un manoscritto di Anton France sco Marmi nel terzo tomo dell’edizione Pasinelli del 1728-’29 e relativo a fami liari che Monsignore, nel periodo della sua nunziatura veneziana, ospitò a Mu rano dal marzo 1545: nei componimenti iii, iv e vii prende di mira i nipoti Annibale e Pandolfo Rucellai per i loro maldestri tentativi poetici, nel iv scherza sul servo Sandrino, miles gloriosus buffamente armato di spada; nel vi, poi, fuori dal contesto familiare, prende in giro un non meglio precisato poeta nato «nel contado di Vicenza». Legato agli anni romani è invece il sonetto caudato, qui numerato come i, che applica gli schemi della satira del saccente al filosofo mirandolese della cerchia farnesiana Antonio Bernardi, il quale rin tuzza la tenzone forse con ben due sonetti caudati. Di ignoto committente le tre ottave della seconda ‘rima piacevole’, una protesta contro chi inventò le partenze e i viaggi posta in bocca a un probabile diplomatico costretto a lascia re l’amata per una missione in Turchia. Più esplicito, infine, è l’ottavo e ultimo divertissement dellacasiano, un sonetto destinato a una figura rilevante dell’en tourage farnesiano come Annibal Caro, esortato a «sterpare» la mala pianta della passione amorosa prima che «distenda i rami ed erga». Se, come è stato
da alcuni critici, il sonetto con relativa risposta fosse davvero del 1555, documenterebbe la persistenza della vena comica sino alla fase culminante della poetica e della vita del Casa. Una persistenza che è del resto già stata notata nel lessico e nei toni satirico-mordaci di certe pagine del Galateo, ma che non è difficile rintracciare anche nel sermo humilis che traspare, a margine di quello prevalentemente grave, nei Carmina o in alcuni recessi della raccolta maggiore delle Rime.
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Guardato nel suo insieme, infatti, il canzoniere di Della Casa ha nell’emula zione e nel superamento della linea poetica di Bembo una proficua chiave inter pretativa: l’evoluzione da canzoniere d’amore, in linea con il petrarchismo bem biano, a canzoniere sentimentale e morale, con una finale tensione filosofico-re ligiosa alquanto originale, si può spiegare come una progressiva maturazione dell’autore nel complesso intreccio di vicende esistenziali e di ragioni artistiche verificate sempre entro una cultura personale di esteso spettro storico-letterario. Della Casa attinge, oltre all’ovvia e ampia base dei Rvf e del canzoniere bembiano, alla tradizione poetica volgare di tardo Quattrocento e primo Cinquecento: nelle sue rime ricorrono tessere di Giusto de’ Conti, di Sannazaro, di Lorenzo de’ Me dici, di Ariosto, di Alamanni, di Bernardo Tasso, e dei più vicini Guidiccioni, Molza, Cappello, Caro, Vittoria Colonna e Gaspara Stampa, ma anche frequenti echi di Dante e in parte degli stilnovisti; mentre le voci e la sintassi dei classici antichi, Virgilio, Lucrezio, Orazio, Catullo, insieme a Euripide e a Omero, raffor zano spesso il tono retorico del suo dettato. Sicché, per quanto le note dei com menti antichi e recenti, compreso il presente, si siano inzeppate di citazioni di fonti, nessuna di esse ha mai spiegato o restituito appieno gli esiti della reinter
Alla quale raccolta Della Casa dovette attendere con rinnovata lena proprio dalla metà degli anni Trenta in poi, quando, chiusa l’esperienza ‘vignaiuola’, ri usciva ad avviare il suo cursus honorum ecclesiastico acquisendo progressiva mente la fiducia dei Farnese: nel ’37 – s’è visto – divenne chierico della Camera apostolica e nel ’40 sarebbe stato inviato in Toscana quale commissario per la riscossione delle decime, assumendo poi il ruolo di intermediario nei fragili equilibri tra Paolo III e il Granduca Cosimo I; quindi, anche per l’appoggio di personalità della Riforma legate alla curia farnesiana, sarebbe diventato tesorie re pontificio con il compito di riscuotere il sussidio feudale e i censi di Roma, fino a essere nominato, all’inizio del ’44, arcivescovo di Benevento e nunzio apostolico a Venezia. Nel contempo, sotto il profilo culturale e letterario, ri prendendo il percorso di studi e i contatti del fecondo periodo bolognese-pa dovano, avrebbe consolidato i rapporti con i maggiori umanisti e con i poeti latini e volgari seguaci di Bembo, e con Bembo stesso, dal ’39 a Roma come cardinale, la cui stima verso il fido emulo sarebbe cresciuta durante la nunziatu ra veneziana, sino al sonetto dell’agosto 1546, Casa, in cui le virtudi han chiaro albergo, investitura di una pesante eredità morale e artistica, nonché fondamen tale stimolo alla poetica dellacasiana, in particolare alle rime che avrebbero co stituito il suo canzoniere.
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E di fiamme d’amore parla il componimento successivo, prima canzone del libro, collocata nel suo esatto centro e sfida evidente a Bembo per quell’incipit, Arsi, e non pur la verde stagion fresca, che ricalca l’aoristo iniziale del sonetto bem biano Arsi, Bernardo, in foco chiaro et lento. Sappiamo che questa canzone ottenne un lusinghiero giudizio dal maestro e anche tecnicamente è notevole perché, a fronte dell’ordinato svolgimento dell’insostenibile passione di «canuto aman te», presenta la sistematica infrazione della stanza petrarchesca per la non so vrapponibilità di periodo metrico e periodo sintattico. Da questa canzone il Casa fa partire una sezione ‘bembiana’ di ben otto sonetti, xxxiii-xxxix , composti tra il ’45 e il ’48, durante la nunziatura veneziana, nei quali rende sempre più esplici ta la dichiarazione della propria inferiorità o insufficienza stilistica. La quale
Anche sulla soglia degli anni Quaranta la necessità di ridimensionare e mora lizzare il tema d’amore emerge nei confronti di un bembiano d’eccezione come Bernardo Cappello, alla cui arte di sublime distacco dal mondo il Casa nel sonet to xxv contrappone una cruda riflessione sulla propria vita, scandita nei tre tempi di idillio giovanile, di traviamento nell’età matura e di pentimento nel presen te. È un anticipo della vena polemica delle migliori prove dellacasiane, che passa nel xxvi, ancora rivolto al Cappello e ancora fondato sul contrasto tra l’ascesa «a le spedite cime» dell’amico e il proprio impaccio «fra valli paludose ed ime», cercando «le gemme, l’auro e l’ostro». Un anticipo che non trova immediata continuità e non evita la ricaduta dei tre successivi sonetti xxvii-xxix , in cui il poeta torna a giostrare coi topoi della lirica petrarchista in una breve storia d’amo re, e del dittico xxx-xxxi sul taglio della chioma muliebre, in cui l’antica matrice alessandrina, soprattutto nel secondo sonetto, distesa nella campata sintattica di un unico periodo che si chiude tra giochi di fiamme, a qualche critico è parsa un preludio di stile manieristico o pre-barocco.
pretazione del Casa, della sua capacità di affrancare le topiche del petrarchismo cinquecentesco con l’oratoria dei classici antichi personalmente sentita come una lingua madre.
Tutta una cospicua serie di sonetti iniziali, scritti negli anni Trenta, si caratte rizza già per la peculiarità stilistica e la decisa autonomia con cui, anche costeg giando il principale riferimento del petrarchismo bembiano, scarta dalla sua line arità strutturale tramite l’autonomo adattamento delle più comuni figure retoriche, le acrobazie sintattiche e la ricerca di suoni forti e disarmonici, che infrango no la sempre insorgente armonia lirica di chi ha nel sangue i Rvf. E nel persistente lamento d’amore si accendono, seppure a intermittenza, spunti eversivi, come nel dittico xii-xiii per la morte del giovane Marcantonio Soranzo (1536), invidia to perché ormai «fuor di man di tiranno, a giusto regno», o nel successivo dittico xiv-xv, che sfida i modelli tramite le antitesi sui contrari d’amore, o nei tre sonet ti xvii, xviii e xix , che abbozzano un primo pentimento tra echi biblici e dante schi («Io, che l’età solea viver nel fango»), o, ancora, nei cinque sonetti di tono aspro e ‘petroso’ (xx-xxiv), in due dei quali il poeta confessa all’amico Cosimo Gheri le sue continue ricadute.
nei sonetti xxxiii e xxxiv, sull’impareggiabile bellezza del ritratto di Ti ziano per quell’Elisabetta Querini così cara a Bembo, e diventa poi centrale nel confronto diretto col maestro del sonetto xxxv: con l’arte imperitura del «sacro cigno sublime» non può competere il «colore caduco», e che «estinto in breve fia», di chi, come il Casa, «poco da terra si solleva ed erge».
Ma dalla strada imboccata col sonetto xxxv non vi è ritorno e anche il quar tetto dei sonetti xli-xliv per l’«aspra colonna», ovvero la bella e sventurata Li via Colonna omaggiata per conto del cardinale Alessandro, dà modo al poeta di rimarcare con una gravità ‘petrosa’ e antimelodica l’impossibilità dell’amore. Il tema viene fortemente personalizzato nel gruppo delle tre canzoni a questo punto poste a snodo fondamentale del canzoniere: le prime due, xlv e xlvi, portano a esaurimento la tormentata vena amorosa; la xlvii, su cui si è a lungo misurata la critica, è unanimemente ritenuta la canzone spartiacque del canzoniere della casiano. Con essa inizia – e lo fa subito intendere l’icastico incipit che impressio nò Leopardi, «Errai gran tempo, e del cammino incerto | misero peregrin molti anni andai | con dubbio piè, sentier cangiando spesso…» – un nuovo corso in cui la poetica della caducità e dell’inadeguatezza, avviata nel confronto con Bem bo e qui coniugata col tema dell’errore, imbocca con decisione un itinerario mo rale di pentimento e conversione rispetto alle passioni terrene seguite nelle diver se fasi della vita.
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Proprio su tale caducità, e sull’immagine-simbolo dell’uccello che non riesce a sollevarsi da terra, avviene la rifondazione della poetica dellacasiana. Nello stesso nucleo ‘bembiano’ si trova un sonetto come La bella greca, onde ’l pastor ideo, che gareggia ancora col Bembo di Se stata foste voi nel colle ideo disassando l’inte laiatura ortodossa del sonetto con un’inarcatura sintattica particolare, in cui scor rono in estrema naturalezza le mitiche storie di Elena, Semele e Dafne. La varietà di registro stilistico con cui è gestito il confronto col Bembo si nota ancora nel sonetto di tono ‘gravissimo’ per la morte del maestro, che oppone alla grande canzone funebre bembiana Alma cortese un compianto concentrato nell’agile ma solenne prosopopea di Venezia «in negra vesta»; e si nota infine nei due sonetti ‘preziosi’ dedicati al pappagallino di madonna Isabetta.
È tuttora questione dibattuta se questo solenne esame di coscienza, scritto tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, sia stato causato anche dalla mutata condizione esistenziale di Monsignore, venutosi a trovare – morto papa Farnese, mancata la porpora cardinalizia, terminata la nunziatura – senza prote zioni e costretto a lasciare Roma per far ritorno a Venezia da privato cittadino. Con ogni probabilità la storia dell’uomo si intreccia qui con la storia artistica del canzoniere e la grande canzone xlvii dà avvio alla sua parte migliore, con un percorso di intensa introspezione svolto in una sintassi sempre più nervosa e in clusiva.Aldittico xlviii-xlix sulla morte del saggio ‘Socrate’ della cerchia bembiana, Trifone Gabriele, che rafforza la poetica della caducità in una finale invocazione religiosa (il poeta, «sublime augello | in ima valle preso», prega l’amico che in
Qui sono di nuovo i miti classici – due miti minori rispetto al grande mito dell’età dell’oro, quello di Glauco e quello di Esaco, riletti in chiave neoplatonica, e il secondo ancora relativo a un uccello inabile al volo – a segnare la distanza tra la letteratura e la vita («Già lessi ed or conosco in me sì come…») in un serrato
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In tale desiderio di oblio delle passioni terrene è anche composto il fortunato sonetto liv, Al sonno, mentre un’altra componente paesaggistica alimenta questa felice zona del canzoniere e lo accompagna alla sua conclusione: la selva di quer ce del Montello. Qui il poeta si rappresenta in una severa meditazione peniten ziale, che gli offre la possibilità di una nuova età dell’oro tramite la trascrizione cristiana, o neoplatonico-cristiana, dei grandi miti della classicità. È ciò che av viene nel perentorio rifiuto di celebrare la «leggiadra Colonnese» opposto al cardinale Ranuccio Farnese nel sonetto lv, aperto da reminiscenze di Giobbe mi ste a echi di Virgilio, di Catullo e dell’onnipresente Petrarca («Mendico e nudo piango, e de’ miei danni | men vo la somma tardi omai contando | tra queste ombrose querce»). Ed è ciò che avviene soprattutto – superato il rimorso del sonetto lvi, dove il poeta trema più delle «orride foglie» sotto la tramontana, e superati i quattro sonetti ‘epistolari’, in cui dal suo «selvaggio, ermo ricetto» ri chiama alla virtù gli illustri corrispondenti – nella sestina lxi, che riepiloga i grandi temi esistenziali a confronto con le querce del Montello, vera ricchezza di povertà evangelica, e nel bellissimo sonetto lxii.
terceda perché Dio sciolga finalmente «queste piume | caduche <che> omai pur ancor visco invoglia»), succede la duplice risposta a Iacopo Marmitta, che ha chiesto al Casa consigli per ottenere la fama poetica: nel sonetto l il potente squarcio lucreziano d’apertura, che celebra la serena quiete del saggio davanti al mare in tempesta, si fonde col pessimismo cristiano del «caduco manto e frale, | cui tosto Atropo squarcia e nol ricuce» e con l’esortazione a mirare soltanto alla «celeste luce»; nel sonetto successivo, la riflessione sull’evanescenza dei nostri «cari nomi», dopo un analogo richiamo «al ciel, che sol produce | eterni frutti», si chiude nell’esecrazione del «vile augel, su l’ale | pronto, ch’a terra pur si ricon duce!».Sono immagini e situazioni che tornano rafforzate nei sonetti di meditazione composti presso l’abbazia di Nervesa del Montello, dove Monsignore si era riti rato a partire dal ’53. Nella risposta a Francesco Nasi del lii, ancora generata da un refrain bembiano della proposta («Il meritar gli honori | è vera gloria, che non pate oltraggio; | gli altri son falsi et torbidi splendori»), dopo il dirompente inci pit confessionale, «Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero», il poeta si ripropo ne come uccello palustre incapace di sollevarsi dal fango, eppure sereno nel suo isolamento: «or non s’arresta | spesso nel fango augel di bianche piume? […] or placido, inerme entro un bel fiume, | sacro ho il mio nido e nulla altro mi cale». E in un’altra risposta, al Varchi che lo esortava ad assumere l’eredità del maestro, mentre si schermisce ancora come «palustre augel che poco s’erga | su l’ale», ribadisce il concetto di inadeguatezza paragonandosi a «caduca verga d’ignobil selva» refrattaria all’innesto del nobile «lauro» bembiano.
È la vena gnomica e morale di Orazio, direttamente attinta dal latino aureo originario delle Odi piuttosto che dalle intermediazioni quattro-cinquecente sche, che il poeta predilige per esprimere situazioni psicologiche vicine alle rime ‘morali’, nonché la crisi di un mondo dove i virtuosi sono spesso umiliati. La de nuncia delle ambizioni mondane, ad esempio, così forte, dopo la canzone xlvii, nei sonetti in morte di Trifone Gabriele o nel potente Feroce spirto, corre dall’epi stola Ad Galateum del carmen I, ii (dove gli amici Priuli e Faerno sono celebrati come stoici seguaci della vera virtù) fino al carmen I, xiii a Piero Vettori, stimatissimo dal Casa come studioso e filologo, ma qui lodato perché mai si lasciò cor rompere dalla «contages populi lurida», né dall’«ambitio curriculum praete reuntium | obliquis oculis aspiciens».
Analogamente nei Carmina si sviluppa il contrasto corruzione-purezza, anch’esso innescato dalla canzone xlvii e centrale nelle Rime degli anni Cin quanta, in particolare nella serie fondata sulla metafora del «sublime augello» incapace di sollevarsi dal fango: nel carmen I, vii, del ’52, il rimorso di aver ceduto alle lusinghe del mondo diventa monito all’amato nipote Annibale Rucellai, e nella splendida e matura ode alcaica I, xi, indirizzata a Margherita di Valois nel ’53-’54, il poeta non si perdona di aver subito la corruzione dell’«immunda Ro ma» e dei veleni del volgo, tradendo il compito che fin da fanciullo gli avevano
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artistico dagli esiti nuovi quanto importanti nella lirica cinquecentesca. E tuttavia l’inchiesta poetica e conoscitiva che Della Casa ha attivato rivitalizzan do la propria cultura classico-umanistica a confronto con Bembo e con le varie linee del petrarchismo da lui innescate, non approda a una conclusione definiti va. Sicché il finale del suo canzoniere rimane aperto, in tensione tra l’angoscioso presagio della vecchiaia e della morte come catulliana «più lunga notte e dì più freddi e scarsi» del sonetto lxiii e la serena fiducia in un Dio-luce che, nel sonetto lxiv e ultimo, vince le tenebre e assorbe le contraddizioni di «questa vita mortal».Unclassicismo rivisitato in chiave personale, sovente moralizzato e illumina to da sprazzi di fede cristiana, alimenta anche i Carmina latini, specialmente quel li scritti tra il ’51 e il ’55, nella fase del disinganno e del secondo soggiorno vene ziano del Casa, che costituirono il nucleo principale della prima edizione di sedi ci componimenti, curata da Piero Vettori nei Latina monimenta per i Giunti di Firenze nel 1564: buona parte di questo Carminum liber nacque probabilmente nel fruttuoso ritiro di Nervesa, come sembrano attestare i tre epigrammi xiv-xvi sulle fastidiose campane dell’abbazia che chiudono la silloge. Con un linguaggio forse ancor più consono alla polemica contro l’età presente, Della Casa vi ripro pone, in una profonda unità di intenti, i temi delle coeve Rime volgari nelle forme e nei termini della lirica, della satira e della meditazione morale innanzitutto di Orazio, di cui padroneggia la vasta gamma di strutture metriche e stilistiche, ma anche di Virgilio e di quell’Ovidio e quel Catullo che, in altro contesto (il quadro di decadenza dell’eloquenza della Petri Bembi vita), aveva condannato come «duros, obscuros, asperos».
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I Carmina, oltre a costituire un alto esercizio tecnico di strutture sintattiche e retoriche, nonché un’eccezionale occasione di rafforzamento lessicale, rappre sentano senza dubbio una terza forma della poetica dellacasiana, ben connessa alla musa burlesca e a quella delle rime in volgare. E che non siano affatto un avulso sfogo erudito o un’autonoma esibizione di perizia umanistica, bensì una coerente integrazione della poesia del Casa, indispensabile a comprendere nella sua complessità tutta una produzione letteraria, ce lo hanno confermato – oltre ai non numerosi, ma tutti perspicaci studi recenti – i recuperi che nel corso dei se coli, soprattutto dalle settecentesche edizioni del Manni e del Pasinelli in poi, hanno via via integrato i sedici testi della prima edizione dei Giunti di Firenze del 1564, fino a raddoppiarne il numero.
A tale proposito – cioè a proposito dei carmi cosiddetti extra-vaganti che via via sono stati affastellati attorno al fondamentale nucleo della princeps giuntina – la presente edizione propone, in una ben distinta Pars altera, una nuova dispo sizione secondo la loro scansione editoriale e, qualora sia possibile ricostruirla, la
affidato le «Aoniae Camoenae» (le dee allontanino i «tetra consilia» o conce dano almeno la «bona oblivio» del sonno ristoratore: siamo vicini, anche crono logicamente, al noto sonetto Al sonno). E la visione del mondo ingannevole e incostante, dominato da malizia e Fortuna, che soggiace a passi importanti della Bembi vita e alle ultime Rime, compare anche nel carmen I, vi, un epitaffio per il suo primo virtuoso maestro Ubaldino Bandinelli, e nella più specifica ode I, viii, Ad Fortunam, anch’essa del 1552. Contro la mala sorte e il mondo ingrato non c’è altro scudo che la vera virtù («Gloria non di virtù figlia che vale?» rispondeva al Nasi), che va esercitata in silenzio, come conclude il carmen I, ix , ritratto-panegi rico del potente cardinale François Tournon: «tum melius tecta silentio | virtus invidiamPerchélatet».anche nei Carmina, come nelle Rime, le celebrazioni degli importan ti protagonisti del tempo o degli amici più illustri, nonché gli elogi funebri (a quello di Orazio Farnese, nel carmen I, xii del ’53, si aggiungeranno, nel ’55, il tardo epigramma sepolcrale del fuoriuscito fiorentino Giovan Francesco Giu gni, e la consolatoria del carmen II, vii a Pompilio Amaseo per la morte del pa dre Romolo), al netto degli interessi personali dell’autore e dell’esibizione di una prestigiosa costellazione di intellettuali e potenti, sono quasi sempre il pre testo per dichiarazioni programmatiche di ordine letterario, politico, civile, mo rale e, in ultima analisi, etico-comportamentale. E la poesia latina del Casa, nel la quale spicca la naturale freschezza di un bagaglio di storie, figure e miti dell’antichità classica in una forma linguistica padroneggiata senza uguali (è soprattutto per lo stile latino che Bembo riconosce pari dignità al suo emulo), a buon diritto può essere inserita nell’opera complessiva e integrare innanzitutto la poesia in volgare, ma anche le opere in prosa italiane e latine, dal Galateo al suo lontano antecedente, il De officiis, fino all’An uxor sit ducenda, i cui toni di satira mordace alimentano più d’uno dei componimenti latini lasciati inizial mente nell’ombra o censurati.
loroxvi
Chi avrà la pazienza di leggerli integralmente nel presente volume, giovando si anche della moderna traduzione di servizio, troverà i toni aspri della vituperatio ad personam nei trimetri giambici del II, i, Ad Germanos (appendice poetica della Dissertatio adversus Petrum Paulum Vegerium del 1555), del II, ii, In G. Salvagum e del II, xiv, In Cosmum Mediceum. Troverà la celebrazione dell’armonia dei classi ci antichi nella lunga epistola in esametri del carmen II, xii, Ad Dominum Petrum Bembum, ulteriore conferma della centralità del «pater Bembus» nella poetica e nella vita del Casa. E troverà l’elogio di altri grandi del tempo, anche dei più con troversi, come il cardinale Reginald Pole, già efficacemente ritratto nella Bembi vita, ma ancor più elogiato («Praecipue magnus Polus, quo doctior alter | non est, aut melior, nec erit») nel carmen II, ix , Ad Galeatium Florimontium (lo pre cedono altri due carmina in lode, il II, vii, a Pompilio Amaseo, elogio funebre del padre Romolo, maestro di retorica dell’autore, e il II, viii, a Cornelio Musso, ve scovo di Bitonto e novello Orfeo per la sua insuperabile eloquenza).
Poesie italiane e latine
trasmissione manoscritta o a stampa, rompendo così la configurazione arbi traria di una struttura compattamente amalgamata attorno al Carminum liber, che verrebbe a confliggere con la natura sporadica e aperta di buona parte di essi (come comprova peraltro l’attribuzione ancora incerta di alcuni).
Tra i Carmina recuperati tardivamente, e attribuiti con una certa difficoltà al Casa per la loro materia scabrosa (ma perché mai la musa che aveva ispirato Il forno non doveva essere allettata dagli eleganti versi latini?), vi sono infine, oltre al già citato epigramma osceno II, iv, De Quintia et Salio, l’ancor più osceno car men II, xv, Ad genium Catulli, che descrive in distici elegiaci la peregrinazione di una formica nelle parti intime di Venere, anticipo del II, xvi, scandalosa e detta gliatissima ostentazione pornografica del dialogo in esametri tra Ottavio Farnese e Margherita d’Austria nella loro prima notte di nozze. A completare la variegata
I Carmina, qui per la prima volta, dopo le grandi omnia settecentesche, affian cati con pari dignità alla produzione poetica in volgare, potranno poi offrire ulte riori conferme delle linee ideologiche del Casa e della varietà e vastità dei suoi interessi letterari. Una notevole quanto unica prova di poesia religiosa latina –ancorché di non sicurissima paternità dellacasiana – è ad esempio la trascrizione del salmo 103 negli epodi giambici del carmen II, v. Gli esametri del II, vi, Venetia rum laus, rappresentano invece l’apice illustre dell’ampia mitografia di Venezia, già presente nel carmen I, v, al Faerno, Cum ab Urbe profectus, Venetias iret, e decli nata in diverse occasioni, dalla specifica orazione Delle lodi della Serenissima Re pubblica, alla dedicatoria delle Historie venetae di Bembo, alla Petri Bembi vita stessa, ai sonetti, in particolare a quello che abbiamo visto centrale nelle Rime, il xxxv, L’altero nido ov’io sì lieto albergo. Il carmen II, x , poi, passa in rassegna in esametri e in chiave moralistica oraziana i vari piaceri delle ambizioni terrene, mentre il II, xi celebra in metro saffico Apollo per le sue molteplici arti e lo prega affinché preservi l’Italia dai Turchi e dia lunga vita a quel Giulio «cui data est rerum merito sacrarum | summa potestas», ovverosia papa Giulio III, che non ebbe però grandi riguardi verso Monsignore.
GIOVANNI DELLA CASA POETA xvii
tavolozza di quello che fu davvero – come lo giudicò uno dei massimi studiosi del nostro Cinquecento – il «maggior poeta italiano nell’età compresa fra quella dell’Ariosto e quella del Tasso».
I curatori ringraziano tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione del volu me, in particolare il personale delle biblioteche Apostolica Vaticana, Nazionale Cen trale di Roma, Nazionale Centrale di Firenze, Universitaria di Genova e le biblioteche della Scuola di Scienze Umanistiche e di Storia del Diritto dell’Università di Genova. Ringraziano inoltre Stefano Carrai per la costante disponibilità con cui ha seguito e sostenuto scientificamente le varie fasi del volume.
Quinto Marini
CAPITOLI
Capitolo sopra il Forno
Pubblicato per la prima volta in V38, il più celebre tra i capitoli dellacasiani fu certamente composto prima della morte del “dedicatario” Marcantonio Soranzo (cfr. nota al v. 8), avvenuta nel 1536, in una data imprecisata ma successiva al 25 marzo, quando il Casa lo nomina come persona ancora vivente in una lettera a Bartolomeo Carli Piccolomini (Santosuosso 1975, p. 474): sulla base di questa missiva, in cui Della Casa promette anche l’invio del componimento al destina tario («Il capitolo del forno ve lo manderà messer Benvenuto che l’ha tolto per impresa»; ibidem), Santosuosso 1979a (p. 43) colloca la stesura del Forno nei primi mesi del 1536. Similmente Corsaro 1999 (pp. 75-76) guarda al periodo 1535-1536, sulla base sia della lettera al Piccolomini sia di una precedente missiva casiana a Cosimo Gheri dell’11 marzo 1535, in cui il mittente si lamenta per il fatto che la «ca’ Soranza» (la famiglia del dedicatario del capitolo) ha «divulgato» senza consenso alcuni suoi «versi», probabilmente proprio quelli del Forno (cfr. Lettere 1733, iv, p. 15 e qui l’Introduzione, p. 10). Di diverso avviso è Romei 2007 (p. 216), che retrodata il testo al 1532 sulla base di una presunta allusione al Forno contenuta nei vv. 15-16 del capitolo Vera coppia di amici a i tempi nostri del Mauro (Terze rime iiia 15-16: «Ma non volete, che vi scaldi il forno | Foco di paglia»), dedicato al Casa e senza dubbio risalente all’autunno del ’32. Anche i commenti di Longhi e Jossa al capitolo del friulano concordano con questa inter pretazione (cfr. Poeti del Cinquecento 2001, p. 911 e Mauro, Terze rime, p. 350), ed è indubbio che tra i burleschi era diffusa l’abitudine di alludere ai componimenti dei loro sodali mediante gli oggetti celebrati nelle rispettive terzine (ad esempio, il Casa viene menzionato attraverso il Forno nello scherzoso agone poetico che apre la lode della Salsiccia del Firenzuola in Rime burlesche xxx 1-6: «Se per sciagura le nove sirocchie | Avesser letto le capitolesse | O, per me’ dir, quelle maccheronee | Di voi altri, poeti da conocchie; | I quali il forno e le castagne lesse | Lodaste»). Tuttavia, i citati versi del Mauro sembrano alquanto vaghi e «non necessariamente da riferire» al Forno (Corsaro 1999, pp. 75-76), mentre decisamente più significativi (anche se non del tutto risolutivi) appaiono i riferi menti nelle missive al Gheri e al Piccolomini, che permettono di collocare ipote ticamente la stesura del Forno tra l’estate del 1535, quando certamente il Casa si dedica alla scrittura burlesca (si ricordino la lettera al Gheri del 5 agosto 1535, in cui dichiara l’intenzione di «fare de’ Capitoli», e la possibile datazione del Nome intorno al giugno dello stesso anno, per cui cfr. Introduzione, pp. 10-11) e il marzo del 1536, prima della morte del Soranzo. Certamente da respingere sono invece le indicazioni suggerite dal Casa in due scritti databili al 1555, la Dissertatio adversus
i
Il “forno” celebrato in questi versi è trasparente metafora del sesso femminile, secondo una simbologia fortunata e piuttosto antica, attestata già nelle letterature classiche e, in ambito italiano, nella tradizione comico-rusticana dei secoli xiiixvi (cfr. infra la nota ai vv. 1-3): il modello principale che Casa tenne certamente presente è la Canzona de’ fornai di Lorenzo de’ Medici, ma non vanno trascurate fonti più prossime, come il Ragionamento della Nanna e della Antonia dell’Aretino. Convenzionale è anche l’impostazione generale – l’elogio di un oggetto quotidia no svolto in chiave oscena attraverso l’uso sistematico del doppio senso erotico –che recupera una delle più note forme burlesche inaugurate dal Berni, il capitolo di lode (si pensi ai ternari dedicati all’Orinale e all’Ago, nonché alle varianti culina rie dei Ghiozzi, delle Anguille, dei Cardi, delle Pesche e della Gelatina), più volte replicata dai suoi seguaci, come dimostrano ad esempio i due capitoli Della fava del Mauro (Terze rime iii e iv). In questo caso l’elogio non si concentra tanto sull’oggetto in sé, quanto piuttosto sull’“arte” con cui esso va utilizzato: di questa, nella prima parte (vv. 10-45), viene biasimata la decadenza, causata dai cinedi (gar zonacci) che rubano il mestiere alle prostitute (fornaie), senza però attirare il poe ta, che si dichiara cliente dei soli forni femminili. Segue una lunga sequenza dida scalica sui vari accorgimenti necessari alla tecnica dell’infornare, in cui il poeta indossa i panni dell’esperto praeceptor, a beneficio del dedicatario e di tutti i letto ri: tale sequenza occupa sostanzialmente tutto il resto del capitolo (vv. 46-166), con l’unica eccezione di una nuova divagazione dedicata ai fornai (vv. 91-102).
CAPITOLI38
L’interpretazione del testo conferma quanto sostenuto da Della Casa in Dis sertatio 2020, 70 («Feminae enim illis versibus plane, non mares, laudantur, si modo quicquam praeter furnum ipsum laudatur») e Ad Germanos 22-26 («cumque versibus | Laudavimus Furnum, haud mares laudavimus | (Quod ille ait per maximam calumniam) | Sed faeminas plane, ut videre carmine | Ex ipso adhuc potestis»), ovvero che le allusioni erotiche del capitolo, e in particolare quelle alla sodomia (vv. 31-42 e 115-117), vanno lette in senso eterosessuale e non omosessuale, sebbene questo attenui solo in parte la scabrosità di tali riferimenti, considerando che, nel Cinquecento, anche i rapporti sodomitici tra uomo e don na erano condannati «sia dalla Chiesa sia dallo Stato» (Wolfthal 2009, p. 67); senza contare che resta una certa ambiguità di fondo nei vv. 91-102, in cui l’autore sembra lamentare un peggioramento del trattamento dei cinedi da parte dei loro clienti.
Petrum Paulum Vergerium e il carme Ad Germanos (per cui cfr. Carmina II, i), dove la necessità di respingere l’infamante accusa, mossagli da Pier Paolo Verge rio, di aver lodato nel Forno i rapporti omosessuali, induce il poeta a costruire maldestramente una falsa cronologia (la Dissertatio colloca infatti la pubblicazio ne del capitolo intorno al 1530, mentre il carme latino ne fa risalire la stesura ad dirittura al 1525 circa), con l’evidente scopo di relegare la genesi di questi scabrosi versi negli anni giovanili (cfr. Introduzione, pp. 19-20). Altrettanto infondata è la ricostruzione di Casotti (Notizie, p. 52), secondo il quale Casa avrebbe compo sto il Forno «in età forse di quindici, o sedici anni».
1-3. S’io mi levassi… il forno: l’inizio del capitolo sfrutta subito un procedimento canonico dello stile burlesco, la ripresa ironica di un topos caratteristico dei generi letterari più nobili, qui il motivo della professione di inadeguatezza del poeta verso la materia che si appresta a cantare, che rimanda in particolare al registro epico e a quello lirico (senza andar troppo lontano, basterà ripensare alle due quartine del primo sonetto delle Rime dellacasiane). Simili parodie del topos dell’ineffabilità, poste come qui in posizione incipitaria e associate all’uso dell’iperbole in forma di periodo ipoteti co, si leggono anche nel Capitolo dell’anguille di Berni (Rime viii 1-3: «S’io avessi le lingue a mille a mille | e fussi tutto bocca, labra e denti, | io non direi le laudi dell’anguille»; e cfr. anche ivi, xiv, 1-3) e in quello Della caccia del Mauro (Terze rime i 1-3: «Signor, s’io fussi qualche gran poeta, | Come ne veggiam molti, che i lor versi | Ricaman d’altro, che d’oro, et di seta»); uno spunto più prettamente temporale è in apertura del capitolo In lode del legno santo (Firenzuola, Rime burle sche iv 1 e 10-12: «S’io vivessi più tempo che ’l disitte | […] | Io non vorrei a fatica sognare | Di scriver d’altro mai che di quel legno, | Che m’è fin d’India venuto a salvare»). Si tratta comunque di un modus già attivo nella poesia comica precedente, come mostrano alcuni testi di Cecco Angio lieri e del Burchiello: cfr. Longhi 1983, pp. 66-67 e 216-217; Masini 1997, pp. 199-200; Crimi 2020, pp. 227-228. Cfr. anche Stizza 7-9. ~ innanzi giorno: ‘prima dell’alba’. ~ ben bene: l’epanalessi è uno dei procedimenti retorici più impiegati dai burleschi per riprodurre nei loro testi effetti di oralità (cfr. D’Angelo 2013, pp. 44-45). ~ forno: l’«organo sessuale femminile (in quanto cavità calda e perché vi si cuoce il pane che è l’organo maschile)» (dla, p. 207). È metafora erotica di lunga tra dizione, già attestata nel repertorio classico (in particolare nelle commedie di Aristofane e in Ero doto: cfr. Sonnino 2012) e in quello italiano, ad esempio nel Fiore (xxxii 11-13: «e giva per le mura tutto ’ntorno | dicendo: “Tal è putta e tal si farda, | e la cotal ha troppo caldo il forno»; e cfr. inoltre, con fornello, ccxxi 14 e ccxxii 3), nella ballata Una fanciulla da Signa di Pulci (16-18: «Poi gli disse: “Un altro giorno | (ogni dì non si scalda il forno) | vientene dall’albereto»), e inoltre in Lo renzo de’ Medici, Bernardo Giambullari, nella tradizione carnascialesca e in Aretino (per gli ultimi esempi cfr. le note successive; per ulteriori riscontri dla, p. 207).
5. chi non ha… a macco: ‘chi non ha cervello in abbondanza’. Ma capo e cervello sono simboli del membro maschile, come nei capitoli delle Anguille e delle Pesche di Berni (rispettivamente Rime viii 40-41, «Questo è perché l’è savia et apre gli occhi, | ha gravità di capo e di cervello», e x 64-66, «Vorrei lodarti e veggio ch’io non posso, | se non quanto è dalle stelle concesso | ad un ch’abbia il cervel come me grosso») o nel primo Della fava di Mauro (Terze rime iii 1-2, «Signora, egli è gran
Capitolo di Messer Giovanni della Casa sopra il Forno
4. dotte: ‘esperte nel sesso’. Spesso l’aggettivo dotto è usato nella poesia burlesca per indicare chi pratica il sesso sodomitico (cfr. ad es. Piva 47-48: «onde [della piva, cioè del pene] sen fa gran conto ne la corte | da’ preti e d’altre assai persone dotte»), ma può anche fare riferimento, come qui, a una più generica perizia nei vari tipi di rapporto sessuale, naturale e a tergo, entrambi considerati in que sto capitolo, seppur in ottica prevalentemente eterosessuale: cfr. Toscan 1981, iii, pp. 1283-1284. Un’analoga ambiguità semantica si rifrange sulla dottrina del v. 64 (cfr. la relativa nota).
S’io mi levassi un’ora innanzi giorno e ragionassi insino a mezza notte, ancor non loderei ben bene il forno. 3 Questa è materia da persone dotte: chi non ha ’n capo del cervello a macco
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vadi a sentir lodar le pere cotte; 6 e perch’io voglio scior la bocca al sacco, voi, ch’a questi signor rodete il basto, venitemi aiutar quand’io mi stracco. 9
6. pere cotte: ‘cose di nessuna importanza, che non valgono nulla’ (cfr. Opere burlesche 1721, p. 475). Lo stesso cibo è nominato all’interno del goloso ricettario che il Mauro propone all’amico Pietro Carnesecchi come cura per la sua malattia («Io vi darei cotogni, et cotognate, | Et cialdoni, et ciambelle con confetti, | E qualche pere cotte inzuccherate»: Mauro, Terze rime iia 58-60).
8. voi: Marcantonio Soranzo (?-1536), a cui questo capitolo è indirizzato (cfr. vv. 53, 87, 163). Giovane nobiluomo veneziano, fu negli anni romani carissimo amico del Casa, nonché complice di alcune sue avventure galanti (celebre quella narrata nella lettera casiana a Cosimo Gheri del 2 mar zo 1536, per cui cfr. Lettere 1733, iv, p. 20 e Campana 1907, pp. 69-70); morì nel 1536, certamente dopo il 25 marzo, quando è ricordato come persona ancora in vita (e poeta dilettante) in una missi va del Casa a Bartolomeo Carli Piccolomini (cfr. infra). Il Casa ne pianse la scomparsa in due sonet ti (cfr. qui Rime, xii-xiii e i relativi commenti), che si aggiungono agli altri testi coevi in cui sono elogiate le qualità di questo personaggio, ovvero i sonetti Veloce pardo mai timida fiera e Soranzo, de l’imenso valor vostro, rispettivamente di Bernardo Tasso e Gaspara Stampa, il Dialogo della Retorica di Sperone Speroni, in cui Soranzo è uno degli interlocutori, e ancora i sonetti Tu ch’al ciel tosto gloriosa sede e Soranzo, ch’ora in seggio altero assiso del Molza, anch’essi in morte; probabile che sempre lui sia il «Soranzo» intento a implorare benefici al papa di cui parla Mauro nel capitolo Vera coppia di amici a i tempi nostri, indirizzato al Casa e a Giovanni Agostino Fanti (Terze rime iiia 73), dove però non si può escludere che il friulano si riferisca a Vittore Soranzo, discepolo del Bem bo e vescovo di Bergamo. ~ rodete il basto: espressione idiomatica costruita intorno al termine basto (letteralmente la sella di legno posta sul dorso delle bestie da soma) che significa ‘parlar male di qualcuno’, per lo più con intento comico o satirico, ed è attestata già in un sonetto di Pulci contro Matteo Franco (Sonetti viii 12-13: «Usanza è con sonetti e con proviso | di rodersi un po’ e basti, e dir buon’ giochi»; vd. anche Varchi, Hercolano ii, p. 594: «Di chi dice male d’uno, il quale habbia detto male di lui, il che si chiama rodersi i basti»). Il verso potrebbe quindi alludere a una qualche consuetudine del Soranzo con la poesia satirica, da legare forse alla sua partecipazione alle serate burlesche della cerchia dei “Vignaiuoli”, che pare attestata da quanto il Casa scrive nella citata lette ra al Piccolomini («Il Soranzo dette bene non so che stanze quella sera [….], ma gli durò poco la vena et quasi rimase asciutto in sul più bello»: Santosuosso 1975, p. 474); in quest’ottica, i signori saranno i bersagli della sua satira, da identificare forse con coloro che non hanno cervello a macco (v. 5), oppure con gli altri partecipanti alle serate “vignaiuole”.
tempo, ch’io pensava | D’accordar con le muse il mio ciervello», e ancor più 172-174, «Et veramen te ho sì fatto ciervello, | Che quando io havrò la fava, o cruda, o cotta, | Ogni legume io manderò in bordello»). L’espressione andrà dunque intesa (recuperando anche il v. 4): ‘si astenga da questa materia chi non ha un membro efficiente, chi non ha grande esperienza in campo sessuale’. Per la simbologia equivoca di cervello cfr. Toscan 1981, iii, pp. 1261-1262 e dla, p. 99. ~ a macco: ‘in abbon danza’, da macco nel valore di ‘grande quantità’ (gdli, s.v.). Per l’espressione a macco in rima con sacco cfr. Burchiello, Sonetti inediti xxx 3-6 («e poi el cerchio, la tavola e ’l foco | ci fer parlare spesse volte a macco. | L’aprire in cotai luoghi un poco il sacco | non si disdice a niun, quand’è per gioco»); Pulci, Morg. xviii 158, 7-8: «e portale a Morgante in un gran sacco, | e cominciorno a rimangiare a macco» (per il solo termine macco cfr. anche ivi xxv 294, 5).
9. venitemi… mi stracco: questo spunto verrà ripreso alla fine del componimento (cfr. vv. 163166). ~ mi stracco: ‘mi stanco’.
7. scior la bocca al sacco: ‘cominciare a parlare’ (cfr. Opere burlesche 1721, p. 475). Cfr. Pulci, Morg. xviii 143, 6: «e di’ che ’l sacco non hai tutto sciolto».
CAPITOLI40
16. rinegar la pazienza: modo di dire per ‘perdere la pazienza’. È espressione consona al registro comico, come conferma la sua presenza in Firenzuola , Trinuzia ii 5: «e io rinegavo la pazienza» (cfr. Crusca iv, 3, p. 528).
13. avarizia: da intendere in senso osceno, in collegamento con a credenza del verso successivo.
17. certi... in mano: ‘gli impazienti (certi) che alla prima occasione (al primo, letteralmente ‘subi to’) afferrano il loro pene (pala)’, ovvero coloro per i quali è indifferente copulare con uomini o
11. un’arte santa: l’aggettivo santa è spesso usato dai berneschi per indicare il sesso secondo na tura (cfr. Toscan 1981, i, p. 692; e vedi anche Forno 165 e Bacio 63). Come si capisce dai termini usati in questo passo (cfr. mestiero al v. 12), l’arte del forno allude certo al sesso in generale, ma in prima istanza alla professione del meretricio. Cfr. anche la nota al v. 31.
D’ogni ben fare il mondo s’è rimasto: soleva esser già ’l forno un’arte santa, ora il mestiero è poco men che guasto, 12 perch’oggidì quest’avarizia è tanta, ch’ognun vorrebbe infornare a credenza, e che è, che non è, qualcun ti pianta. 15 Mi fanno rinegar la pazienza certi ch’al primo hanno la pala in mano,
15. e che è, che non è: ‘tutt’a un tratto’ (Varchi, Hercolano ii, p. 620). Cfr. Berni, Sonetto di papa Chimente (Rime xxix) 25-26: «Che è e che non è, una mattina | ci sarà fatto a tutti una schiavina». ~ ti pianta: da intendere in senso osceno, sempre in relazione al sesso omosessuale, similmente al Ca pitolo dei cardi del Berni (Rime ix 22: «che se ne pianta l’anno le migliaia»). Potrebbe forse esserci anche una memoria di Catull. 56, 6-7: «hunc ego, si placet Dionae, | Protelo rigida mea cecidi».
14. a credenza: ‘a credito’. Ma più che in senso economico, l’espressione andrà intesa in termini osceni: il pagare a credenza è infatti spesso usato come metafora del rapporto anale (si veda ti pian ta al v. 15), mentre il pagare con danari (v. 18) simboleggia spesso il rapporto normale (cfr. Toscan 1981, ii, p. 981, ma anche la nota al v. 93). Tenendo conto dell’elogio della sodomia eterosessuale ai vv. 31-42, questo passo andrà inteso come biasimo della diffusione dell’omosessualità, causa princi pale della decadenza dell’arte del forno, ovvero della degenerazione delle pratiche erotiche: molto simile è il lamento delle prostitute costrette a lasciare Firenze in Guglielmo detto il Giuggio la, Canzona delle meretrici 1-4: «La nuova legge e ’l servire a credenza, | fuor dall’ordine passato, | ci ha tutte oggi forzato | a mutar luogo e partir di Fiorenza» (Canti carnascialeschi 1986, i, p. 115). Per l’espressione a credenza cfr. anche Nome 75.
10. D’ogni ben fare… rimasto: si apre qui una sezione (vv. 10-27) in cui l’autore lamenta la deca denza dei costumi sessuali causata dal dilagare dell’omosessualità, secondo un motivo attestato già nella precedente poesia burlesca (cfr. soprattutto Guglielmo detto il Giuggiola, Canzona del le meretrici 21: «Ogni arte è imbastardita a poco a poco»; si cita da Canti carnascialeschi 1986, i, p. 115). ~ ben fare: ‘il sesso secondo natura’ (vd. anche v. 11, e Toscan 1981, i, p. 692), con malizioso equivoco tra il senso erotico qui associato a questa espressione e quello religioso-morale solita mente attribuitogli nella poesia alta (si pensi almeno a Dante, Inf. vi 81 e xv 64, e Petrarca, Rvf 72, 7 e 295, 12-13). Per un analogo utilizzo di questa formula cfr. Mauro, Priapo (Terze rime v) 205207 («Massimamente quando prima aperse | La strada del ben far, chiusa, et ristretta | A donne innumerabili, e diverse») e ia 71-72 («Né per rispetti da ben far si resta, | Non si pesa il piacer, non si misura»), quest’ultimo tratto dal capitolo Donne di montagna, dedicato a Della Casa. ~ s’è rima sto: ‘è completamente privo.’ Il senso del verso è quindi che il sesso secondo natura è poco praticato.
12. mestiero: è riferito all’infornare anche nei vv. 19, 31, 159 e 165 (cfr. in particolare la nota al v. 31). ~ guasto: ‘andato in rovina’.
capitoli 41
Tennero il forno già le donne sole, oggi mi par che certi garzonacci l’abbin mandato poco men ch’al sole, 24 spazinlo a posta lor, nessun non vacci; dican pur ch’egli è umido e mal netto, e sonne ben cagion questi fratacci. 27
23. garzonacci: ‘ragazzacci, cinedi’, responsabili del decadimento dell’arte del forno. L’uso del dispregiativo (tipico della lingua parlata) ricorre con una certa frequenza in questo capitolo: cfr. fratacci (27), vescovaccio (80), fornacci (130), ma anche mosconacci (Stizza, 76). La voce garzonaccio è attestata anche nella Mandragola di Machiavelli (cfr. ad es. iv 9, 145: «Egli è el più bello garzo naccio che voi vedessi mai»), nel significato però di ‘sciocco, scioperato’. La contrapposizione tra prostituzione femminile e maschile è trattata dal Casa anche in una sua coeva poesia latina (Carmi na II, iv 7-10), dove la meretrix Quinzia riconosce di essere stata surclassata dal puer Salio, che ri scuote tra i clienti molto più successo di lei.
25-27. spazinlo… questi fratacci: passaggio di non facile comprensione, forse da intendere in questo modo: ‘(i garzonacci) spazzino il forno (cioè lo usino a fini erotici) come gli pare (a posta lor), (ma) che non ci vada nessuno; dicano che (il loro forno) è umidiccio e sporco (o ‘mal scopato’, con doppio senso osceno), e (che) la colpa è dei frati dissoluti (fratacci)’. Oppure, intendendo le donne come soggetto di spazinlo e dican, e vacci come indicativo e non imperativo: ‘(le donne) tengano pulito il forno quanto gli pare, (tanto) nessuno ci va (a infornare), (quindi) dicano pure che è umido e sporco’. Il verbo spazzare è spesso usato dai burleschi nel senso di ‘copulare’ (cfr. v. 104 e nota); per l’aggettivo netto, anch’esso passibile di significati equivoci, cfr. Forno 126, Bacio 88 e note. ~ fratacci: è frequentissimo nella poesia burlesca il riferimento alla sfrenatezza sessuale dei frati e dei religiosi in generale, spesso, come qui, con esplicita allusione alle loro predilezioni omo
21. ch’ e’ vadi sano: formula idiomatica usata per congedare sbrigativamente qualcuno; equivale a ‘che vada con Dio, che vada a spasso’ (cfr. gdli, s.v. sano).
18. o con danari o senza: la prima espressione allude ai rapporti eterosessuali, la seconda a quel li omosessuali (cfr. supra la nota al v. 14).
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donne, e sono pertanto disposti a cogliere ogni opportunità; cfr. Piva 70-72: «manco laudo costor che al primo incontro | a richiesta d’ogn’uom pongon la mano | a la piva, e gli corron a l’incontro». L’evidente simbologia fallica della pala è un corollario dell’identificazione tra forno e vulva (cfr. qui 49, 54, 137, 150, 157, e inoltre Aretino, Ragionamento iii, p. 98, rr. 3-4, «ma volendomi mettere la pala nel forno, lo refutava di nuovo», e Coppetta, Rime lvii 139-141, «S’a voi non manca chi vi stia d’intorno | a fare e a dir, sappiate ch’anco io posso | adoprar la mia pala in altro forno»). Per al primo cfr. Stizza 81.
24. l’abbin… sole: ‘l’abbiano mandato quasi in malora, lo abbiano screditato’. Una locuzione simile, col significato di ‘farsi da parte’, è usata in Berni, A fra Bastian dal Piombo (Rime lxv) 32-33: «Così, moderni voi scapellatori | et anche antichi, andate tutti al sole». ~ sole: si noti la rima equi voca con l’aggettivo sole del v. 22. Si tratta di una tipologia rimica frequente nella poesia bernesca, su cui il Casa indulge sia nei Capitoli (ma particolarmente nel Forno: cfr. 38-42 con mezzo, 92-94 con posta, 100-102 con caccia, 112-114 con tutto), sia nelle Rime: nel notare questo fenomeno, Masi ni 1997 (p. 185) lo identifica come l’unico tratto stilistico significativo comune tanto al Casa burle sco quanto a quello lirico.
venga chi vuole, o con danari o senza. 18 Questo non è mestier da farlo in vano: chi ha danari, inforni quanto vuole, e chi non ha, dite ch’ e’ vadi sano. 21
31. mestier divino: su questa espressione – così come sulle analoghe definizioni dell’infornare come arte santa (v. 11) e mestier santo (v. 165) – si appuntano particolarmente gli strali di Vergerio quando accusa ingiustamente Della Casa di aver composto il Forno per celebrare l’omosessualità: «Tolto havete a celebrar (per gratia vostra) le laudi della sodomia […], e due volte in poche righe havete detto che quello è un mestiero et un’arte divina. O cosa horrenda et da far tremare da capo a piedi un huomo dabene che la legga; oimé dire che quello horribile vitio sia divinità» (Verge rio, Catalogo 2010, p. 300). Su questo punto si veda anche l’Introduzione ai Capitoli (pp. 17-20).
33. un certo fornellino: l’ano femminile, con allusione dunque alla sodomia eterosessuale. Il for no ha probabilmente lo stesso valore simbolico in Berni, Innamorata ii (Rime lxxii) 27: «et intra rotti dove t’esce il pane».
Io, per me, rade volte altrove il metto, con tutto che ’l mio pan sia pur piccino, e ’l forno delle donne un po’ grandetto, 30 benché chi fa questo mestier divino sa ben trovar dove l’hanno nascosto colà dirieto un certo fornellino, 33 ch’è troppo buon da far le cose arrosto, cuocere come a dir pasticci e torte, non si può dir quanto fa bene e tosto; 36 e puossi al manco infornar piano e forte,
29. pan: altra metafora dell’organo maschile che ricorre in tutto il capitolo. Qui è utilizzata in un contesto autoironico.
28. Io, per me… il metto: la contrapposizione tra il diffondersi dell’omosessualità e la preferenza del poeta per le donne ricorda i vv. 34-42 del Capitolo de’ fichi del Molza (Capitoli erotici i, soprat tutto il v. 37: «A me Bacco nel ver pur sodisfece»).
34-35. ch’è troppo buon… torte: il cuocere l’arrosto, in antitesi al lessare, è tradizionale allegoria della sodomia, così come pasticcio e torta indicano il rapporto anale, in questo caso eterosessuale (Toscan 1981, i, p. 478 e 543-544). Evidente la reminiscenza della Canzona de’ fornai di Lorenzo de’ Medici (Canzone carnascialesche ii 39-42): «Per cuocer uno arrosto o un pastello, | allato al forno grande è un fornello, | e tutt’a dua han quasi uno sportello: | ma non lo sanno usar tutti e fornai». Pur essendo certamente Lorenzo il referente primario, il tema dei due forni delle donne potrebbe giovarsi anche del ricordo di un epigramma di Marziale: cfr. Mart. 11, 43, 12: «teque puta cunnos, uxor, habere duos». ~ far le cose arrosto: l’uso di voci generiche come cosa (anche ai vv. 79 e 142) è evidenziato da Masini 1997 (p. 190) come elemento che rafforza la pseudo-oralità del te sto. ~ pasticci e torte: la stessa coppia è anche in Bronzino, Rime in burla ix 1, 102 («ch’entra in sin ne’ pasticci e nelle torte») e xi 46 («Buoni i pasticci e son buone le torte»).
capitoli 43
sessuali. Cfr. soprattutto Piva 64 e 67 («I’ non v’accetto in modo alcuno i frati | […] | a casa mia non vengan ei per pane»), ma anche il capitolo Frati de’ zoccholi del Mauro (Terze rime ix) e, dello stesso autore, i vv. 184-189 del primo capitolo Della fava (ivi iii): «Così fanno oggi certi frati santi, | Che la luxuria seppelliscon viva, | Chiamando Amore, et Venere “furfanti”, | Reprendendo in altrui la vita attiva, | et essi, più che ’l vespro, e ’l mattutino, | Hanno in uso l’attiva, et la passiva»; si veda inoltre la nota al v. 86. Il dispregiativo frataccio (che fa il paio con il vescovaccio del v. 80) è attestato, al singolare e al plurale, in Aretino, Ragionamento (i, p. 27, r. 34) e Dialogo (ii, p. 267 r. 28 e iii, p. 297 r. 33).
37. al manco: forma analitica per almanco, ‘almeno’. ~ piano e forte: questa coppia è spesso usata dai burleschi per rappresentare il sesso normale (piano) e sodomitico (forte), come spiega Toscan 1981, i, pp. 285-286; le donne, grazie a forno e fornellino (quest’ultimo più robusto di quello maschi
45. ognun… fatti suoi: cfr. Berni, Alli signori abbati (Rime xlviii) 48: «ogniuno andrebbe a fare i fatti suoi» (Masini 1997, p. 197). Simile è anche, dello stesso autore, Cardi (Rime ix) 37-39: «A chi piaccion le foglie et a chi ’l torso; | ma questo è poi secondo gli appetiti: | ogniuno ha ’l suo giudizio e ’l suo discorso».
Chi ’nforna doverrebbe stare ignudo, benché vestito anche infornar si possa, e per una infornata anch’io non sudo. 48
40. Come tu… pezzo: ‘non appena lo tocchi, ne viene via un pezzo’. Il verso va riferito sempre alla fragilità del forno maschile.
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Ma pure a questo pensateci voi: perché gli è chi si mangia anche il pan crudo, ognun faccia a suo modo i fatti suoi. 45
38-39. pur: ha valore rafforzativo e si può non rendere nella parafrasi. ~ e’: il fornellino. ~ vetriolo e mezzo: ‘delicato come il vetro e debole’, ovvero, per endiadi, ‘fragile come il vetro’. L’autore denun cia la maggiore fragilità dell’ano maschile (come questi altri) rispetto a quello femminile, come con ferma anche (con una lettura fin troppo minuziosa) Toscan 1981, i, p. 322. ~ ch’è proprio una morte: cfr., sempre a proposito della delicatezza dell’ano, Berni, Orinale (Rime xi) 67-69: «che se ’l cristal lo è di cattiva vena, | chi crepa e chi si schianta e chi si fende, | et è proprio un fastidio et una pena».
42. non potete… a mezzo: lett. ‘non potete infornare a metà’. Ma considerando che nei testi burleschi mezzo è spesso impiegato in riferimento alla sodomia, intesa come una ‘penetrazione a metà’ (cfr. Toscan 1981, i, p. 322), è probabile che l’espressione voglia dire che non si riesce mai a condurre a buon fine un rapporto contro natura o a ricavarne piena soddisfazione.
48. sudo: cfr. ancora la Canzona de’ fornai di Lorenzo de’ Medici (Canzone carnascialesche ii 25): «se sudi qualche goccia per la pena».
41. ad ogni poco: ‘assai speso, di continuo’. ~ fornaro: variante settentrionale del toscano fornaio (sull’alternanza nel Forno di queste forme si rinvia alla Nota al testo, p. 30). Il vocabolo indica qui l’omosessuale passivo.
46. Chi ’nforna… ignudo: a partire da questo verso il poeta incarna il ruolo di praeceptor, inten to a istruire il destinatario sull’arte dell’infornare. Queste modalità precettistiche sono comuni nel la poesia burlesca: cfr. ad es. la citata Canzona de’ fornai (Lorenzo de’ Medici, Canzone carnascia lesche ii 19-42) e il secondo capitolo della Fava del Mauro (Terze rime iv 268 sgg.), ma anche il Vendemmiatore di Tansillo (60 sgg.).
pur ch’e’ non è sì vetriolo e mezzo come questi altri, ch’è proprio una morte. 39
La pala poi vuole esser corta e grossa,
Come tu ’l tocchi se ne leva il pezzo, ad ogni poco il fornaro dice: «ohi!», voi non potete mai infornare a mezzo. 42
44. gli: ha valore avverbiale (‘c’è’). ~ pan crudo: quello di cui deve accontentarsi chi non può infornare bene (v. 42), quindi chi pratica la sodomia maschile.
49. pala: cfr. v. 17 e nota. ~ vuole esser… grossa: costruzione e significato simile in Berni, Cardi (Rime ix) 55: «I cardi vogliono esser grossi e sodi».
le, come si precisa subito dopo), consentono entrambe le modalità. Cfr. Lorenzo di Filippo Strozzi, Canzona de’ segatori 21-22: «Abbiàn vari strumenti, e ’n vari modi | gli usiàn secondo i legni, piano e forte» (Canti carnascialeschi 1986, i, p. 67).
53. Soranzo: cfr. la nota al v. 8. ~ a non vi dir bugia: l’espressione rientra tra i «meccanismi per accrescere l’autorità» utilizzate dai berneschi a imitazione delle formule dell’oralità (D’Angelo 2013, p. 41).
dice la gente ignorante, ma io non trovo che ragion se l’abbi mossa; 51 e bench’io dica or contra ’l fatto mio (perché, Soranzo, a non vi dir bugia, la pala mia non è gran lavorio), 54 io credo che bisogni ch’ella sia grande e profonda e grossa e larga e lunga, e s’altro nome ha la geometria: 57 perch’io veggio il fornar che si prolunga per accostarla del forno alle mura, e Dio vogli anco poi ch’ella v’aggiunga. 60 Ma sopra tutto la vuol esser dura, e chi l’adopra gagliardo di schiena, che la sappi tener ritta e sicura. 63
54. non è gran lavorio: ‘non è un gran lavoro’, ovvero ‘non è un granché’ (la deminutio autoironi ca di sé è atteggiamento tipico del poeta burlesco). Piuttosto comune il doppio senso erotico sulla voce lavorio: cfr. ad esempio Boccaccio, Dec. viii 2, 23: «E dicoti più, che noi facciamo vie miglior lavorio»; Berni, Canzon d’un saio (Rime i) 13-14: «veggio que’ bastoncini a pescespina, | che sono un ingegnoso lavorio»; e inoltre il secondo passo di Giambullari citato in nota ai vv. 67-68. Il Casa impiegherà questa voce anche nel Galateo («Quel lavorìo»; xxi, p. 54). 55-57. io credo geometria: un concetto simile e la rima geometria : sia si ritrovano in Berni, Anguille (Rime viii) 19-21: «Chi s’intendesse di geometria | vedrebbe ch’all’anguilla corrisponde | la più capace figura che sia». ~ grande… e lunga: enumeratio in polisindeto delle caratteristiche ideali della pala: lunga si contrappone a corta del v. 49, da dove torna invece grossa (ma la grossezza è stavolta abbinata alla lunghezza). Cfr. Piva 31-32: «tutte le pive io ho per buone e belle, | e corte e longhe e grande e piccoline». ~ e s’altro… geometria: ‘e ogni altro termine che la geometria può avere (per indicare grandi dimensioni)’.
51. non trovo… mossa: ‘non mi sembra che la gente parli secondo ragione’.
59. mura: l’ingresso della vagina.
62. chi l’adopra… schiena: nuova analogia con la Canzona de’ fornai (Lorenzo de’ Medici, Canzone carnascialesche ii 23): «Or qui bisogna aver poi buona schiena», dove compare anche la rima schiena : mena (l’eco di questo luogo laurenziano si avverte anche in Bacio 46-48). Si tratta comunque di un’immagine molto diffusa nelle metafore erotiche del repertorio comico. Cfr. ad es., sempre in riferimento al sesso anale, Berni, Orinale (Rime xi) 65 («e ch’egli abbia buon nerbo e buona schiena»); e inoltre Lorenzo di Filippo Strozzi, Canzona de’ segatori 47-48 («bisogna […] | che sie l’uom di stiena molto duro»; Canti carnascialeschi 1986, i, p. 68); Giovambattista dell’Ottonaio, Canzona di giucolatori di schiena (ivi i, pp. 192-193); Piero da Volterra, Canzo na de’ mattacini 29 e 32 («Chi vuol far quel si conviene, | […] | ch’abbi nervo e buona stiena»; ivi ii, p. 299); Antonfrancesco Grazzini, Canto di giucatori di palla a maglio 14 («sode bisogna e forti aver le schiene»; ivi ii, p. 362). Il tema tradizionale del vigore fisico richiesto dall’arte amatoria trova spazio anche nel Vendemmiatore di Tansillo (57).
capitoli 45
Or io v’ho dato la dottrina piena, restami a dir come s’inforna il pane, come si fa a levar, come si mena. 66
E per contrario s’egli è buona pasta, al primo tratto è lievito e gonfiato,
72. fermento: lett. ‘lievito’, ovvero ‘vigore sessuale’. Torna al v. 78.
69. ti so dir: l’espressione (che ricorre anche al v. 95) rientra tra le formule ispirate all’oralità utili a conferire autorevolezza dell’io poetico (cfr. la nota al v. 53).
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70-71. quando riscalda: ‘quando il pene fatica a drizzarsi, (puoi) attizzarlo e riattizzarlo quanto ti pare (a tua posta), (ma) non serve a nulla (non basta). ~ a levitarsi: ‘a lievitare’. Lo stesso verbo è usato come metafora dell’erezione in Lorenzo de’ Medici, Canzona de’ fornai (Canzone carnascia lesche ii) 27-28: «Fatto il pan, si vuol porre a lievitare; | in qualche luogo caldo vorria stare». ~ basta: in serie rimica con pasta e guasta già in Berni, Gelatina (Rime xii) 23-27 (cfr. Masini 1997, p. 183).
73-74. E per contrario… gonfiato: «se, invece, (il fallo) è di buona tempra, va subito in erezio ne» (Poesia erotica del Cinquecento 1999, p. 106). ~ al primo tratto: ‘subito’. Cfr. anche Nome 57 e Stizza 71.
Se ti bisogna adoperar le mane a stropicciarlo e rinvenirlo a stento, ti so dir io, tu infornerai domane: 69 che quando il pane a levitarsi è lento, scalda e riscalda a tua posta non basta, perché ci è, diciam noi, poco fermento. 72
64-66. Or io v’ho… si mena: formula di transizione che segnala il passaggio da un punto a un altro della trattazione del praeceptor (cfr. nota al v. 46), e più precisamente dalla descrizione del perfetto fornaio e della sua “attrezzatura” all’esposizione della tecnica dell’infornare. Formule simi li non sono rare nella tradizione comico-satirica, dove rivestono probabilmente una funzione paro dica nei confronti dei raccordi argomentativi tipici della trattatistica seria, nei quali si riassumono i temi esposti e si anticipano quelli che stanno per essere affrontati. Russo 2020 (p. 7) rinvia ad Ariosto, Sat. v 247-249: «Poi ch’io t’ho posto assai bene a cavallo, | ti voglio anco mostrar come lo guidi, | come spinger lo déi, come fermallo» (la metafora equestre di Ariosto ha un doppio senso erotico affine a quello dei versi casiani). ~ dottrina: nei testi burleschi e carnascialeschi indica spesso conoscenza in campo erotico (Toscan 1981, iii, pp. 1271-1272), come l’aggettivo dotte del v. 4 (cfr. nota). ~ come s’inforna… si mena: recuperando la simbologia fallica del pane introdotta al v. 29, l’infornare allude alla penetrazione, il levar alla lievitazione (ovvero all’erezione: cfr. vv. 70 e 74), il menare alla conduzione dell’infornata/rapporto sessuale (cfr. v. 137). Per quest’ultimo verbo cfr. ancora la Canzona de’ fornai (Lorenzo de’ Medici, Canzone carnascialesche ii 23-24): «Or qui bisogna aver poi buona schiena: | la pasta è fine più, che più si mena».
67-68. Se ti bisogna… a stento: ‘se hai bisogno di manipolarlo per farlo a stento rinvenire’, cioè ‘se devi masturbarti per riuscire appena ad avere un’erezione’. La seconda parte della trattazione precettistica comincia con una digressione sull’impotenza, che prosegue fino al v. 79. Per questo passo cfr. Giambullari, La contenzione, p. 18: «Oh, quante volte costui ho incontrato | Che per la debolezza era svenuto! | E con le proprie man l’ho stropicciato | Tanto che pure egli era rinvenuto» (e poco prima: «Oh quante volte | L’ho fatto a stento entrar nel lavorio», ibidem); Piero da Vol terra, Canzona de’ mattacini 56-60 (Canti carnascialeschi 1986, ii, p. 300): «e in terra un disten diàno; | e ’l disteso ancor tiriàno, | e facciànlo rinvenire, | stropicciando risentire | ogni membro gli facciàno». L’espressione a stento torna al v. 77; cfr. inoltre Stizza 92.
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portalo alla fornara, che si guasta. 75 Ma se pur fusse qualche sciagurato che levitasse il pane a stento o tedio, e non avesse fermento né fiato, 78 ad ogni cosa si trova rimedio: un certo vescovaccio ha la ricetta, ch’amore e crudeltà gli han posto assedio, 81 e perché vuol del pan tal volta in fretta, m’è stato detto che l’ha sempre drieto, e tienla il suo garzon nella brachetta; 84
84. tienla: da riferire sempre alla ricetta del v. 80 ~ garzon: il partner attivo del vescovaccio. ~ brachetta: «parte anteriore dei calzoni maschili (in cui si chiudevano gli organi genitali […]): era usata nei secoli xv-xvi (anche come tasca per guanti e fazzoletti)» (gdli, s.v.). Il termine rientra nel fitto repertorio di oggetti e abiti della quotidianità accolti nel lessico dei Vignaiuoli (cfr. Masini 1997, pp. 186-188). Il senso osceno di questo passo fa ripensare soprattutto a Berni, Sonetto al Divi zio (Rime xx b) 14, «Marte ho nella brachetta e in culo Amore»; ma si ricordi anche Bini, Contra le calze 118: «e ogn’ora aver l’occhio alla brachetta».
75. portalo… guasta: ‘fai subito sesso con una donna (ma il termine fornara sembra da riferire in primo luogo alle prostitute), altrimenti l’eccitazione viene meno’.
77. a stento o tedio: ‘a stento o con fatica’.
82. in fretta: nuova allusione al rapporto sodomitico, in cui il religioso assume il ruolo passivo (cfr. Toscan 1981, i, pp. 290-291).
79. ad ogni cosa… rimedio: D’Angelo 2013 (p. 58) sottolinea come il verso ricalchi note massi me proverbiali, come «ad ogni cosa si trova rimedio». Una simile intonazione sentenziosa si ritro va in molti passi burleschi, tra cui Berni, Peste ii (Rime liii) 40: «Non fu mai malattia senza ricet ta». Cfr. anche nota al v. 135.
78. fiato: ‘energia, vigorìa’.
80. vescovaccio: nuovo peggiorativo riferito a un religioso dopo fratacci al v. 27 (vd. nota), anche qui in connessione al tema dell’omosessualità. Non è chiaro se Della Casa si riferisce a un personag gio preciso e a chi. Curiosa l’interpretazione di Paolo Rolli che – forse ancora condizionato dalla leggenda nera creata intorno al Forno da Vergerio – legge qui un riferimento dell’autore a sé stesso, e interpreta per di più il seguente v. 81 (di marca petrarchesca) come un frammento di un «compo nimento […] forse […] smarrito» del Casa (Opere burlesche 1721, p. 475). ~ ricetta: ‘espediente, rimedio’, ovviamente di natura erotica e pederastica, come suggeriscono le maliziose allusioni dei vv. 83-84.81.
ch’amore… assedio: citazione quasi letterale di Petrarca, Tr. Cup. iii 69: «amore e crudel tà gli àn posto assedio». Le citazioni petrarchesche sono un procedimento caro al Berni e ai suoi seguaci, che le utilizzano col chiaro scopo di degradare in un contesto burlesco (e spesso, come qui, osceno) la sublimazione lirica dell’originale (cfr. Longhi 1983, pp. 221-222; Jossa 2016b, p. 57). Qui l’amore e la crudeltà (che in Petrarca sono la passione e la gelosia di Erode I il Grande per la moglie Mariamne) sono forse da riferire, rispettivamente, alle pulsioni deviate del vescovaccio e alla sua difficoltà o svogliatezza (si ricordi la coppia a stento o tedio del v. 77) nei confronti dei forni femmi nili (meno convincente, mi pare, riferire la crudeltà a un’ostilità delle donne verso il religioso a causa della sua impotenza: in Petrarca entrambi i sentimenti sono infatti provati da Erode, cui cor risponde qui il vescovaccio).
83. l’ha sempre drieto: ‘ha (la ricetta) sempre dietro con sé’; ma è chiara l’allusione al ruolo di patiens del vescovo.
Molti di questi giovani galanti tenner già ’l forno in qualche bella posta, e si pagava in quel tempo a contanti. 93
e benché in casa sia molto segreto, io sento dire un non so che di pesche, ma di grazia, Soranzo, state cheto. 87
Le fornaie non voglion queste tresche, che se l’avessero aspettar gl’incanti per infornar, per Dio, le starian fresche. 90
88. tresche: i rapporti omosessuali, che recano solo danno alle fornaie/prostitute.
90. per Dio: l’interiezione è chiaramente un’altra marca di oralità (D’Angelo 2013, p. 39). ~ starian fresche: locuzione popolare usata più volte da Berni, ad es. in A messer Marco veneziano (Rime xxxvi) 33: «io starò fresco se voi non ci sète».
91-92. Molti di questi… bella posta: altro passo non agevole da decifrare. Si può intendere – se guendo Toscan 1981, i, pp. 402-403 – che ‘molti di questi giovani sodomiti (galanti) assumevano il ruolo passivo nei rapporti sodomitici’. Si parlerebbe insomma qui dei giovani cinedi coinvolti nelle tresche omoerotiche in funzione di patientes, al contrario del garzon del v. 84. L’aggettivo galante è caratteristico della sodomia (cfr. Piva 173-175: «ch’una piva vi vada sempre inante, | e s’inante non può, v’entri di dietro, | acciò vi tenga il studio un uom galante»; vd. anche la nota a gala, v. 139); conseguentemente il forno rappresenta l’ano maschile, mentre posta (da porre, ovvero ‘mettere’) va probabilmente inteso nel senso di «mise du phallus» (Toscan 1981, i, p. 403). Si apre qui una breve parentesi (chiusa al v. 102) in cui Della Casa – sottolineando come il trattamento dei cinedi sia peggiorato nel tempo – sembra quasi attenuare ambiguamente la condanna della prostituzione maschile formulata ai vv. 10-45.
93. si pagava a contanti: diversamente da quanto visto ai vv. 14 e 18 (cfr. le relative note), qui il pagare in contanti rappresenta l’operare in sodomia (cfr. Toscan 1981, i, pp. 484-485).
86. pesche: rappresentano le natiche, con allusione alla sodomia omosessuale, come di prassi tra i berneschi. D’obbligo ricordare il Capitolo delle pesche di Berni (Rime x , dove tra l’altro, ai vv. 2830, è ricordato l’amore dei religiosi per le pesche: «Le pesche eran già cibo da prelati, | ma, perché ad ogniun piace i buon bocconi, | voglion oggi le pesche insino a i frati»), cui si aggiunga almeno Mauro, A Messer Uberto Strozza (Terze rime xa) 75: «Non è arte da donne di dar pesche». L’asso ciazione pesche / religiosi è ben nota anche alla tradizione carnascialesca, come dimostra Filippo Cambi, Canzona de’ fruttaiuoli 28-29: «Furon già da prelati | le pesche e da omaccioni» (Canti carnascialeschi 1986, ii, p. 308). Cfr. anche la nota al v. 27.
87. Soranzo: cfr. la nota al v. 8.
94. O furno… signor: ‘O forno da signori!’ ~ a posta: ‘capaci’, ‘come si deve’. Ma si ricordi il senso ambiguo di posta illustrato nella nota ai vv. 91-92.
96. espedizion… composta: ‘lettera, dispaccio bello e ben ordinato’ con cui vengono comunica ti gli offici; ma è ovvia anche qui l’allusione all’atto sessuale.
O furno d’un signor! Fornari a posta! Ti so dir che gli offici allor volavano con l’espedizion bella e composta, 96
89. incanti: ‘rimedi’ (il senso pare affine a quello di ricetta del v. 80).
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95. offici: ‘impieghi, incarichi’, ovvero i rapporti sessuali richiesti di continuo (volavano) ai cine di. ~ volavano: si noti la rima sdrucciola che lega questo ai vv. 97 e 99 (Masini 1997, p. 182).
e pensioni e scudi che fummavano; prometton or, finché ’l lor pan si faccia, e se ne ridon poi come ne ’l cavano, 99 e ciascheduno strazia e mena a caccia il veltro giovinetto a suon di corno, e com’un che gl’invecchia a fiume il caccia. 102 Ma lasciam questo, e ritorniamo al forno: diciam come lo spazan le maestre e di sotto e di sopra, intorno intorno. 105
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97. pensioni… fummavano: ai cinedi erano elargiti ‘compensi (pensioni) e monete (scudi) scin tillanti (fummavano: cfr. Opere burlesche 1721, p. 475)’. Il poeta sembra voler dire che in passato, al tempo dei giovani galanti del v. 91, il mestiere del fornaio/cinedo era molto redditizio grazie alla generosità dei clienti. 98-99. prometton or… cavano: il cambio del tempo verbale segnala il ritorno alla situazione presente, in cui si registra un peggioramento della condizione dei cinedi rispetto al florido passato descritto ai vv. 95-97. Il senso pare essere: ‘ora (i clienti) promettono (grandi cose) affinché si cuo cia il loro pane (cioè per trovare partner sessuali compiacenti), ma poi, una volta cotto, ridono delle loro promesse (non le mantengono)’. 100-102. ciascheduno… a fiume il caccia: ‘ognuno sodomizza (strazia e mena a caccia) col suo pene (a suon di corno) il giovane amante (veltro), e non appena questo invecchia se ne sbarazza (a fiume il caccia)’. Le espressioni straziare e menare a caccia sono metafore sessuali: la prima riguarda specificamente il rapporto omoerotico, mentre la seconda associa il verbo menare (‘condurre’), usato tradizionalmente per indicare il movimento del pene nel coito, con il tema della caccia, altro fortunato referente simbolico del copulare; il corno, infine, è l’ennesimo simbolo fallico, già impie gato nella tradizione precedente, ad esempio in Boccaccio, Dec. ii 7, 30: «Il che poi che ella ebbe sentito, non avendo mai davanti saputo con che corno gli uomini cozzano» (cfr. Toscan 1981, iii, p. 1592). ~ caccia: lo si trova in rima equivoca e in serie rimica con faccia anche in Lorenzo de’ Medici, Selve i 97, 1-6, dove compare anche la voce corno: «Così, pien di fatica e luce, il giorno | pallida e rossa l’aurora caccia; | lei poi la notte; qual fuggendo intorno | convien che ’l giorno alfin sua preda faccia: | e mentre suona il cacciatore il corno, | vinto rimane in questa eterna caccia».
103. Ma lasciam… forno: formule simili, e talvolta ben più elaborate, sono usate dai poeti burle schi per chiudere le frequenti digressioni dei loro componimenti. Cfr. ad es. Mauro, Del letto (Terze rime ii) 70-72 («Ma gli è ben tempo, ch’io ritorni a scola, | Poi che digression sì lunga ho fatto, | Ove forse bastava una parola») e Bini, Mal franzese 171 («Ma diciam or della natura vostra»).
104. spazan: il verbo, sinonimo di scopare, è spesso usato nella letteratura comico-burlesca co me metafora del copulare (si veda anche supra il v. 25); è associato al forno in Lorenzo de’ Medi ci, Canzona de’ fornai (Canzone carnascialesche ii) 31-34 («Intanto il forno è caldo, e tu lo spazzi: | lo spazzatoio in qua e in là diguazzi, | se vi resta di cener certi sprazzi: | non l’ha mai netto ben chi cuoce assai») e Aretino, Dialogo (ii, p. 257, rr. 10-12: «Egli […] pose il frugatoio ne le tane di tutte, e con lo spazzatoio carnefice spazzò tutti i forni»); cfr. anche il canto carnascialesco anonimo Donne, alle belle granate 27 e 29-32 («La granata giovinetta | […] | bene spazza e meglio netta, | trá’ne fuora ogni bruttura; | vo’ potete alla sicura | menar alto, basso e ’n canto»; Canti carnasciale schi 1936, p. 18). Nella sezione del capitolo che si apre qui e prosegue fino al v. 135, il Casa sfrutta l’ambivalenza semantica di questo vocabolo, utilizzandolo certo in relazione all’uso sessuale del forno (anzi dei forni, come si vedrà) delle donne, ma recuperandone anche il senso primario di ‘pulire’, con riferimento alle pratiche igieniche con cui le fornaie più esperte (maestre) rimediano agli inconvenienti del mestruo (cfr. soprattutto i vv. 118-120).
113. per uno ordinario: probabile un gioco di parole, visto che l’espressione può voler dire sia ‘abitualmente’ sia ‘per tutto un ciclo mestruale’ (cfr. Machiavelli, Clizia iii 7: «Io dubito che la non abbia l’ordinario delle donne»). La “fornaia” in questione cura dunque con attenzione l’igiene del suo “forno” durante il mestruo.
107. cenci e pezze: in senso letterale due strumenti che servono a pulire, ma che rinviano anche, con la consueta ambiguità semantica, allo spazzare in senso erotico (cfr. v. 104 e nota). Per pezze pare attestato, in ambito comico-burlesco, il significato di ‘orifizi’ (cfr. Toscan 1981, ii, p. 788), che si po trebbe estendere anche al quasi sinonimico cenci (‘stracci’); quest’ultimo potrebbe alludere più spe cificamente al posteriore, considerato che questo doppio senso è usato in relazione a termini affini come panno e straccio (ivi, iv, pp. 1727 e 1754). ~ arsicce e rosse: ‘di colore bruciacchiato (scuro) e rosso’. Passando al senso figurato, arsiccio è aggettivo affine ad ‘arrosto’ (cfr. v. 34 e nota), e dunque ugualmente associabile alla sodomia (Toscan 1981, ii, p. 786) e all’ano, mentre rosse è riferibile al colore del mestruo e dunque alla vagina (al periodo catameniale allude il successivo v. 119). Dopo una serie di ammiccamenti generici agli organi femminili (canestre, cenci e pezze), i due aggettivi sembrano insomma rappresentare la distinzione tra l’orifizio posteriore e quello anteriore.
E vo’ mostrare a queste genti grosse con quanto studio se lo tiene asciutto una che ’l pane a questi dì mi cosse. 111
114. ch’e’… puta: ‘che non le puzzi’.
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108. a tal servigio: quello di spazzare o ‘scopare’ (v. 104), cui sono atti entrambi gli orifizi femmi nili. ~ apparecchiate e destre: letteralmente ‘pronte e adatte’, ma il doppio senso si affaccia anche qui. Il primo termine si collega ad apparecchio, metafora del membro maschile (Toscan 1981, iv, p. 1662), e potrebbe rendersi come ‘pronte a ricevere il fallo’; il secondo, da intendere anche nell’ac cezione di ‘abile’, insiste sul savoir-faire erotico delle fornaie.
La lo lava ben bene e spazza tutto sera e mattina per uno ordinario, e vuol ch’e’ non le puta sopra tutto. 114
E poi si reca in mano il calendario, e guarda molto ben la volta e ’l tondo, che ’l corso della luna è sempre vario. 117
106. canestre: letteralmente ‘ceste’, ma in Berni la voce (declinata al singolare maschile) è usata come sinonimo di ‘braghe’, a loro volta intese come figura del deretano (cfr. Vaghezze di maestro Guazzaletto medico, in Rime xlix 67-68: «vede le calze sfondate al maestro | e la camiscia ch’esce del canestro», dove si notino, in analogia col passo casiano, la rima maestro : canestro e il ricorrere del termine camiscia, qui al v. 123; e inoltre Toscan 1981, iii, pp. 1334-1335). In questo caso, visto l’uso al femminile plurale e l’associazione con l’aggettivo belle, il termine potrebbe alludere a en trambi gli orifizi femminili (la vulva e l’ano, ovvero il forno e il fornellino, entrambi assimilabili al canestro in quanto oggetto deputato al contenere), che le fornaie maestre sanno all’occorrenza alter nare, come si spiega nei versi seguenti.
115-117. E poi si reca… sempre vario: Casa utilizza una serie di termini tratti dal lessico astronomico (volta e tondo indicano propriamente il moto di un corpo celeste, e dunque anche le fasi lunari e il plenilunio) per simboleggiare il deretano (calendario, volta) e l’ano (tondo), come suggerisce corret
Ell’ hanno a posta le belle canestre di cenci e pezze tutte arsicce e rosse, a tal servigio apparecchiate e destre. 108
109. grosse: ‘rozze’.
Tienli la notte e ’l dì chiusa la bocca, se la dovesse ben tor del capecchio, e spesso alla camiscia anche l’accocca, 123 sì che con tale e sì fatto apparecchio la tien quel forno bianco di bucato, netto come un bacin, come uno specchio, 126
121. bocca: l’apertura del forno, con ovvio doppio senso.
125. bianco di bucato: ‘bianco come il bucato’. Per l’espressione cfr. Varchi, Peducci 47: «mor bidi tutti e bianchi di buccato». ~ bucato: simbolo del coito piuttosto comune (cfr. Toscan 1981, i, p. 584). Le pratiche igieniche qui descritte potrebbero presupporre un sovrasenso osceno.
122. se… capecchio: ‘anche se dovesse usare del capecchio (per chiudere la bocca del forno)’. Il capecchio è una «filaccia grossa, ricavata dalla prima pettinatura del lino o della canapa» (gdli, s.v.) usata anche come stoppa per botti, che pare qui citato come rudimentale assorbente. Ma si veda anche la nota al v. 124.
119. piove o fiocca: la pioggia è metafora delle mestruazioni, come si osserva in molti testi comi co-burleschi: cfr. Toscan 1981, i, pp. 263-264 e, tra i tanti esempi possibili, Lorenzo de’ Medici, Canzona delli innestatori (Canzone carnascialesche iv) 51-52, «Donne, noi v’invitiamo a nestar tutte, | se non piove e se van le cose asciutte»; Mauro, Fava ii (Terze rime iv) 283-284, «Chi l’ha, lo tenga netto, in loco ombroso, | Non humido, ma asciutto, ove non piova»; Giambullari, La con tenzione, p. 13, «“Oh, non si metton l’opre quando piove”. | “Non si può lavorare allo scoperto | Se piove, quanto è che tutto un giorno | i’ lavorai con voi. Questo è pur certo | Ch’io turai quella buca dietro al forno”»). Fiocca (‘nevica’) replica lo stesso senso traslato di piove, ricollegandosi verosi milmente a un’altra diffusa immagine, la stagione invernale come allegoria del periodo catamenia le: si veda ancora Toscan 1981, i, pp. 264-265 e, in aggiunta ai passi citati sopra, Bini, Contra le calze 101-102 («Così la gamba, e sta fresca e non suda | La state, e ’l verno non si bagna o gela»), per cui si veda l’interpretazione proposta in Masieri 2017, pp. 73-74.
~ tondo: per un doppio senso simile a quello illustrato sopra cfr. Mauro, Priapo (Terze rime v) 199: «Et cercando la terra a tondo a tondo». La rima tondo : mondo (v. 120) torna in Rime piacevoli i 16-17.
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tamente Toscan 1981, i, p. 773, che interpreta tuttavia il richiamo alla “varietà” del corso della luna come allusione alle variabili preferenze dei clienti della “fornaia”. Sembra invece più coerente leggervi un riferimento all’irregolarità del ciclo catameniale (che tra l’altro, secondo la tradizione, era influen zato proprio dalla luna): l’intera terzina significherebbe quindi che la “fornaia” è pronta a ricorrere al posteriore (anch’esso debitamente curato) quando le mestruazioni impediscono i rapporti normali.
Va ricercando dalla cima al fondo, perché quel forno dove piove o fiocca non lo terrebbe asciutto tutto ’l mondo. 120
123. camiscia: l’organo sessuale femminile (Toscan 1981, iii, pp. 1310-1311). La forma con con sonante fricativa anziché affricata (camiscia per camicia), seppur antica, era ancora diffusa nel fio rentino cinquecentesco, come dimostra anche un già citato passo di Berni (Rime xlix 68: «e la camiscia ch’esce del canestro»): vd. anche Rohlfs, i, p. 403 e Masini 1997, p. 180. ~ accocca: ‘adat ta a forza, infila’. Cfr. Pulci, Morg. xix 45, 3: «e ’l capo presto tra gambe gli accocca» (anche qui in rima con bocca).
124. apparecchio: ‘preparazione, applicazione’. Ma si è già visto (cfr. la nota al v. 108) che il so stantivo è anche simbolo del membro maschile.
120. non lo terrebbe… mondo: cfr. Piva 81: «non la terria tutt’il mondo polita».
126. netto come un bacin: ‘pulitissimo’, forse nel senso ambiguo di ‘ben scopato’. Infatti l’aggetti vo netto – già incontrato al v. 26, e su cui cfr. anche la nota a Bacio 88 – porta con sé la stessa ambi
~ calendario: questa voce è già in Berni, Primiera (Rime xiv) 13, «non lo ritroverebbe il calendario».
134. s’intende… tempesta: cioè ‘non bisogna esagerare’. Massima proverbiale usata per «biasi mar l’eccesso» (Crusca i, p. 17), della quale il Forno sembra fornire la prima attestazione letteraria (questo passo è infatti l’unico citato nel gdli, s.v. tempesta). Torna l’intonazione gnomica già rile vata al v. 79, per cui cfr. D’Angelo 2013, p. 58.
136. S’io mi ricordo bene: nuova simulazione di oralità, attraverso una formula volta a diminuire l’autorità del parlante (cfr. D’Angelo 2013, p. 41 e supra la nota al v. 53). ~ a dir mi resta: per com pletare la funzione comico-didascalica del capitolo (cfr. la nota al v. 46).
131. che si… fornace: ‘che si potrebbero chiamare (più giustamente) fornaci’. Anche per il termi ne fornace – che indica evidentemente un forno più grande – è attestato il valore di ‘ano’ (Toscan 1981, ii, p. 879)
132. da cuocere… frati: ‘adatte a cuocere un intero ordine di frati’ (regola potrebbe intendersi anche come ‘convento’, ma il senso dell’iperbole non cambia).
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129. affumicato… ismattonato: i tre aggettivi sembrano da riferire alle pratiche sodomitiche. Affumicato è infatti riconducibile alla metafora del ‘cuocere arrosto’ (cfr. nota ai vv. 34-35), mentre del legame tra arsiccio (‘bruciacchiato’) e la sodomia si è detto in nota al v. 107; più che complesso il caso di ismattonato (‘con mattoni rotti o mancanti, decrepito’), che potrebbe risentire di un altro motivo del repertorio osceno, l’identificazione tra i mattoni e le natiche, che sono però di solito quelle maschili (cfr. Toscan 1981, ii, pp. 879-880). Un nuovo biasimo dell’omosessualità è però ipotizzabile solo postulando che l’indefinito altre (v. 127) sia da intendere anche al maschile; più economico forse pensare a un riferimento scherzoso alle donne che abusano dei rapporti anali, fi nendo per sformare i loro deretani (v. 130). ~ affumicato, arsiccio: cfr. Pulci, Morg. xxi 46, 5: «la faccia brutta, affumicata, arsiccia». ~ ismattonato: è participio del verbo ‘smattonare’, ma la forma con i iniziale non pare attestata altrove.
S’io mi ricordo bene, a dir mi resta
dove che l’altre l’han sempre muffato, che gli strapiove loro in venti lati, affumicato, arsiccio, ismattonato; 129 hanno certi fornacci smisurati che si potrebbon domandar fornace da cuocere la regola de’ frati. 132
133. sempre mai: ‘sempre’.
135. ogni troppo dispiace: prosegue il biasimo di ogni eccesso su base proverbiale del v. 134.
È ver che ’l forno è sempre mai capace, ma pure s’intende acqua e non tempesta, perch’ alla fine ogni troppo dispiace. 135
127. muffato: ‘coperto di muffa’, quindi ‘sudicio, guasto’ per via delle secrezioni vaginali (v. 128). È aggettivo solitamente riferito alle botti, ma talvolta impiegato in senso osceno, come in Iacopo da Bientina, Canzona de’ bottai 39-41 (Canti carnascialeschi 1986, i, p. 231): «Certe botte muffate | o per vecchiezza o per isporcheria | con lor non v’impacciate». L’associazione tra mestruo e muf fa è già in Boccaccio, Corbaccio 294: «Io mi tacerò de’ fiumi sanguinei e crocei che di quella a vicenda discendono, di bianca muffa faldellati». Il biasimo della sporcizia dell’oggetto equivoco è svolto in termini simili in Piva 76-81: «Colui dunque che vuol ben sonare | de’ la piva tener netta e forbita | e con acqua e con vin spesso lavare. | Perciò che poi ch’ell’è tutta marcita, | piena di muffa o d’un cattivo odore, | non la terria tutt’il mondo polita».
valenza del verbo spazzare (si rivedano gli esempi proposti in nota al v. 104). Il bacino è propria mente un recipiente di forma rotonda, che richiama gli orifizi della donna.
138. dovvi festa: ‘vi do un giorno di festa’, cioè ‘vi congedo, vi lascio in pace’.
La non vuol… s’affretti: si torna sul tema dei vv. 139-141.
come si mena pel forno la pala, e poi vi mando a casa e dovvi festa. 138
147. benedetta… fornaia: quello delle benedizioni è un altro stilema topico dei berneschi, che consente un uso straniante (addirittura in contesto erotico) di una formula liturgica. Oltre al v. 162 e a Stizza 99, cfr. Berni, Pesche (Rime x) 61 e 63 («O frutta sopra l’altre egregia, eletta, | […] | l’alma e la carne tua sia benedetta!»), e, per altri esempi, Longhi 1983, pp. 68 e 75-76 e Masini 1997, p. 148.198.
Inforni pian chi lo vuol far con gala, perché quando uno attende a frugacchiare, su ’l buono appunto la furia gli cala. 141
145-146. ecci tal… si assetti: ‘c’è chi, pur avendo fatto una gran quantità (alle migliaia) di infor nate, pare non padroneggiare ancora al meglio (questo mestiere)’; la ha valore pronominale ed è riferito all’“infornare”. ~ migliaia: in rima con baia già in Berni, Cardi (Rime ix) 20-22: «che voi non intendessi qualche baia; | dico di quei [cardi] che son buon da mangiare, | che se ne pianta l’anno le migliaia».
149. perch’ell’ha… anch’ella: ovviamente anche questo verso va inteso in senso osceno. Secon do Marzo, il Casa vorrebbe dire che «talvolta vuol essere [la donna] a condurre il rapporto sessua le» (Poesia erotica del Cinquecento 1999, p. 110). Si noti la ridondanza del pronome personale, altro dettaglio mimetico dei modi del parlato (cfr. D’Angelo 2013, p. 35).
143. una baia: ‘una sciocchezza, una cosa da nulla’.
137. pala: cfr. v. 17 e nota. Gli ultimi precetti vertono su come l’“infornatore” deve condurre il rapporto sessuale.
Non è sì facil cosa l’infornare, e benché il mondo lo stimi una baia, gli ha più manifattura ch’e’ non pare; 144 ed ecci tal ch’ha cotto alle migliaia, e non par ch’ancor ben la vi si assetti; ma benedetta sia la mia fornaia! 147
La non vuol mai che chi ’nforna s’affretti, e perch’ell’ha da far tal volta anch’ella, vuol ch’io fermi la pala e ch’io l’aspetti, 150 e sempre mai si dimena e favella:
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139-141. Inforni…gli cala: si veda, anche per il v. 148, la laurentina Canzona degli innestatori: «Convien con diligenzia vi si metta: | guasta ogni cosa spesso chi fa in fretta, | riesce meglio chi ’l suo tempo aspetta» (Lorenzo de’ Medici, Canzone carnascialesche iv 39-41). ~ con gala: letteral mente ‘con cura, con garbo’, ma per Toscan 1981 (ii, pp. 1167-1168) significa ‘con l’ano’ (vd. supra la nota a galanti, v. 92); il verso 139 alluderebbe quindi alla cautela e alla calma con cui deve procedere soprattutto chi agisce in sodomia. ~ frugacchiare: ‘agire in modo affannato e frettoloso’. Cfr. Gu glielmo detto il Giuggiola, Canzona di lanzi coltellinai 65-68: «Un cortel [cioè ‘coltello’, sim bolo fallico] di buone razze | come queste di quel mazze | passerebbe ogni corazze | senza troppe frugacchiare» (Canti carnascialeschi 1986, i, p. 156). ~ sul buono… furia: ‘sul più bello gli viene meno l’eccitazione’. La fretta e l’affanno nell’atto sessuale comportano insomma il rischio di far cilecca.
151. e sempre mai… favella: ‘e (durante il coito) si muove e parla ininterrottamente (sempre mai)’.
144. gli ha… pare: ‘richiede più abilità (manifattura) di quanto non sembri’. Cfr. Bacio 59.
E se la pala in forno s’imbrattassi, là ne la cava e di sua man la netta, così ’l mestier pulitamente fassi. 159
153. una strana novella: ‘una situazione strana’, o forse anche ‘uno strano modo di fare l’amore’ (pensando all’espressione fare questa novella, ‘compiere l’atto sessuale: cfr. gdli, s.v. novella), riferi to ovviamente al non parlare durante il coito (v. 152).
157. s’imbrattassi: a causa delle mestruazioni (cfr. vv. 107, 119 e note).
158-159. di sua man… fassi: cfr., in un simile contesto metaforico, l’anonima Canzona del fagiano 26: «ma chi sa l’uso il netta a mano a mano» (Canti carnascialeschi 1986, ii, p. 439).
in ver quello infornar fatto alla muta m’è sempre parso una strana novella. 153
163. Voi: il Soranzo (cfr. nota al v. 8), elogiato per le sue qualità di infornatore
164. restano in bianco: ‘vanno in bianco’.
E or si storce, or alza la gambetta, perché l’aggiunga meglio in ogni canto: che siate un’altra volta benedetta! 162 Voi, che per infornar piacete tanto che gli altri servidor restano in bianco, dite qualcosa di quel mestier santo, 165 ch’io non ho detto nulla, e sono stanco.
152. alla muta: ‘in silenzio’. Cfr. Mauro, Al signor Duca di Malphi (Terze rime va) 184-186: «Non era già ballare alla gagliarda | A suon di trombe, ma una certa festa, | Che si fea quasi alla muta, alla tarda».
156. grida… aiuta!»: la fornaia grida per assecondare l’orgasmo (cfr. v. 154). L’interiezione aiu ta, aiuta! È piuttosto frequente in poesia: qui la rima con muta fa ipotizzare un rovesciamento bur lesco delle parole pronunciate da Capaneo in Dante, Inf. xiv 55-57: «o s’elli stanchi li altri a muta a muta | in Mongibello a la focina negra, | chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”» (se il rimando intertestuale è corretto, esso comporta un cambio di significato per muta).
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161. l’aggiunga: il soggetto è la pala, che grazie ai movimenti della “fornaia” può raggiungere ogni parte del forno.
165-166. dite qualcosa… stanco: il distico finale riprende il v. 9. ~ ch’io non ho… stanco: anche in questo caso si trovano espressioni simili in altri berneschi, ad esempio in Berni, Al cardinale de’ Medici (Rime lvii) 78 («e dirò molto e pur sarà niente») e Mauro, Fava i (Terze rime iii) 235 («Parmi aver detto poco, et scritto assai»). ~ mestier santo: cfr. v. 31 e nota.
160. E or… gambetta: sono i movimenti compiuti dalla donna durante il rapporto sessuale. Per gambetta cfr. Piva 121-123: «e quand’io veggio far atti di schiena | giovani o donne, e giocar di gam betta | sotto ’l suon d’una piva grossa e piena».
Poi quando l’opra è presso che compiuta, acciò che ’l forno non si raffreddassi, grida a tutta la casa: «aiuta, aiuta!». 156
tavole e indici
Sonetti
ABA BCB CDC DED … YZY Z i, ii, iii, iv, v
ABBA ABBA CDC DCD vi
Rime
Rime piacevoli
tavole metriche
ABBAABBA, CDCDCD xii, xv, xix, xx, xxvi, xxxiv, xxxix, l, li, liv, lvii, lix, lx , 69, 78
Capitoli ternari
ABBAABBA, CDECDE i, ix, x, xvi, xxi, xxii, xxvii, xxxviii, xlii, xliii, xliv, lii, lv, 70, 71, 73, 74, 75, 76, 77
ABBA ABBA CDC DCD dEE i, i bis, i ter ABBA ABBA CDC DCD dEE eFF fGG gHH hII iJJ iii, iv
Sonetti caudati
ABBAABBA, CDEDCE
ABBA ABBA CDE CDE viii, viii bis
Sonetti
Capitoli
xiii, xiv, xxviii, xxix, xxx, xxxi, xxxvii, xli, xlix, lxiii, 66, 68
ABABABCC ii, v, vii
Ottave
Trimetri giambici I, iv; II, i, xiv Epodi piziambici I, v
CDECED
ii, vi, xi, xvii, xxiii, xlviii, liii, lxiv, 79 ABBAABBA, CDEDEC v, vii, xxv, xxxiii, xxxv ABBAABBA, CDEEDC lviii, lxii, 65, 67 ABBAABBA, CDEECD iii, iv ABABABAB, CDECDE xviii ABABABAB, CDEEDC xxiv ABABABAB, CDEECD xl ABABBABA, CDCDCD viii ABABBABA, CDCCDC xxxvi ABABBABA, CDEDEC lvi
BAC; CDEDFFegGHH xlvii VWVXXwyYZZ
Canzoni ABC, BAC; CDdEE xxxii ABC,YyZZ
Sestina A (oro) B (guerra) C (esca) lxi D (querce) E (cibo) F (anni) [E]A [D]C [F]B
I, i, xiv, xv, xvi; II, iii, iv, xiii, xv Esametri I, ii, iii; II, vi, ix, x, xii, xvi
ACB; BdDBdEEFF xlv WxXWxYYZZ (come la sirma)
AbCC, AcBB; CdEdE xlvi ABC,yZyZ
Metro asclepiadeo II I, vi, ix; II, viii
Madrigale AbAbcbAddCC 72 DisticiCarminaelegiaci
tavole e indici
ABBAABBA,634
Metro asclepiadeo III I, vii Asclepiadei minori I, viii Endecasillabi faleci I, x
Asclepiadei maggiori I, xiii Sistema di gliconei II, ii
metriche 635
Epodi giambici II, v Metro saffico II, xi
tavole
I, xi, xii; II, vii
Metro alcaico
Rime piacevoli
S’io avessi manco quindici o vent’anni 67 S’io mi levassi un’ora innanzi giorno 39 Tutte l’infirmità d’un ospitale 74 Tutti i poeti e tutte le persone 85
indice dei capoversi
IoCapitolistettigià per creder che ’l popone 56
Caro, s’in terren vostro alligna amore 140 Casa, e chi svelle Amor ch’in fertil core (Annibal Caro) 142 Chi trovò le partenze e l’andar via 117 Ecco Signora un uom di cera armato 131 Febo s’adira, e non s’adira a torto 126 Nascesti nel contado di Vicenza 134 Non lasciate ir quel baccellon nell’orto 122 Pandolfo impastato è di cacio fresco 137 Rodavi pur l’invidia fin all’ossa (Antonio Bernardi?) 114 S’in vece di medolla piene l’ossa 111 Voi che tagliate in ponta di coltello (Antonio Bernardi?) 114
AffligerRime chi per voi la vita piagne 192
Mendico e nudo piango, e de’ miei danni 381 Mentre fra valli paludose ed ime 258 Né l’alba mai, poi che ’l suo strazio rio 421 Nel duro assalto, ove feroce e franco 200 Né quale ingegno è ’n voi colto e ferace 246
Il tuo candido fil tosto le amare 217 Io, che l’età solea viver nel fango 230 Io mi vivea d’amara gioia e bene 201
Ben foste voi per l’armi e ’l foco elette 239 Ben mi scorgea quel dì crudele stella 311 Ben veggo io, Tiziano, in forme nove 285 Cangiai con mio gran duol contrada e parte 221 Certo ben son quei due begli occhi degni 264 Come fuggir per selva ombrosa e folta 335 Come splende valor, perch’uom no ’l fasci 356 Come vago augelletto fuggir sòle 308 Corregio, che per pro mai né per danno 394 Cura, che di timor ti nutri e cresci 205 Curi le paci sue chi vede Marte 361 Danno (né di tentarlo ho già baldanza) 208 Deh, avess’io così spedito stile 428
Di là dove per ostro e pompa ed oro 402 Disciogli e spezza omai l’amato e caro 446 Doglia, che vaga donna al cor n’apporte 389 Dolce umiltade e fatti egregi e magni 451 Dolci son le quadrella ond’Amor punge 211 Dopo sì lungo error, dopo le tante 433
tavole e indici
Errai gran tempo e, del camino incerto 345
Già lessi ed or conosco in me sí come 408 Già nel mio duol non pote Amor quetarmi 242 Già non potrete voi per fuggir lunge 314 Gioia e mercede, e non ira e tormento 261 Gli occhi sereni e ’l dolce sguardo onesto 198 Grave d’aspre e rie cure, in voce mesta 438
La bella greca, onde ’l pastor ideo 296 L’altero nido ov’io sì lieto albergo 292 Le bionde chiome ov’anco intrica e prende 272 Le braccia di pietà, ch’io veggio ancora 444 Le chiome d’or, ch’Amor solea mostrarmi 269
i’ piango, e ben fu rio destino 324 Amor, per lo tuo calle a morte vassi 195 Arsi, e non pur la verde stagion fresca 276
Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero 369 Forse però che respirar ne lice 426 Fuor di man di tiranno, a giusto regno 218
Amor,638
indice dei capoversi 639
AnteCarminaalias, quas Terra colit, quas alluit Aequor 582
Flaminii Manes, instar mihi Numinis Umbra 482
Nessun lieto già mai, né ’n sua ventura 251 Novo fattor di cose eterne e magne 441
Concinnum in auras luminis hominum malum 505 Cum cinctum nimbis, et nigra nube sedentem 556 Cum Mare nec fremitus edet, nec sibila venti 558
O dolce selva solitaria, amica 414 Ombra nemica che, qualor mi scorgi 449 Or piagni in negra vesta, orba e dolente 299 Or pompa ed ostro ed or fontana ed elce 385 O Sonno, o de la queta, umida, ombrosa 378
Dum Venus et Veneri positis Mars gratior armis 623 Ex animo, Galataee, tuis, suavissime, chartis 597 Expers consilii, quae pede lubrico 525
Poco il mondo già mai t’infuse o tinse 359 Poi ch’ogni esperta, ogni spedita mano 188 Posso ripor l’adunca falce omai 434
Quella che del mio mal cura non prende 224 Quella che, lieta del mortal mio duolo, 320 Quel vago prigioniero peregrino 305 Questa vita mortal, che ’n una o ’n due 417 Sagge, soavi, angeliche parole 214 Se ben, pungendo, ognor vipere ardenti 430 S’egli averrà che quel ch’io scrivo o detto 398 Sì cocente penser nel cor mi siede 190 Signor mio caro, il mondo avaro e stolto 392 Sì liet’avess’io l’alma e d’ogni parte 365 S’io vissi cieco e grave fallo indegno 233 Soccorri, Amor, al mio novo periglio 266 Solea per boschi il dì fontana o speco 255 Son queste, Amor, le vaghe trecce bionde 288 Sotto ’l gran fascio de’ miei primi danni 248 Sperando, Amor, da te salute in vano 236 Stolto mio core, ove sì lieto vai? 436 Struggi la terra tua gentile e pia 423 Tempo ben fôra omai, stolto mio core 227 Tosto che dal suo albergo il dì vien fore 452 Vago augelletto da le verdi piume 302 Varchi, Ippocrene il nobil cigno alberga 374 Vivo mio scoglio e selce alpestra e dura 317
Ut capta rediens Helene cum coniuge Troia 487 Vernantem errabat mea Thespia comta per hortum 617
tavole e indici
Mentem blandiciae perdere credulam 521 Multa tui a se viventi tibi debita cives 572
Non marmor Parium, non ebur Indicum 591
mos, ut atris saepe coloribus 540
Ne tu immerentes, ne muliebribus 587 Nobis, Calliope, magnum alienum aes superest vetus 549
Heu640
Quid facis, o coniux? num dormis? Surge, marite 627 Quintia Romanae mulier bene cognita plebi 574 Quo tollor pavidus? quo feror insolens? 529 Quod vos apud, Germaniae humanissima 562
Humani vim, Bembe pater, miramur et artem 609 Humida Tyrrheni fugientem flamina venti 508
O Iovis Magni soboles decusque 604
O cadavere tabido 568
Si quis, Olimpiacae miratus dona palestrae 600 Si te cura vigil Sophiae delectat, et acre 496 Sunt qui versiculo minutiore 537
O quae terrificos vicina e turre cietis 553
Tam caro capiti iam nimium diu 513 Te flebimus, flos Hesperiae puer 545 Tyranne saeve, proditor nequissime 620
Plaude, Anime, Domino. Quam Tua est, Deus meus 577
studi e testi
Cristoforo Fiorentino detto l’Altissimo, Il primo libro de’ Reali, vol. II, canta ri 55-94, a cura di Luca Degl’Innocenti, pp. vi+422, 2020.
10. Giovanni Della Casa, Scritti biografici e polemici. Petri Bembi vita. Gasparis Contareni vita. Dissertatio adversus Petrum Paulum Vergerium, a cura di Luca Beltrami, Quinto Ma rini, Gabriella Moretti, pp. xliv-324, 2020.
4. Federico Di Santo, Il poema epico rinascimentale e l’«Iliade»: da Trissino a Tasso, pp. 356, 2018.
2. Lo schermo di carta. Pagine letterarie e giornalistiche sul cinema (1905-1924), a cura di Irene Gambacorti, pp. xxiv+428, 2017.
7. L’ultimo Umberto Saba: poesie e prose, a cura di Jacopo Galavotti, Antonio Girardi, Ar naldo Soldani, pp. x+154, 2019.
1. Quaderno gozzaniano, a cura di Franco Contorbia, pp. 140, 2017.
3. Marino Biondi, L’antico e noi. Studi su Manara Valgimigli e il classico nel moderno, pp. 284, 2017.
collana diretta da Simone Magherini, Anna Nozzoli, Gino Tellini
11. Vittoria Colonna, La raccolta di rime per Michelangelo, edizione e commento a cura di Veronica Copello, pp. lii-300, 2020.
12. Giovanni Della Casa, Poesie italiane e latine. Capitoli. Rime piacevoli. Rime. Carmina, a cura di Marco Leone, Quinto Marini, Matteo Navone, Massimo Scorsone, pp. liv-662, 2022.
8. Interviste a Eugenio Montale (1931-1981), a cura di Francesca Castellano, 2 voll., xlviii-1124, 2019.
6. Paola Luciani, Letteratura e scienza. Studi su Francesco De Sanctis, pp. x+70, 2019.
9. Cristoforo Fiorentino detto l’Altissimo, Il primo libro de’ Reali, vol. I, canta ri 1-54, a cura di Luca Degl’Innocenti, pp. lx+416, 2019.
5. Giovanni Faldella , Ammaestramenti dei Moderni, a cura di Francesca Castellano, pp. xxxiv+110, 2018.