Donne del Mediterraneo

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Donne del Mediterraneo

arlare delle donne, per un uomo, vuol dire parlare dell’Altro: in un’epoca dove il maschile prende coscienza di non saperle più rappresentare o volutamente le distorce e le camuffa, in un’epoca storica in cui la voce delle donne assume sempre più autorevolezza, è necessario chiedersi del femminile interrogandosi a tutto tondo. E se storicamente la voce delle donne è sempre voce ‘incarnata’, nel Mediterraneo, che è frontiera in transito, quella voce ha significato anche inquietudine, tentazione e perfino silenzio stesso: quali cambiamenti ha portato la contemporaneità all’identità del femminile? Questi cambiamenti sono trasversali lungo le sponde del mare Nostrum? Non è il mero diritto alla parità di genere a imporre oggi l’ascolto del femminile, ma una intrinseca necessità epistemologica perché, a conti fatti, è donna l’anima stessa del Mediterraneo.

a cura di Marco Marino, Giovanni Spani

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Saggi interdisciplinari

a cura di Marco Marino, Giovanni Spani

Marco Marino è direttore accademico presso il Sant’Anna Institute di Sorrento. Laureato in Relazioni Internazionali a Napoli, ha poi conseguito un Master in Mediazione Linguistica e ha svolto studi dottorali nel Regno Unito in storia diplomatica. I suoi settori di studio includono la storia politica, la linguistica comparata e la comunicazione interculturale connessa agli study abroad programs. Giovanni Spani è professore associato di Letteratura Italiana al College of the Holy Cross (Massachusetts). Ha conseguito un dottorato in letteratura italiana presso la Indiana University (Bloomington, USA). Negli Stati Uniti ha insegnato al Trinity College, Middlebury College e Bowdoin College. Si occupa di letteratura medievale, di storia della storiografia, di filologia digitale e materiale e di storia della medicina.

e 16,00

Donne del Mediterraneo

studi 24



Donne del Mediterraneo Saggi interdisciplinari a cura di

Marco Marino Giovanni Spani prefazione di

Barbara Zecchi

SocietĂ

Editrice Fiorentina


curatori del volume Marco Marino, Sant’Anna Institute Giovanni Spani, College of the Holy Cross comitato editoriale Nicholas Albanese, Christian Texas University Luca Barattoni, Clemson University Giovanna Bellesia, Smith College Richard Bonanno, Assumption College Anna Botta, Smith College Andrea Celli, University of Connecticut Marianna D’Ezio, Università degli Studi Internazionali di Roma Lucia Ducci, College of the Holy Cross Helen Freear Papio, College of the Holy Cross Dolores Juan Moreno, Clark University Gregory M. Pell, Hofstra University Andrea Pera, Università di Genova Paolo Pucci, University of Vermont Elizabeth Scheiber, Rider University Eduardo Urios-Aparisi, University of Connecticut Simona Wright, The College of New Jersey I saggi pubblicati nel presente volume sono sottoposti a un processo di peer review che ne attesta la validità scientifica

© 2017 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-413-9 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


Indice

7 Ringraziamenti 9 Prefazione. Le sirene nella semiperiferia mediterranea di Barbara Zecchi 21 La «donna nuova»: verso la costruzione di un modello femminile moderno ed emancipato Federica Maveri 29 Il Concilio Vaticano II e le donne: questione di stile Maria Bianco 39

Antiche e nuove virtù femminili nell’epigramma cristiano greco dell’Asia Minore Alice Franceschini

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Mitografia femminile nel Mediterraneo veneziano: Anna Erizzo come santa Caterina d’Alessandria Luigi Robuschi

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Sévigné y la configuración del deseo Elisabet Pallàs

73

Zitelle o signorine. Restare sole nell’Ottocento Monica Miscali

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A tu per tu con le donne: femminismo ed emancipazione negli scritti giornalistici e letterari di Gianna Manzini Sarah Sivieri

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Una donna in guerra: l’agente segreto Luisa Zeni Nunzia Soglia


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Mediterranean Female Immigrants Face the Ballot Box in the United States: Italian-American Women and the 19th Amendment Stefano Luconi

113 La visionarietà della parola: referenzialità in Istanbul. Il doppio viaggio di Adele Cambria Ellen Patat 123 Leïla Sebbar e la lingua perduta dell’esilio Lorella Martinelli

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Note biografiche


Ringraziamenti

Questo volume è stato composto e pubblicato grazie al sostegno di molti amici e colleghi. Ringraziamenti particolari vanno a e Domenico Palumbo per il validissimo contributo in fase di impostazione e assistenza editoriale; a Barbara Zecchi per la prefazione che ha impreziosito l’opera. Si ringraziano inoltre per il contributo alla realizzazione del volume Dolores Juan Moreno, Mara Carella, Eleonora Fantoni e Ezequiel Martin Durand. Una menzione speciale va infine rivolta a Cristiana Panicco, Presidente del Sant’Anna Institute, grazie alla cui disponibilità è stato possibile organizzare il convegno “Women of the Mediterranean”, presso la sede dell’Istituto in Sorrento (12-13 giugno 2015), evento dal quale il presente volume ha preso le mosse.



Prefazione. Le sirene nella semiperiferia mediterranea

Sorrento e le sirene «Las sirenas convencen, pero no sugestionan» (Federico García Lorca, Oda a Salvador Dalí)

Non si sarebbe potuto scegliere un posto migliore di Sorrento, la culla delle sirene per antonomasia, per un convegno di studi sulle donne del Mediterraneo. Le sirene, prototipo della femme fatale, incarnano i timori dell’uomo verso il soggetto femminile e verso la sua forza, la forza del sesso “debole” o, piuttosto, del sesso che è stato sistematicamente indebolito e depotenziato dalla violenza patriarcale. Le sirene sono simbolo dell’indipendenza e della solidarietà femminili. Hanno voce per cantare e ali per volare. E sono sapienti. In Omero gli uomini venivano sedotti non tanto dal loro canto ma da ciò che il loro canto raccontava1: le sirene seducevano perché offrivano conoscenza2. E in Ovidio, le sirene volavano: alla ricerca di Persefone, chiesero aiuto agli dèi e ottennero ali per il loro gesto di solidarietà verso l’amica vittima di un ratto: «perché il mare sentisse la vostra pena / di potervi fermare sulle onde col remeggio delle ali, / e avendo il consenso degli dèi, avete visto / improvvisamente i vostri arti fiorire di penne» (Metamorfosi, V, vv. 558-560). Le sirene omeriche e ovidiane hanno voce, “agency”3 e sapienza. 1 A. Cavarero, A più voci: Filosofia dell’espressione vocale, Milano, Feltrinelli, 2003; A. Tarabochia Canavero, Sirene, un canto per l’anima, in I Greci. Il sacro e il quotidiano, a cura di M. Antico Gallina, Milano, Silvana Editoriale, 2004. 2 Come spiega Tarabochia, «La bella voce è solo l’involucro della vera tentazione delle sirene omeriche: ‘sapere più cose’. È la tentazione ‘originaria’ dell’onniscienza. Cedere a questa tentazione, assecondare, in modo assoluto, questo desiderio porta a rompere i legami familiari, a perdere la dimensione sociale e civile, a morire. Per questo Omero le condanna. Per questo l’eroe deve fuggirle, non deve interrompere il suo nóstos», in I Greci. Il sacro e il quotidiano, cit., p. 134. 3 J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, New York-London, Routledge, 2007.


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Ma in tradizioni anteriori e posteriori, le sirene cantano senza raccontare nulla e perdono le ali, non potendo così più volare. Il loro canto si trasforma in un’articolazione indistinta, i loro arti pennuti vengono rinchiusi in una coda squamata e della loro potenza rimangono solo la crudeltà, la minacciante bellezza e il corpo seducente. Come le sirene, le donne, quelle vere, i soggetti storici femminili autentici, adoperano una lingua spesso incomprensibile per il discorso egemonico e, rinchiuse nella sfera privata, schiacciate da tetti di cristallo, non possono volare. Le donne vengono silenziate e imparano a silenziare se stesse: sono eliminate dalla Storia, cancellate dai canoni letterari e artistici, educate alla paura di parlare, a non essere ascoltate, all’ansia dell’autorialità. Dove risiedono i desideri, i bisogni, l’esperienza delle donne vere? Chi dà retta ai loro “no”? Chi capisce le loro storie, i loro canti, i loro silenzi, la loro lingua?4 Il silenzio, come Audre Lorde ci ha insegnato, non ci protegge5. Nella letteratura, le creazioni femminili firmate dagli uomini – dalla “donna angelicata” della tradizione stilnovista, alla “perfecta casada” del Siglo de oro spagnolo, all’“angel of the heart” del romanticismo britannico –, vengono condannate al silenzio. Se nel Rinascimento non potevano parlare perché non avevano nulla da dire, nell’Ottocento, come nel Dolce Stil Nuovo, dovevano tacere per comportarsi con modestia e abnegazione. Le rappresentazioni egemoniche uniformano e universalizzano le donne (soggetti storici con le loro differenze) in una sola Donna (un eterno femminile senza soggettività, né differenze) prodotto della violenza della rappresentazione: la Donna “viene scritta”, reificata, ridotta a stereotipo (la buona, la cattiva, la vamp), a significante senza significato. Nel cinema, spiega Kaja Silverman6, le bande sonore relegano sistematicamente le donne ai loro corpi per mezzo di un’insistente sincronizzazione: la voce femminile è sempre legata a un corpo, “incarnata”. Il voice-over onnisciente e “disincarnato” corrisponde invece essenzialmente a una soggettività maschile. Così il cinema depotenzia la donna della sua autorità linguistica, l’autorità della voce che avvolge il neonato ancora immerso nel liquido amniotico prima della sua nascita. L’infante riconosce la voce della madre (un suono evidentemente senza corpo) prima di altri suoni e prima ancora di riconoscere la madre; e, dopo la nascita, la stessa voce ha un ruolo fondamentale nella sua crescita: è la lingua che lo accompagna per sostenerlo o per rimproverarlo. Il 4 Studi del Scan Lab e del dipartimento di radiologia dell’Università di Sheffield hanno attestato che la voce femminile, per sua complessa gamma di frequenze, stanca il cervello dell’uomo; D. Sokhia, M. D. Huntera (et al.), Male and Female Voices Activate Distinct Regions in the Male Brain, in «NeuroImage», 27, 3 (2005), pp. 572-578. 5 «I have come to believe over and over again that what is most important to me must be spoken, made verbal and shared, even at the risk of having it bruised or misunderstood. That the speaking profits me, beyond any other effect. […] My silences had not protected me. Your silence will not protect you», A. Lorde, The Transformation of Silence into Language and Action, in Sister Outsider: Essays and Speeches by Audre Lorde, Freedom, California, Crossing, 1984, p. 40. 6 K. Silverman, The Acoustic Mirror. The Female Voice in Psychoanalysis and Cinema, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 1988.


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discorso filmico egemonico, invece, inverte questo rapporto di potere della voce della madre con il figlio e, secondo Silverman, nel renderla priva di competenze linguistiche le assegna il ruolo del bebè. Le sirene, ci ricorda Cavarero, sono circondate dall’acqua: «è probabile che il liquido amniotico abbia imposto la sua inevitabile icona femminile alle leggi androcentriche dell’immaginario»7. Ma anche se sono senza voce, in realtà, le donne autentiche (soggetti storici che si differenziano dalle donne costruzioni patriarcali, come ho puntualizzato in precedenza) non sono mai state zitte. Parlano la lingua del subordinato. E qui è inevitabile pensare alla langue-lait di Cixous8, al linguaggio semiotico di Kristeva9, alla lingua della nutrice di Rasy10, alla risata di Daly11 (diverse metafore della lingua di chi non può parlare) e alla necessità del subalterno d’imparare la lingua del potere (vid. «Calibán» di Fernández Retamar, 1989). Per Sheila Rowbotham12, i pettegolezzi, le risatine e i racconti delle vecchie comari sono forme d’interventi tradizionalmente associati alle donne che spesso sono visti come un segno di inferiorità femminile. Tuttavia, secondo Rowbotham, si tratta d’importanti forme di percezione e di descrizione che stabiliscono una relazione tra esperienza e teoria. Per Elisabetta Rasy, queste forme di comunicazione sono sfoghi femminili subordinati, con due compiti principali: «dar voce, più che parola, al rimosso (in modo tale da garantirsi una sopravvivenza fantasmatica); e ricondurre l’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, reintegrare nel formato di un sentimento domestico, far vivere all’interno del recinto ogni evento o azione»13. In ogni caso, dal punto di vista femminile, queste forme di comunicazione incomprensibili o irrilevanti per lo status quo egemonico, sono perfettamente accessibili. È ormai da trent’anni che la teoria femminista esorta le donne a parlare la propria lingua: la filosofa francese Hélène Cixous, nel suo famoso manifesto-saggio della “scrittura femminile”, Le rire de la Médusa (1975), per mezzo di una metafora che ci fa ricordare il volo delle sirene, spinge le donne a voler, verbo francese che significa “volare” ma anche “rubare”. Le donne devono rubare la vecchia lingua maschile e con essa volare: scappare dalla prigionia fallologocentrica, scrivere il/del proprio corpo e ridere della serietà patriarcale. La donna che scrive deride “le verità” dell’uomo e decostruisce le rappresentazioni (patriarcali) della donna rivelando così che in realtà essa non è né cattiva, né misteriosa, né minacciosa. Come la Medusa, basta guardarla in faccia per vederla: «et elle n’est pas mortelle. Elle est belle et elle rit»14; e riguar A. Cavarero, A più voci: Filosofia dell’espressione vocale, cit., p. 121. H. Cixous, Le rire de la Méduse, in «L’Arc», 61, 1975, pp. 39-54. 9 J. Kristeva, Le Temps des femmes, http://www.debatefeminista.pueg.unam.mx/wp-content/ uploads/2016/03/articulos/011_19.pdf 10 E. Rasy, La lingua della nutrice. Percorsi e tracce dell’espressione femminile con una introduzione di Julia Kristeva, Roma, Edizione delle donne, 1978. 11 M. Daly, Gyn/ecology: the Metaethics of Radical Feminism, Boston, Beacon Press, 1990. 12 S. Rowbotham, Dreams and Dilemma, London, Virago, 1983. 13 E. Rasy, La lingua della nutrice, cit., pp. 65-67. 14 H. Cixous, Le rire de la Méduse, cit., p. 47. 7 8


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do all’innocuità delle sirene, Lorca era della stessa opinione: «las sirenas convencen, pero no sugestionan»15. Il sorriso della Medusa ci riconduce alla risata delle donne. È intorno agli anni ’70, che il femminismo si serve della risata come “trasgressione massima” in un atto d’insubordinazione che l’uomo non sa come fermare16. Per Mary Daly non c’è nulla di più sovversivo del «suono delle donne che ridono davvero […] Un ruggire che si oppone al patriarcato»17. La voce della donna quindi è sempre esistita come voce sommersa e si è sempre fatta sentire – in forma di canto, risata, chiacchiera, ecc… – affacciandosi dalle crepe e dalle fessure del discorso egemonico attraverso un metaforico fuori campo, come direbbe Teresa de Lauretis18, dello status quo patriarcale. Da lì, da questi squarci e da queste aperture, è possibile osservare e ascoltare figure come le sirene omeriche e ovidiane. Il dipinto di René Magritte “Le poisson (ou l’invention collective)” (1935) rappresenta una sirena alla deriva in una spiaggia. Il suo corpo esanime inverte l’iconografia tradizionale della rappresentazione delle sirene: ha la testa e il busto di pesce e dal bacino in giù un corpo femminile19. Si tratta della perfetta raffigurazione della decostruzione patriarcale della donna-sirena: muta come un pesce e con le cosce e il pube esposti. Magritte riporta quindi, attraverso un gesto straniante, la creazione omerica all’immaginario patriarcale, dagli interstizi del fuori campo al centro. Così deve essere la donna: muta, nuda, inerte, oggetto sessuale subordinato e sempre a disposizione del desiderio maschile. L’invenzione collettiva a cui fa riferimento Magritte corrisponde fortemente alla integrale soppressione della potenza della donna, alla sua sconfitta, alla sua domesticazione e infine al suo silenzio: vanamente Federico García Lorca ci aveva rassicurati sull’innocuità delle sirene20. Il Mediterraneo e la semiperiferia «Marineros que ignoran el vino y la penumbra decapitan sirenas en los mares de plomo». (Lorca, Oda a Salvador Dalí)

Nell’Atlas of the European Novel, Franco Moretti divide l’Europa in tre zone spazio-temporali: il “centro” (core), una zona precoce, versatile e spazialmente F. García Lorca, Oda a Salvador Dalí, in Obras completas, Madrid, Aguilar, 1968, p. 619. C. Lonzi, Armande sono io!, Milano, Scritti di Rivolta Femminile, 1976. M. Daly, Gyn/ecology, cit., p. 17. 18 T. de Lauretis, Technologies of Gender. Essays on Theory, Film, and Fiction, BloomingtonIndianapolis, Indiana University Press, 1987. 19 È una posa che sovrappone immagini tristemente attuali; da una parte il pesce alla deriva, vittima dell’inquinamento; dall’altra parte una naufraga, morta, vittima dei traffici migratori. 20 In questi versi, che appartengono all’ultima parte dell’Oda a Salvador Dalí, Lorca riassume l’estetica dell’amico, «de lo que me dicen tu persona y tus cuadros» in C. Castro Lee, La ‘Oda a Salvador Dalí’: significación y trascendencia en la vida y creación de Lorca y Dalí, in «Anales de la literatura española contemporánea», 11, 1/2 (1986), pp. 61-78: 64. 15

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ridotta; la “periferia”, una zona più ampia, con poca libertà e poca creatività, e la “semiperiferia”: «a hybrid cluster combining features of both. […] An area of transition, of combined development: of decline out of the core […]; or conversely […], of ascent from the periphery into the core»21. Mi soffermo sulla definizione di Moretti di “semiperiferia” perché si tratta di un concetto particolarmente utile per parlare della dimensione geosimbolica del Mediterraneo e applicarla a questioni di genere22: il suo bacino è un «pluriverso»23, incontro e scontro di culture in apogeo e decadenza, di imperi in ascesa e in declino, di grandi ricchezze e di grandi miserie, di risorse naturali e culturali, di guerre e di distruzioni, di libertà e di repressioni, di transiti e transizioni e di frontiere e proibizioni. È anche il luogo degli stereotipi: Michael Herzfel24, riprendendo Said25, denuncia le rappresentazioni egemoniche “orientaliste” che costruiscono le raffigurazioni del Mediterraneo – da un’ottica imperialista – come culla dell’onore, del machismo, delle mafie, del turismo, ecc… Herzfeld parla di “mediterraneismo”. In quanto semi-periferia geografica, il Mediterraneo è uno spazio liminale di passaggio e di movimento. L’immaginario collettivo lo rappresenta solcato da imbarcazioni mitologiche e reali. Le triremi fenicie, l’Argo di Giasone, la nave di Ulisse, i vascelli dei pirati, le galee delle repubbliche marinare fino alle imbarcazioni da crociera, le zattere di immigranti e profughi e le navi pattuglia dell’operazione Mare Nostrum (che divide il mare tra nostro e non nostro). Non deve stupire che la prima accezione del termine Mediterraneo in Wikipedia renda evidente (depurata da riferimenti scomodi) la sua funzione di arteria di transizione: «central superhighway of transport, trade and cultural exchange between diverse peoples – encompassing three continents». In quanto autostrada, il Mediterraneo entrerebbe a far parte degli spazi “supermoderni” che Marc Augé26 definisce non-lieux se non fosse per un elemento fondamentale. I non-lieux si caratterizzano per la loro assenza di riferimenti storici, sociali e personali. Di conseguenza, come suggerisce Paul Lyons, «supermodernity may suggest a utopian quality of ‘non places’ within which categories like race/ gender/queerness no longer carry predetermined significances»27. Ma nel Me F. Moretti, Atlas of the European Novel 1800-1900, Londra-New York, Verso, 1999, p. 173. Per Francesca Saffioti «la dimensione geosimbolica si nutre della sintesi inscindibile fra le caratteristiche qualitative di ciascun luogo e la sua costruzione culturale; ecco perché riesce ad unire insieme la dimensione geografica, che non è la natura (oggettiva), e la dimensione simbolica, che non è il sentimento (soggettivo) […]. Si tratta di sperimentare precisamente la situazione contraria. Fare uscire il sé dall’interiorità e comprendere che esso può darsi solo in uno spazio e in un tempo definiti», F. Saffioti, Il ‘Sud’ come frontiera geosimbolica, in «California Studies Journal», 1 (2010), pp. 1-13: 4. 23 F. Cassano, Sapere di Confine. La Frontiera come luogo Epistemologicamente più Alto, in «Pluriverso», 1 (1997), pp. 43-51. 24 M. Herzfeld, Practical Mediterraneism: Excuses for Everything, from Epistemology to Eating, in W.V. Harris (Ed.), Rethinking the Mediterranean, New York, Oxford University Press, 2005, pp. 45-63. 25 E. Said, Orientalism. New York, Vintage, 1979. 26 M. Augé, Marc Augé, Non-lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité, Seuil, La Librairie du XXe siècle, 1992. 27 P. Lyons, Larry Brown’s Joe and the Uses and Abuses of the ‘Region’ Concept, in S. Whitmore 21

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diterraneo queste categorie non scompaiono. Sono, infatti, segni identitari fondamentali e predeterminati, che distinguono con chiarezza il flaneur dal migrante, il turista dal profugo, il mercante dai trafficanti di persone, Ulisse dalle sirene e gli uomini dalle donne. Il Mediterraneo non è un “non luogo”. Si tratta di uno spazio delimitato, chiuso, liquido, come il liquido amniotico: è – per ritornare alle metafore di Silverman e de Lauretis – il fuori campo dell’impero. Per Massimo Cacciari28 le coste mediterranee hanno limitato i desideri d’espansione e contenuto la potenziale hybris dell’uomo (Cacciari non parla delle donne). È solo l’Ulisse di Dante che cerca di superare i limiti e per questa sua tracotanza verrà poi punito. Per Cacciari il Mediterraneo costituisce il retaggio patrimoniale, la matrix, le radici, dell’Europa moderna. Per Cassano, invece, l’Europa diviene potenza quando smette di specchiarsi nelle acque del suo sud e si fa atlantica: il Mediterraneo è l’altro dell’Europa moderna. Ma tanto per Cacciari quanto per Cassano l’alterità è necessaria e inseparabile dalla sua propria identità. Da qui il concetto di semiperiferia. Balibar, facendo riferimento a Edward Said, afferma che non si tratta più di centro e periferia, ma di una «series of assembled peripheries»29: in altre parole, di una semiperiferia. Il Mare Nostrum è solcato da frontiere in transito, è una frontiera (un borderland, direbbe Balibar) in continuo movimento: nelle sue acque si sono tracciati i limiti e i confini di innumerevoli territori, imperi e colonie. In epoca moderna ha segnato la divisione tra Alleati e Asse e tra paesi membri e non membri della NATO. Con il trattato di Maastricht e la vittoria delle politiche neoliberali, il processo di unificazione europea ha eliminato le frontiere interne ma ha acutizzato una nuova divisione tra chi appartiene all’Unione (i cittadini della “fortress Europe” di Balibar) e chi invece non vi appartiene: tra europei ed extra-comunitari. Tuttavia per Franco Cassano, le frontiere del Mediterraneo sono limen, frontiere porose: «frontiera, confine, limite, bordo, margine sono anche l’insieme dei punti che si hanno in comune. Con un altro paese si ha la stessa frontiera perché la linea di divisione è anche il tratto in comune che si ha con esso, il luogo dei punti in cui ci si tocca»30. Le sue acque formano un mesogaios: l’altro non è mai troppo lontano dall’io, l’alterità è limitrofa alla soggettività. A pensarla così è anche lo stesso Cacciari: «È proprio affermando la mia differenza con l’altro, la mia singolarità, che io sono con lui […]. L’altro diviene l’inseparabile cum»31. A questo proposito è doveroso pensare all’ibridismo teorizzato da Bhabha che questiona e rivisita «those nationalist or ‘nati­ vist’ pedagogies that set up the relation of Third World and First World in a Jones, S. Monteith (Eds.), South to a New Place: Region, Literature, Culture, Baton Rouge, Louisiana State University Press, 2002, p. 115. 28 M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 2003. 29 E. Balibar, We the People of Europe? Reflections on Transnational Citizenship, Princeton, Princeton University Press, 2004, p. 14. 30 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 53. 31 M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, cit., p. 25.


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binary structure of opposition»32, ma anche alle proposte dei suoi critici, come Young33 o Moore-Gilbert, dato che la situazione del soggetto manifesta, già di per sé, contraddizioni interne e storie differenziate, come per esempio «the parallel processes of the Othering of women»34. Come il “tempo delle donne” di Kristeva35 – incontro tra il tempo teleologico e lineare della storia maschile con il tempo ciclico e monumentale femminile – l’“ibridismo” di Bhabha36 si fonda sulla intersezione e sulla dislocazione di sfere differenti. Questo “terzo spazio”, “the time of the nation”, ispirato al “women’s time” kristeviano, è il risultato della negoziazione tra sfere di valori culturali differenti, in un’esperienza collettiva di intersoggettività nazionale. Quindi, per questo motivo, la concettualizzazione dell’ibridismo è vincolata al femminile. Le sirene risiederebbero simbolicamente in questo terzo spazio. Per Cavarero, infatti, «l’episodio delle Sirene consegna il canto femminile al sillabario occidentale delle grandi inquietudini. Che si tratti di un canto femminile è certo. Per questo inquieta di massimo grado. Inquieta però in modo curioso, rispetto agli stereotipi di genere elaborati dalla tradizione occidentale. Omero vuole infatti onniscienti le mostruose cantatrici […]. Le vuole, in ultima analisi, come controfigura di sé stesso nel narrare cantando le storie di Troia»37. I contrasti che presenta il Mediterraneo si accentuano – e simultaneamente si cancellano – intorno alla situazione delle donne. Da una parte vigono le diverse politiche di genere presenti nei paesi del Mediterraneo (dal topless al velo, dal matrimonio gay alla repressione della omosessualità, ecc…) e che plasmano le donne come soggetti storici reali con le loro specificità e con le loro peculiarità. Dall’altra parte vi è il complicato rapporto tra «le donne e coloro che dalla prospettiva del soggetto maschile dividono con loro il posto dell’altro»38. In altre parole, in un sistema di relazioni di potere, l’opposizione dominante-dominato non si realizza semplicemente in senso binario, ma corrisponde a una rete complessa di opposizioni. Se le donne mediterranee incarnano la periferia della semiperiferia e soffrono la condizione di doppia emarginazione (per essere donne e per essere mediterranee) quando sono soggetti dell’enunciato sono in tensione tra due poli, ossia tra un discorso di universalizzazione e una presa di coscienza della differenza. È particolarmente utile a questo proposito parlare del caso della produ32 H.K. Bhabha, Frontlines/Borderposts, in A. Bammer (Ed.), Displacements: Cultural Identities in Question, Bloomington, Indiana University Press, 1994, pp. 269-272. 33 R. Young, White Mythologies: Writing History and the West, Londra-New York, Routledge, 1990. 34 B. Moore-Gilbert, Homi Bhabha, in A. Elliot, L. Ray (Eds.), Key Contempory Social Theorists, Londra-Oxford, Blackwell, 2003, p. 76. 35 J. Kristeva, Le Temps, cit. 36 H.K. Bhabha, Frontlines/Borderposts, cit. 37 A. Cavarero, A più voci, cit., p. 117. 38 S. Weigel, La voce della Medusa. Ovvero del doppio luogo e del doppio sguardo delle donne, in Donne e scrittura, a cura di D. Corona, Palermo, La Luna, 1990, p. 53.


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zione cinematografica femminile (il gynocine) dell’Europa mediterranea occidentale39. Nel caso per esempio della rappresentazione cinematografica dell’alterità delle registe dell’Europa mediterranea del nord-ovest, la produzione si evolve da un discorso omogeneizzante a una consapevolezza della differenza. Da un lato la figura e il problema dell’Altro (e specialmente dell’Altra) si usa per esporre un’esperienza che riguarda soprattutto la donna bianca mediterranea di classe media. La differenza etnica e razziale è quindi universalizzata e diluita e in gran parte ridotta a meri contenuti ludici: serve da pretesto per parlare della realtà delle donne europee (di razza bianca e classe media). Ci si potrebbe chiedere qui, tuttavia, se si tratta di una mera universalizzazione o se si può parlare piuttosto dell’“essenzialismo strategico” teorizzato da Spivak40. Dall’altro lato invece – e questo soprattutto a partire dagli ultimi anni – si profila un approccio diverso. A mano a mano che la donna europea di razza bianca di classe media è meno “alterità”, grazie anche al graduale progresso verso la parità e alla presa di coscienza di genere, la donna-altra si fa meno altra in una decostruzione dell’universalizzazione omogeneizzante. Questa nuova alterità rappresenta sia il risultato di una maggiore sensibilità verso la diversità sia una destabilizzazione41 della soggettività europea mediterranea. Le registe riescono a plasmare un discorso che si evolve verso l’articolazione di un tempo sessuato che trascende (come suggerisce Bhabha via Kristeva) la temporalità storica maschile delle identità di razza e di nazione. Il prodotto finale, nel corpus femminile cinematografico, è la rappresentazione di un Altro e di un io ibridi, secondo i parametri postulati da Bhabha, mettendo in risalto che la presenza dell’altro all’interno della struttura testuale del soggetto egemonico è evidenza della sua ambivalenza, un’ambivalenza che destabilizza l’autorità assoluta del soggetto egemonico e la sua incontrovertibile autenticità. In questo contesto, come anche menzionato nei versi di Federico García Lorca, mentre gli europei atlantici (che non conoscono né il vino né la penombra) «decapitano le sirene», gli esseri ibridi mediterranei vanno loro incontro per ascoltarle e, in ultima istanza – prendendo a prestito le parole di Cacciari citate precedentemente –, per divenire il loro inseparabile cum.

39 Sviluppo questo tema in B. Zecchi, Veinte años de inmigración en el imaginario fílmico español, in M. Iglesias Santos (Ed.), Imágenes del otro: Identidad e inmigración en la literatura y en el cine, Madrid, Biblioteca Nueva, 2010, pp. 157-184. Per il termine «gynocine» si veda B. Zecchi, Gynocine: Teoría de género, filmología y praxis cinematográfica, Zaragoza, Publicaciones Universidad de Zaragoza (PUZ), Colección Sagardiana, estudios feministas, 2013. 40 Con il suo «essenzialismo strategico» (termine che Spivak ha smesso di utilizzare per i malintesi che ne sono derivati), la teorica indiana proponeva una solidarietà tra diversi collettivi di pensiero (in particolare all’interno del femminismo), per superare strategicamente le differenze che portano alla disunione: da lì la necessità di una posizione temporalmente «essenzialista» che sottolineasse quello che c’è in comune nelle agende delle dispari posizioni dei gruppi subalterni, G.C. Spivak, Use and Abuse of Human Rights, in «Boundary 2: An International Journal of Literature and Culture», 32, 1 (2005), pp. 131-89. 41 H.K. Bhabha, Frontlines/Borderposts, cit.


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Donne e il Mediterraneo «Las sirenas […]/salen si mostramos un vaso de agua dulce» (Federico García Lorca, Oda a Salvador Dalí)

L’insieme dei saggi raccolti in questo volume è il risultato di un progetto che prende il nome di Women of the Mediterranean e che è culminato con il primo convegno internazionale celebrato a Sorrento nel giugno 2015. Le aule del Sant’Anna Institute si sono trasformate in uno spazio liminale d’incontro tra partecipanti che provenivano da diversi paesi mediterranei (Italia, Spagna, Francia, Turchia, Libano e Israele) e non mediterranei (Australia, Sudafrica e America del Nord), docenti e studiosi di alcune tra le più prestigiose università e istituzioni operanti in Europa, Africa, Medio Oriente e Stati Uniti. L’uso di diverse lingue – italiano, spagnolo, inglese e francese – non ha costituito un ostacolo né per la comprensione né per il dialogo e ha originato una koiné comparabile al concetto di “traduzione” – l’equivalente linguistico, secondo Balibar, della concezione spaziale della frontiera. Per Umberto Eco42 questa mescolanza linguistica costituisce la “lingua perfetta”, la lingua comune dell’Europa: per Zygmunt Bauman «far from being a peculiar pastime of a narrow set of specialists, ‘translation’ is woven into the texture of daily life and practised daily and hourly by all of us»43. Non sono mancate nemmeno le forti espressioni dell’(in)subordinazione femminile, i metaforici sfoghi della lingua femminile di cui si è parlato precedentemente: le risate del pubblico che schernivano la logica fallica del patriarcato, sistematicamente smascherata nelle presentazioni. Il proposito del Convegno era l’analisi del ruolo e della condizione delle donne nell’area Mediterranea, considerata nella sua globalità. Si è tentato di esplorare i modelli culturali che determinano effetti sui contesti socio-economici di quest’area geografica cercando di individuare, in tali sistemi, la presenza delle donne, in relazione alla costruzione della propria identità e al ruolo che esse generalmente ricoprono. In due giornate si è percorsa la traiettoria femminile nel Mediterraneo attraverso sei temi fondamentali: 1) La lingua (nelle sessioni “La parola è donna” e “Una voce per le donne”; 2) Le donne nella gestione economica; 3) La rappresentazione attuale femminile nella pubblicità e mass media (in “Donne e Globalizzazione”); 4) Le migrazioni femminili (“Donne e altrove”); 5) Le costruzioni culturali, generiche e identitarie e la soggettività femminile; 6) Le donne come soggetti storici; e 7) La rivincita femminile. Le donne del Mediterraneo sono diventate soggetto e oggetto di studio nella storia presente e passata, nella sfera pubblica e privata, nella letteratura, nel cinema, nella televisione, nella gastronomia e nell’economia. I capitoli che seguono queste pagine raccolgono un ristretto numero di U. Eco, La Ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Roma-Bari, Laterza, 1993. Z. Bauman, In Search of Politics, Cambridge UK, Polity Press, 1999, p. 201.

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saggi selezionati tra i migliori interventi del Convegno, che coprono un ampio panorama storico (dai primi secoli del cristianesimo fino ai giorni nostri) e geo­ grafico (dall’Asia Minore a Venezia, dalla Sardegna rurale a Istanbul, dalla Provenza alla Catalogna, dall’Algeria alla Francia, con un excursus sulle donne mediterranee negli Stati Uniti). In particolare, Alice Franceschini studia i modelli femminili negli epigrammi greci dell’Asia Minore (sec. I e II d.C.), che rivelano nuovi valori morali e culturali ignoti alla classicità (come per esempio la verginità e la carità); Luigi Robuschi chiarisce il mistero intorno a un’eroina che non è mai esistita, Anna Erizzo – una figura del Cinquecento veneziano, uccisa violentemente per aver resistito alle offerte del sultano turco Maometto II –, inventata per un’operazione di “marketing devozionale” della Repubblica veneziana e per attrarre le simpatie dei sudditi greci; Monica Miscali si sposta nelle zone rurali della Sardegna dell’Ottocento, per avvicinarsi alla situazione delle “zitelle” – donne che per la loro condizione di non sposate soffrono i pregiudizi e la repressione sociale; Federica Maveri parla dell’emancipazione femminile nell’Italia del Primo Novecento e delle forze che partecipano nella costruzione della “donna nuova”; Nunzia Soglia si centra sulla trentina Luisa Zena, che durante la Prima Guerra Mondiale svolse il ruolo tradizionalmente maschile di agente segreto. Stefano Luconi si occupa della situazione delle italiane negli Stati Uniti e dell’influenza della società patriarcale mediterranea nelle comunità italiane durante il movimento per il voto femminile. Maria Bianco indaga sulle ripercussioni del Concilio Vaticano II per le donne dell’universo religioso. Sarah Silveri osserva l’opera della scrittrice italiana Gianna Manzini (romanzi, articoli e annotazioni diaristiche) dal periodo post-bellico fino alla splendente epoca del movimento femminista negli anni ’70, in una “rivoluzione incompiuta”. Elisabet Pallàs analizza le ramificazioni della relazione di due donne nel film della regista catalana Marta Balletbò-Coll, che dialoga esplicitamente con il rapporto incestuoso tra madre e figlia nel ’600 provenzale. Ellen Patat studia la figura della viaggiatrice per mezzo del resoconto della giornalista femminista Adele Cambria a Istanbul in due occasioni (nel 1983 e nel 2011); e, per finire, Lorella Martinelli esamina l’opera narrativa dell’algerina Leïla Sebbar, concentrandosi in particolare sulla sua identità linguistica e sulla sua relazione con le lingue del padre (l’arabo) e della madre (il francese). Se negli ultimi anni sono fioriti importanti centri accademici di studi mediterranei in Europa e negli Stati Uniti, come il CEMS (Center for European and Mediterranean Studies) presso la New York University, il Mediterranean Studies Forum a Stanford, il McGhee Center for Eastern Mediterranean Studies presso la Georgetown University, il Center for Mediterranean Studies presso l’Unversità di California a Santa Cruz – solo per citare alcuni tra i più conosciuti – al contrario gli studi Mediterranei specificamente indirizzati a questioni di genere hanno ricevuto meno attenzione44. Con il presente volume 44 Molto attive sono invece le fondazioni, come il Mediterranean Women’s Fund, con la missione di dare appoggio tecnico ed economico alle donne dell’Algeria, Francia, Turchia, Marocco e


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si è colmato quindi un vuoto e si è aperto il dialogo sul futuro degli studi relativi a questo tema, mentre il Sant’Anna Institute di Sorrento ha praticato un varco nello status quo patriarcale, sullo sfondo azzurro del Mediterraneo. In questo spettacolare fuori campo, in giugno, appaiono le sirene. Come diceva Lorca, basta offrir loro un bicchiere d’acqua dolce per sentirle cantare. E non sono pericolose: raccontano storie autentiche e ci fanno ridere. Barbara Zecchi University of Massachusetts Amherst

Palestina; la Fondation des Femmes de l’Euro-Méditerranée, un «network di networks» che si propone la promozione dell’ugualità tra donne e uomini nei paesi del Mediterraneo; l’European Institute of the Mediterranean (IEMed) con il proposito di «foster actions and projects which contribute to mutual understanding, exchange and cooperation between the different Mediterranean countries, societies and cultures as well as to promote the progressive construction of a space of peace and stability, shared prosperity and dialogue between cultures and civilisations in the Mediterranean»; Union for the Mediterranean (UfM), istituzione intergovernamentale, basata a Barcellona; o il Mediterranean Institute of Gender Studies (MIGS) affiliato all’Università di Nicosia, con la funzione di finanziare iniziative a favore dei diritti delle donne; ecc.


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