Michele Barbieri
Questo studio vuole essere una proposta di elencazione biografica dei frammenti di Eracli to secondo suggerimenti desunti per lo più dalla sensibilità letteraria e da una filologia di vinatoria del personaggio. Il lascito frammentario è una raccolta di ricordanze, capostipite del genere marcaureliano e poi guicciardiniano. Il filosofo, d’altra parte, è innanzitutto il cittadino di Efeso; e questo saggio riconosce volentieri il suo debito verso l’interpretazione avanzata a suo tempo da Antonio Capizzi.
Eraclito d’Efeso Diario
Eraclito è il primo che nella storia della filosofia fu costretto dalle circostanze a mettersi in cerca di uno strumento di successo per il pensiero; e oltre che nella sentenziosità gnomica tradizionale trovò questo strumento in un piccolo repertorio d’immagini chiare, evidenti, nelle quali si riassume il significato logico delle sue meditazioni.
Su questa strada della ricerca di un pubblico Eraclito non fu tuttavia capace, né disposto a trovare il mezzo narrativo, letterariamente esteso, che gli avrebbe consentito di esprimere la contraddizione moralistica o l’unità degli opposti, antropologica e cosmologica, con l’illu strarla e descriverla, oltre che col sancirla. In ciò consiste il significato teorico della sua posi zione storicamente diversa rispetto ad Eschilo. Sulla mancanza di successo letterario di Eraclito si misurano e si decidono le future sorti separate di filosofia e poesia: ancora in qualche modo unite nel suo ermetismo, esse prende ranno poi a svilupparsi sulle strade per lo più separate dei generi letterari. Non diversamente da Eschilo, Eraclito fu uno dei tanti uomini d’ingegno che dovettero accettare il pasaggio alla democrazia, facendosene una ragione. Alla luce di un problema di filosofia politica circa il rapporto fra autoritarismo e democrazia nel nostro tempo, nella seconda parte si discute ampiamente dell’Eraclito di Spengler, Heidegger, Gadamer. Michele Barbieri presta servizio dal 1981 come ricercatore in Filosofia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena. È titolare di un insegnamento di Estetica Politica (con ciò s’intende la capa cità di pervenire ad un giudizio politico mediante gli strumenti della sensibilità). Questo libro rappresenta un parziale sviluppo del primo corso di Estetica Politica tenuto nella primavera del 2006. Lo sviluppo complemen tare gemello si trova già pubblicato presso questo medesimo editore col titolo L’Ifigenia di Eschilo. Filologia e drammaturgia nell’Agamennone (SEF 2009). Con Manierismo di Kant (SEF 2007) l’autore ha già completato un primo dittico aperto a suo tempo da Per un’estetica della politica. Il primo Goethe (Giuffrè 1995). Entrambe le coppie di monografie sono dedicate ad un poeta e ad un filosofo: ai maestri capostipiti di una nazione, rispetti vamente la greca e la tedesca. Scopo ultimo è stato mostrare l’unità radicale delle facoltà conoscitive nella men talità e nel pregiudizio, l’indistinguibilità originaria di poesia e non-poesia, e la superiorità della conoscenza sensibile sull’intellettualismo, che sta all’origine della barbarie del Novecento: il sueño della ragione che produce mostri.
€ 20,00
michele barbieri eraclito d’efeso. diario
Egli non dette il meglio di sé nelle elucubrazioni naturalistiche e cosmologiche, bensì nell’avvicinare il commerciante, il soldato, il coltivatore, il maestro, il pescatore e l’artigiano, allo scopo di mostrare loro che grandi verità si nascondono negli strumenti delle loro pro fessioni. Cercò una filosofia pragmatica capace di ricorrere, all’occorrenza, al linguaggio della semplicità e dell’evidenza. Tutta la sua vita testimonia col pensiero e coi fatti non già l’albagia, bensì l’umiltà.
Introduzione, testo, versione e commento Con discussione dell’Eraclito di Spengler, Heidegger, Gadamer Società
Editrice Fiorentina
Michele Barbieri
Eraclito d’Efeso Diario Introduzione, testo, versione e commento Con discussione dell’Eraclito di Spengler, Heidegger, Gadamer
Società
Editrice Fiorentina
© 2010 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-124-4 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata L’immagine del dipinto di Salvator Rosa a pagina 135 è stata concessa dal Kunsthistorisches Museum di Vienna. L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte In copertina Salvator Rosa, Il filosofo (Collezione privata)
A chi dubita di sé
Ici-bas tous les lilas meurent, tous les chants des oiseaux sont courts, je rêve aux étés qui demeurent toujours! Ici-bas les lèvres effleurent sans rien laisser de leur velours, je rêve aux baisers qui demeurent toujours! Ici-bas, tous les hommes pleurent leurs amitiés ou leurs amours… je rêve aux couples qui demeurent, qui demeurent toujours! Sully Prudhomme
Indice
parte prima: eraclito
9
introduzione Il lascito eracliteo: un diario di ricordanze
11
11 14 27 32 44 49 53 58 63
Una filologia divinatoria I progressi di filologia e filosofia Sui problemi più generali di un riordino Origini della critica contemporanea Un moralista politico Un uomo frustrato L’antropologia cittadina Il lascito come un diario Un democratico autoritario
diario
69
Versione consecutiva
71
1. La città e le passioni
81
Il sacerdote Il moralista Il propagandista La delusione Il buon tiranno L’antropologo
81 92 98 104 107 120
2. Il raccoglimento e la sapienza
125
125 140 147 157
Il sonno Lo psicologo Essenza e sostanze Il polemista
3. La divulgazione e l’insuccesso
165
165 171
Fra gli ottimati Fra gli artigiani
4. Il ritiro e l’attesa della morte
177
177 178 189
Il fisico e il tatto Il caso, il tempo e le opinioni L’Ade e l’olfatto
parte seconda: letteratura eraclitante
195
introduzione Pregiudizio politico e giudizio letterario
197
capitolo primo La dissertazione di dottorato di Spengler del 1904
213
214 218 222 225 231 234
Mentalità gerarchica: metafore e pregiudizi Fra Nietzsche e Guglielmo II Eraclito artista immaturo Neokantismo Un ritmo musicale della democrazia Sui limiti di una logica del concetto
capitolo secondo Le lezioni di Heidegger del 1943
237
237 239 244 250 257 260
L’Essenza, ennesima Sostanza Sotto il segno d’Artemide L’ontologia fra l’ermetismo e il dada Un Eraclito völkisch e il resto dell’essenza Il significato ontologico dell’oscurità Fra banalità e Terzo Reich
capitolo terzo La conferenza accademica di Gadamer del 1984
267
267 272 275 278 280 283
Preconcetto e pregiudizio Una morfologia del paradosso Illuminismo e rivelazione La negazione del sogno Rivelazione nella simultaneità Il lapsus di Agostino
indice onomastico indice tematico indice frammentale indice terminologico
289 293 297 299
Parte prima
eraclito
Introduzione
Il lascito eracliteo: un diario di ricordanze
una filologia divinatoria Questo studio vuole essere una proposta di elencazione biografica dei frammenti di Eraclito secondo suggerimenti accolti dalla sensibilità letteraria, nonché dall’impiego degli strumenti di una filologia divinatoria. Ciò che intendo per ‘sensibilità letteraria’ e per ‘filologia divinatoria’ non può essere definito qui, in sede preliminare, in modo che la definizione si renda passibile, poi, di verifica nel corso della lettura del Diario da parte di un esaminatore puntiglioso dell’applicazione del metodo: ciò che conta è il risultato; e questo studio, dopotutto, non deve meritare più attenzioni di quante ne meritino gli stessi pensieri eraclitei. Posso tuttavia dire fin d’ora che la presente lettura si caratterizza per lo sforzo di estrarre la vita, il pensiero e la forte personalità di Eraclito principalmente dalla lettura del testo di tutti i suoi frammenti, secondo una congruenza e una plausibilità complessiva e autonoma (o come anche si dice, con una distinzione che però non gradisco, interna). La filologia, insomma, deve servire alla filosofia senza mettersi sotto tutela alcuna, e la filosofia deve farsi con gli strumenti della critica letteraria. L’esame si esercita sul testo concepito come espressione di un’intenzione personale, o di una volontà di pensiero dell’autore, le quali non sono sempre chiare a lui stesso. Non si tratta affatto di un problema dossografico di storia della filosofia. D’altra parte, il testo medesimo non costituisce il campione istologico di un cadavere, bensì una personalità vivente – così come dovrebbe avvenire, e del resto avviene, per un qualsiasi altro autore moderno. Gli ambienti filologici non sembrano molto propensi a leggere Eraclito (né alcun altro filosofo antico, in verità) come si leggerebbero, per esempio, Góngora o Campanella, Blake o certi passi di Dante; e la critica filosofica, dal canto suo, appare talmente chiusa in alcune sue vecchie certezze pregiudiziali da non riuscire quasi a muovere un passo. Essa rifiuta con una certa boria, per lo più, le grucce della filologia. Non si tratta di due mondi sempre separati; ma non si può dire che il rapporto di scambio, quando esiste, sia limpido: perché l’una trova nell’altra, all’occasione, soltanto il suo particolare tornaconto.
12 parte prima. eraclito
È pur vero, d’altra parte, che non si può del tutto negare che noi abbiamo a che fare con i resti di qualcosa di morto, nel senso che è perduto per sempre. Diciamo allora che dell’esame istologico necrotico deve sussistere, in primo luogo, il valore autoptico. Se non che, di un’autopsia alquanto anomala qui si tratta: perché il nostro problema non consiste tanto nello stabilire le cause e le circostanze della morte – o come sarebbe a dire: del fallimento di Eraclito; bensì nientemeno che di farlo rivivere a modo nostro nelle sue vere intenzioni. Anche se al lettore la cosa potrà suonare sgradevole, devo tuttavia ammettere che durante il lavoro ho percepito più volte la sensazione di trovarmi nella posizione del dottor Frankenstein: la personalità alla quale stavo dando vita era in definitiva il risultato di un montaggio. Ho cercato perciò di descrivere il mio lavoro ricorrendo alla similitudine con altre arti ed altre tecniche: la teatrale, innanzitutto. Anche se la sua non è che un’autopsia, quale regista di teatro penserebbe mai di ridare vita a dei cadaveri nell’interpretazione di un testo? Ma è proprio per questo che parlo di filologia divinatoria. Nessuno può sapere quale personaggio vivesse nell’immaginazione di un autore di teatro nel momento della scrittura, più di quanto noi sappiamo della vita di Eraclito. Eppure, ecco, dopo un attento esame del testo, svolto secondo le sue proprie tecniche evocative, il personaggio va in scena – e così può andare in scena anche un Eraclito. Mi rendo perfettamente conto che il risultato potrebbe anche finire per somigliare ad un ‘ritratto di lady Morgan’ – vale a dire: a una di quelle biografie inventate per corrispondere ai bisogni della fervida immaginazione che fecero di Salvator Rosa, per esempio, un sublime spirito selvaggio, o un’anima dannata priva di profondità di pensiero e di vera sensibilità.1 Ma se anche così fosse, mi considererei altamente onorato d’avere ottenuto un simile risultato: i cui pregi divinatori si riassumono, in generale, nella possibilità d’intendere il più col meno ignoto. Ciò che conta, poi, non è che la plausibilità delle conferme, in modo che la cosa stia in piedi da sé, anche senza l’assistenza continua della sensibilità dell’interprete, o la complicità della sua epoca. È ciò che si chiama ‘intrinseca coerenza stilistica’.2
1 I giudizi sono di Horace Walpole e di John Ruskin (da Luigi Salerno, Salvator Rosa, Club del Libro, Milano 1963, pp. 12 e 17). 2 Con ragioni di coerenza stilistica un critico settecentesco (Joshua Reynolds) giustificò i presunti difetti di esecuzione, di colore disegno proporzioni, nella pittura di Rosa (ivi, p. 12). Mediante una simile attenzione rivolta alla tensione di tendenza, o alle principali polarità evolutive della creazione artistica, io credo che vadano superate le discrepanze di pensiero e d’espressione anche in un uomo come Eraclito – e in tant’altri.
introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze 13
Se dunque l’oggetto incognito del personaggio storico e del personaggio letterario non sono sostanzialmente diversi, e differiscono soltanto per la finalità della rievocazione, ma non per la tecnica preliminare (perché si sa che la tecnica non preliminare, o successiva, diventa sempre più diversificata e specifica man mano che il lavoro procede), nell’uno e nell’altro caso si tratta soltanto di porsi dinnanzi al problema in generale di un oggetto incognito. Ora, se parlo di divinazione è allo scopo di combattere, in quest’approccio, l’intellettualismo. Non c’è dubbio che gli strumenti di approssimazione sono anche intellettuali – e chi lo nega? Nego, però, o comunque voglio negare che nel percepire il barlume di verità di una cosa sia possibile distinguere le facoltà dell’intelletto da quelle della sensibilità. E poiché si erge su questa via l’ostacolo conoscitivo del criticismo kantiano, capostipite di gran parte della filosofia professionale contemporanea, io credo che lo si debba decisamente combattere nella sua inconsistenza culturale, nel manierismo plagiario e rampicante sui fusti del migliore pensiero moderno, e nelle sue numerose ricadute intellettualistiche. Fra queste ricadute o sviluppi, presentano per il nostro problema un particolare interesse fenomenologia ed ermeneutica. Dei numerosi aspetti o caratteristiche teoriche di entrambe non ci riguardano che i loro assunti di ripetuta interposizione con l’oggetto. Diciamo che se la fenomenologia può essere descritta come la filosofia dell’età della nascita della fotografia, o della rivelazione della lastra impressionata, l’ermeneutica è invece già la filosofia della fotografia cartacea senz’altro. A un certo punto nella storia del kantismo si comincia a capire che le sintesi a priori sono miriadi, e tutte quante già date in forme altamente elaborate o complesse: ogni nostra impressione, ogni voce bibliografica, ogni testimone o testimonianza della cosa lo sono. Se non che, a simile riconoscimento segue la propugnazione della metodica interposizione con l’oggetto delle sue sintesi a priori più o meno congruenti – e lo studio si sposta poi su quest’ultime, ovvero sull’interposizione medesima. In conseguenza degli sviluppi del criticismo si perde via via nella cosa il senso della terza dimensione, e ad acquistarla non sono, semmai, che i sostituti bibliografici o la monumentalità dei testimoni. La quarta dimensione del tempo, che lo storicismo (quasi a compensare la perdita) propugna nientemeno che come identità e destino di una cosa, viene a un certo punto ad esaurirsi storicamente e ad annullarsi logicamente sulle sponde della cosiddetta filosofia ‘dell’inizio’, che non conosce in verità dimensione alcuna, né alcuna estensione diversa dalla logorrea intorno all’essenza. Attraverso passaggi successivi e successive generazioni teoriche, insomma, si viene a perdere la presenza viva dell’oggetto, la percezione indistinta della sua radiazione, la lenta emanazione o il barlume o la fosforescenza della sua verità sepolta come in un blocco di
14 parte prima. eraclito
marmo. Le lezioni di Valla e di Lessing fanno qui da punti d’orientamento generale, come spero si vedrà. i progressi di filologia e filosofia Lo stoicismo, soprattutto, ha fornito alla filologia eraclitea un’assai poderosa tutela filosofica almeno fino a Hegel compreso, e fino al suo esecutore testamentario Ferdinand Lassalle. La filosofia ha fatto così, per lo più, da solida cornice alla filologia – la quale ha creduto di poter procedere con larghezza di contributi in un ambiente teoreticamente concluso e ammesso per sicuro. Ciò ha giovato assai alla critica filologica, ma non poteva giovare, e non ha giovato, ad autonome letture filosofiche e filosofico-politiche del lascito eracliteo – per non parlare, poi, di letture ispirate dalla sensibilità letteraria. Nel presentare una sua traduzione commentata dei frammenti uno studioso canadese ha recentemente sentito il bisogno d’avvertire i suoi lettori d’essersi voluto rivolgere a coloro che sono interessati alla filosofia greca «as philosophy»: al pensiero di Eraclito, dunque, in quanto esso è filosofia, e a lui «as a philosopher», in quanto è un filosofo.3 Indipendentemente dai risultati del libro di Robinson, alquanto eclettici, una simile avvertenza non deve sembrare superflua, dal momento che, per lo più, non è affatto una simile lettura filosofica che è dato riscontrare negli studi eraclitei. La lettura filosofica, a quanto sembra, c’è già, ed è già data altrove. Anche quando la filosofia con la filologia c’è, essa è data per assunto: come la scelta liminare, e poi accantonata, di una tutela, o come la costante presenza dissuasiva di un’erma. La scelta della tutela o dell’erma filosofica può anche cambiare, e l’interprete può rivolgersi a qualche pontefice o a qualche scuola della fase generazionale vigente, ma essa è più apparente che reale, ed è utile solo per liberarsi da un pesante interrogativo circa la sintesi di una personalità fortemente contraddittoria, com’è quella di Eraclito. Ciò che non cambia è la ricerca di una generica tutela filosofica, meglio se temibile, da parte di una filologia che ama lavorare indisturbata. Se dunque dai tempi di Schleiermacher i progressi sul piano filologico sono stati notevoli, lo stesso non mi sembra potersi dire per il piano filosofico, dove si è per lo più rimasti a quel travestimento e sunto sommario della lettura stoica di Eraclito che è rappresentato dall’inconsistente pregiudizio hegeliano, circostanziato poi in trattato da Lassalle. E il fatto che il trattato di Lassalle
Heraclitus, Fragments, a cura di Thomas More Robinson, University, Toronto 1987, p. ix.
3
introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze 15
non venga per lo più neppure menzionato dalla critica contemporanea non dimostra proprio niente – al contrario! Il persistente prestigio dei Cosmic Fragments di Geoffrey Kirk, per esempio, deve pure significare qualcosa, e mostra come la filiazione critica di origine positivista possa perfettamente conservare intatta la generica matrice acritica dell’idealismo storicista e romantico.4 Dalla lettura di pressappoco quattro frammenti su dieci, e anche meno (qualcos’altro si aggiunge per aggregazione), Eraclito esce dal libro di Kirk come l’uomo che avrebbe insegnato a sottomettersi ad una qualche legge impersonale, ad una qualche ineluttabile necessità del divenire o dei modi dell’essere. Ma non si capisce contro chi egli avrebbe combattuto per tutta la vita anziché, più semplicemente e comodamente, assecondare con l’indifferenza o l’atarassia i modi dell’essere e del divenire, anche cittadino e sociale – ciò che, in fondo, non aveva alcun bisogno di venire insegnato ad alcuno; e con l’impegno per giunta, oltre alla recriminazione, di descrivere questi modi dell’essere e del divenire per mezzo di metafore alquanto ricercate: a beneficio di chi? Spinoza, sì, lo fece – ma senza le continue recriminazioni di Eraclito. E quando una sola volta nella sua vita ebbe qualcosa da recriminare, dopo il linciaggio dei fratelli de Witt si presentò sulla piazza di Amsterdam inalberando il cartello: Hic sunt barbari, scritto, per l’appunto, prudentemente in latino, tanto per mettersi al sicuro dalle reazioni della folla in modo da non fare la stessa fine. Che ne è della franchezza instancabile e persino tediosa di Eraclito, qui? In un solo caso io credo che si possa attribuirgli un atteggiamento di prudenza persino reticente, come dirò interpretando e commentando il frammento più bizzarro che oscuro DK 3 – sempre che sia suo (quello del sole che ha la grandezza di un piede umano). Ma per il resto la sua oscurità non può essere in nessun modo interpretata né come una quietistica, ovvero cinica (alla maniera napoleonica o bismarckiana) contemplazione degl’individui come onde del mare o come rospi affoganti nella Beresina, né come una forma di reticenza nei confronti del potere o della folla. Tutta la sua vita sta lì ad illustrare che la sua non fu quella che si dice una socratica o spinoziana ‘santa anima’. *** Spiega il Kirk nel presentare la sua raccolta che
Heraclitus, The Cosmic Fragments, a cura di Geoffrey Kirk, University, Cambridge 1962.
4
16 parte prima. eraclito ‘I frammenti cosmici’ sono quelli, il cui contenuto è il mondo come un tutto, come qualcosa di opposto all’uomo [the world as a whole, as opposed to man]; essi includono tutto ciò che tratta del Lógos e degli opposti, e che descrive le trasformazioni fisiche su vasta scala, nelle quali il fuoco gioca una parte primaria. Essi non includono ciò che tratta di religione, di dio in relazione all’uomo, della natura dell’anima, di epistemologia, di etica o di politica; né essi includono gli attacchi di Eraclito contro particolari individui, o contro gli uomini in genere, sebbene il terreno di questi attacchi sia molto spesso un’ottusità nei confronti del Lógos, o dei suoi equivalenti [although the ground of these attacks is very often an impercipience of the Logos or its equivalents].5
Anziché spiegare l’emotività collerica di Eraclito noi dobbiamo scusarla, dunque: perché il Lógos si manifesta dappertutto, tranne che nei suoi umori personali, dei quali meriterà forse parlare altrove: «Questi frammenti, che potrebbero denominarsi ‘i frammenti antropocentrici’, potrebbero essere fatti oggetto di uno studio successivo».6 Del resto, la sordità di Eraclito è forse veniale, dal momento che il Lógos ha pure dei misteriosi «equivalenti» (di minore importanza e cogenza, si suppone).7 Ma l’unica legge ineluttabile, per Eraclito, fu per lo più la legge dell’indole umana, non tanto quella di una cosmica Sostanza pulsante come il Fuoco o, tantomeno, dei fiumi e del cosiddetto Divenire. A tarda età, come vedremo, egli andò in cerca di altre leggi non-sostanziali come il tempo, il caso e l’opinione – che sono, in verità, legislatori più o meno arbitrari anziché leggi. Fu la contraddizione antropologica, illustrata nel libro scritto a caratteri piccoli della città, che lo mise sulla strada dell’indagine sulla contraddizione cosmica, illustrata nel libro scritto a caratteri grandi. Egli non volle insegnare a sottomettersi ad alcunché, bensì semplicemente insegnare ciò che, dopo aver vissuto una buona parte della sua vita, credette d’avere imparato: che per correggersi bisogna innanzitutto sapere come si è fatti. L’opposizione non è un divenire, perché il divenire esclude la possibilità stessa della stabile opposizione come Eraclito si sforza di descriverla (mentre non è vero il contrario, e
Ivi, p. xii. Ibidem. 7 Il Kirk giustifica la sua scelta con quattro spiegazioni incomprensibili: una trattazione completa dei frammenti avrebbe richiesto un libro troppo poco maneggevole; questo grosso libro non sarebbe stato pubblicato da nessuno; non sarebbe stato saggio continuare a lavorare per altrettanto tempo, senza avvantaggiarsi della critica proveniente da un campo più vasto, dalla quale la trattazione dei restanti frammenti, fatta da chicchessia, potrebbe infine trarre profitto (insomma: la sua trattazione parziale servirà a chi vorrà completare il lavoro – come se le trattazioni complessive mancassero; e a lui non sembra prudente anticiparle); infine, l’insieme dei frammenti cade «non innaturalmente» sotto la distinzione delle due classi da lui indicate, che si possono ben trattare separatamente senza distorsioni – «salvo una metodica applicazione di riferimenti reciproci [provided full cross-reference is carried out]» (ivi, pp. xii-xiii). 5
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introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze 17
la stabile opposizione è motrice di un divenire d’innumerevoli forme). L’unità fra gli opposti è dunque stabilità di un rapporto fra sostanze, e la sua forma è la nostra ‘costituzione’ come ‘soluzione’ della contraddizione antropologica del ‘soggetto’: dell’uomo che è libero da tutto, fuorché da se stesso. In questo senso l’uomo è animale politico, in quanto è una città, e fa parte di una città cosmica. A causa del suo moralismo mancò quasi del tutto ad Eraclito il senso pratico della città terrena, della quale egli era pure creatura indissolubile. Mostrò tuttavia di possedere (questo è vero, e va detto) una più che dignitosa sensibilità sociale, che io credo di avere individuata nelle tre proposte di legge decifrabili dai frammenti DK 25, 84 e 24: sull’adeguata spartizione delle spoglie di guerra in proporzione al rischio e non al ceto, sull’equa divisione dei compiti professionali di servizio, e sulle onoranze funebri non discriminatorie nei confronti del sacrificio degli umili. Ma questa sua attenzione sociale si espresse, per l’appunto, in forma cifrata pressocché incomprensibile; e noi non sapremo mai se ciò fu dovuto alla natura ‘cosmica’ della sua sensibilità, o non piuttosto, come io preferisco credere, ai limiti imposti alla sensibilità dalla sua educazione aristocratica. Il clima culturale dell’ellenismo e dell’età imperiale romana fu assai propizio per tenere spalancata sul vuoto questa divaricazione fra antropologia e cosmologia, fra cittadino e impero, senza farle conoscere la realtà intermedia, più concreta e pratica, della città abbandonata al gioco dei potenti. Così l’impegno cittadino di Eraclito venne dimenticato, e con esso anche il suo fallimento. Di lui rimase il sommo profeta delle vaghe intuizioni fisiche e metafisiche nelle quali s’era per qualche tempo rifugiato. *** Con l’attenzione rivolta da Charles Kahn alle particolari soluzioni linguistiche riscontrabili nei frammenti acquista un certo credito l’aspetto di virtualità letteraria della filosofia eraclitea – tanto, che le due cose (Art and Thought, appunto) talvolta non sono più ben distinguibili. Sin dalla prefazione alla sua opera egli stabilisce un parallelo tra i frammenti di Eraclito e la poesia della Commedia di Dante, aggiungendo anzi che, sotto il profilo teorico, Eraclito fu anche più originale.8 Ma con simile parallelo egli trascura l’importanza dell’aspetto contratto, quasi inesteso, di certa ‘poesia’ eraclitea, che la rende più simile ai pietrosi prodotti dell’ermetismo, come ancora dirò; né si può tra Charles Kahn, The Art and Thought of Heraclitus, University, Cambridge 1981, p. x.
8
18 parte prima. eraclito
scurare che questo carattere contratto, e studiatamente formulato, non fu che uno degli aspetti della sua scrittura: la quale conobbe anche spesso l’estensione ripetitiva della perorazione, o lo sfogo momentaneo e sintatticamente girovago della recriminazione, o l’abbozzo infelice, mancato, di un pensiero sfuocato. Ma, al di fuori degli aspetti linguistici, l’orizzonte filosofico perimetrale in cui Kahn continua piuttosto vagamente a collocare Eraclito è pur sempre quello, più comodo e sicuro, di tipo stoico: vale a dire (perché con l’uso di certi termini bisogna sempre, grosso modo, intendersi) del moralismo antropologico e dell’ineluttabile legislazione impersonale e sostanziale. Proprio per un uomo come Eraclito! Il quale insieme con l’antropologia scoprì la vanità del moralismo, e che prima ancora di questo rassegnato riconoscimento passò almeno la metà della sua vita a predicare una legge che andava propugnata e ascoltata, e poi letta, capita, accettata e praticata come una scelta di volontà e di virtù: tutt’altro che impassibile, e tutt’altro che ‘oggettivamente’ complice, o soggetto ad una qualche ineluttabile legge di alcun Divenire. Con tutto ciò, questo mio libro è alquanto vicino all’opera di Kahn non per l’interpretazione, bensì per il tipo di lettura – e questo è forse è ciò che più conta. E questa lettura consiste in un’attenzione testuale che si avvale degli strumenti critici della sensibilità letteraria – a tal punto, che Kahn dà spesso l’impressione di volersi sottrarre, per lo più, alla conclusione teorica, nei confronti della quale egli non mostra un vero e proprio interesse; cosicché la conclusione teorica compare qua e là, come chiamata all’occorrenza a sbrigare quanto rimane del suo lavoro. D’altra parte, non si può neppure esagerare; e non si può ignorare che, come dirò a iosa, questo talento linguistico di Eraclito non volle e non riuscì mai svilupparsi in vero talento letterario. Col possesso di un simile talento egli avrebbe potuto fare col suo ‘fuoco’ ciò che Eschilo seppe farne nel Prometeo: il «maestro d’ogni arte», la sostanza di cui potevano considerarsi cultori orgogliosi tutti quegli artigiani o artieri o esperti a vario titolo a cui di preferenza egli si rivolgeva, come sacerdote di una divinità provvida e ingegnosa, sebbene relativamente appartata e minore rispetto ad Athena. Tutti essi sapevano che prima di loro, come prima dell’avvento di Prometeo, gli uomini «avevano occhi e non vedevano, avevano orecchie e non udivano», proprio come i “presenti che sono assenti” di DK 34. E però proprio questo pubblico di riferimento deluse le aspettative di Eraclito, mostrando di non sapersi elevare, neppure guidato dai suoi strumenti espressivi, al di sopra dell’esercizio della propria arte verso l’esercizio delle leggi sancite con un lógos: proprio «essi, che pure hanno esperienza di parole e d’opere tali, quali secondo natura io espongo distinguendo ciascuna e spiegando com’è» di DK 1. Per educare questo
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popolo bisognava portarlo a teatro – ma Eraclito non ebbe questo talento. Così, essi mancarono a lui, come egli in un certo senso mancò loro. Grazie al suo stile avvenne però, in qualche modo, una compensazione fuori dal teatro: perché la minima possibile poesia del suo ermetismo gettò qualcuno dei semi generatori della futura metafisica. Solo i semi, però, nei pensieri quanto mai succinti, e non negli sviluppi trattatistici – al contrario: perché Eraclito non fu uomo del pensiero in atto, bensì del pensiero in potenza. Tra i pensieri di Eraclito i semplici vaneggiamenti di metafisica stanno anzi a pigione, o quasi, e hanno comunque un’importanza relativamente modesta nell’economia complessiva dei frammenti – inutile negarlo, mi pare: la parte più consistente ed evidente della sua personalità sta decisamente altrove; ed è la sensibilità esercitata nella lettura dei frammenti mediante qualcuno degli strumenti della critica letteraria che lo può mostrare, come spero si vedrà nel mio lavoro.9 Se parlando di metafisica si vuole più precisamente trapassare dalla cosmologia all’ontologia, poi, ci si avventura su clinami ancora più ardui e fitti di equivoci. Se il cosiddetto ‘essere’ è ciò che in una cosa basta a se stesso e non cambia, e che ritorna a presentarsi intuitivamente invariato al termine di ogni processo di crisi e di trasformazione (vale a dire, in definitiva, la sua sostanza, specifica o generica), allora questo essere è, per Eraclito, l’indole, l’ēthos: ciò che egli considerava la parte oscura e pesante dell’uomo, la stalla a cui sempre l’animale ritorna e si adagia – il démone della sua gravità. Non si tratta affatto di un ‘inizio’, perché l’inizio è l’essenza, il rapporto, l’intuizione di una costituzione nell’essere complesso per il pensiero; e non si tratta neppure di alcunché di ‘demoniaco’, come si dice, perché dal richiamo di questa gravità dell’essere è escluso alcunché di attivistico. La cosa merita una trattazione a sé. *** Dirò nel commento ai frammenti o pensieri (i due termini per me si equivalgono) che in Eraclito non esiste pensiero di sostanze specifiche (e intendo 9 Avverto subito il lettore che in questo mio studio non mi soffermerò in esami particolareggiati di quelle posizioni che ruotano tutte attorno ad una teologia del Lógos, e che si possono esemplificare con la monografia di Carlo Mazzantini, Eraclito, Chiantore, Torino 1944. In questa teologia ogni caso particolare del pensiero eracliteo diventa immediatamente un’occasione per giustificare l’assunto spiritualistico, gerarchico, neoscolastico ed eurocentrico dell’autore. Eraclito stesso diventa l’oggetto d’esercizio di una «metafisica spiritualistica come filosofia della virtualità ontologica», come Mazzantini ha definito il suo pensiero innestando Heidegger sul tronco di un cattolicesimo dell’obbedienza. Il lettore non si dolga di questa lacuna nella discussione, alla quale seguiranno identiche rinunce segnalate nelle prossime note: sarebbe strano vedere venire alle prese uomini che non hanno niente da dirsi. Le ragioni per cui nella Parte Seconda dedicherò una discussione particolareggiata a Spengler Heidegger Gadamer sono ragioni di filosofia politica del Novecento, che verranno illustrate nella rispettiva introduzione.
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pressappoco per ‘sostanza’ ciò che Aristotele chiama «corpo semplice», ma estendendo il concetto anche alle grandezze del pensiero10). Esiste pensiero degli elementi fisici, questo sì, e pensiero delle loro trasformazioni reciproche; ma non esiste alcunché di corrispondente agli elementi fisici sul piano antropologico, che sia vagamente soggetto al medesimo ciclo di trasformazioni. Gli elementi naturali come la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco si possono trasformare l’uno nell’altro; ma la trasformazione delle anime nei corpi, o viceversa, significa la morte di quelle e di questi; e con le acque le anime non hanno che una relazione per contaminazione – vale a dire: conoscono a contatto delle acque una degradazione della loro sostanza. In un solo caso, mi sembra, si può forse parlare di una derivazione delle anime dalle acque – ed è il caso descritto nel celeberrimo DK 12, dove noi assistiamo alla rappresentazione di anime che (forse) «evaporano» al di sopra delle acque. Se questa interpretazione del verbo anathumiaō fosse giusta, noi ci troveremmo in presenza di una contaminazione sostanziale dell’anima che ha il significato di una promozione, anziché una degradazione. Ma per l’appunto la promozione avviene per liberazione dell’anima dalla commistione con una sostanza specifica. Ciò che Eraclito vuol dire, in definitiva, è che la sostanza eletta a virtù o a principio non può essere che un genere, e non una specie. In quanto è specie, o è commista ad una specie, essa si degrada e genera le molte specie del male. Il pensiero delle sostanze specifiche, o del ciclo, e comunque delle trasformazioni, reciproche o no, degli elementi naturali (perché non c’è soltanto l’idea del ciclo, come mostra bene DK 31a; né le trasformazioni sono sempre reciproche ed energeticamente conservative); questo pensiero delle sostanze specifiche, dunque, trova un limite nel discorso sulla costituzione antropologica: la quale appare assai più stabile, definita secondo un’intuizione bipartita della forma che poi darà i suoi frutti lontani nell’antropologia metaforica tripartita della Repubblica platonica. Un punto di contatto comune fra le due sfere naturalistica e antropologica potrebbe trovarsi là dove vi fosse tra i frammenti naturalistici qualcosa di corrispondente a DK 20, dove si parla di un rigenerarsi soltanto allo scopo di morire senza scopo; o corrispondente a DK 88, dove si parla di giovani che decadono nei vecchi i quali, a loro volta, semplicemente si dissolvono. La netta separazione e la trasformazione entropica, dispersiva, che Eraclito immagina per gli elementi antropologici non compare in modo significativo nelle trasformazioni degli elementi fisici, i quali conoscono invece una continua rigenerazione. Aristotele, Metafisica, I, 3, 984a.
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È vero che questa rigenerazione fisica non è sempre reciproca, e che il fuoco si potrebbe dunque immaginare come una fonte d’energia che vorrebbe, forse, avere il compito di supplire ad una dispersione entropica nella natura, simile alla dissoluzione nel nulla dei corpi umani. Ma queste sarebbero speculazioni nostre, aggiunte alle speculazioni eraclitee; e a me non sembra che in simili esercizi congetturali debba consistere il compito degli studiosi. C’è anche buona e cattiva divinazione, mi pare. Del resto, se un punto di contatto fra le due sfere antropologica e fisica ci fosse, sarebbe come dire, per esempio, che l’anima si può rigenerare coll’immersione nel corpo; ma Eraclito, com’è prevedibile, non dice questo – e però soprattutto non dice neppure il contrario: vale a dire, che il corpo si può rigenerare a contatto con un’anima virtuosa. E questo, volendo, avrebbe anche potuto dirlo. A me sembra chiaro, dunque, che simile discontinuità tra fisica e antropologia in Eraclito non solo sancisca la precedenza del carattere antropologico del suo pensiero maturo sui contenuti naturalistici (che è uno dei principali quesiti preliminari per chi si accinge ad un riordino dei frammenti successivi alla prima fase cittadina), ma che d’altra parte ponga anche dei limiti alla possibilità di una lettura dell’intero lascito in chiave stoica. Che cosa poi sia, questa ‘chiave di lettura stoica’ dalla quale principalmente dipendono le letture moderne e contemporanee, storiciste e positiviste, dei frammenti, non è facile dire. Bisognerebbe parlare delle diverse letture eraclitee effettuate da singoli testimoni stoici, semmai, dal momento che un solo ‘ismo’ non è mai esistito. E non sarebbe certo facile discernere, poi, che cosa sia soltanto loro, anziché debito accademico o peripatetico. L’esame del testimone si verrebbe così ad interporre rispetto all’oggetto, e non è davvero questa la strada che ho prescelto: perché al valore della testimonianza antica ho preferito quello della versione moderna, così come alla pretesa dell’immedesimazione ho creduto di poter contrapporre il talento della divinazione. I risultati parleranno da sé. Credo che una buona soluzione per liberare Eraclito da una pesante tutela dottrinale stoica consista nel sottolineare l’importanza della sua rinuncia, a un certo punto, al moralismo. Da un certo momento in poi, allorché si esaurisce l’esperienza della politica cittadina, Eraclito comincia a vedere e a descrivere l’uomo com’è, e non come dovrebbe essere. Qualunque cosa s’intenda allora per ‘stoicismo’, è chiaro che a partire da questo momento la tutela deve cessare. È vero che insieme con l’antropologia egli scopre anche la fisica degli elementi, e che si avventura nella cosmologia e nella logica non diversamente dalla Stoa; diversamente da essa, però, non si giova della discontinuità fra antropologia e cosmologia o logica allo scopo di continuare a praticare il suo
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moralismo giovanile ad oltranza – al contrario: secondo la mia interpretazione, e secondo l’elencazione dei frammenti che ne consegue, dal momento del ritiro in solitudine egli lo abbandona. Eraclito rinuncia al moralismo dal momento in cui si mette sulle tracce di una costituzione comune dell’essere come generico essere complesso. A somiglianza degli stoici, non ammetterà mai che il ciclo degli elementi diventi ciclo di scambio anche nell’uomo (perché egli ammette nell’uomo soltanto la contaminazione fra elementi, come l’anima che assume o che cede acqua, come ho spiegato, ma non lo scambio o la trasformazione reciproca fra sostanze: cosa che implicherebbe, come anche ho già detto poco sopra, l’idea di corpi che cedono energie virtuose alle anime); a differenza degli stoici, tuttavia, rinuncia completamente al biasimo. Quando anche l’opera di divulgazione del terzo periodo fallirà, noi leggeremo soltanto una lamentela amareggiata (DK 51: «Non intendono…») – ma non si tratta, per l’appunto, di alcun biasimo o di alcuna esortazione. Ora, ci saranno anche tanti modi d’intendere le varie posizioni degli stoici, ma nei loro confronti la rinuncia al moralismo a me sembra discriminante. Eraclito può essere tanto bene fatto loro capostipite, quanto può esserlo fatto degli epicurei. Se non che, questi ultimi si sono dati assai meno da fare – ecco tutto. Non c’è alcuna ragione di sottovalutare la testimonianza di Clemente Alessandrino in proposito, come fa nel suo filostoicismo e filo-naturalismo Rodolfo Mondolfo – il quale prende sul serio, invece, tutto ciò che viene, per esempio, da Aetio.11 Quest’osservazione mi sembra importante per rispondere ai tentativi di lettura ermeneutici (perché l’ermeneutica non è andata, e non va, mi sembra, al di là di tentativi, basati su di una scarsa campionatura di testimoni prediletti). I risultati parziali e generalizzanti che essi offrono non sono dei semplici dati di fatto, in attesa di migliore futuro, bensì esiti invariabili del metodo. Bisogna per forza che il giudizio o la versione del testimone prediletto, che l’ermeneuta suppone avere esaminato l’originale ancora tra le sue mani, vengano in qualche modo contrapposti alle rimanenti testimonianze; e perciò ad una completa caratterizzazione di un’intera personalità, sulla scorta di tutti i testimoni, chi segue questo metodo deve rinunciare, se non vuole renderla arbitraria. Altra cosa è invece raccogliere tutte le testimonianze, lasciandole
11 Dagli Stromata, II, 130: «Dicono infatti che Anassagora di Clazomene affermò che il fine della vita è la contemplazione e la libertà che da questa deriva, ed Eraclito di Efeso [affermò che questo fine è] la soddisfazione [euaréstēsis]». L’identificazione di questa soddisfazione col piacere sarebbe secondo Mondolfo una grossolana deformazione di Teodoreto (come dice nel suo commento in Rodolfo Mondolfo e Leonardo Tarán, Eraclito, Testimonianze e imitazioni, La Nuova Italia, Firenze 1972, pp. 170-171).
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fluttuare nell’immaginazione in modo che si raccolgano in gruppi per affinità tematica, o lasciando che si depositino successivamente secondo la loro gravità suggestiva, o secondo la plausibilità della successione. La plausibilità qui prescelta è la più semplice e chiara, mi sembra, in qualche modo assoluta: si tratta della plausibilità biografica, alla quale mi sono decisamente risolto dopo la lettura dello studio di Antonio Capizzi.12 E con ciò siamo giunti a toccare l’argomento dei problemi più generali di riordino dei frammenti, che mi accingo a trattare nel sottotitolo seguente. Ma intanto desidero ancora aggiungere qualcosa in un’ultima sezione del presente sottotitolo. *** Tanto per rimanere sulle caratteristiche del moralismo eracliteo, e tornando all’origine del problema antropologico dell’ēthos, può essere necessario insistere sul fatto che, come ho detto, il démone dell’indole non ha in Eraclito alcuna caratteristica attivistica, vale a dire ‘demoniaca’, o modernamente e tecnicamente barbarica; e non ha dunque alcuna possibilità di venire titanizzato secondo un’inversione ‘romantica’ del costrutto della metafora antropomorfica in cose politiche che nella nostra età contemporanea inizia, pressappoco, col Faust di Goethe: dove si assiste alle imprese di un intelletto onnivoro che, per indigenza famelica, si trasforma in una forza viscerale guidata dai perfezionamenti di una ragione perversa (mentre ancora fino al Goetz von Berlichingen, invece, il costrutto è sano e diritto). L’intellettualismo del ver-stehen, che ha in Goethe le radici poetiche e in Kant le radici teoriche, ha largamente segnato gli studi e gli orizzonti metodici dell’età contemporanea; e da questi studi e orizzonti Eraclito non poteva rimanere escluso – anche se, come ho detto, nei confronti della filosofia la filologia ha saputo ritagliarsi uno spazio, al riparo del quale ha potuto proseguire indisturbata un lavoro prevalentemente tecnico e dalle sintesi alquanto incerte. Essa, la filologia, ha pure avuto l’umiltà di chiedere lumi in prestito alla filosofia, mentre il contrario non è avvenuto: tutta la filologia alla quale la filosofia si mostra disposta ad accondiscendere è, di tanto in tanto, la pratica di un poco di terminologia – nient’altro. È ciò che si vedrà nella Parte Seconda di questo studio, esaminando l’Eraclito di Gadamer. Ma insomma, il costrutto antropologico eracliteo, o la metafora antropomorfica della sua intuizione politica, è come si dice ‘retto’, nonché, come ho 12 Antonio Capizzi, Eraclito e la sua leggenda. Proposta di una diversa lettura dei frammenti, Ateneo & Bizzarri, Roma 1979.
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detto, bipartito. Per conseguenza, il cosiddetto ‘non-essere’ non può consistere, per Eraclito, che in una volontà di perfezionamento, e non già nell’attivismo di una forza onnivora: come se il fuoco pulsante al ritmo delle precessioni equinoziali di DK 30 fosse l’istintualità cieca e famelica di un lógos viscerale antropologico, oltre che cosmico. Parlare di ‘lógos viscerale’ significa usare due parole al posto di una sola: intellettualismo. E chi pretende di centrare tutto il pensiero di Eraclito sul lógos, facendone nientemeno che una teologia, non si accorge di esaltare non già il contenuto illuministico del suo pensiero, bensì proprio il senso intellettualistico dello sviluppo senza progresso che è la dannazione dell’età contemporanea. Lo dimostra il fatto che laici, dialettici o loici, e spiritualisti, trinitari o mistici, se ne vanno a zonzo a turno menando dappertutto per l’aia dei frammenti eraclitei, fiutandoli qua e là per un poco, questo loro più fedele compagno che è il Lógos. Per Eraclito invece questo, del perfezionamento virtuoso a dispetto del cosiddetto ‘essere’, o questo della volontà che vince l’indole padrona, è il suo divenire. E questo divenire (come è facile capire, fiumi o non fiumi) è tutt’altro che perpetuo: è parabola sempre soggetta a caduta, semmai, come mostra il pensiero DK 88 sui giovani che decadono nei vecchi i quali, a loro volta, si dissolvono. La vecchiaia ha un posto importante nell’antropologia eraclitea; e in DK 117 (l’ubriaco ingannato da un fanciullo) egli sembra credere che la vulnerabilità del ‘fisico’ (come l’ho chiamato, titolando la prima sezione del quarto periodo della sua vita) renda l’uomo meno capace di praticare un perfezionamento. Non c’è da nessuna parte il corrispondente pensiero complementare: quello di una virtù più facilmente praticata da giovani – tant’è vero, che l’ubriaco viene ingannato proprio da un fanciullo. Come dirò nel commento ai singoli frammenti, qualche sgradevole episodio della sua vita dovette spegnere in lui ogni illusione sulla possibilità di rigenerare la città mediante la pedagogia infantile, secondo il programma già annunciato in DK 121. Anche chi, nella storia della letteratura, s’è rifugiato fra i pastori ha dovuto prima o poi riconoscere la loro perfidia. Il genere pastorale rappresenta in mille guise (fino al genere western) il sostrutto antropologico della drammaturgia. Ma Eraclito non lo coltivò: né dopo la sua prima delusione (quando lasciò la città), né dopo la seconda (quando si attardò a trastullarsi nel tempio) ebbe le forze per dedicarsi ad osservare la vita dei fanciulli (o di quei fanciulli che sono gli uomini semplici). Al di là dell’invettiva e del paradosso, non mostrò nei loro confronti quell’attenzione che aveva dedicata all’anima, agli elementi naturali e al cosmo. Un fanciullo gli riservò, anzi, l’amara sorpresa, che considerò ben meritata, descritta con l’episodio dell’ubriaco in DK 117.
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Ciò significa che in lui le distinte forze elementari sono soltanto fisiche, non animali o passionali – e un simile difetto d’attenzione o d’interesse costituì un limite invalicabile ad un possibile progresso letterario della filosofia. Tutto ciò (vale a dire: la disunione o discontinuità fra antropologia e cosmologia), deve pur avere qualcosa a che fare col cosiddetto ‘essere’ e col cosiddetto ‘inizio’ degl’interpreti eraclitei più teoreticamente ispirati e vaticinanti. E se poi invece per ‘essere’ s’intende designare qualcosa di niente affatto radicale, e anzi, all’opposto, le cose così com’esse sono o appaiono nella loro vita effimera e sempre contraddittoria (e si parla allora di ‘essenti’, o di un ‘essendo’, o, peggio che mai, di una ‘essenza’), allora l’ontologia diventa fenomenologia delle variazioni e delle impressioni, e il divenire non conosce sosta – ma questo è precisamente ciò che Eraclito ripudiava quando, in DK 20, osservava il miserabile spettacolo di un’umanità che si riproduce soltanto per riconfermare, di generazione in generazione, il proprio appuntamento con la morte. Come avrebbe potuto non deplorare il medesimo sviluppo senza progresso anche negli studi? Non si può prendere per realistica l’immagine dei fiumi nei quali entriamo: dev’essere per forza una metafora – ma di qui a farne una metafisica riassuntiva di tutto il suo pensiero, ce ne corre. Bisognerebbe esaurire tutte le possibilità della letteratura, prima. Per mettersi d’accordo su ciò che possa significare ogni generico riferimento alla lettura metafisica dei frammenti, bisogna pur dire che l’immagine dei fiumi è stata, del resto, del tutto malintesa. Come Platone fa dire giustamente a Socrate nel Teeteto, il frammento DK 12 non mette affatto l’accento sul fluire di cose sempre diverse, bensì sul resistere fermamente ai flussi che investono chi vi entra; e le nebbie aleggianti al di sopra delle acque possono forse alludere ad una posizione di atarassìa che Eraclito si sforzò in qualche modo di coltivare. In questo senso fortemente soggettivo e moralistico, e non oggettivo o fisico o cosmologico, allora, si può parlare della legittimità di una lettura ‘stoica’. Ma ciò può solo significare che all’equivoco eracliteo s’è anche aggiunto un equivoco stoico; e che la legge dinamica, o del perpetuo movimento, ha preso, fin dalle origini storiciste e romantiche della critica contemporanea, il posto di quelle forme perfettamente statiche e reciprocamente tese, entro le quali Eraclito volle fissare le simboliche immagini indelebili dell’immutabile natura degli esseri complessi. Per capire quanto invasiva e pregiudiziale sia diventata (specialmente nella critica subcontinentale, diciamo così) questa idea del perpetuo movimento, bisogna vedere come essa nel commento di Giovanni Gentile tocchi persino il ridicolo, e proprio per il puntiglio di «far sul serio». Scrive egli infatti in un suo compendio, sul finire degli Anni Trenta:
26 parte prima. eraclito Per i precursori di Eraclito [vale il] pánta reĩ sì, ma senza che perciò si debba contraddire al pensare comune, che il moto vede e concepisce in perpetua alternativa con la quiete. Viene Eraclito, e la rompe col pensare comune, e coi mezzi termini; e pretende che si faccia sul serio, e si stia, come di dovere, alla logica, e si neghi perciò ogni quiete, per pensare senza riserve né limitazioni, che tutto fluisce.13
Apprendiamo così che quello dei precursori di Eraclito fu un pensiero alquanto comune, compromissorio e persino poco serio. Apprendiamo anche che l’unità dei contrari non ammetterebbe un moto in perpetua alternativa alla quiete, la quale è, a sua volta, in perpetua alternativa al moto, bensì il moto soltanto – in alternativa, si suppone, a se stesso. Ed apprendiamo infine che la logica (anche i principi d’identità e di non contraddizione?) non ammette la quiete. La filosofia qui, io credo, c’entra ben poco: perché c’entrano, semmai, gli umori, i climi e le tendenze dell’Italia triplicina, che nelle serre delle scuole hanno poi fatto allievi per un buon secolo. E bisognerebbe anche vedere quanto la moda del wagnerismo e del durchkomponieren possa avere influito su questo baldanzoso e insieme corrivo modo di pensare, in forza del quale Gentile si permise di stroncare lo studio sui frammenti di Emilio Bodrero.14 Dopo avere ricordato nella sua personale versione dei frammenti che per Eraclito «è legge che si obbedisca alla volontà di uno solo», Gentile conclude la sua sommaria esposizione con queste parole: «E quando i presenti assenti, a cui Eraclito ha accennato [in DK 34], non la riconoscano [questa volontà di uno solo] e ricalcitrano, ecco la guerra regina di tutte le cose; e prevale per essa chi ha da prevalere, e trionfa l’unità».15 Contro esplicite sentenze contrarie di Eraclito, che odiava le fazioni, era alla guerra civile che nelle sue lezioni palermitane del 1907-1908 Gentile già pensava come ad una normale funzione fisiologica della vita politica; e la guerra civile si risolve, secondo lui, con l’instaurarsi del predominio sicuro di una sola delle due parti in lotta. L’esperienza del Novecento, con le due guerre mondiali, avrebbe mostrato invece
Giovanni Gentile, Storia della filosofia dalle origini a Platone, Le Lettere, Firenze 2003, p. 53. Vedi la polemica su ‘La Critica’ del 1910 (pp. 291-294, 397-400) e del 1911 (pp. 72-74). Quanto alla serra delle scuole, nella sua premessa alla traduzione gentiliana dei frammenti Francesco Adorno afferma che «i singoli, come per Eraclito, si risolvono nella dialettica, per cui tutto è come deve essere, in una suprema necessità storica» (Gentile, Eraclito. Vita e frammenti, p. ix). Ho combattuto l’idea della sottomissione a questa suprema necessità, e simili tedescherie, che hanno fatto parte del comune armamentario eraclitante per le generazioni post-triplicine, nello studio, parallelo a questo, su L’Ifigenia di Eschilo (già pubblicato presso questo medesimo editore). Riparlerò della posizione di Gentile nella Parte Seconda, esaminando la dissertazione di Spengler (alla nota 6). 15 Gentile, Eraclito. Vita e frammenti, p. 228. 13
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l’importanza del ruolo risolutivo delle potenze neutrali (ossia del ‘terzo’: che Gentile, ragionando ‘per due’, non considera). Il suo pensiero, in ogni caso, è esattamente all’opposto di ciò che Eraclito avrebbe potuto insegnare circa l’unità come armoniosa opposizione nella vita costituzionale. Gentile non poteva sapere che proprio la guerra civile, così baldanzosamente propugnata, l’avrebbe un giorno travolto; e noi non possiamo sapere quanto virilmente egli avrebbe saputo accettare la sua fine, se essa fosse avvenuta mediante fucilazione al termine di una detenzione. Sappiamo bene, in compenso, quanto ancora la commiserino, quella sua fine, coloro che vorrebbero gl’intellettuali soggetti ad uno statuto speciale d’irresponsabilità; né so immaginare con quale dottrina del pánta reĩ Gentile avrebbe potuto continuare a fare il sommo intellettuale di Stato in un’Italia presieduta da un Mussolini manovrato da Churchill. Alquanto paradossalmente, dunque, cento e anche duecent’anni dopo Hegel alla propugnazione teorica del perpetuo movimento non sembrano talvolta corrispondere dei significativi avanzamenti sul piano più propriamente filosofico dell’intelligenza dei frammenti eraclitei. È il caso, almeno per certi ambienti, di parlare di uno sviluppo senza progresso: il quale, proprio quando sembra mandare in frantumi l’orizzonte stoico racchiuso entro ben definite orbite planetari, immediatamente ne ripristina con tanto più zelo la logica dogmatica di subordinazione alla necessità ineluttabile e gerarchica. sui problemi più generali di un riordino Rinunciando a conferire all’ordine di pubblicazione dei frammenti un qualsiasi significato normativo o interpretativo, in molti casi gli editori hanno preferito seguire il criterio onomastico, sull’esempio di Diels – Kranz, disponendoli in un’unica successione secondo l’ordine alfabetico dei testimoni (così in Italia, per esempio, Gentile, Bodrero, Cardini, Walzer, Mazzantini, Trabattoni). La pubblicazione dell’ordine dei frammenti risponde, se no, al criterio dei raggruppamenti tematici o ideologici (Marcovich: venticinque gruppi in tre sezioni; Gilardoni – Salucci: cinque gruppi; Tonelli: quattordici gruppi; Capizzi: sette gruppi).16 Una terza soluzione consiste nel disporre i frammenti in un’unica successione, come nel primo caso, ma diversamente ordinati secondo criteri interni, che suggeriscono o presuppongono, anche soltanto implicitamente, un’interpretazione (Colli, Diano – Serra). Resta in ogni caso 16 I raggruppamenti tematici nella bibliografia meno recente sono descritti da Mondolfo e Tarán nell’introduzione a Eraclito, p. 26.
28 parte prima. eraclito
escluso il criterio esplicito dell’ordine biografico, che in questo Diario ho voluto adottare. Una posizione del tutto diversa è quella di Vittorio Macchioro: il quale, partendo dal presupposto che i testimoni antichi conoscessero l’opera di Eraclito nella sua forma genuina e integrale, propose di leggere i frammenti integrandoli «col pensiero di chi li cita», leggendoli «attraverso il pensiero di chi conosceva l’intera opera».17 È una posizione ermeneutica, questa, che discuterò nella Parte Seconda trattando di una conferenza di Gadamer. Preferisco spostare altrove la discussione di questo tipo di approccio, e portarla su un altro studioso, perché attraverso Spengler Heidegger Gadamer il profilo della critica eraclitea viene ad assumere di fatto la forma del profilo di una nazione attraverso le tre generazioni che hanno fatto il Novecento: prima delle due guerre, fra le due guerre, e dopo. Qui basti dire che non vedo la legittimità della conclusione di Macchioro, quand’anche fosse valido l’assunto della conoscenza da parte del testimone di un’opera eraclitea genuina: ne uscirebbe, e ne esce, un Eraclito fatto a brandelli e sfigurato dai molti testimoni (talvolta persino dieci per un solo frammento!). Chi voglia conoscere un esempio di questo modo di procedere non ha che da leggere il contributo di Serge Mouraviev che apre il Simposio Eracliteo di Chieti del 1981.18 Tutta la ‘nuda’ lettura che seguirà in questo Diario si propone invece di ottenere il risultato opposto, tentando di spogliare i frammenti da ogni possibile superfetazione, e anche auto-superfetazione (non solo altrui, dunque, bensì anche eraclitea, per quanto possibile: sul piano speculativo e naturalistico, ossia scientistico, soprattutto, distinguendo i luoghi di vera consistenza del suo pensiero dalle mere divagazioni). Il ruolo ordinatore dell’interprete si affida qui, insomma, ad un giudizio saggistico sull’uomo pratico, prima che di pensiero, il quale giudizio possa conferire al lascito una sua forte unità interna. Non è vero, come si dice e si ripete a partire da Schleiermacher, che in Eraclito l’individuo non conta nulla:19 esso conta anzi come diecimila, se ottimo – e in ogni caso l’individuo della sua filosofia, per noi, è lui stesso. La soluzione di Macchioro e di tutti gli ermeneuti non è che una generalizzazione della posizione che fu già assunta proprio dallo Schleiermacher per primo. Partendo dall’assunto che gli unici testimoni affidabili sul lascito eracliteo
Vittorio Macchioro, Eraclito. Nuovi studi sull’orfismo, Laterza, Bari 1922, pp. 13 e 69-70. Serge N. Mouraviev, Heraclitus ap. Clem. Strom. I 70.3: A neglected Fragment?, in Atti del Symposium Heracliteum 1981, a cura di Livio Rossetti, Ateneo, Roma 1983, (SH) I, pp. 17-36. Ne discuto nel Diario, nel commento al frammento sulla Sibilla (DK 92). 19 Giovanni Moretto, L’Eraclito di Schleiermacher, in SH, II, pp. 102-103. 17 18
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siano Platone e Aristotele, egli si propose di ordinare e di leggere tutti i frammenti, malgrado ogni altra possibile provenienza, alla luce dei giudizi di questi due soli testimoni privilegiati (o, com’egli dice con una certa enfasi, «queste validissime fra le testimonianze»: diesen gültigsten Zeugnissen folgend).20 Ma ciò non gl’impedì certamente di attribuire ad Eraclito le sue personali o epocali predilezioni, né di rimettere in circolazione la lettura stoica dei frammenti, così come Macchioro non s’è certo riguardato dal seguire una sua linea interpretativa fortemente personale. Anche tacendo d’altre considerazioni, dunque, ordine e interpretazione dei frammenti ricevono in tal modo un’unità soltanto apparente, dal momento che lo stesso Schleiermacher non ignora la disparità e l’incertezza dei giudizi aristotelici rispetto ai platonici – anche se poi finisce per metterli sullo stesso piano.21 Così, anche in età contemporanea Eraclito diventa senz’altro, e in modo credibile, l’uomo del pánta reĩ e della mistica coincidenza degli opposti – senza, peraltro, che l’idea del flusso universale e dell’unità indistinta riesca a conferire unità ad un commento assai diseguale. Questa, della diseguaglianza non riunita su di un autonomo punto focale, fu la sua debolezza nei confronti di Hegel; il cui approccio ad Eraclito, d’altra parte, non è credibile per la ragione opposta: se non altro, per le pesanti superfetazioni speculative che aggiunse alle antiche sulla base di una lettura assai unilaterale e davvero esigua, in tutti i sensi – tanto, da non rinunciare neppure, dopo la pubblicazione dell’opera dello Schleiermacher, a servirsi ancora con snobistica preferenza dell’edizione stefaniana.22 Ma è pur vero, d’altra parte, che Hegel seppe strutturare schematicamente (ossia ‘dialetticamente’) l’idea del perpetuo divenire. In ciò consisté la sua capacità di far presa sull’immaginazione del pubblico, in ciò la sua arte di governo della sensibilità. E nondimeno, entrambi ebbero qualcosa in comune: sulla scorta dei più autorevoli fra gli antichi, e a dispetto dell’evidenza, vollero in tutti i modi fare della coincidenza degli opposti qualcosa di mobile e di sostanziale (anche quando lo definirono ‘essenziale’). Niente di meno vero, per Eraclito: l’idea della coincidenza degli opposti, come ancora dirò in questa Introduzione e, poi, nel Diario, è per lui qualcosa di perfettamente immobile. È l’essere per il pensiero, se vogliamo chiamarlo così; e esso non ha nulla a che fare col cosiddetto non-essere del divenire: il quale non trova in Eraclito, per l’appunto, la
20 Friedrich Schleiermacher, Herakleitos der dunkle, von Ephesos, in Kritische Gesamtausgabe, vol. 6, a cura di Dirk Schmid, de Gruyter, Berlin New York 1998, pp. 110-111 e 135. 21 Schleiermacher, Herakleitos, p. 134. 22 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1998, I, p. 309.
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benché minima ragion d’essere – se non volendo giocare, via via per costruire, sulle parole di Aristotele e sulle immagini di Platone. L’essenza di un insieme di cose legate in modo necessario dalla natura o dal pensiero è in principio un rapporto, proprio nel senso matematico e frazionario, e non ha nulla di ‘dialettico’ o di ‘superante’ – se non nel senso che l’astrattezza del rapporto diventa realtà concreta per mezzo di narrazione, definizione, formulazione, esemplificazione, convenzione e artificio letterario. Insomma: sensibilità e letteratura. *** Facendo di Eraclito un post-kantiano come lui, e con la caratteristica tendenza kantiana a ricondurre ogni problema alla distinzione e all’esercizio delle facoltà, Hegel affermò che per Eraclito si trattò di andare oltre l’intelletto e il concetto, verso l’idea e la ragione. La sensibilità, collettrice di semplici ‘materiali’ per l’intelletto e per il concetto, riafferma il suo ruolo su di un piano più alto. Ma credo invece che proprio il talento della letteratura, intesa come sensibilità ampiamente estesa (una letteratura che per il metafisico è sistema, come per il poeta è epos o dramma o romanzo), abbia fatto difetto ad Eraclito: il quale non seppe e non volle divenire un poeta, neppure metafisico – ma proprio perché volle tenersi il più possibile vicino alle sue intuizioni (anziché, si badi, svolgerle; anziché farle divenire!), andando appena un passo soltanto oltre il silenzio e l’identità e la potenza dell’essere e del pensiero in aforismi e sentenze il più possibile succinti. In questo senso può dirsi ben appropriato il paragone di Vittorio Mathieu tra i frammenti eraclitei e le poesie di Ungaretti.23 Ma proprio per questo bisogna riconoscere che ciò che non mancò affatto ad Eraclito fu la capacità di esprimersi mediante una letteratura minima, ovvero una sensibilità ‘minimamente’ estesa – vale a dire: per simboli o formule. E questi simboli o formule hanno poi avuto fortuna imperitura non meno dell’alquanto più estesa scrittura marmorea di Eschilo – la cosa è innegabile, mi sembra. La differenza sempre attuale, però, la fa il pubblico, che in Eraclito e in Eschilo non è affatto il medesimo; e mentre Eraclito dovette struggersi per non aver mai trovato il pubblico d’un drammaturgo, il contrario non è mai stato vero: che un drammaturgo si sia crucciato, mancandogli il pubblico
23 Vittorio Mathieu, Eraclito, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1993, p. 7. Dopo una citazione epigrafica da Hegel, Ferdinand Lassalle aprì il suo grosso studio su Eraclito all’insegna di una seconda citazione del suo maestro August Boeckh, il quale pensava che Eraclito meritasse l’alloro, proprio come i poeti (Die Philosophie Herakleitos des dunklen von Ephesos, in Gesammelte Reden und Schriften, ed. Eduard Bernstein, Cassirer, Berlin 1920, VII, p. 17).
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dei filosofi. Il risultato politico non è il medesimo, e Eraclito fu un animale politico (sebbene in senso diametralmente opposto al banale significato della sentenza aristotelica, che fa d’ogni individuo la semplice suddivisione infinitesima della comunità sociale). Lassalle non sbaglia quando, come ancora dirò nel commento ai frammenti del Diario, trova nel semplice cenno di Apollo una «simbolica» raffigurazione sensibile della legge divina: perché il simbolo, certo, rivela e nasconde.24 Ma egli non capisce che il simbolo sta da tutt’altra parte rispetto al concetto, al quale Eraclito avrebbe avuto il merito, secondo lui, d’innalzare «i materiali» naturali della sensibilità. E sbaglia, o non intende, non soltanto perché non considera che sul piano sociologico il pubblico del simbolo non è il pubblico del concetto, bensì anche perché, sul piano logico, il simbolo è la condensazione della nozione, e non già del concetto. Il concetto non ha affatto bisogno di simboli per esprimersi, bensì soltanto di una proposizione che non contiene alcuna contraddizione. Esso è incapace di definire esseri complessi, i quali richiedono strumenti di evocazione diversi, come la nozione: ossia ciò che, vivendo di narrazione, ammette in sé la contraddizione. Se un punto di contatto comune fra concetto e nozione è possibile, si potrà forse dire che la definizione mediante la quale si esprime il concetto non è che la minima narrazione possibile della cosa. Ma bisogna, in tal caso, che la cosa sia fatta di una semplice sostanza, e non costituita o costituibile su di un rapporto, che richiede di pensarla come un’essenza. Resta dunque per me chiaro questo punto: che Eraclito non fu in grado di superare la soglia del concetto, e non seppe trovare il mezzo narrativo, letterariamente esteso, che gli avrebbe consentito di esprimere la contraddizione moralistica o l’unità degli opposti antropologica e cosmologica con l’illustrarla, oltre che col sancirla. In questo consiste il significato teorico della sua posizione storicamente diversa rispetto a Eschilo. Basta avere appena intuito il carattere dell’uomo, e leggerlo davvero, per capire con quanto disprezzo egli avrebbe giudicato coloro che innalzano sistemi appena lontanamente simili agli hegeliani, con tutto l’indispensabile corredo esegetico. Quando, deposto o spento il fervore del biasimo esortativo, egli volle divulgare le astrusità della sua meditazione solitaria, rendendole accessibili con degli esempi, fu di una semplicità e di un’umiltà addirittura commoventi. Il destino ha però voluto che non dall’immobile simbologia di questi esempi, bensì dalle sue più confuse e fluttuanti meditazioni fosse tratto, per lo più, il succo duraturo del suo insegnamento. Di ‘hegeliano’ egli ebbe Lassalle, Die Philosophie Herakleitos, pp. 71-72.
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soltanto (e soltanto in certi momenti della sua vita, dopo il ritiro) la moderata pretesa di affermare la coincidenza del pensiero con l’essere – dopo aver passato la prima metà della sua vita a negarla. Fu una pretesa rivolta, tuttavia, per lo più a se stesso, non molto più di una tentazione teorica senza grandi sviluppi: una ricerca, più che una sanzione. Questa pretesa venne frustrata, persino umiliata – ed egli (nell’interpretazione che qui propongo) riconobbe il suo fallimento due volte: si rifiutò, dunque, di farsi vate buono per tutte le stagioni e pronto a tutte le sorprese. Ma tale lo si è fatto, e ancora lo si fa. E non occorrerà nemmeno ricordare che nello Stato, poi, ossia nella sua città, egli non cercò la benché minima esaltazione o tutela – come Hegel, del resto, riconobbe nelle sue lezioni di storia della filosofia. Il resto che parte da Hegel (non da Schleiermacher) è recezione, divulgazione e propaganda: un autentico museo delle curiosità dossografiche, ormai, che può interessare non la cultura, bensì semmai la storia della cultura, la psicologia degl’intellettuali e la sociologia della conoscenza.25 origini della critica contemporanea A Hegel non mancò, come ho detto, quell’astrusa ed ingegnosa abilità di dar forma strutturata al perpetuo divenire, che ancora incanta qualcuno con la sua capacità di rendere tutto, d’un tratto, spiegabile – salvo soccorso esegetico. Essa fece invece difetto allo Schleiermacher, a causa di una forma di prudenza disciplinare e di ritegno nello stile personale alquanto diversi dal ritegno dell’ermetismo eracliteo. Di fronte ad uno Hegel dilagante nei giudizi a braccio, nelle misteriosofie terminologiche e sintattiche, e nelle applicazioni dei suoi schemi, Schleiermacher non si mise ad oracoleggiare, sull’esempio del suo modello antico, ma si avanzò nel fiume quel tanto che basta per non riuscire ad arrivare dall’altra parte. Per convincersi della diseguaglianza pressocché informe del commento schleiermachiano basta osservare come egli noti in una sua pagina che tutti i commentatori sono d’accordo nel riconoscere nei frammenti di Eraclito la generica importanza dell’idea della trasformazione universale; ma quando poi si tratta d’illustrarla nei particolari, egli dice, questo accordo svanisce, e ognuno vede la cosa a suo modo.26 È dunque sull’analisi di questi parti25 Se ne può avere un’illustrazione nel secondo volume del Symposium Eracliteum, grazie ai contributi di Salvatore Nicolosi, L’Eraclito di Hegel e la storiografia filosofica dialettica (pp. 105-130), e di Marco Duichin, Marx e Engels interpreti di Eraclito (pp. 157-189). 26 Schleiermacher, Herakleitos, p. 142.
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colari che egli sembrerebbe volere indirizzare la sua attenzione. Se non che, fa poi esattamente il contrario; e così noi apprendiamo, venticinque pagine più avanti, che l’idea del divenire, o dell’unità e molteplicità del tutto, si può rappresentare con ogni sorta di schema: vanno tutti bene, purché si ammetta che per Eraclito il movimento è tutto e la quiete nulla. Il lettore rimane così piantato in asso, e lasciato a sbrigarsela da sé sul terreno delle conclusioni parziali. Oltre a rispettare l’autonomia di giudizio del suo lettore, che non volle considerare un semplice scolaro, Schleiermacher si rifiutò anche di fornirgli i suoi trucchi di lettura – che peraltro, onestamente, non possedeva. Ma così la filologia fin dall’inizio dell’età contemporanea venne a perdere nel confronto con la filosofia quello strumento di successo che proprio Eraclito per primo andò cercando nel periodo dell’eremitaggio e poi della divulgazione: un piccolo repertorio d’immagini chiare, evidenti, nelle quali riassumere e lasciare facilmente comprendere i risultati parziali del suo pensiero. Di conclusioni parziali con le sue triadi gerarchiche Hegel invece s’intendeva, eccome. Sapeva segnare le tappe, organizzare e strutturare verso una conclusione generale un discorso, che per la filologia rimase invece condannato fin dall’inizio ad una penosa tediosità senza alcuna immaginazione architettonica, ad una libertà girovaga e persino razzolante, randagia. La nozione riassuntiva generale di unità molteplicità e movimento viene espressa in questa prosa faticosa, che può essere considerata, nondimeno, un esempio fra i più chiari di tutto lo stile di Schleiermacher: E se di queste effimere forme se ne vuole scegliere una, che serva da schema al tempo stesso dell’essere e dell’unità, e però [anche si vuole scegliere] il suo [di questa forma] trapasso nelle altre [possibili forme] quale schema del divenire e della molteplicità, ciascuna [vale a dire l’una e l’altra: la forma prescelta, o una forma che poi assume altre forme] può benissimo giovare allo scopo. Perché si può sempre comunque dire che il mondo sia una terra che costantemente diviene e si dissolve, e però anche di nuovo precipita e rassoda, oppure un costante esalare in fuoco e addensarsi in terra, o altresì un perpetuo ripristinarsi in mare da entrambi [da fuoco e terra insieme; ma Eraclito non ha mai detto nulla di simile!], come noi sappiamo che Eraclito ha detto [?] …, sia essa [la terra] un fuoco che in parte continuamente si spegne e in parte continuamente si accende [di nuovo: Eraclito non ha mai detto nulla di simile!]. Ma che egli abbia purtuttavia detto questo, e non quello, trova la sua ragione in ciò: che per lui, per l’appunto, soltanto il movimento era la cosa viva e reale, la quiete e il riposo, invece, il nulla e il morto».27 27 Ivi, p. 169. Ecco il testo, come si presenta nell’edizione Schmid: Wenn von diesen vergänglichen Formen Eine gewählt werden soll um gleichsam zum Schema des Seins und der Einheit, ihr Uebergang in die andern aber zum Schema des Werdens und der Vielheit zu dienen, so scheint jede dazu gleich gut zu sein. Denn man kann eben sowol sagen, die Welt sei eine immer flüssig werdende und schmelzende aber auch immer wieder sich niederschlagende und erstarrende Erde, oder ein immer in Feuer verhauchendes und Erde absetzendes
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Una simile pagina può valere quale esempio di critica ‘romantica’. Essa ha fatto scuola assai più, e più a lungo, che non si creda, soprattutto in ambito pedagogico: tanto, che non è raro trovare ancora divulgazioni del pensiero eracliteo improntate al medesimo stile farraginoso, vagamente omiletico e, in definitiva, concettualmente inconcludente. Ma prima ancora di ottenere i suoi effetti sui banchi di scuola una simile critica ha stimolato i voluminosi cimenti, per esempio, di un Ferdinand Lassalle, teorico politico del motto anarcosindacalista: ‘Il movimento è tutto, il fine nulla’, col quale, in pieno clima schopenhaueriano, la meccanica prevedibile o accademicamente sancita della dialettica hegeliana si sfascia del tutto per finire nel Tutto. Ma non c’è nulla di meno vero: l’universo di Eraclito è e resta sempre un universo finito, dotato di una quantità di energia interna variamente convertibile e riconvertibile, ma pur sempre finita e secondo misura. A parte Lassalle, sul quale tornerò fra poco, il fatto che l’uso pedagogico dei pensieri di Eraclito rappresenti ancora un indirizzo importante per la critica filologica è mostrato, in Italia, dall’edizione Diano – Serra dei frammenti: la quale si conclude con DK 101 («Ho indagato me stesso»), proprio come la raccolta di Schleiermacher. Il significato di tutta la fatica di Eraclito si riassumerebbe, dunque, in un’autopedagogia. È lecito sospettare che gli studiosi attribuiscano in tal modo ad Eraclito ciò che potrebbe aver giovato a loro stessi, o che potrebbe ancora giovare ai loro discepoli. Ora, è un fatto di un’evidenza inoppugnabile, mi pare, che Eraclito passò buona parte della vita, piuttosto, a cercare di educare i suoi concittadini mediante la propaganda di un’igiene dei costumi pubblici e privati alquanto semplice, persino elementare talvolta. È lui stesso a ripetere a sazietà, e non senza sgomento, che ciò che insegna senza essere capito non ha alcunché di astruso. O si vuole proprio credere che abbia cominciato con la propaganda del Lógos (comunque lo si voglia intendere) per poi dedicarsi a biasimare chi si rotola nel fango, si riproduce ciecamente o si riempie il ventre come le bestie? Di qui bisogna partire, dunque, e ammettere che DK 1 non sia stato affatto l’inizio della sua vita (anche se poté essere l’inizio del suo libro, come dice Aristotele – ma questa è tutt’altra faccenda, chiusa per sempre, evidentemente); e bisogna ammettere che l’autopedagogia per lui sia stata un ripiego. aber auch aus beiden sich immer wiederherstellendes Meer, als Herakleitos, wie wir wissen, (s. oben S. 374) gesagt hat, sie sei ein theilweise immer verlöschendes und sich wieder entzündendes Feuer. Daß er aber dennoch nur dieses gesagt hat, und nicht jenes, hat seinen Grund darin, daß ihm eben nur die Bewegung das reelle und lebendige war, die Ruhe und der Stillstand aber das Nichtige und Todte. Il riferimento del curatore alla pagina 374 nel medesimo volume non rinvia il lettore ad alcunché di significativo, che giovi a chiarimento di un pensiero del tutto rapsodico.
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Per discutere la collocazione finale di DK 101 in Schleiermacher e Diano – Serra dobbiamo soltanto chiederci se l’autopedagogia fu un ripiego transitorio o finale. Il tono del frammento ha indubbiamente un significato conclusivo. Ma si tratta di una conclusione totale o parziale? Io credo che sia stato un rimedio transitorio, e che segni una conclusione parziale, appresso la quale deve ancora venire un buon numero di giudizi di conseguenza: perché non si può credere fino a tal punto al gusto per gl’indovinelli! E credo che la soluzione del problema dipenda dalla collocazione di DK 26: Eraclito si volse a scrutare in se stesso quando la luce si spense (metaforicamente) nei suoi occhi, e tornò poi a divulgare ciò che aveva concepito scrutando i barlumi della notte che era dentro di lui. L’autopedagogia non è il risultato di un bilancio della sua vita, da tramandare ai posteri come indicazione dello scopo di un po’ tutte le vite di studio, bensì un episodio di fondamentale importanza formativa che trova un seguito nella divulgazione. Se no, con un Eraclito che esce di scena soddisfatto di sé (come dicendo: “Tutto ciò che ho imparato di me stesso, almeno, nessuno me lo toglierà mai”, o qualcosa del genere) non si capirebbe il significato e il tono di troppi frammenti. La sua immagine somiglierebbe un po’ troppo a quella del saggio, biasimato da Seneca, che uscì dalla città distrutta felice di portare con sé tutto ciò che possedeva: una nuova esperienza, e altra conoscenza. *** Con tutto ciò, non si può negare allo Schleiermacher il valore di capostipite della critica eraclitea (non eraclitante, o post-hegeliana) contemporanea – ma non mi sembra davvero che si possa definire o spiegare la sua critica ‘romantica’ come l’espressione di un disegno storico-filologico di tipo «religioso».28 Ciò presuppone, evidentemente, una personale, metonimica nozione di ‘religione’ che scambia il contenente con il contenuto: non fu ‘la religione’ a contenere la critica ondivaga come gusto di tutta un’epoca, bensì questa quella, così che la religiosità stessa (con o senza panteismi) fu ‘sentita’ in quel particolare modo. Che Hegel abbia giudicato con ironica sufficienza il perfezionismo filologico erudito e faticoso della raccolta schleiermachiana (con uno stile borioso che è poi rimasto caratteristico dell’idealismo nei confronti della filologia – basta pensare ai giudizi di Croce) è più che comprensibile: dalla critica storica egli non poteva attendersi che una smentita dei suoi costrutti (la quale, peraltro, Giovanni Moretto, L’Eraclito di Schleiermacher, in SH, II, p. 104.
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venne anche da chi, come Romagnosi, considerò la filosofia hegeliana della storia alla semplice luce dell’evidenza, soprattutto dell’evidenza delle omissioni). Se qualcuno accettò la sfida di mettere l’idealismo alla prova della filologia, questi fu Ferdinand Lassalle: nei cui scritti di economia, diritto, filologia, politica e letteratura vengono ad esaurire le loro capacità creative i principali contenuti culturali delle due generazioni precedenti, secondo gli scopi pratici di un uomo che aprì la via soltanto all’azione demagogica, e non ad altro pensiero (che non fosse quello della Luxemburg e degli sviluppi anarcosindacalistici del marxismo). Il clima schopenhaueriano e wagneriano assicurò un certo successo alla sua frantumazione dei frammenti sotto la mola dell’hegelismo, che fece della trattazione del discorso eracliteo una specie di ‘melodia continua’. Nel presentare l’opera di Lassalle (che Marx giudicò una sezione della Logica di Hegel) lo stesso Bernstein notò con sorpresa come l’autore fosse riuscito ad essere persino più hegeliano di Hegel senza aggiungere in sostanza nulla di nuovo alla Storia della filosofia, bensì solo sviluppandone i giudizi nei dettagli. Nel 1920 non occorreva più convincere nessuno delle parzialità e addirittura della violenza fatta al testo dei frammenti.29 Desidero portare un solo esempio di questo approccio fortemente pregiudiziale sotto il profilo ideologico. E poiché ci troviamo in sede introduttiva, senza toccare i singoli commenti ai frammenti mi sembra appropriato scegliere, nel trattato, un giudizio tra i più generali e precoci. Lassalle rimprovera a Schleiermacher di avere attribuito al divenire eracliteo una forma del tutto generica: quella del movimento di una semplice «linea retta», o di un «mutamento indifferente», ben diverso dal concetto della «pura negatività», per cui Essere e Non-essere trapassano l’uno nell’altro nell’unità di una «contraddizione assoluta».30 Il lettore si accorge immediatamente che qui Lassalle non contrappone allo sviluppo indifferente della «linea retta» una qualche altra forma schematica (come sarebbero, per esempio, la spezzata o la spirale, la O o la Y), bensì nient’altro che l’uso insistente di una terminologia già definita altrove. Egli cerca di dare all’arbitrio di quest’applicazione hegeliana ai «filosofemi» eraclitei una base filologica, e menziona la «corrente contraria», o enantía roé, del Cratilo (413 e) – la quale, però, significa tutt’altra cosa. Platone fa dire infatti a Socrate: È chiaro che l’adikía (ingiustizia) è un ostacolo per l’ente diaïón (che attraversa), mentre l’andreía significa che ha ricevuto il suo nome in battaglia; e nell’essere, se [questo] vera29 Dalla Prefazione di Eduard Bernstein a Lassalle, Die Philosophie Herakleitos, in Gesammelte Reden und Schriften, VII, pp. 6-11. 30 Lassalle, Die philosophie Herakleitos, pp. 48-49.
introduzione. il lascito eracliteo: un diario di ricordanze 37 mente scorre, la battaglia non è altro che la enantía roé (corrente contraria). Se dunque si elimina il δ dal nome andreía, il nome anreía indica proprio questa attività. È chiaro che il coraggio è la corrente contraria non a qualsiasi corrente, ma a quella che scorre contro il giusto – altrimenti non sarebbe lodato il coraggio.31
Come si vede immediatamente, quella che Lassalle vuole presentare come una ‘corrente dei contrari’ è in realtà, nel Cratilo, una «corrente contraria»: non già un abbandonarsi al contraddittorio flusso delle cose, bensì, viceversa, proprio una ferma posizione di virile resistenza a qualsiasi andazzo, nel nome della giustizia. E per designare il prozessierender Gegensatz eracliteo, giovandosi della terminologia platonica, Lassalle non ha neppure ritegno ad introdurre «senz’altro» (schlechterdings) un suo glossema, fabbricato alla tedesca: enantiorroé. Per il resto, in generale, la prosa pesante, nello stile del manufatto accademico, rende oltremodo faticosa la lettura del trattato di Lassalle. Bisogna purtroppo dire addio alla sintassi per lo più paratattica, o senechiana, del XVIII secolo, e accingersi a sbrogliare i costrutti talvolta piramidali della cosiddetta deutsche Sprache der Wissenschaften. Non si tratta soltanto del fenomeno per cui lo studioso avventizio cerca di mascherare la propria insicurezza (e intanto, però, dà libero corso alle proprie estreme ambizioni): si tratta piuttosto di qualcosa di più sostanziale, che sorge nientemeno che dalle radici speculative della mentalità di tutta un’epoca post-kantiana. Anziché essere dapprima formulato, e poi svolto o accompagnato da un corredo di riferimenti annessi e connessi, non necessariamente vincolanti, l’elemento più importante della frase, verbo o sostantivo, al quale si affida la formulazione del giudizio, viene preceduto da tutta una serie di elementi sintattici che ne circostanziano la validità secondo possibilità e limiti. In questo tipo di prosa il giudizio viene in tal modo sintatticamente ‘fondato’. *** In ogni caso, quando l’opera uscì la sorpresa fu grande, e valse a Lassalle l’accoglienza, patrocinata dal Michelet, nella Berliner Philosophische Gesellschaft. L’ortodossia hegeliana mostrava così di poter sopravvivere in clima schopenhaueriano; e dell’opera fu apprezzato per l’appunto lo sforzo, che si considerò riuscito, d’inferire dal lascito eracliteo un intero sistema. Come dice Lassalle: 31 Platone, Cratilo, in Dialoghi filosofici, a cura di Giuseppe Cambiano, UTET, Torino 1981, II, p. 49 (con una leggera variazione nella punteggiatura).
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«Per noi ne venne il dovere di ordinare la sua filosofia – fermo restando che in essa le distinzioni concettuali di simili discipline non giunsero mai a chiarezza sistematica – nelle quattro sezioni dell’ontologia, della fisica, della dottrina della conoscenza e dell’etica».32 Fino ad allora, invece, non s’erano avuti dubbi circa il fatto che Eraclito non avesse elaborato alcuna sistematica esposizione delle sue teorie, bensì lasciato nient’altro che una raccolta di aforismi su temi specifici. Ma limitarsi ad intrecciare frammenti e testimonianze in una «corolla», alla maniera di Schleiermacher, a Lassalle sembrò un compito troppo modesto, ed egli volle proporsi il compito «ben più elevato» (höher hinaus) di mostrare la coincidenza della filosofia con la storia della filosofia: vale a dire, mostrare come «la legge dello sviluppo della conoscenza debba coincidere con la legge della conoscenza stessa». E al di là dell’esecuzione testamentaria hegeliana (diciamo così), egli si propose di adempiere anche ai compiti di una missione della scienza tedesca, alla quale spettava di unificare filologia storia filosofia religione sotto un’unica contemplazione delle vicende umane e divine. Il suo Eraclito non volle essere che un modesto contributo a questo sacro connubio (hieròs gámos).33 Per illustrare di nuovo con un solo esempio quale sia la prensilità ideologica, mediante la quale («ma appunto perciò»!) Lassalle seppe giovarsi di studi altrui, basterà menzionare questo passo della sua prefazione. Egli è ben cosciente che gli oscuri «filosofemi» di Eraclito sono fortemente sospetti di ridursi a nient’altro che artificio linguistico; e dunque sa essere possibile che con lui cominci, nella storia della filosofia, tutta una vana speculazione fatta di convenzioni e di equivoci terminologici: l’inizio, vale a dire, di una filosofia che forse in maggior grado rispetto, per lo più, alle altre, ha contribuito all’adempimento [Erfüllung] di quella legge dello sviluppo linguistico che [vuol vedere] trapassare il significato originariamente sensibile delle radici lessicali in determinazioni concettuali; di una filosofia la quale però, appunto perciò [aber eben deshalb], nelle sue determinazioni concettuali assume la singolare posizione intermedia per cui l’originario significato sensibile della parola è per essa altrettanto essenzialmente importante [ebenso wesentlich], quanto quella schietta [wahrhaft erkennbare] elaborazione della medesima [parola] in concetto speculativo [geistig] che essa stessa [von ihr selbst] ha intrapreso con la parola, e solo con l’aiuto di quell’originario significato [sensibile].34
Lassalle, Die philosophie Herakleitos, p. 27. Ivi, pp. 29-31. 34 Ivi, p. 23. 32 33
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Chi abbia il gusto d’indagare sui meccanismi logici, terminologici e sintattici dai quali nasce la filosofia dei professori di filosofia; chi voglia trovare un esempio dell’origine d’una superfetazione ideologica, insieme con l’anticipazione di tutto il pesante stile trattatistico dei futuri professori del Secondo Reich, può rileggere attentamente questo passo: nel quale il vivo processo linguistico eracliteo, costretto dalla meraviglia, dall’indignazione e dalla frustrazione all’invenzione di nuovi termini e di nuovi significati (in seguito all’urto con la contraddizione, con l’assurdo, col dolore), troverebbe invece nella filosofia, secondo l’hegeliano, il suo demiurgo infallibile e schietto, capace di guidare ogni passione verso il concetto. La lingua si trasforma in mille guise, certo – «ma proprio perciò» la filosofia vi assume una sua singolare posizione, svolgendo un ruolo di mediazione del fenomeno casuale. In realtà, questa filosofia che si pretende demiurgica è, in Eraclito, tutta quanta dentro la lingua come poesia – e la poesia tenta di diventare poi letteratura minima. In definitiva, non si può rimproverare allo Schleiermacher quello che fu proprio il suo merito: di avere portato nello studio del lascito eracliteo l’erudizione di una critica filologica ecumenica (diciamo così), la quale ebbe il suo corrispettivo nella critica storica d’indirizzo eclettico, o sincretico, di Georg Friedrich Creuzer.35 Mentre però lo Schleiermacher propugnò decisamente l’idea dell’indipendenza inventiva della speculazione eraclitea (con teorie desunte, secondo lui, dalla diretta osservazione della natura), al Creuzer, più che ad ogni altro, si deve invece l’origine della posizione critica favorevole a riconoscere un’origine orientale, asiatica, in quelle intuizioni. Lassalle assunse poi entrambe le posizioni, e a modo suo: un patrimonio così contraddittorio, misterico e fotistico, com’è quello delle culture cosmico-religiose mesopotamica persiana ed egizia, non fu utilizzato da Eraclito che «come materiale», o «sola forma sensibile», o «forma del tutto indifferente» per l’innalzamento della sua unica dottrina: quella del divenire, o della fluente unità di Essere e Non-essere. Eraclito avrebbe fatto insomma, pressappoco, ciò che «recentemente fece la vecchia scuola hegeliana con i dogmi e i misteri della religione cristiana, nei quali essa nascose i propri filosofemi».36 Oltre ai meriti antiquari, Lassalle riconosce a Schleiermacher anche d’aver saputo «sentire» (fühlen) il giusto ogni volta che (secondo lui) non era riuscito a veder bene. Ma vide bene, per esempio, quando si rifiutò di prendere in seria
35 Alle relazioni fra Schleiermacher e Creuzer sono dedicate le pagine più interessanti dell’esposizione di Giovanni Moretto nel Simposio Eracliteo di Chieti. 36 Lassalle, Die philosophie Herakleitos, pp. 61-62.
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considerazione la teoria della conflagrazione universale, o ekpúrōsis, e simili altre delizie della futura critica positivista.37 Io credo, come ho detto, che gli si possa rimproverare di non aver saputo elaborare dal lascito eracliteo forme del divenire distinte, ben definite, e sue proprie, desunte dal testo e dal pensiero, secondo un’interpretazione saggistica priva di preoccupazioni dottrinarie o pedagogiche. Questo difetto negli studi di un’intenzione o di uno spirito saggistico è stata, e rimane, la principale caratteristica della scienza accademica tedesca (al confronto, per esempio, con la francese e con l’americana); e gli ossequienti studi italiani vi si mostrano, per lo più, del tutto conformi. Quanto al difetto d’interesse analitico per le distinte forme del divenire, che lo Schleiermacher sembrò volere apprezzare, e che poi invece trascurò del tutto per riaffermare il vago significato della mistica coincidenza degli opposti, ho già detto che esso fu riassunto da Lassalle come un interesse per un divenire «indifferente», o della semplice linea retta. Un hegeliano di scuola avrebbe facilmente saputo colmare il vuoto con qualche schema triadico – ma Lassalle era troppo intelligente e prudente per andare al di là dell’insistente ripetizione di poche formule sicure. Solo, ciò che nell’insieme si presentava in Schleiermacher senza una forma schematica si doveva potere stabilire con sicurezza entro il disegno complessivo di un sistema saldissimamente concluso (den gesamten Umriß seines durchaus fest in sich geschlossenen System mit Sicherheit feststellen zu können).38 Nel trattato lassalliano questo sistema c’è – ma non è, né può essere, l’eracliteo, bensì lo hegeliano. E si può anche ammettere che la sovrapposizione ideologica trovi spazio in un vuoto – ma non si tratta di un vuoto eracliteo, bensì di una malcollocata pretesa altrui. Per mostrarlo a sufficienza basteranno poche parole. Con un discorso alquanto malcondotto, com’è in genere nel suo stile, nella Fisica (I, 2) Aristotele fa notare come la dottrina eraclitea si possa perdere facilmente nel nulla, approdando non già alla concezione dell’essere come unità dei contrari, bensì alla semplice non esistenza di alcunché: Se tutte le cose sono un uno per il discorso <definitorio>, come ‘vestito’ e ‘mantello’, capita di proferire per esse la dottrina di Eraclito: infatti, sarà possibile che abbiano lo stesso discorso <definitorio> il bene e il male, ossia il non-bene e il bene; per cui il bene e il nonbene, l’uomo e il cavallo [?], saranno la stessa cosa, e la dottrina non riguarderà l’essere <tutte> le cose un uno, bensì [l’essere tutte le cose] il niente, e <sarà> identico l’essere di questa qualità e di questa quantità [?].39 Ivi, pp. 50-51. Lassalle, Die philosophie Herakleitos, p. 44. 39 Aristotele, Fisica, a cura di Marcello Zanatta, UTET, Torino 1999, p. 137. 37 38
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Questa, del possibile nulla conseguente dalla dottrina eraclitea, sembrò a Schleiermacher una conclusione alquanto sorprendente. Ma no, replica Lassalle: si tratta piuttosto di una conseguenza opposta al suo pensiero, verso la quale Platone e Aristotele sospinsero la dottrina eraclitea; e la conseguenza fu tratta non da lui stesso, bensì dai «sofisti eraclitei» che la svilupparono positivamente già «all’interno della sua propria scuola [?]».40 Noi possiamo ben credere le cose siano andate così, e che l’Eraclito tràdito sia stato tradìto – se non che Lassalle avverte che simile conseguenza nichilista fu «dialetticamente sviluppata proprio dal suo [di Eraclito] sistema [doch aus seinem System dialektisch entwickelte Konsequenz]»! Così, in un preteso difensore del vero pensiero di Eraclito noi troviamo la scuola, troviamo il sistema, e troviamo pure, immancabile, la dialettica del difensore medesimo. *** Inutile insistere, mi pare. L’alquanto amorfa, antiquaria, presentazione schleiermachiana del lascito eracliteo è senz’altro preferibile all’inquadramento hegeliano di Lassalle, che chiude un po’ tutte le strade. È del resto possibile estrarre sommariamente dal lascito una serie di forme schematiche, che tanto lo Schleiermacher che il Lassalle, per ragioni opposte, non ne seppero o vollero cavare. Lo studio dei frammenti mi sembra permettere di ricostruire almeno nove schemi logici, distinti in due gruppi principali, che desidero elencare fin d’ora, a mo’ d’introduzione anche di qualcuno dei contenuti, oltre che dei criteri editoriali, di questo riordino. Nella logica dei pensieri si possono trovare schemi di sviluppo aperto o chiuso. Lo sviluppo è aperto, per esempio, in DK 59 (la vite della gualchiera) e DK 88 (i giovani decadono nei vecchi, che a loro volta si dissolvono). Lo schema aperto diventa aleatorio in DK 6 (il sole nuovo ogni giorno); e diventa casuale e combinatorio in DK 52 (il tempo è un bimbo che gioca agli scacchi). Lo schema è chiuso, per esempio, in DK 103 (principio e fine sul circolo). Lo schema chiuso diventa sviluppo a doppio senso o reversibile, per esempio, in DK 60 (la via in su in giù è una e la stessa) e in altri pensieri di fisica elementare; diventa sviluppo scisso o alternativo in DK 61 (l’acqua del mare vitale ai pesci e fatale agli uomini); sviluppo centrico, o a denominatore comune, in DK 90 (tutto in cambio del fuoco, e le merci dell’oro); sviluppo ciclico, come in DK 100 (le
Lassalle, Die philosophie Herakleitos, pp. 53-54.
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stagioni portano tutto) e in DK 36 (le anime diventano acqua, l’acqua terra, la terra di nuovo acqua, e l’acqua di nuovo anime); e infine sviluppo pulsante o anentropico, come in DK 30 (l’universo che si accende e si spegne) o in DK 126 e DK 91b. Sarà appena necessario ricordare che non si devono confondere questi schemi logici con gli schemi o figure retoriche (della metafora o dell’analogia, per esempio) – a meno che non si voglia affermare che la pretesa logica e fisica, oltre che metafisica, si riduce senz’altro, in definitiva, a nient’altro che linguaggio. A conti fatti, si nota immediatamente che gli schemi suggeriti da un istinto o da un’attrazione verso la stabilità, la misura e la finitezza di un orizzonte chiuso (com’è quello della città; e che dunque tendono a fare dell’universo una città cosmica) prevalgono decisamente sugli schemi di vaga apertura verso un divenire infinito o almeno indefinito. E il numero delle specificazioni concrete dei primi, soprattutto, rispetto alle enunciazioni del tutto generiche dei secondi parla chiaro, mi pare. I due gruppi di schemi, aperti e chiusi, si possono riassumere, rispettivamente, nell’immagine del flusso e nella nozione di rapporto. La prima, quella del flusso, non ha quasi bisogno di rappresentazioni, dal momento che è resa facilmente visibile con la fortunata immagine del fiume. Il rapporto è invece una pura nozione del tutto astratta – ed Eraclito ricorre allora ad un’altra immagine, a quella del conflitto permanente: la quale può servire tanto bene a rappresentare la stabilità del rapporto quanto, anche, la variabilità del flusso. Una specie di sintesi generale, insomma. Il fuoco, poi, non è che l’equivalente sostanziale del conflitto, perfettamente adatto allo scopo di darsi un’identità tra i filosofi della Ionia. Ora, una sensibilità ‘romantica’, sebbene filologicamente agguerrita (nessun filologo è privo di preferenze: le sa soltanto nascondere meglio!) – una sensibilità ‘romantica’, dunque, non poteva avere esitazioni nel prediligere l’idea del flusso universale, o della perenne permutazione delle forme. Quest’idea del cosiddetto pánta reĩ di Eraclito, che dopo Schleiermacher è ritornata in gran voga nel Novecento grazie soprattutto a Bruno Snell, è una favola di origine sofistica trasformata in un equivoco: Ippia, contemporaneo di Cratilo, la mise in voga sul finire del quinto secolo trattando non già di Eraclito, bensì di Talete, allo scopo di far dire anche ad Eraclito, coi suoi fiumi, pressappoco quello che faceva dire a Talete: e cioè che l’acqua è l’origine delle cose. Platone conobbe il libro di Ippia (un centone), e prese la cosa con una certa sufficienza – ma ad ogni modo scambiò Talete con Eraclito, sotto la perdurante suggestione delle proprie origini ideologiche cratilee. Aristotele rese poi definitivo l’equivoco – polemicamente aggravandolo, per giunta, col fare dell’acqua non
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soltanto un principio originario, bensì anche una sostanza, secondo criteri di giudizio interamente suoi propri.41 In conclusione, è facile vedere come lo stato assai disperso in cui ci è stato tramandato il lascito eracliteo sia aggravato dalla varietà delle forme in cui si presentano anche i pensieri apparentemente dotati di una maggiore omogeneità di contenuto. La storia della critica vi aggiunge le sue forti e ricorrenti predilezioni nel prendere una qualche parte per il tutto. Ma non è impossibile (come poc’anzi si è visto sommariamente per i frammenti tecnici, fisici o cosmologici) trovare criteri di raggruppamento relativamente semplici e poco numerosi. Ciò rende possibile affrontare l’impresa del raggruppamento monotematico dell’insieme di tutti quanti i frammenti. Tornando dunque a parlare delle scelte editoriali, dirò che tra i criteri di elencazione dei frammenti che ho più sopra menzionato il migliore resta, a mio giudizio, il terzo (un’unica elencazione, con partizioni, secondo una libera interpretazione): il quale unisce i pregi del primo e del secondo criterio (ordine dei testimoni, e liberi gruppi tematici). Ma esso deve venire integrato dal giudizio biografico: perché una volta stabiliti i capisaldi principali di uno svolgimento biografico piuttosto che teorico (mediante la scelta del primo pensiero e di pochi pensieri di svolta), è relativamente semplice, poi, ordinare la sparsa materia dei frammenti secondo la successione corrispondente ad un immaginario ‘discorso’ o lógos indirizzato all’attività pratica.42 La linea di svolgimento generale che ho prescelto per questa traduzione e interpretazione non è di prevalente carattere teorico, dunque, bensì biografico, per le ragioni che ho detto e che verrò ancora illustrando. Nel lascito eracliteo non mancano, del resto, le più vistose contraddizioni: le quali lasciano facilmente capire che Eraclito ritornò almeno due volte sui suoi pensieri, modificando sensibilmente precedenti affermazioni, ovvero mitigandole nel senso, per esempio, di cavarne il contenuto moralistico. Il cambiamento di tono e d’interlocutore è spesso evidente in numerosi frammenti. Mi sembra poi anche importante che, all’interno di quest’arco di svolgimento principale, i criteri secondari di suddivisione tematica debbano essere
41 Ciò si trova esposto in modo molto convincente da Iaap Mansfeld, Cratylus 402 a-c: Plato or Hippias?, in SH, I, pp. 43-55. 42 Il significato della parola lógos è stato molto discusso – inutile riparlarne. In Esiste una dottrina del Lógos in Eraclito? Thomas More Robinson ne elenca sommariamente le più comuni accezioni (discorso, struttura, verità, legge, significato), distinguendo le asserzioni predicative, che danno un giudizio sulla cosa, dalle asserzioni d’identità, che dicono cos’è in verità quella cosa (SH, I, pp. 65-72). Nell’ultimo sottotitolo di questa Introduzione dirò come nella seconda parte della sua vita il significato di ‘legge’ tenda a scomparire dal suo pensiero, a favore d’altri princìpi normativi.
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pochi, e dei più semplici – così che l’opposto di questa posizione, insomma, può considerarsi l’edizione assai tecnica di Marcovich: la quale somma all’abituale disinteresse biografico della critica anche una forte frammentazione dei raggruppamenti teorici. E poiché non è di una nuova edizione dei frammenti che qui si tratta, bensì semplicemente di una traduzione e di un’interpretazione (come del resto avverrebbe comunemente con un qualsiasi altro autore), conservo la numerazione Diels – Kranz per ragioni di comodità nei confronti. Alla numerazione DK segue la numerazione DS dell’edizione Diano – Serra, che è fra le più diffuse in Italia, e la numerazione C della proposta di lettura di Antonio Capizzi. un moralista politico Alla proposta di Capizzi il presente studio si avvicina sotto il profilo principale, che fa di Eraclito, innanzitutto, un moralista politico. Secondo Vittorio Mathieu (che la chiama, non si sa perché, sociologica), la lettura biograficopolitica qui prescelta avrebbe «a lungo ammorbato il nostro secolo» – sebbene essa abbia il suo autorevole capostipite nella testimonianza del grammatico Diodoto, il quale affermò l’interesse principale di Eraclito non essere stato la natura, bensì la politica (perì politeías). Non so come il Mathieu possa giustificare la sua affermazione – e infatti non la giustifica. Non mi sembra affatto che studi del genere siano prevalsi nella letteratura, tanto da ammorbarla: basta leggere, per esempio, i contributi al Simposio Eracliteo di Chieti del 1981, che di un eurismo biografico della critica recano ben poche tracce.43 E tra questi contributi, per l’appunto, non so neppure spiegarmi, d’altra parte, come si possa indebolire la testimonianza di Diodoto, dopo averla messa in rilievo, facendo della sua «politica», o interesse per la cosa pubblica, un’antropologia senz’altro.44 La cosa si può spiegare soltanto con un persistente sforzo degli studiosi, tendente a moderare questo interesse per la politica: ragion per cui essa viene in qualche modo accordata con la fisica attraverso la ‘natura’ umana – come se ce ne fosse bisogno. La fisica elementare o cosmologica di Eraclito è politica metaforica o analogica o induttiva, nel senso che
43 Mathieu, Eraclito, p. 4. Nella nota 4 di p. 71 egli fa un semplice riferimento alle radici «in senso lato ‘politiche’» del carattere scorbutico di Eraclito, come esse sono messe in risalto da Remo Bodei e da Marcel Detienne in due interviste contenute nella videocassetta allegata al volume. La terza intervista è rilasciata da Georg Gadamer. 44 Lambros Couloubaritsis, Prolégomènes à l’anthropologie de Héraclite, in SH, I, pp. 121-128.
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deve presupporre in qualche modo l’esperienza cittadina e l’antropologia. Ma la riconduzione del pensiero dalla fisica elementare e dalla cosmologia alla città e all’antropologia, senza mezzi termini, in Eraclito non esiste affatto: altrimenti egli avrebbe descritto in qualche suo pensiero una natura umana e una città soggette al medesimo ciclo di elementi fisiologici e di fazioni municipali. Idee simili compaiono nel pensiero dei naturalisti politici come Machiavelli, ma non in Eraclito; e questa è la ragione per cui ho interpretato in senso tecnico, riferendolo alla tessitura e non alla politica, il frammento DK 60 sulla via in su e in giù (che altrimenti non significa niente; e bisogna pur avere il coraggio di dirlo). L’interesse antropologico in lui esiste certamente, e fa da tramite all’interesse cosmologico – ma, per l’appunto, non fa che da tramite in una sola direzione. Ma non voglio insistere su cose già dette. D’altra parte, l’intuizione dell’uomo come di una città bisognosa di governo non assume in alcun modo una consistenza sufficiente per affermare che in Eraclito l’interesse per la politica si riduce all’interesse per l’antropologia – in modo da ridurre poi quest’ultima al consueto moralismo (che è il vero scopo dei riduzionisti antipolitici e antibiografi). È vero il contrario: è vero che egli ad un certo punto dovette riconoscere che l’uomo è così com’è in seguito all’esperienza fallita della propaganda sulla legge e sul governo. Una delle ragioni del suo fallimento consiste nell’incapacità del suo pensiero di soffermarsi abbastanza a lungo su alcunché non avesse attinenza con i suoi scopi pratici: non appena trovato un sufficiente numero di formule, egli abbandonava il problema, o lo riformulava su altri piani. In questo suo intelletto abile e girovago c’è un po’ già la presunzione del capostipite dei filosofi di professione, almanaccanti senza disporre di vero mestiere o competenza – ma a veder bene c’è anche la modestia di chi dovette riconoscere, almeno una volta, di trovarsi di fronte al problema insolubile dell’umana indole, che non cambia. Oltre la metà dei pensieri superstiti di Eraclito dipende, in un modo o nell’altro, da questo riconoscimento. E noi, allora, possiamo anche fare dell’antropologia il ‘perno’ del riordino del suo lascito – ma il ‘perno’ non è che un punto: basta intendersi, poi, sull’estensione e sul peso della svolta. La lettura prescelta in questo studio, dunque, è principalmente politica e biografica. A dispetto della sua scelta di solitudine, Eraclito fu un uomo di città, e della sua città. Fu un intellettuale cittadino, come del resto non poteva non essere. Il suo pensiero nasce morale e politico, e va interpretato innanzitutto sotto questa luce. La sua sdegnosa solitudine va giudicata sulla misura della corruzione o dell’inettitudine cittadine, e l’albagia che gli sarebbe stata connaturata trova comunque una smentita nella sua premurosa disponibilità a stabilire un dialogo con gente alquanto più umile (non si deve dimenticare
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che egli fu sacerdote di una divinità non propriamente olimpica; in questo senso si può parlare semmai, sotto un importante profilo secondario, di lettura ‘sociale’). Eraclito non fu uomo impegnato in una dotta discussione a distanza con dei corrispondenti italioti o ionici, come volle la maggior parte degli studiosi di quell’epoca che, per più generazioni, vide gareggiare l’idealismo col positivismo sul terreno di un comune pregiudizio accademico. Durante le meditazioni del suo ritiro nella solitudine del tempio (più probabilmente), o dell’eremitaggio (meno probabilmente), egli sarà stato informato dei risultati di speculazioni naturalistiche che erano sempre state lontane dai suoi veri interessi e dai suoi umori. Il bisogno di evasione dalla vita cittadina in questo esilio mentale delle dotte stravaganze, oltre alla curiosità intellettuale, può avergli suggerito l’idea di elaborare a modo suo, più astrattamente, dottrine e ricerche che in realtà non gli appartenevano. Simili speculazioni gli potevano per giunta offrire materiali utili per il suo insegnamento – ma non molto di più. E peggio ancora, poi, se è vero che s’inventò tutto da solo: come volle, per esempio, lo Schleiermacher sulla scorta di quegli antichi, come Filone Alessandrino, che fecero di Eraclito, senz’altro, nientemeno che un inventore.45 Schleiermacher cita in nota, per giunta, l’opinione di Georg Friedrich Creuzer, il quale fece di questo ‘inventare’ qualcosa di più plausibile: la filosofia della natura di Eraclito non derivò dalla diretta osservazione della natura, bensì da una sorta di divulgazione della simbologia del culto di Artemide di cui era, o era stato, ministro. Il Creuzer era particolarmente incline, diciamo così, al sincretismo storico-critico, sempre ben disposto ad ammettere la possibilità di scambi e di contaminazioni. Ma nessuno può negare, mi sembra (e così fa lo stesso Schleiermacher), che nei frammenti eraclitei non si trovi la minima traccia di teologia cólta, se non per allusioni le più generiche.46 Insomma: egli, che parlò di morale in termini del tutto espliciti, e che parlò di leggi e di politica in termini per lo più perifrastici o figurati, avrebbe forse preferito parlare di religione in termini ancora più criptici, vale a dire naturalistici? Ciò potrebbe anche essere ammissibile, qualora noi giudicassimo inconcussa la sua fiducia nell’efficacia pedagogica della religione – ma così non sembra: perché non si spiegherebbe, se no, quella sua veemenza dei biasimi e delle esortazioni che è tipica, piuttosto, di un uomo che deve constatare la propria impotenza professionale. A che scopo, dunque, sforzarsi di tradurla in altri termini, facendone la difficile espressione fisica e metafisica di posizioni non più sostenibili? Schleiermacher, Herakleitos, p. 122. Ivi, p. 131.
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*** Restiamo dunque all’evidenza. E questa ci mostra senza ombra di dubbio che l’oscurità del linguaggio su terreni a lui poco familiari non esiste affatto, invece, sui temi che più gli stavano a cuore. Quando tratta di moralità privata, Eraclito sa parlare in modo del tutto chiaro di asini e di maiali. L’oscurità è moderata quando ingredisce la sfera pubblica, religiosa e politica – un terreno, questo, sul quale egli volle o dovette riguardarsi. La testimonianza di Diogene Laerzio sul suo disdegno, che gli avrebbe senz’altro fatto rifiutare il ruolo di legislatore in una città ormai troppo corrotta, rende inspiegabile il contenuto di troppi frammenti della massima importanza, e non ammette che egli abbia potuto anche fare, almeno per un certo tempo, da patrocinatore di una riforma. Del resto, Diogene Laerzio non menziona neppure il suo rango sacerdotale. Poiché questa sua proverbiale oscurità non esiste per nulla nei frammenti polemici e parenetici, del biasimo e dell’esortazione morale, che sono talvolta di una chiarezza persino brutale, è chiaro che l’oscurità e la brevità reticente sui terreni fisico e metafisico devono corrispondere ad altra cosa. Esse furono una cosmesi, e quasi una necessità, allo scopo di nascondere la mancanza di originalità o la derivazione, la commistione e la contaminazione, l’estrapolazione e l’induzione (in Eraclito non si trova una sola deduzione!), o persino l’eclettismo degli argomenti con la fissazione della ricerca dell’unità in una materia che sfugge – in definitiva: oscurità e brevità furono il dilettantismo dell’avventizio, che si esercitava sulla base di dottrine altrui, malamente conosciute. Ad un chiaro accesso a queste dottrine gli doveva fare impedimento la natura umorale, turbata dal pregiudizio moralistico e politico, o dal senso civico dell’ordine – tanto, che Pitagora e i suoi pericolosi sovversivi settari non furono da lui trattati molto meglio di Omero. Intellettuali vissuti in epoche successive, anche assai lontane (in età alessandrina e post-alessandrina, imperiale specialmente), che nulla più, o ben poco, potevano comprendere della vita cittadina ormai disfatta, non furono neppure in grado, per conseguenza, d’interpretare il pensiero eracliteo alla luce di questo assunto fondamentale e indispensabile per capirlo. Platone ancora ne trasse unicamente ciò che gli serviva: il succo teorico della tendenza, o i radicali liberi del pensiero, per così dire, senza minimamente curarsi di restituirne l’intero profilo, bensì trattandolo per assunti logicamente occasionali. Aristotele e la dossografia teofrastea fecero il resto: così che non riuscendo più a capire l’uomo e il suo pensiero immersi nella situazione cittadina, si cominciò a volerne ricostruire la dottrina scientifica. Il costume accademico ha ot-
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tenuto il suo prevedibile successo attraverso lo spazio di due dozzine di secoli. In età positivistica, specialmente, i virtuosismi circa la possibile congruenza dottrinale del supposto fisico, metafisico, cosmologo, meteorologo, fisiologo e psicologo, logico e ontologo, epistemologo, iniziato iniziante, e quant’altro ancora (scambiato talvolta nelle testimonianze antiche, per giunta, con Eraclide Pontico o addirittura con Eracle,47 così come l’amico Ermodoro potè essere, all’occasione, un Ermocrate) – simili cimenti, dunque, hanno fatto la delizia degl’interpreti in ponderosi volumi di congetture e di dotte discussioni e polemiche sopra non più di un centinaio di ricordanze significative, e anche meno, raccolte talvolta in meno di una dozzina di pagine. E c’è chi nota giustamente che fra le circa duecento righe del lascito eracliteo solo ventisette hanno un possibile contenuto cosmologico – e non sempre sicuro.48 E con la dottrina dovevano anche arrivare, inevitabili, i campioni delle scuole: con la contrapposizione di Eraclito a Parmenide, per esempio, e gli annessi quesiti di cronologia intesi a stabilire quelle precedenze che sono indispensabili per fare la storia delle dottrine, e per credere nel progresso della Storia della Filosofia. Tutti esercizi assai utili – ma nient’altro che esercizi di plausibilità delle ipotesi più virtuosistiche; i quali andavano pur fatti, e che comunque sono stati fatti, e il cui risultato non giova, per lo più, che a conoscere la storia degl’intellettuali attraverso le diagnosi da essi medesimi effettuate sui loro per lo più malcapitati pazienti. «I medici tagliano e bruciano» – appunto. Assurdità o paradossi, bizzarrie e stravaganze del solitario non poterono che alimentare la sua leggenda, non senza la curiosità un po’ malevola dei mediocri: i quali dovettero notare che la vita di Eraclito era stata, per l’appunto, tutta quanta una contraddizione. Se non altro, perché riconobbe il ruolo universale della contraddizione, e però non la seppe mai tollerare; perché predicò il divenire, ma visse nella fermezza; perché si amareggiò nell’educare gente che apertamente disprezzava; perché pretese di fustigare i poeti nazionali cimentandosi come poeta dilettante, e di bandire i dotti politecnici presumendo, lui
47 Vedi, per esempio, nel secondo volume Diels – Kranz l’illustrazione di una moneta che ritrae Eraclito d’Efeso impugnante nella mano sinistra (o destra, se la riproduzione è fatta a specchio) una clava (Hermann Diels e Walther Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Dublin Zürich 1966, p. 3). 48 Conrado Eggers Lan, Ethical-religious meaning of fr. 30 D.-K., in SH, I, p. 292. Il numero dei frammenti, che di solito non raggiunge i centotrenta, varia, com’è noto, secondo l’attribuzione e lo scorporo dalle testimonianze. Almeno una ventina di essi hanno scarso peso, o sono d’incertissima attribuzione e significato. Pur con tutti gli eccessi dovuti ad una formazione culturale di origine positivistica, o all’enfasi su temi naturalistici di moda, il meglio di quanto è stato prodotto negli studi eraclitei novecenteschi meno recenti è stato esposto, in Italia, da Rodolfo Mondolfo e da Leonardo Tarán. Temo invece che con un Marcovich rifugiato sotto l’egida di Heidegger un novello, ingenuo Teofrasto abbia trovato il suo nuovo oscuro Aristotele (v. nel Diario il commento a DK 93).
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solo, un po’ tutto sapere; perché il corpo che aveva duramente castigato si prese infine la sua rivincita, cagionandogli una morte triste, forse persino crudele, e comunque indegna d’una qualsiasi trasformazione ch’egli stesso potesse aver previsto e predicato. Ma quei suoi critici curiosi, e un poco forse anche compiaciuti, non notarono ciò che più conta, per noi: che la sua vita fu in verità, nell’insieme, tutta quanta una tragedia. E non fu una tragedia per queste sue contraddizioni soltanto, bensì proprio perché Eraclito, nella sua crisi di rinuncia e di afasia, non seppe diventare un drammaturgo tragico, portando la sua lezione pedagogica davanti al popolo riunito in teatro grazie alla dote di un vero talento poetico, che gli mancò. E io mi azzardo a credere che la filosofia speculativa, se anche non vuole confessare la sua natura di genere letterario, debba però almeno ammettere di nascere da un difetto di talento letterario, il quale induce a concepire l’ideale sensibile soltanto in quanto è un ideale, e non in quanto è anche sensibile. L’ideale non ammette di subire trasformazioni, se non nella fenomenologia storica, che è la sua sensibilità involontaria, mentre il sensibile dell’ideale ritorna, e resta uguale a se stesso nelle trasformazioni. Nella storia del pensiero Eraclito si colloca all’origine dell’alternativa, e la risolve, per lo più, a favore della sensibilità. un uomo frustrato Un Eraclito tradìto da un Eraclito tràdito, dunque? Sì, in buona parte – ma non basta. Un Eraclito che bisogna, e che basterebbe, rimettere dentro Efeso, e poi restaurare e riordinare soltanto, per capirne il pensiero? No – questa conclusione è troppo semplice: perché egli stesso contribuì, con uno stile che non fu privo di vanità, ad alimentare la propria leggenda, mentre buona parte di quanto resta, o si è perduto, del suo pensiero sfida anche l’ottimo assunto di un’interpretazione che vedesse in lui soltanto l’animale politico. La polemica cittadina in Eraclito non è tutto: sostenerlo è impossibile. Bisogna perciò ammettere degli svolgimenti. E bisogna che questi svolgimenti siano pochi, semplici e plausibili. L’interpretazione di Antonio Capizzi, dunque, ha i suoi meriti – ma non basta. E siccome non basta, Capizzi esagera – anche per omissione. Nel suo ottimo contributo al Simposio Eracliteo di Chieti egli è costretto ad ignorare la solitudine di Eraclito, e il suo auto-esilio, nonché le manifeste contraddizioni tra i suoi pensieri.49 Che il lógos eracliteo, com’egli sostiene, abbia po Antonio Capizzi, Il mito paradigmatico da Omero ad Eraclito, in SH, I, pp. 315-328.
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tuto essere una legge scritta, e scritta magari dal suo amico Ermodoro, con la collaborazione forse persino di Eraclito stesso, è una brillante ipotesi, che può trovare conferma in alcuni frammenti, e che può aiutare a spiegare il significato di altri ancora. Ma non basta per tutti. Che quella legge scritta possa essere la nuova costituzione cittadina, concepita e redatta dopo la conquista insurrezionale dell’indipendenza ionica, oppure dopo l’elargizione dell’autonomia da parte di un Mardonio in cerca di uomini e di quattrini per l’impresa di Grecia,50 è possibile – ma non vedo come si possa interpretare lo scritto di Eraclito come un commento a quella costituzione, che dovette risultare indecifrabile e incomprensibile ai barbari ospiti, o alle anime barbare dei suoi concittadini, non avvezzi ad essere governati da leggi. «Alla ‘barbarie’ delle anime Eraclito, nel prologo del suo scritto, offre lo scritto stesso come rimedio: in esso infatti egli “spiega quel tipo di parole e di azioni (che quelle persone non comprendono), distinguendo ciascuna di esse secondo la sua natura e dicendo com’è” [DK 1]; si comporta cioè (rimanendo nella metafora delle ‘anime barbare’) come fa l’interprete, che traduce il discorso in un linguaggio che lo straniero possa comprendere».51 Ma così, oltre a fare di Eraclito una specie di giurista (dopo avere rettamente negato che sia stato un filosofo impegnato in speculazioni accademiche), lo si fa parlare non più di un solo lógos, bensì di due: la legge scritta, e il commento scritto contenuto nel suo libro. La lettura dei frammenti non ammette che le due cose possano stare pacificamente insieme nel medesimo pensiero; e infatti è lo stesso Capizzi a ribattere agl’interpreti, i quali parlano di due lógos (‘la ragione’ universale, e ‘lo scritto’ eracliteo), che, «partendo da questa ipotesi, il presunto doppio significato si manifesterebbe anche all’interno di uno stesso frammento, il primo [DK 1]», il quale diventa così semplicemente incomprensibile – «a meno che … non si spinga l’ambiguità arcaica del linguaggio presente in Eraclito fino a fargli usare la stessa parola in due sensi radicalmente diversi all’interno di una stessa frase»; il che sembra sorpassare ogni credibilità.52 È una perplessità legittima, questa, ma non per ragioni di credibilità: nella stessa frase Eraclito potrebbe anche avere usato una stessa parola in due significati diversi – solo che, per superare simili difficoltà, non si può ricorrere all’espediente di menzionare un’ambiguità semantica che sa-
Erodoto, VI, 43. Capizzi, Eraclito, p. 33. 52 Ivi, p. 35. Capizzi riconosce il suo debito verso un’analoga osservazione di Kirk; ma rinuncio d’ora in poi a menzionare di continuo, a mia volta, simili riferimenti, per non trasformare queste note in una cattiva e non richiesta storia della critica. 50 51
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rebbe tipica di linguaggi arcaici. È una vecchia scappatoia, questa della lingua ‘arcaica’ e del mondo ‘arcaico’. Quando viene il momento, nessuno sa ben dire che cosa mai sia.53 Non si può dunque escludere affatto che il significato di lógos, almeno in DK 1, possa anche essere uno solo. E il fatto che i lógos siano due, ma non siano quelli (la Ragione Universale degli stoici, e il libro eracliteo), bensì altri (cioè la legge scritta cittadina, e il suo commento nel libro eracliteo), lascia il problema esattamente com’è. Le due cose non si possono ridurre a una sola (Capizzi: la costituzione; Diano: il libro). Il lógos di DK 1 è ‘legge scritta’ in entrambi i casi – ma non può essere la stessa ‘legge’, ossia la costituzione: perché è difficile credere che nel consegnare le sue riflessioni ad un libro Eraclito abbia lamentato soltanto l’incomprensione per la legge cittadina: quella medesima, cioè, che da lui stesso, autore o almeno collaboratore, era forse stata concepita o redatta; e che era stata poi esposta per essere letta da chi sapeva leggere, e da lui stesso spiegata a chi non la sapeva leggere. È difficile credere che, con l’indifferenza del pubblico nei confronti della legge scritta, egli non lamentasse anche l’insofferenza per la sua predicazione. È il suo impegno, che i cittadini non capivano. Prima di essere scritto, il contenuto del suo libro (o meglio: parte di esso) era stato a lungo e inutilmente proclamato, perorato, propugnato. Il discorso scritto e orale, al termine di un’esperienza fallita, doveva ormai fare tutt’uno, per lui. E riesce dunque anche difficile credere che per risolverlo basti attribuire alla parola lógos un unico significato, quello di ‘discorso’ – il discorso, cioè, del libro eracliteo sulla legge: come fa Diano, che vorrebbe liberarsi del problema una volta per tutte con quella che è, in definitiva, una cosmesi terminologica e un altro vecchio espediente. Il quadro storico che abbiamo delineato, e a cui, per i problemi che involge, abbiamo dovuto dare una certa ampiezza, mentre conferma, per le parti di questo frammento da noi considerate, l’interpretazione che già la grammatica valeva a rendere certa, e segna i limiti semantici entro i quali ogni discorso su Eraclito va tenuto, ci permette di escludere sin da ora, e per le parti di questo frammento che ancora rimangono da esaminare, e per gli altri frammenti nei quali lógos è attestato, ogni interpretazione che vada al di là dei valori che il
53 È la risposta di Carlo Diano a chi aveva notato il problema del doppio significato di lógos in DK 1 prima di lui, risolvendolo con un riferimento alla cosiddetta ‘mentalità arcaica’ (Eraclito, I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano e di Giuseppe Serra, Fondazione Valla – Mondadori, Milano 1980, p. 102 nota 1). Nel commento ai primi quattordici frammenti della sua raccolta Diano si sofferma sul problema, diciamo così, della coabitazione dei due significati di lógos in DK 1, giudicandola egli pure inammissibile. Ma il suo studio, interrotto nel 1974, non fu completato e pubblicato che nel 1980, per opera di Giuseppe Serra. Capizzi, che aveva già pubblicato il suo libro l’anno prima, non lo poteva conoscere, almeno pubblicamente.
52 parte prima. eraclito vocabolo al tempo di Eraclito aveva raggiunti. Cadono così di colpo tutte le interpretazioni – e sono del maggior numero – … più o meno influenzate dalla tradizione stoica.54
Così mi sembra però che il rifugio nella ‘mentalità arcaica’, già respinto, venga soltanto cercato da un’altra parte: nel significato del vocabolo «al tempo di Eraclito», passando soltanto da una dotta antropologia a una dotta storia della lingua, che si presume garantire dei risultati sicuri.55 È lo stesso Diano a segnalare l’importanza del ruolo che la sineddoche, fin dal tempo di Anassagora, ebbe nell’evoluzione storica della parola lógos.56 Appunto: due significati, più largo e più stretto, possono stare uniti in una sola parola per sineddoche – e allora bisogna ammettere che Eraclito conoscesse già qualcuno degli espedienti della retorica. Quanto poi alle certezze grammaticali, mi permetto di trovare poco convincente l’interpretazione del dé iniziale, attestato da Ippolito.57 Non perché esso non sia originario – al contrario: è chiaro che il libro non poteva cominciare con le precise parole di DK 1. Ma non vedo come questo importantissimo frammento, così denso, oltre che d’acrimonia e d’amarezza, anche di riferimenti impliciti, indirizzati ad un lettore già preparato ad intenderli, potesse venire subito dopo il sigillo d’esordio. Non è con la sfragís che si lega il dé. Quando poi Diano interpreta toũ dè lógou toũd’eóntos come un genitivo assoluto,58 mi pare che abbia ragione – ma poi bisognerebbe ritrovarlo nella sua versione italiana; la quale invece, senza conferire al testo alcun particolare rilievo, lo rende semplicemente con le parole: «Non intendono gli uomini questo Discorso che è sempre». E la maiuscolazione della parola ‘discorso’ mi sembra, di passaggio, un espediente per tornare a barcamenarsi con gli stoici, dopo avere risolutamente bandita una volta per tutte la loro Ragione, la loro Legge, il Cosmo, il Fato e Dio.59 È strano infine che, dopo avere dedicato al commento di DK 1 decine di pagine, un uomo così attento si sia lasciato sfug Diano-Serra, Frammenti e testimonianze, pp. 100-101. Una certa frequentazione dei filologi specialisti insegna presto ad apprezzare quel che valgano davvero i riferimenti all’uso comune di una parola «al tempo di» (e perché non anche “dove”?). Nel muovere sue obiezioni allo Zeller il Marcovich, per esempio, osserva che nessuna delle tre coppie di verbi in DK 91 b (“si dissolve e si addensa, si costituisce e si disperde, si avvicina e si allontana”) può essere eraclitea, bensì di origine o derivazione scettica (Mondolfo e Tarán, Eraclito, p. 36 nota 43). Al tempo e al luogo si aggiungono così i gerghi delle scuole – non diversamente da quanto si fa ancora al giorno d’oggi, del resto. Diels ha sottolineato come il gusto per l’oscurità del linguaggio, per esempio, fosse una caratteristica dell’epoca, che si ritrova in Pindaro e in Eschilo (ivi, p. 27 nota 24). Il riferimento ad un ipotetico usus scribendi fa da archetipo della lingua, non diversamente da quanto avviene nella recensione dei codici. 56 Diano-Serra, Frammenti e testimonianze, p. 100. 57 Ivi, pp. 89-90. 58 Ivi, p. 104. 59 Ivi, p. 100. 54 55
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gire nella traduzione lo állous della proposizione conclusiva, col quale Eraclito designa una terza categoria di cittadini o di abitanti. La credibilità della lunga e ormai (passate le mode) poco convincente analisi strutturalista della sintassi del frammento, che ne vuol fare a tutti i costi un microcosmo contenente in nuce l’intera dottrina,60 non può che uscire gravemente pregiudicata da una simile omissione. Con le ultime parole di questo frammento Eraclito allude infatti ad «altri», come se fossero ben noti al lettore, e come se persino li avesse già menzionati. È un’altra prova che il frammento DK 1, a dispetto di Aristotele, non poteva trovarsi in apertura del ‘discorso’. E poiché egli menziona distintamente chi sa leggere e non sa interpretare, e chi non sa leggere né intendere la sua spiegazione, è possibile che egli abbia riservato la sua ultima sdegnosa allusione proprio ai cittadini del suo rango. Non è verosimile, infatti, che Eraclito si sia dato a spiegare il ‘discorso’ a chi già doveva conoscerlo perfettamente – se non altro, per averlo osteggiato (nel caso della legge scritta), o per averne conversato e discusso privatamente con lui, trovandolo indisponente o astruso (nei casi, rispettivamente, del biasimo e dell’esortazione, oppure della dottrina). Noi possiamo dunque supporre che nel frammento DK 1 Eraclito lamenti non una, bensì due frustrazioni della sua volontà: una frustrazione attuale, dichiarata, venendo a contatto con gente diversa dalle sue frequentazioni abituali, alla quale egli dovette rassegnarsi a rivolgersi dopo avere patito una frustrazione pregressa in compagnia di gente del suo medesimo rango – il ceto dei nobili o dei notabili cittadini. In piena sintonia con le sue successive simpatie politiche filo-tiranniche, il suo ‘discorso’ rappresentò dunque, in qualche modo, un appello demagogico al popolo. Ma per esercitare questa demagogia pedagogica egli dovette infine accorgersi di non possedere strumenti letterari adeguati. A nient’altro che all’incapacità di farsi tribuno e persino poeta, e anzi ormai, considerati i tempi, a nient’altro che all’incapacità di farsi drammaturgo e di portare il popolo a teatro – a nient’altro che a questo, dunque, si deve in ultima analisi, almeno per lui, lo sviluppo della metafisica. l’antropologia cittadina In termini non molto diversi dal problema del lógos si pone il problema delle ‘anime barbare’, perché il riferimento può essere duplice: metaforico e no. Sono ‘barbare’ le anime dei suoi concittadini, che non capiscono ciò che leg Ivi, pp. 104 ss.
60
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gono (la nuova legge scritta) prima che lui la spieghi; e sono ‘barbari’ i noncittadini, i non-greci, che non sanno neppure leggere né ascoltare. Le categorie dei ‘barbari’ sono due, come spiega testualmente DK 1 (così che, secondo qualche interprete, la città si dividerebbe in realtà per Eraclito in tre fasce, alla prima delle quali appartiene evidentemente lui stesso, insieme con uomini come Ermodoro). Ma interpretare la cosa, come fa Capizzi, nel senso che vi sarebbero in città un «gruppo di maggioranza», corrotto e non-patriottico, o anzi anti-patriottico e addirittura (di volontà, o di fatto) filo-persiano, e un più virtuoso «gruppo di minoranza» al quale Eraclito avrebbe indirizzato il suo appello, mi sembra davvero nient’altro che un’ipotesi molto moderna e poco seducente: Eraclito ha sempre ignorato le fazioni.61 La distinzione tra gli efesini è morale (‘barbarie’ metaforica) e linguistica (‘barbarie’ etnica); ma Capizzi non può resistere alla tentazione (più che giustificata, del resto, conoscendo la personalità di Eraclito) d’introdurre anche una distinzione sociale: allo scopo di esortare i concittadini alla dura guerra contro i persiani, Eraclito avrebbe inteso colpire soprattutto «l’aristocrazia ricca e godereccia», pronta a ritirarsi dalla guerra alle prime batoste; e con la coscienza della vera aristocrazia, invece, e con la voce dell’orgoglio nazionale greco, egli avrebbe chiamato a raccolta «la parte sana della sua classe di appartenenza».62 Ora, a me sembra probabile che qui si desideri passare dal filosofo oscuro al chiaro patriota, facendo però subire ai frammenti e alle testimonianze pressappoco la stessa identica sorte di torcitura. Nulla, nei frammenti, ci autorizza a trarre simili conclusioni – anche se, effettivamente, non è mai impossibile trovare deboli riscontri a congetture esterne che possano sembrare conferme interne al testo. Che Eraclito abbia esortato i concittadini poltroni a combattere è sicuro: è lui che lo dice in DK 44: «Bisogna che il popolo combatta per la legge che nasce come per le mura della città». Ma chiede loro di combattere per la legge «come» per le mura della città, e non viceversa – segno evidente che la sua fiducia nella virtù cittadina non era ancora spenta del tutto, e che l’amore per la legge nascente63 poteva (forse) essere fatto sorgere dal patriottismo di cui era ancora capace la parte migliore della sua classe. Che non
61 Non posso indicare con precisione dove Capizzi si sia spinto così avanti in questa interpretazione, perché nel suo libro essa appare soltanto suggerita. Le espressioni: «I due gruppi di cittadini», «Invettiva contro il gruppo di maggioranza» e «Appello al gruppo di minoranza» si trovano soltanto nell’indice, e nella partizione del riordino dei frammenti che egli propone (rispettivamente 1, 2, 3). La sua, del resto, non è che una «proposta» di diversa lettura dei frammenti – vale a dire un intelligente suggerimento. 62 Ivi, p. 57. 63 Nessuno dei traduttori italiani accoglie la lezione attestata da ben tre codici: hupèr tou ginoménou nómou, ossia «per la legge attualmente vigente», o «che sta per essere istituita», o «da poco istituita». Non
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tutto fosse marcio a Efeso dimostra proprio questo frammento; ed egli avrà proprio cominciato a biasimare e ad esortare la parte sana della sua classe di appartenenza, e non la più ricca e godereccia. Ma un simile invito a combattere per la legge come contro i persiani, se perseguito strenuamente, sarebbe potuto diventare un invito alla guerra civile; e noi non possiamo sacrificare al sostegno di un’ipotesi tanto clamorosa tutti i frammenti in cui Eraclito insiste, invece, sull’unità, come DK 114: «Coloro che parlano con senno è necessario che insistano sull’interesse comune a tutti, come legge della città, e senza mai stancarsi d’insistere. Tutte le leggi umane si nutrono infatti d’una sola, divina: la quale governa ogni cosa quanto le piace, e comanda a tutti, e tutto vince». Ad ogni modo, il suo è un invito a difendere la legge, e non ad uscire fuori dalla città in cerca di guai coi persiani. Se nell’insieme gli efesini erano a suo giudizio già ìmpari al primo compito, difensivo, tanto da non sapersi neppure disciplinare in un assedio, tanto meno lo saranno stati al secondo, offensivo.64 Non è con un attivista pieno d’illusioni e di vane speranze che abbiamo a che fare. E dovremmo piuttosto domandarci se la sua insistenza sull’importanza della legge scritta (che è, proprio soltanto in quanto è scritta, una legge a suo modo ‘democratica’) non possa avere il significato di un impegno non puramente declamatorio e moralistico, bensì avveduto e lungimirante, persino spregiudicato – politicamente realistico, insomma: nel senso che Eraclito potrebbe aver capito che senza una legge scritta, l’unica in grado di garantire la certezza del diritto alle classi meno abbienti, non si sarebbero trovate risorse sufficienti neppure per difendere validamente la città. E perché, del resto, combattere per l’orgoglio ionico, quando ai suoi occhi c’era ben poco di che andare orgogliosi, e le riforme di Artaferne potevano ancora dimostrare la superiorità dell’amministrazione persiana?65 Non era con le armi che si potevano vincere i barbari nella Ionia, bensì con le leggi. Il resto non sono che le molte storie dell’avvento delle tirannidi e dei prodromi della democrazia, comuni all’evoluzione costituzionale di tutte le città greche.
fa eccezione neppure Capizzi: il quale pure si arrischia a parlare addirittura della vigenza a Efeso di un recente «codice ermodoreo» di leggi di guerra contro i persiani (ivi, pp. 53, 55, 57), del quale sarebbe stato promotore Eraclito stesso in qualità di capo del partito aristagorista (cioè greco autentico). E nondimeno egli fa però di una generica legge scritta l’unico lógos eracliteo. 64 Mi riferisco alla ben nota testimonianza di Temistio: di lui che all’assemblea, nella città assediata e incapace di disciplinare il consumo dei viveri, senza dire una parola raccoglie un pugno di farina, e impastatala con acqua, inghiotte la pagnottella, a mo’ d’esempio per tutti (Mondolfo e Tarán, Eraclito, pp. 63-64). 65 Erodoto, VI, 42.
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La vicenda di Eraclito si situa alle origini di questi prodromi – e allora, considerato l’uomo, noi possiamo dire che la sua sorte era in qualche modo segnata. Noi non abbiamo elementi per attribuirgli una vera intelligenza politica (nel senso che ‘politico’ è sinonimo di ‘realistico’, o di ‘pratico’, o di ‘misurato col successo’), mentre abbiamo d’altra parte sufficienti elementi per attribuirgli una buona dose d’astrattezza. Ma senza una simile astrattezza, che mai sarebbe stato di lui e della sua predicazione? Di fronte al disordine e alla faziosità, alla corruzione imbelle delle città ioniche, l’unico vero realismo politico non poteva consistere che nell’affidarsi alla tutela dell’amministrazione persiana: era vano attendersi che i giovani efesini combattessero per la libertà come gli sciti nomadi, né che le ricche e vanitose efesine si rassegnassero a portare i loro calzari. E se Ermodoro, come si dice, fu davvero l’ispiratore di quest’ultima legge, bisogna proprio dire che le recriminazioni di Eraclito (DK 121) furono sprecate: «Sarebbe giusto per gli efesini adulti impiccarsi tutti quanti, e lasciare la città ai fanciulli, essi che cacciarono Ermodoro, uomo fra tutti loro il più utile, dicendo: “Fra noi non uno ci sia indispensabile; e se ce n’è uno, se ne stia altrove, e con altri”».66 La lettura dei frammenti non ci consente neppure di escludere del tutto quest’ultima ipotesi: che la rassegnazione, cioè, abbia spinto Eraclito ad ammettere di preferire al disordine cittadino l’ordine autocratico dell’amministrazione persiana. Se vogliamo proprio escludere la possibilità di un Eraclito che fa il capocolonna del re, dobbiamo forzare un poco la lettura di qualche frammento, di uno, in particolare, in apparenza ben poco significativo, il DK
66 Le testimonianze di Strabone (XIV, 25) e di Plinio (Hist. nat., XXXIV, 21) su Ermodoro sono estremamente esigue, e in compenso si contraddicono: al primo «pare» che abbia dato leggi scritte ai romani, mentre il secondo afferma con sicurezza che sarebbe stato «interprete» di leggi scritte dai decemviri romani. Sebbene confutata da Boesch nel 1893, l’identificazione con l’amico di Eraclito fu accolta con entusiasmo da Wilamowitz nel 1909 sulla base di un frammento di Polemone che fa di un tale Ermodoro il severo disciplinatore dell’abbigliamento femminile. L’ipotesi è stata poi di nuovo relegata nel novero delle mere possibilità da Marcovich, in considerazione dell’alta popolarità del nome ‘Eraclito’ nella Ionia (Mondolfo e Tarán, Eraclito, pp. 61-62 e 17-18 nota 6). Ciò nonostante l’identificazione di Wilamowitz fra l’amico di Eraclito e il legislatore calzaturiero è stata accolta e tramandata da Santo Mazzarino e da Rudolf Schottlaender, con argomenti su argomenti. Per esempio Mazzarino: poiché il frammento di Polemone ci riconduce, per il suo dialetto, «alla Ionia», è chiaro che «in questo periodo» esiste un’attività nomotetica «a Efeso»: qualcosa dev’essere dunque successo a Efeso, nella Ionia, in questo periodo. E Schottlaender precisa che la testimonianza di Polemone ci è nota attraverso una glossa di Esichio, e che Plinio deve la sua testimonianza a Varrone. Tutto quanto di seconda o terza mano, dunque. Nondimeno, la tendenza austera della legge suntuaria ermodorea «corrisponde in tutto al pensiero di Eraclito», il quale in DK 15 si oppone alla sfrenatezza sessuale dei cortei bacchici. Di qui, l’ipotesi di Wilamowitz passa a Capizzi (Eraclito, pp. 41-43): il quale non sembra rendersi conto della distanza che deve intercorrere fra il suo bellicoso legislatore antipersiano e questo nomoteta della moda, nonché autore o interprete delle XII tavole, con tanto di statua nel foro romano.
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3, facendogli dire: “Il sole [non sta che] alla distanza d’un passo” – che significa: il buon tiranno è già qui, inutile cercarlo altrove. Perché cimentarsi soltanto in forzature esterne, quando le interne, sul testo, potrebbero essere almeno altrettanto convincenti e in qualche misura legittime? Non esiste un solo frammento che ci garantisca Eraclito non essersi mai rassegnato al ritorno all’ordine dell’amministrazione persiana. Questa fu un’ultima possibilità che egli dovette prendere in considerazione, prima di abbandonare tutto. Dov’è mai l’orgoglio greco, in Eraclito? Leggendo certi studi tedeschi, ma ancor più italiani, per esempio, s’intuisce l’immaginazione latente di un rappresentante del progresso germanico, ovvero occidentale, impegnato sui confini delle provincie orientali polacche. Nessuno ci può garantire che il suo isolamento sia stato sempre e soltanto ricercato da lui stesso, e non sia stato dovuto anche al sospetto, oltre che all’impazienza, dei suoi concittadini: i quali dovettero certamente sopportare con molta insofferenza i suoi biasimi, ma poterono anche avere qualche ragione per sospettare in lui un nemico e un possibile traditore della città. Nell’aristocrazia cittadina i simpatizzanti filo-persiani non mancavano; ma nel clima di entusiasmo bellicoso non avranno osato farsi avanti, se non dopo i primi rovesci. Eraclito non era il tipo da starsene buono. Che cosa intendeva mai dire davvero con le parole del suo frammento DK 49: «Uno solo è per me diecimila, se ottimo»? Anche al gran re la sentenza si sarebbe adattata perfettamente! E perché tanta reticenza, poi, e tante sibilline metafore solari? Chi, o quali sue parole, potevano dare agli efesini la certezza che egli si riferisse in tal modo ad un tiranno cittadino, e non invece a Dario stesso?67 Lo sviluppo di simile ipotesi consentirebbe di aggregare alla penultima sezione del primo periodo cittadino il frammento sul sommo dio immobile e distante DK 120. Chi vuole modernizzare la lettura di simili pensieri in senso politico non può ignorare che nella sua città Eraclito può benissimo essere finito relegato nella difficile posizione, per fare un esempio, dell’intellettuale comunista in una nostra qualsiasi città di provincia durante gli anni della guerra fredda. Se proprio se ne vuole fare un patriota, allora, bisogna trovare un appiglio testuale, che ci garantisca essere egli andato alla ricerca di un tiranno vicino, non lontano: un tiranno cittadino. E questo appiglio, a costo di una forzatura, può essere DK 3. Sempre che sia suo, s’intende. Ma davanti a una difficoltà noi
67 È questa l’ipotesi argomentata in uno dei contributi al Simposio Eracliteo di Chieti che si leggono con maggiore interesse per la sua chiarezza e concretezza, oltre che per il non poco coraggio: quello di Emanuele Riverso (Eraclito, fr. 90 D.-K., in SH, I, pp. 213-230, e specialmente pp. 220-221).
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non possiamo cavarcela ogni volta negando l’attribuzione del frammento.68 DK 3 gli è stato attribuito da molti autorevoli studiosi – e quindi ammettiamo anche noi che sia suo, perché un’ipotesi in più è sempre meglio che un problema in meno. il lascito come un diario Il profilo più generale che presiede alla qui presente interpretazione, e all’elencazione dei frammenti, è dunque il seguente. Già destinato per ragioni di discendenza all’assolvimento degli uffici religiosi, è naturale che Eraclito abbia precocemente sviluppato una qualche sensibilità filosofica; ma non è detto affatto che questa sensibilità abbia avuto sin dal principio un carattere speculativo, teorico e metafisico – anzi. È difficile immaginare che, dopo avere elaborato le sue dottrine fisiche metafisiche cosmologiche, secondo gl’incipienti doveri di una destinazione familiare che non gli conferiva in alcun modo quest’obbligo, egli si sia dato inutilmente ad insegnarle; e che abbia tratto dalla frustrazione di questo suo insegnamento il risentimento e il biasimo che si esprimono nelle invettive rivolte ai suoi concittadini. È assai più verosimile il contrario: che egli si sia dato alla speculazione teorica in conseguenza della frustrazione derivante dalle prime esperienze del suo ufficio religioso. Egli lamenta di non essere ascoltato e capito, è vero; ma le esortazioni indirizzate ai suoi concittadini non sono mai esortazioni al sapere – sono esortazioni al ben vivere virtuoso, piuttosto. Preparandosi ad assolvere i doveri che l’attendevano, perciò, egli avrà cominciato ad esercitare la semplice funzione dell’officiante e del moralista; ed è la frustrazione di questa suo ufficio, e non di un inesistente ufficio teorico, che (almeno per quanto ne sappiamo) dovette spingerlo a compiere le sue scelte di vita solitaria, e a dedicarsi a speculare su interrogativi d’altra natura. È dunque ragionevole supporre e ammettere che nella disposizione generale dei frammenti i riferimenti alla vita della città debbano comparire per primi; e che, fra questi, debbano figurare a loro volta fra i primi i riferimenti di biasimo sui riti e sulla condotta morale dei concittadini. La sterilità del bia-
68 Per l’estrema scarsità o incertezza del significato, oltre che dell’attribuzione, ho preferito non accogliere nel Diario i frammenti DK 71 («Si scorda dove porta la strada»), DK 69 («Cose che si trovano appena in uno e di rado»), DK 68 («Medicina i misteri») e DK 39 («A Priene nacque Biante figlio di Teutame: più che ogni altro ebbe fama [lógos]»). Quest’ultimo presenta un interesse per l’uso del termine lógos nel suo significato più generico.
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simo può averlo spinto verso la politica. L’insuccesso della propaganda politica può averlo indotto a riflessioni di carattere antropologico prima del ritiro in solitudine o immediatamente dopo. La meditazione dell’eremitaggio può essere stata riassunta in un ‘così va il mondo’. Le forze acquisite con la meditazione di una qualche parvente dottrina o verità suggestiva, persino clamorosa, possono averlo indotto ad un ritorno animato da intenzioni pedagogiche, non più moralistiche. Il nuovo impegno può avergli fatto constatare, con una nuova frustrazione, la povertà e l’inefficacia, soprattutto letteraria, dei suoi mezzi pedagogici. La conseguente nuova amarezza può essersi espressa nelle invettive contro poeti e letterati, aprendo poi la strada alle ultime meditazioni. Questo, per sommi capi, è il plausibile ordine di svolgimento della sua vicenda biografica, politica e spirituale. L’elencazione e la lettura dei frammenti che qui si propone vuol seguire lo svolgimento di questa vicenda, facendo dei frammenti stessi non già i lacerti, o i resti sparsi, d’un trattato perduto (della cui effettiva esistenza, in definitiva, non possediamo alcuna vera prova), bensì proprio le sparse testimonianze, per lo più momentanee, ma non solo momentanee, delle varie situazioni nelle quali Eraclito si trovò a condurre la sua tormentata esistenza. Ecco perché preferisco non parlare sempre di ‘frammenti’, bensì anche di ‘pensieri’. E Pensieri, o Ricordanze, avrebbe anche potuto essere il titolo di questo studio, se avessi rinunciato a dare alla loro elencazione l’unità di uno svolgimento biografico, in quello che infine risulta essere, in qualche modo, un diario. Se non che, l’uso del termine ‘frammenti’ s’è ormai troppo generalizzato perché una proposta diversa non suoni come una fastidiosa petulanza perfezionistica. Basta restare intesi così. Per il resto, noi non sappiamo quanti fossero gli scritti di Eraclito; e quasi ciascuna sezione o fase subalterna dei quattro principali periodi biografici nei quali ho suddiviso i frammenti (in tutto quindici) potrebbe raccogliere i resti di una sua opera indipendente. Di un solo libro, suddiviso in tre trattati, parla Diogene Laerzio – ma anche di un libro, forse, su Le muse, o forse Sulla natura, o forse piuttosto Sui retti costumi, per esempio. Di vari scritti, incompiuti o diseguali per stile, parlò Teofrasto. Chi esclude che gli scritti di Eraclito fossero più di uno solo si condanna, poi, a far combaciare le sentenze più contraddittorie – a cominciare dal significato dello stesso termine lógos.69 La parte di gran lunga maggiore della
69 Come si vede in Mondolfo e Tarán, Eraclito, pp. 29 nota 28 e 33 nota 40. Essi stessi parlano più volte, del resto, di «testi» originali, o di «testi» eraclitei (per es. p. 34). Hanno ragione invece quando, aderendo all’opinione con la quale già Schleiermacher concluse il suo lavoro, essi parlano di un «piccolo»
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letteratura non monografica, del resto, si compone di studi invariabilmente costruiti sul modello agglutinante del frammento interpretato alla luce di altri (pochi) frammenti omogenei sotto il profilo contenutistico o terminologico. Il presunto ‘libro’ o trattato viene così, di fatto, a smembrarsi in una miriade di possibili combinazioni del tutto parziali, e spesso isolate o senza seguito: un Eraclito ridotto in cocci, insomma. Bisogna almeno ammettere che la sua vita abbia conosciuto periodi assai diversi, senza fare della sua figura una specie di stentoreo fantasma che attraversa i muri, un po’ come la voce della sua Sibilla i millenni: perché questa delle invariabili opinioni divine era una dote potente che Eraclito ormai si sentiva mancare, dopo averla posseduta in gioventù; ed egli poté invidiarla ai profeti nell’ultima parte della sua vita, come si vedrà nell’ultima parte del Diario. E io credo anche che ci sia persino un indizio concreto della pluralità dei suoi scritti. Si osservino i frammenti del biasimo e dell’esortazione a contenuto zoologico: il medesimo giudizio viene ripetuto più volte sull’esempio di animali diversi, come asini e buoi, maiali e polli. Anche trascurando di considerare la diseguaglianza con l’abituale concisione del suo stile, io domando: quale scrittore avrebbe mai allineato una simile serie di esempi sostanzialmente identici, o, peggio, sarebbe tornato a ripeterli alla distanza nel medesimo scritto? L’effetto anaforico si può perdonare all’oratore còlto sul vivo d’una concione, non certo allo scrittore. E se no, si tratta di appunti in un promemoria, che Eraclito non poté riordinare a causa della sopravvenuta cecità di cui parla l’epigramma di Diogene Laerzio. L’assunto generale che qui è stato prescelto è, come si vede, di tipo antiaccademico – in armonia, del resto, col contenuto dei numerosi frammenti astiosamente polemici contro scuole, allievi e maestri; e gl’interrogativi dossografici di tipo più professorale (concernenti la sua filiazione teorica da Senofane, per esempio, o la questione della precedenza o della successione rispetto a Parmenide) sono stati certamente importanti, ma solo in seconda istanza rispetto al nucleo originario della sua ispirazione, che è fortemente autonoma e automotivata: politica moralistica e pedagogica. Il resto è pensiero suo e insieme dottrina altrui – della Ionia stessa, o magari d’oriente, forse di Persia, non sappiamo: la quale dottrina, comunque ricevuta, egli seppe captare
libro, del quale non ci manca poi molto: Eraclito non fu certo uno scrittore prolifico (Schleiermacher, Herakleitos, p. 241). Claudio Lausdei ha fatto notare che nella letteratura coeva il termine lógos viene sempre associato con brevi o singole parti di un’opera, mentre ad un’opera organica di una certa ampiezza ci si riferiva col plurale lógoi (Lógos in Eraclito e in Erodoto, in SH, I, p. 75). Egli discute nondimeno il lascito come un unico trattato, come si vedrà nel commento a DK 1.
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e restituire in rudimentale forma letteraria, tanto più condensata in formule suggestive, arcane, oracolari, quanto meno (probabilmente) quelle intuizioni erano davvero soltanto sue. *** Bisognerà anche tenere conto, d’altra parte, che ciò che noi possediamo del suo pensiero è un prodotto in qualche modo rifinito, un risultato raggiunto e consegnato ai posteri in luogo sicuro: il ‘discorso’ non è soltanto un diario come semplice testimonianza immediata, o un quaderno d’appunti. L’ordine di successione dei frammenti non può dunque rispecchiare lo svolgimento della sua vicenda teorica secondo il solo assunto biografico, perché esso fu in qualche modo una sintesi anche per lui, come lo è per noi. Egli si accinse a mettere insieme (magari raffazzonandola) la redazione del ‘discorso’ trovandosi già in possesso di una qualche dottrina, o almeno di una folla di pensieri ch’era andato svolgendo nella solitudine e nella divulgazione. Bisogna dunque che l’ordine in cui sono disposti i frammenti tenga conto di questa duplice esigenza: ammettendo che Eraclito si sia accinto alla redazione di un solo discorso, egli avrà dovuto illustrarvi la storia della sua personale vicenda, insieme con i risultati, in qualche modo presupposti e acquisiti, della sua dottrina – e così dovremo dunque cercare di fare anche noi. Ciò significa che i primi frammenti potranno anche già portare qua e là i segni dei contenuti e degli artifici letterari del suo pensiero. Non contrastano affatto con la libertà di questa logica interpretativa le due testimonianze di Aristotele (Retorica, III 5, 1407 b 11) e di Sesto Empirico (Adversus mathematicos, VII 132) circa il frammento DK 1, il quale, proprio in ossequio alla loro testimonianza, viene dagli editori quasi sempre pubblicato per primo (Colli ha rotto per primo questo vincolo, in Italia, seguito da Tonelli). Aristotele è alquanto generico: «all’inizio» (en tē archē); Sesto sembra un poco più vincolante: «incominciando» (enarchómenos). Ma noi non sappiamo se il discorso iniziasse davvero con le parole di DK 1, vale a dire con una sprezzante recriminazione poco degna, in verità, della solennità di un lascito; né la forma sintattica del testo permette di crederlo, come ho detto. Possiamo soltanto ammettere che esso fosse collocato fra i primi pensieri di un qualche svolgimento. Ma poi? Pensiamo ad un caso analogo come, per esempio, le Ricordanze del Guicciardini: i frammenti eraclitei se ne distinguono solo perché un numero non trascurabile d’essi tradisce l’origine immediata, coeva, dell’annotazione. Resta il fatto che DK 1 è l’unico frammento di cui si presume di conoscere, pressappoco, la collocazione. E io mi chiedo, dunque,
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se valga davvero la pena di vincolare la disposizione dei restanti centoventicinque frammenti, e perciò la varietà delle interpretazioni, alla presunta collocazione iniziale di quest’unico. Da un pezzo nessuno, del resto, si azzarda più a scrivere la storia antica sulla base dei suggerimenti aristotelici: essi non valgono ormai che come conferme. È quasi sorprendente vedere con quanta fiducia Schleiermacher, per esempio, si affida ancora a «la più antica e sicura» testimonianza aristotelica per sostenere che Eraclito fu innanzitutto un fisico, anziché un moralista e un politico; e che la sua opera fu una sola, pensata secondo un unico significato e stesa in un unico getto.70 Con pie’ leggero poi, alla maniera romantica, egli stesso ignora questo suo assunto, nonché la testimonianza aristotelica, e pubblica DK 1 al quarantasettesimo posto, ben oltre la metà dei suoi settantatre frammenti, divisi in sei gruppi. Uno studioso (Geoffrey Kirk) ha pure avanzato l’ipotesi che la prima trasmissione del pensiero eracliteo sia stata orale e frammentaria. La scrittura venne dopo. Negarlo, come fanno Mondolfo e Tarán, appellandosi alla testimonianza di Aristotele che parla di un súggramma conosciuto e forse posseduto nella biblioteca della sua scuola, è impossibile: perché le due cose non sono affatto incompatibili.71 Un numero non trascurabile dei frammenti eraclitei è, per l’appunto, l’eloquente testimonianza di un suo impegno pubblico; e il fatto che egli abbia ripetutamente lamentato di non essere stato capito (parlando) non smentisce la possibilità di una rapida tradizione orale dei suoi insegnamenti, precedente o almeno parallela alla circolazione manuale dei pensieri scritti. La petulanza rissosa che Platone lamenta come una caratteristica distintiva dei settari eraclitei lo può confermare (Teeteto, 179 d – 180 c). Ma non manca neppure chi considera la tradizione orale del pensiero eracliteo più sicura della scritta: la quale, proprio perché scritta, si prestò ad essere rimaneggiata dai seguaci.72 Una via di mezzo fra tradizione orale e scritta è rappresentata da quella che Schleiermacher definisce la «brutta favola» di Taziano il Siro: secondo la quale Euripide, ospite nel tempio di Artemide, si sarebbe imparato a memoria il trattato eracliteo, e da lì, in questa forma, l’avrebbe portato ad Atene.73 Ad ogni modo, lo scopo più importante di una nuova elencazione dei frammenti non può essere quello di riprodurre il probabile disegno del discorso originale perduto, secondo una mentalità archeologica, o puramente Schleiermacher, Herakleitos, pp. 132-134. Vedi il commento alla critica stilistica aristotelica in Mondolfo e Tarán, Eraclito, p. 68 nota 115. 72 Schleiermacher, Herakleitos, p. 110. 73 Ivi, p. 112. 70 71
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antiquaria: non si tratta qui, insomma, di ricostruire l’intero scheletro di un animale preistorico a partire da un singolo osso, né di far combaciare i cocci di un’anfora. E tuttavia è pur sempre una forma che noi dobbiamo ricostruire; e poiché è impossibile che sia quella ‘vera’ di Eraclito, essa dev’essere almeno la nostra, purché serva a qualcosa. La successione dei frammenti deve dunque avere un senso coerente in sé e per noi, secondo un nostro modo di sentire il discorso. Non risponde certo a simili requisiti un riordino estremamente tecnico, quale si presenta nella «raccolta di fonti» (a source book), per esempio, del Marcovich: dove avviene la sezionatura di ciascun frammento nella gerarchia letterale (per lo più ipotetica: probable degree of literality) delle singole testimonianze, distinte secondo il grado di vicinanza all’originale come citazioni o parafrasi o rimandi, e una successiva ricomposizione in ben venticinque gruppi, privi del benché minimo legame di contiguità o successione. La connessione (concettuale, terminologica, disciplinare, contenutistica, logica, schematica, ideologica) esiste soltanto all’interno di ogni singolo gruppo, e giustifica l’interpretazione dei singoli frammenti che lo compongono. Ma un disegno generale, in questa tecnica cronologica ‘dendrometrica’ (diciamo così), manca del tutto. L’edizione italiana si è trovata «sotto il tiro di quanto spiritualismo e poi riformismo tedesco da un lato, dall’altro idealismo italiano hanno superfetato di interpretazioni eraclitee». Prudenza consiglia allora al traduttore di mettere la raccolta al riparo di un ombrello ideologico abbastanza ampio ed oscuro, com’è quello «filoheideggeriano» – e intenda chi può.74 un democratico autoritario Il significato di ogni singolo pensiero o frammento può notevolmente cambiare, a seconda di come lo si colloca in relazione con gli altri. La disposizione, perciò, in un certo senso è tutto – e considerando la bibliografia eraclitea, dove abbondano i commenti parziali, si vorrà ammettere che quest’afferma-
74 L’edizione dei frammenti di Marcovich è stata resa dal suo traduttore italiano Piero Innocenti mediante un «trasporto sistematico della terminologia secondo i canoni della coerenza interna alla posizione filosofica filoheideggeriana» dell’editore. Né l’editore, né il suo traduttore italiano forniscono la benché minima indicazione utile all’orientamento del lettore: come sarebbe stata, per esempio, una lista indicante l’uso e la versione di almeno una dozzina di termini significativi. Ma si tratta, in fondo, soltanto di un’indiscrezione, perché Marcovich non fa prudentemente parola di suoi filosofi tutori. Per il resto, non sono riuscito a prendere visione di alcuna delle discussioni e delle memorie presentate allo International Colloquium on Heraclitus svoltosi a Kronenburg dal 25 al 29 agosto 1969, che viene menzionato nella prefazione.
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zione non è tanto ovvia come potrebbe sembrare. Diciamo dunque che, molto in generale, prima deve venire la divinazione di uno schema di cornice o di un ‘senso’ complessivo della personalità eraclitea, poi la collocazione del frammento, ed infine la sua interpretazione. Non vorrei essere tanto apodittico, e spero di non esserlo stato nel lavoro sul Diario, ma è più importante cercare di capirsi. Proprio il tono fortemente umorale di DK 1, tutt’altro che olimpico, può lasciare facilmente intuire quanto diseguale, quanto lampeggiante e irrequieto dovesse essere lo svolgimento di un’eventuale trattazione. Ciò che conta davvero per noi, oltre al pensiero, sono la figura del personaggio e il suo talento letterario. Quest’ultimo si esprimeva con la sua massima efficacia non già nel ricercare un’ordinata disposizione architettonica della materia, bensì proprio nelle immaginose e improvvise condensazioni del pensiero: allorché il tedio della misantropia e del biasimo lasciano i modi tortuosi dell’argomentazione antropologica o cosmologica e si fissano in immagini di alta suggestione, tra le più inoppugnabili e memorabili. È proprio la sensibilità, in definitiva, che riscatta l’evanescenza oracolare delle sentenze eraclitee – e al tempo stesso mette la sua sapienza alla prova della comunicazione e del riscontro evidente per chiunque. L’ambiguità o ambivalenza del termine lógos va spiegata in modo del tutto plausibile pensando che Eraclito intenda riferirsi, oltre che alla legge cittadina, anche alla sua esperienza di pensiero e alla sua esperienza di vita – vale a dire, alla sapienza e al diario: perché per lui le due cose, quando decise di riordinare i pensieri, non erano più distinguibili. Oltre alla legge, sono tre, dunque, i lógos ai quali egli pensa nella seconda metà della sua vita: la vita o il mondo, il diario e una sapienza con parvenza di dottrina. Ai quattro significati se ne deve aggiungere un quinto, in età avanzata: allorché Eraclito si affida all’opinione, e comincia a riflettere sulla diversa consistenza delle opinioni umane e divine. Come si vedrà da questo riordino e dal commento ai frammenti, la ferma opinione è tutto ciò che gli rimane al termine della sua meditazione, e la speranza è tutto ciò che gli resta al termine della sua vita. Il bisogno di fare assumere al pensiero caratteristiche di ordine e di stabilità non è affatto raro in un animo assai irrequieto. E per chi crede che anche la statistica possa offrire un aiuto alla formulazione di un giudizio mediante l’evidenza dei numeri, dirò che i pensieri eraclitei caratterizzati da un netto significato di stabilità del sentimento o dell’immagine sono quasi una sessantina – poco meno della metà. Il resto si divide fra pressappoco due dozzine di pensieri, per così dire, ambivalenti, ambigui o neutri, una dozzina circa di pensieri soltanto polemici, e non più di trenta pensieri decisamente orientati a descrivere una trasformazione.
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La trasformazione, del resto, si presenta nei pensieri in modo tale da rinviare spesso a nozioni di stabilità e di rapporto costante. Conformemente a questi assunti verrà dunque ordinata la materia, secondo poche partizioni generiche. Queste partizioni non sono esclusive: deve restare inteso che un frammento può sempre assumere più significati, e potrebbe collocarsi in più sezioni. È proprio di qui, del resto, che nascono la libertà criticoletteraria dell’interprete e della sua elencazione. Ma la partizione generale della vita e del pensiero di Eraclito in quattro periodi biografici principali, a loro volta suddivisi in due, tre o anche sei fasi ciascuno, rimane la caratteristica di questa mia proposta, non meno dell’interpretazione più generale che vede nei frammenti poco più di un diario, o una collezione di pensieri memorabili, di ricordanze, ordinate secondo, pressappoco, l’ordine cronologico più idoneo a descrivere lo svolgimento di una vita. È chiaro che, come avviene in tutte le elencazioni, il punto più delicato per il ricostruttore si trova all’inizio: il resto ne dipende. E poiché non dubito che il tratto principale della personalità di Eraclito fosse quello di un fervente cittadino, così i frammenti del primo periodo, sulla vita cittadina, raccolgono oltre un terzo delle testimonianze (precisamente quarantasette), distinte in sei fasi. Non occorre credere nella statistica per riconoscere l’importanza decisamente maggiore di questo aspetto della personalità di Eraclito; e nei raggruppamenti successivi non mancano altri riferimenti alla vita cittadina – così che il suo essere un intellettuale cittadino potrebbe richiamare a sé pressappoco la metà delle testimonianze. Quasi altrettanto importante, dopo il primo, è la scelta del tema del secondo periodo, dedicato all’anima, distinto in quattro fasi – e così via. I temi dei due periodi successivi accolgono il loro materiale in modo via via più conseguente rispetto alle scelte precedenti. I margini di attribuzione, d’inversione o di sostituzione man mano che l’elencazione procede si fanno più esigui – ma non si esauriscono mai del tutto: è sempre possibile trovare ad ogni frammento successivo una più convincente collocazione altrove.75 La collocazione è, per lo più, ciò che rende plausibile l’interpretazione. E non dev’essere necessario dire che l’ordine di disposizione non ha nulla a che fare con l’importanza, in sé, del singolo frammento. Il fatto che i frammenti di contenuto religioso siano, tutto sommato, così scarsi (il fatto, cioè, che Eraclito abbia preferito occuparsi di fisica elementare piuttosto che di teologia) può anche stupire. Ma bisogna considerare che
75 Ne ho discusso commentando, per esempio, il frammento DK 11: «Chi va prono è governato con la frusta».
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come sacerdote di Artemide egli si trovava preposto alla disciplina di quei culti, tra i più popolari, ibridi e contaminati, che insieme con l’edonismo degli ottimati costituivano una delle ragioni della corruzione del suo popolo. La sua imbarazzata posizione è testimoniata, anche sotto il profilo logico e sintattico, dal celebre frammento di contorta, impotente recriminazione sul corteo fallico dedicato ad Ade, in qualche modo giustificabile senza scandalo. Ad una riforma religiosa egli pensò, effettivamente, nella prima parte della sua vita; ma si trattò di cosa troppo ardua per produrre un qualche effetto. Noi non dobbiamo esitare ad avanzare l’ipotesi che Eraclito possa anche non essere stato all’altezza di qualcuno dei suoi compiti. Risulta da tutto ciò evidente il ruolo fondamentale che la politica assume nel pensiero di Eraclito. Questa ‘politica’ va pure intesa come vita della città, ossia vita dello Stato, del quale non si ignorano diverse, opposte (secondo il carattere dell’uomo) soluzioni costituzionali – fra la tirannide illuminata e limitata dal costume, e la democrazia sorvegliata che rende giustizia al sacrificio degli umili. Per il resto, tutto è possibile, o quasi. E mi resta soltanto da dire che la lettura e la disposizione dei frammenti politici, che in questo studio propongo raggruppati per primi, si giustificano sulla base della probabilità che ad Efeso vi sia stata una riforma o una rivoluzione democratica, o che vi sia stato comunque un esperimento di autogoverno, seguito, dopo il suo fallimento, da un tentativo di normalizzazione tirannica indigena, anch’esso fallito. Non mi sembra possibile, invece, che sia avvenuto l’inverso, e che si possa parlare di una rivoluzione democratica diretta a rovesciare una buona tirannia indigena, perché in tal caso agli almeno cinque significati di lógos bisognerebbe aggiungerne un sesto: quello di ‘parola del tiranno’, che nelle ricordanze eraclitee non compare affatto.76 Simili interpretazioni discendono, io credo, da simpatie nei confronti dei regimi autoritari di studiosi formatisi in clima triplicino. Al problema del pregiudizio politico che sottentra nell’esame dei pensieri, e al confronto fra autoritarismo e democrazia (che è poi l’alternativa sulla quale oscilla la politica eraclitea), è dedicata nel modo più possibile congruente la Parte Seconda di questo libro.
76 Mondolfo afferma, per esempio, che Eraclito si trovò a vivere un’insurrezione democratica che cacciò da Efeso l’amico tiranno Ermodoro (Mondolfo e Tarán, Eraclito, p. 14).
Questo libro rappresenta uno sviluppo parziale del mio primo corso di Estetica Politica, tenuto nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena nella primavera del 2006 col titolo: ‘Eraclito e il senso tragico’. Ebbi un solo studente, Andrea Gurgone, che ringrazio per l’assiduità. Lo sviluppo complementare del tema del corso, che ha per protagonista l’altro grande sacerdote artemisio Calcante, si trova già pubblicato presso questo medesimo editore col titolo: L’Ifigenia di Eschilo. Filologia e drammaturgia nell’Agamennone. Buona parte di questo studio eracliteo fu tuttavia concepita e scritta per prima, e poi sospesa. Al perfezionamento e alla pubblicazione frammezzo dell’Ifigenia fui in qualche modo obbligato da ragioni di contrasto accademico. Il perfezionamento del Diario, una volta ripreso, ha seguito il suo corso del tutto autonomo – ed è dunque possibile che fra le due monografie si trovino qua e là disparità di giudizio, così come è possibile che in questa si trovino disparità di stile (ma non di giudizio, spero). L’origine didattica del lavoro può aver dato luogo a qualche ripetizione e a qualche didascalia. Nella presente traduzione dei pensieri eraclitei sono state messe a confronto le seguenti edizioni e traduzioni, senza ulteriori menzioni nelle note: Hermann Diels – Walter Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Dublin-Zürich 1966-1968 Gabriele Giannantoni (da Diels – Kranz), I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1983 Friedrich Schleiermacher, Herakleitos, der dunkle, von Ephesos, de Gruyter, Berlin New York 1998 Ferdinand Lassalle, Die Philosophie Herakleitos des dunklen von Ephesos [1857], Cassirer, Berlin 1920 Giovanni Gentile, Eraclito. Vita e frammenti [1907-1908], Le Lettere, Firenze 1995 Vittorio Macchioro, Zagreus. Studi intorno all’orfismo, Vallecchi, Firenze 1930 Maria Cardini, Eraclito d’Efeso. Frammenti e testimonianze, Carabba, Lanciano 1932 Carlo Mazzantini, Eraclito. I frammenti e le testimonianze, Chiantore, Torino 1945 (t. a f.) Geoffrey S. Kirk, Heraclitus. The Cosmic Fragments, University, Cambridge 1962 (t. a f.) Bruno Snell, Heraklit, Fragmente, Heimeran, München 1965/1976 (t. a f.) Brunero Salucci, Eraclito. Tutti i frammenti, Le Monnier, Firenze 1967
68 parte prima. eraclito Miroslav Marcovich (Innocenti), Eraclito. Frammenti, La Nuova Italia, Firenze 1978 (t. a f.) Antonio Capizzi, Eraclito e la sua leggenda, Ateneo & Bizzarri, Roma 1979 Charles H. Kahn, The Art and Thought of Heraclitus, University, Cambridge 1979 (t. a f.) Carlo Diano – Giuseppe Serra, Eraclito. I frammenti e le testimonianze, Mondadori-Valla, Milano 1980 (t. a f.) Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. III: Eraclito, Adelphi, Milano 1980 (t. a f.) Thomas M. Robinson, Heraclitus, Fragments, University, Toronto 1987 (t. a f.) Angelo Tonelli, Eraclito. Dell’origine, Feltrinelli, Milano 2005 (t. a f.) Bibliografie ben note sono quelle di Evangelos Roussos, Heraklit-Bibliographie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1971, e di Francesco De Martino, Livio Rossetti, Pier Paolo Rosati, Eraclito. Bibliografia 1970-1984 e complementi 1621-1969, ESI, Perugia 1986. Il testo greco di riferimento per la traduzione è quello dell’edizione Diels – Kranz, non senza variazioni di preferenza effettuate sulla base di confronti con altre edizioni, nonché per ragioni di congruenza con la mia interpretazione. La tradizionale numerazione Diels – Kranz dei frammenti è accompagnata dalle numerazioni dell’edizione Diano – Serra (in ragione della sua maggiore diffusione in Italia) e di Capizzi (in ragione della sua vicinanza con questa mia interpretazione). La traduzione dei frammenti è stata eseguita con la paziente assistenza di Silvano Del Carlo, al quale va il mio sentito ringraziamento. Ogni arbitrio, sempre suo malgrado, dev’essere imputato soltanto a qualche mia ostinazione. Allo scopo di favorire l’intelligenza del testo e di evitare equivoci, avverto che le virgolette a sergente (« ») sono usate per riferire le parole dell’autore trattato nel contesto immediato, mentre le doppie virgolette (“ ”) racchiudono mie parafrasi o miei sunti di parole dell’autore principale trattato, oppure parole testuali altrui inserite nel contesto dell’autore trattato. Gli apici o virgolette semplici (‘ ’), invece, servono per attribuire ad una parola un significato particolare, o a metterla in particolare evidenza in modo da evitare l’uso del corsivo, che serve per integrare il dettato dei frammenti.