La trilogia dell’Orestea rappresenta, nell’insieme, la prima forma di verbalizzazione di un processo. L’anamnesi corale del sacrificio d’Ifigenia nell’Agamennone costituisce una trage dia nella tragedia. I greci vogliono un’impresa di strage; la loro volontà ottiene la sanzione di Zeus; Artemide si opporrà con vénti contrari, e per placarla sarà necessario un sacrificio umano, secondo il costume; Calcante lo sa, e invita Agamennone a moderare gli scopi del l’impresa, anche a costo di un’abdicazione. Come coi tenori dell’Opera, la sua iniziativa risulta controproducente. La decisione di Agamennone di sacrificare la figlia, d’altra parte, implica una responsabilità: ogni giustificazionismo è qui respinto fin dalle radici filosofiche. Se dunque col capo religioso si tratta di eterogenesi dei fini (nessuna azione sortisce l’effetto voluto), col capo militare noi vediamo il prìncipe conteso fra interessi pubblici e affetti pri vati: due temi della massima tradizione drammaturgica intrecciati con la massima densità. Una posizione speciale assume in questo libro l’esame teorico dei ruoli distinti della compo sizione musicale e della regìa: la musica dovrebbe ritornare a svolgere il compito filologico di approssimazione all’unità dell’antico (dal quale è stata distolta per opera del cinema), mentre alla regìa dovrebbe toccare il compito di suggerire l’unità sentimentale del moderno nei confronti dell’antico mediante un tacito giudizio. Peithō, la divinità della persuasione erotica, dell’arte giudiziaria e della conurbazione politica, può anche diventare il nume tute lare di un possibile talento polifonico del coro. Oltre alle acquisizioni dell’etnomusicologia, l’autore propone di riconsiderare la lezione più congruente dell’opera barocca italiana, e Peithō presiede così anche ad un uso dell’analogia libero da storicismi. La traduzione può essere un’approssimazione alla cosa, oppure un vaglio periegetico del testo, o ancora la ricreazione fenomenologica di un contenuto in una rappresentazione pretestuosa. Da questa terza posizione intellettualistica l’autore prende le distanze, sottoli neando l’incapacità, in generale, della filosofia italiana di affrontare coi mezzi della propria lucidità e del proprio genio, nonché della migliore tradizione moderna (che spazia da Valla e Montaigne fino a Hume e a Leibniz) il quesito generalissimo della percezione indistinta, sentimentale, di una realtà incognita. La trattazione principale è corredata da quattro appendici, nelle quali si conversa di nozioni fondamentali di estetica politica come ‘antico e moderno’, o ‘civiltà e barbarie’. Nello spazio compreso fra il sacrificio di Agamennone e quello di Stilicone noi possiamo vedere tutto il cammino compiuto dalla barbarie per farsi civiltà moderna. Michele Barbieri presta servizio dal 1981 come ricercatore in Filosofia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena. È titolare di un insegnamento di Estetica Politica. Questo libro rappresenta un parziale sviluppo del primo corso di Estetica Politica tenuto nella primavera del 2006. Con la Società Edi trice Fiorentina ha già pubblicato il volume Manierismo di Kant.
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Michele Barbieri
L’Ifigenia di Eschilo Filologia e drammaturgia nell’Agamennone Società
Editrice Fiorentina
Michele Barbieri
L’Ifigenia di Eschilo Filologia e drammaturgia nell’Agamennone
Società
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La presente pubblicazione è stata realizzata con il parziale contributo del Dipartimento di Scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali dell’Università degli Studi di Siena, e con fondi del piano di Ateneo per la ricerca.
© 2009 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-100-8 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata L’editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte In copertina Sacrificio d’Ifigenia, part., affresco pompeiano dalla Casa del Poeta Tragico, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei, aut. prot. 4295 del 30 gennaio 2009)
A mio figlio Santiago malcapitata vittima d’intempestivi sacrifici oratorÎ
Volete conoscere la morale, la politica? Leggete i poeti. Joseph Joubert
Indice
introduzione
11
11 16 25 33 37 49
Una lettura teatrale Il giustificazionismo di destra Il giustificazionismo di centro Il giustificazionismo di sinistra Un canone sospeso Sunto teorico sommario
parte prima testo greco e versione
55
parte seconda prologo e parodo
73
Capitolo primo Il prologo La vedetta Un servo, per cominciare Primato del teatro La commistione dei generi Il corifeo Un giurista e un teologo Il tempo immobile degli anziani Umori popolari Serenità del futuro
75 75 75 79 81 85 85 87 89 90
Capitolo secondo Il parodo 1. Ricognizione Strofe I. Il soggetto Peithō Potere bicefalo Antistrofe I. Un’impresa di strage Mesodo. Un presagio e un monito L’affresco pompeiano del sacrificio d’Ifigenia
93 93 93 101 101 104 106
La vera volontà d’Artemide, e la trovata di Calcante Un azzardo infelice Profilo periegetico di Artemide Strofe II. L’allocuzione di Calcante Antistrofe II. Precarietà dei potenti 2. Peripezia Strofe III. Lucidità nel dolore L’aristotelica anestesia delle passioni Cosmiche potenze simmetriche Ecate Esseri supremi ed esseri onniscienti Un teatro di riforma civile per compromesso Antistrofe III e Strofe IV. La responsabilità di Agamennone 3. Catastrofe Antistrofe IV. Agamennone sopraffatto da se stesso Strofe V. Un uomo rinato Antistrofe V e Strofe VI. Estetismo Antistrofe VI. Cadenza sospesa e invito allo spettacolo parte terza drammaturgia e filologia Capitolo primo Problemi di drammaturgia musicale
112 116 118 127 130 131 131 134 137 140 142 145 146 150 150 153 154 155
161 164 174 176 187 193 196 201 213
La riforma del teatro musicale La posizione di Nietzsche La selezione dei mediocri La polifonia di Peithō Musica greca e musica primitiva Giudizi e pregiudizi sull’Opera L’Agamennone di Pizzetti e Gavazzeni Il cinema. Manierismo e modernismo Qualche postilla e qualche nota di regìa
157 159
Capitolo secondo Problemi di filologia teatrale Il verso 7 Eduard Fraenkel e la filologia degli orologiai Giorgio Pasquali e l’istinto conservatore italiano Wilamowitz e Thomson: due prospettive letterarie
219 219 222 229 238
appendici Appendice prima Sull’appossimazione del moderno all’antico: da Agamennone a Stilicone Appendice seconda Intuizione e sostituzione dell’oggetto nell’opera di Alexander Demandt sulla fine di Roma Appendice terza Continità essenziale e sostanziale nella storia e nella politica, come nella musica Appendice quarta Nicia, Peithō e una tedescheria di Gaetano De Sanctis
247 255 267 275
indice onomastico
293
indice tematico
300
Introduzione
Una lettura teatrale Innumerevoli volte commentata, la più politica delle tragedie di Eschilo ammette sempre un ulteriore commento. Ma l’esordio in particolare, e i suoi commenti, mi sembrano richiedere più che mai una discussione aperta e un’interpretazione ben definita. Se non è prettamente filologico, un commento può essere politico in vari modi: per esempio in senso contenutistico, oppure ideologico – oppure, ancora, nel senso più generalmente estetico del termine. Ogni essere complesso vive come una città, e ha bisogno di un governo, o di una misura di giustizia sua propria. Secondo i dettati di un’antica tradizione di pedagogia aulica, le due dimensioni interna ed esterna della politica vengono a coincidere nella persona del prìncipe. Parlare di politica negli abituali termini di sovranità dello Stato, di effettiva vigenza dell’amministrazione e di esercizio cogente di poteri, dunque, non basta: perché un popolo corrotto (peggio, se democratico) saprà sempre beffare ogni dottrina politica ed eludere ogni norma, facendo del prìncipe un burattino nelle sue mani. Entra qui nel discorso l’ufficio politico della drammaturgia, del teatro come il più politico degli spazi e dei generi letterari, vòlto ad un doppio scopo di perfezionamento: del prìncipe e del pubblico. In che cosa consiste questo scopo? Nel generare vergogna e rimorso, oltre a complicità. Con terrore e pietà, invece, il tradizionale assunto pedagogico della drammaturgia tragica aristotelica non può generare che anestesia delle passioni, senza far sorgere alcun bisogno di perfezionamento: suscitando pietà, l’azione compiuta per un senso edificante del dovere fa sì che la giustificazione si trasferisca dalla vittima al carnefice; suscitando terrore, d’altra parte, lo spettatore riscuote la propria immediata elezione fra i giusti. Il Rousseau della Lettera sugli spettacoli aveva dunque, in questo senso, perfettamente ragione: il malfattore va volentieri a teatro, perché vi si contempla punito a dovere, e ne
12 introduzione
esce con la sensazione d’avere espiato la sua colpa. Vergogna e rimorso, oltre alla complicità dei giusti, spezzano invece gl’involucri, romanticamente esaltati, della nostra orgogliosa identità, o della caparbia fedeltà a noi stessi, che sono i principali ostacoli all’avvio di un processo di perfezionamento. Per parlare di un Eschilo politico non basta dunque andare in cerca nelle sue opere, come s’usa, dei riferimenti alla società o al potere cittadino, ovvero alle contese dei costumi religiosi. Studi simili, assai dotti, non mancano. Sotto il profilo prettamente teatrale si tratta invece di cogliere il senso della politica come intuizione della distinta unità di esseri complessi, quali il carattere antropologico del personaggio, del coro o della città. Sotto questo profilo, nel commento a qualche passo e a qualche situazione ho desiderato soffermarmi, per esempio, sulla constatazione che il coro o popolo, come personaggio, è un essere antropologicamente complesso: fatto di età psichica e fisica (come memoria, e come ciclo ortopedico-linfatico delle midolla), nonché di divina ispirazione che lo anima dalle segrete risorse del talento musicale. All’interpretazione del possibile significato dell’omaggio reso dal coro a Peithō dedicherò molte pagine: quell’omaggio si deve spiegare con ragioni teatrali. Per il resto, tutta l’interpretazione si propone di accentuare la libertà e la responsabilità della scelta di Agamennone, sulla base di una lettura guidata dalla semplicità e dalla plausibilità logica delle congetture. Quanto alla responsabilità, mi propongo di combattere la tesi della responsabilità oggettiva, che diventa facilmente non-imputabilità dell’azione nella persona del suo esecutore. Non occorre spendere troppe parole sulla definizione giuridica del concetto. Dall’esperienza della vita quotidiana tutti imparano che se in un aeroporto si perde un bagaglio, è la compagnia aerea stessa ad assumersi una responsabilità oggettiva che la obbliga al risarcimento del danno al passeggero, e non la cooperativa bagagli che ha assunto l’appalto; e se in una ristrutturazione edilizia viene commesso in corso d’opera un abuso non previsto nel progetto, è comunque l’architetto, e non il capomastro esecutore, che se ne deve assumere la responsabilità oggettiva. L’imputazione viene dunque diretta verso il superiore, e non verso il subalterno, che rimane così scagionato. È facile capire che cosa significhi un trasferimento di questo giudizio da un àmbito civile o amministrativo ad un àmbito religioso: col quale la responsabilità dell’esecutore si perde nei cieli, o negl’inferi.1 1 Desidero avvertire subito il lettore che mi occuperò qui della responsabilità di un’azione, come quella di Agamennone, compiuta in conformità al volere divino. Il caso della responsabilità di un’azione compiuta invece contro il fato (secondo la lamentela che in Odissea, I, 32 ss. Omero mette in bocca a
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Un modo opposto di scagionare l’esecutore si ha invece con la legittimazione – dall’alto o dal basso. In relazione al sacrificio umano che resta il più celebre della storia, il sacrificio di Gesù, il caso è stato discusso da Dante, per esempio, nel De Monarchia (II, XII, 2) e nella Commedia (Paradiso VI 88-90 e 57). In modo quasi sorprendente Dante argomenta che sotto l’impero di Tiberio e il vicariato di Pilato il sacrificio di Cristo fu effettivamente salvifico, perché compiuto da un’autorità cesarea legittimata dalla «viva giustizia» divina e dal «voler di Roma». Ora, Agamennone al campo godeva di una legittimazione conferitagli dagli alleati assai più solida della legittimazione popolare che Dante vuol supporre per Cesare; a questa si aggiunse una legittimazione dall’alto mediante il prodigio delle aquile. Che si vuole di più? – sembra di udir domandare. Rispondo: si vogliono le ragioni autonome del teatro e del testo. Si vuole spiegare il sacrificio d’Ifigenia, l’Agamennone e l’Orestea supponendo che Eschilo e i greci non si siano attardati, dopotutto, su un problema legalitario già risolto in partenza. Si vuole supporre che Calcante abbia agito entro dei margini di legittimità e di libertà alquanto stretti – ma non del tutto inesistenti. Chissà che non li abbia avuti anche Pilato. Non sono preoccupato quanto Dante della legale efficacia salvifica della crocifissione, e non me ne rallegro. Devo però notare che egli è riuscito a saldare insieme il sacrificio personale di Gesù, non certo legittimato dal popolo (ma soltanto autolegittimato dall’alto, semmai), con il colpo di Stato di Cesare che nulla può avere del sacrificio personale, ma che egli pretende legittimato dal consenso popolare. Quarantanove anni intercorrono fra i due episodi – assai pochi, in definitiva, per chi osservi dalla distanzia di due millenni il mondo antico nel suo insieme. Viene a crearsi qui, quasi, una coincidenza simbolica che Dante accetta senz’altro come principio di legittimità e di continuità, anche barbarica, dell’impero – ma sotto il simbolo traslante del l’aquila e di Cesare, non della croce e di Cristo. Il ‘quasi’ ha la sua importanza, dunque, stabilendo una precisa distinzione fra i due atti per noi simbolici della crocifissione e del colpo di Stato che, in definitiva, è anch’essa sancita simbolicamente, e dunque indiscutibile, irrimediabile. Ora, noi non possiamo ignorare che già pressappoco intorno ai robusti esordi dell’antica letteratura cittadina la scelta fra il sacrificio personale e la possibilità di un colpo di Stato s’era posta ad Agamennone: il quale avrebbe potuto sottrarsi ad un atto che Dante avrebbe giudicato di barbarie mediante l’abdicazione (vale a dire: Zeus, per esempio) non ci riguarda. Di essa s’è occupato Rodolfo Mondolfo nello studio Responsabilità e sanzione nel più antico pensiero greco, raccolto in Problemi del pensiero antico, Zanichelli, Bologna 1936.
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il proprio sacrificio), oppure mediante un atto che Dante avrebbe giudicato di civiltà (con la sottomissione violenta dei capi delle tribù alleate). Il rifiuto del sacrificio della figlia e, insieme, del proprio potere sarebbe stato reso possibile mediante un atto di forza storicamente progressivo (come si dice) che, come poi a Dante, neppure ad Eschilo sarebbe dispiaciuto: dopotutto, non aveva egli già scritto il Prometeo? Non gli mancava che illustrare un ribelle vincitore, dunque – ma qui s’incontra forse una distinzione insuperabile di sensibilità fra mondo greco e mondo romano. Non so se sto esagerando – ma a me sembra davvero che con il problema dell’imputabilità del sacrificio d’Ifigenia cominci una grande storia della morale e della politica europea – una storia che abbraccia per intero il mondo antico, concludendosi simmetricamente, all’altro capo, con il sacrificio di sé di Stilicone. Dante non vede affatto nel colpo di Stato l’inizio di un imbarbarimento della vita politica – tutt’altro; ed è un fatto che quattro secoli e mezzo dopo un barbaro, imitando l’esempio di Cesare, avrebbe potuto dare all’impero e al mondo antico un’effettiva continuità non puramente simbolica, bensì sostanziale, col mondo barbarico e col moderno. Dobbiamo tuttavia mettere da parte, per ora, simili questioni veramente smisurate per conversarne al termine dello studio, in appendici separate. Quanto poi alla lettura semplice e plausibile del testo, che sopra annunciavo, credo che ci sia bisogno, in generale, di parlare nuovamente d’interpretazione, oltre che di commento. Se con gl’incantatori come Nietzsche, per esempio, che fu a suo modo interprete più coraggioso e avventato, che grande, discutere di filologia è possibile, anche se perfettamente inutile (e al termine delle sue invettive se ne accorse anche Wilamowitz: «È vero, non sono un mistico, non sono un uomo tragico»2), con i grandi filologi del Novecento si può forse dire il contrario: discutere di filologia con loro (quando non lo fanno soltanto fra loro) è praticamente impossibile – eppure è utile. Non dovrebbe mai essere inutile ripetere che il commento deve mettersi, in prospettiva, al servizio di un’interpretazione; e che il risultato conclusivo di ogni imponente lavoro filologico dev’essere, in definitiva, la traduzione, nella quale si parrà la sua nobilitate; e che la filologia è, o deve diventare da ultimo, critica letteraria; e che la critica letteraria a sua volta può diventare strumento d’investigazione politica (nel senso, almeno, che ‘politica’ significa costituzione degli esseri). *** 2 Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, Filologia dell’avvenire!, in Nietzsche Rohde Wilamowitz Wagner, La polemica sull’arte tragica, a cura di Franco Serpa, Sansoni, Firenze 1972, pp. 241-242.
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Desidero con questo studio affermare la validità di una lettura teatrale di un’opera classica soprattutto in quanto essa è opera teatrale, e non in quanto è un’opera classica. La filologia deve certamente avervi la sua parte – ma senza mai dimenticare, nei casi dubbi, la destinazione viva dell’opera, l’azione e l’effettiva situazione scenica: ciò che rende il genere teatrale così particolare fra tutti. Una simile lettura è necessaria, oltre che legittima, e può sempre riservare qualche sorpresa. È non solo legittima per delle ragioni di gusto o di scelta personale dell’interprete, ma altresì necessaria per delle ragioni del tutto intrinseche al testo. La più importante ed evidente di queste ragioni (e quasi clamorosa, direi) si desume dalla necessità d’interpretare l’episodio della lunga guida di porpora stesa da Clitemnestra davanti ai piedi di Agamennone. Se si parte dal presupposto di dover dare una lettura storica del dramma, questo episodio non ha semplicemente alcun senso. Lo spettatore dovrebbe infatti attendersi la situazione e l’azione esattamente opposte: di un Agamennone che torna affetto dai costumi asiatici, e che pretende di ricevere onori divini fra lo stupore e l’indignazione di tutti – ciò non potrebbe che favorire l’azione di Clitemnestra, diretta a guadagnare il consenso popolare al delitto, o almeno una giustificazione. Ma Eschilo fa invece tornare Agamennone più greco che mai, perché vuole significare che l’uomo non è cambiato e che la sua colpa, agli occhi di Clitemnestra, è ancora intatta. La corsia di porpora vuole dunque assumere un significato premonitore immediato, assolvere ad uno scopo simbolico strettamente teatrale – un effetto scenico, diciamo pure, che presuppone la complicità con uno spettatore e non con uno studioso. Oltre che intrinsecamente necessaria, oltre che legittima, è poi una lettura, quella teatrale, che può riservare sorprese perché (se dalla storia si passa alla filologia) si vedrà per esempio, nel caso più importante, che tradurre l’espressione tõ páthei máthos nella strofe III con «sapere è soffrire», o «conoscenza attraverso il dolore», e con simili innumerevoli varianti, tutte però sostanzialmente identiche, non può avere alcun significato plausibile (non diversamente, del resto, dal tradurre Peithō con Persuasione). Azione e situazione richiedono che a quelle parole si attribuisca un altro significato, un significato, diciamo così, monumentale: ‘lucidità nel dolore’. In esse si riassume l’implorazione rivolta da Calcante ad Agamennone affinché conservi la padronanza delle sue facoltà nell’istante della decisione, e costituiscono dunque nientemeno che il momento capostipite di una tradizione drammaturgica d’invito alla moderazione degli affetti che in età moderna riaffiora, per esempio, con l’Orfeo di Monteverdi. Così il significato politico dell’intera trilogia, col bilanciamento nel giudizio forense cittadino delle forze tribali della tradizione che fanno della giustizia
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una questione di rappresaglia vendicativa, diventa significato antropologico di costituzione della natura del principe; e noi troviamo in questo prologo e parodo non soltanto adombrato il significato generale dell’intera trilogia, bensì anche presentato uno dei primi cospicui esempi letterari della corrispondenza platonica fra i due libri della città e dell’anima: il doppio significato del termine ‘costituzione’. L’implorazione di Calcante assume le dimensioni di una vera e propria allocuzione, variata su più piani, la quale dev’essere anche articolata in due tempi: perché se l’interpretazione del motto tõ páthei máthos che propongo è ammissibile, bisogna pure ammettere che l’allocuzione di Calcante si estenda per ben cinquantadue versi: dal v. 126 al v. 155, e dal v. 160 al v. 183. Essa deve insomma comprendere, diversamente da come tutti gl’interpreti ammettono, anche il cosiddetto ‘inno a Zeus’ (una definizione priva di significato, come dirò, entrata in voga per spirito di soggezione). Il giustificazionismo di destra Restare ben vicini al teatro, dunque; e restare ben vicini alla parola. Se ci si mette nella prospettiva della libertà di fare teatro dove (diciamo così) la legge tace, o almeno non vieta, si potrà dire che con quelle parole tõ páthei máthos così interpretate, come ‘lucidità nel dolore’, il Calcante eschileo non vuole affatto trarre una morale intempestiva per il pubblico, né tantomeno impartire al capo della spedizione, con goffa petulanza, lezioni di vita non drammaturgicamente necessarie né da alcuno richieste. Egli è costretto da una dea irata a pronunciarsi sul significato di segni – ma non a lui spetta, poi, la decisione finale, bensì ad un uomo di potere sconvolto e combattuto fra l’amore e l’ambizione, al quale non resta altra scelta che il sacrificio della figlia, o l’abdicazione al comando. Ben più che vedere nel significato dei segni, l’indovino prevede e teme le conseguenze del suo responso nella mente offuscata di Agamennone. Non è ai sentimenti rassegnati del pubblico, invitato ad assistere a un sacrificio, bensì al senso di responsabilità dei governanti che Eschilo si rivolge, ponendo proprio un quesito di responsabilità. Affermare, come fece Quadri3, che la nozione di responsabilità degli antichi era troppo diversa dalla nostra per poterne fare una questione, non significa che la questione non si ponga e non si debba discutere caso per caso, e soprattutto nel caso dell’allocuzione di Calcante. Mettere poi la nozione di respon Goffredo Quadri, I tragici greci e l’estetica della giustizia, La Nuova Italia, Firenze 1936, p. 28.
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sabilità in relazione con i tabù della contaminazione del seme e del contagio della specie trova, semmai, la conferma dell’esistenza di una vera e propria responsabilità familiare con la minaccia del morbo inflitto da Apollo ad Oreste. Interpretare infine la nozione di responsabilità nel mondo pagano (ancora una volta, per negarla) alla luce della dottrina paolina e agostiniana della predestinazione non può servire che a mettere in serio imbarazzo i migliori teologi evangelici: i quali si vengono in tal modo a trovare in una posizione di diretta continuità col mondo pagano. Il Servo arbitrio di Lutero è uno dei libri più brutti che siano stati mai scritti – e non temo che se ne faccia una questione di gusti: con la ferma certezza della sua fede Lutero si presentò, col pugno, all’incasso della predestinazione, ed ebbe l’altrettanto ferma certezza della riscossione della salvezza. Un’azione impulsiva come quella di Agamennone è certa di riscuotere l’assoluzione del pubblico, di quest’onnipotente iddio della posterità? Ma certamente! – mediante quelle doverose interpretazioni che sono il pugno della fede nell’atto e nella necessità del divenire. In questo studio mi farò invece guidare, per lo più, dalle nozioni di possibilità e di potenza. In un libro pieno di fresche intuizioni (di quelle che non si ripresentano più, o che l’età e la posizione preferiscono poi autocensurare) nel 1931 Ladislao Mittner ebbe l’ardire di scrivere: La negazione del libero arbitrio è già la piena affermazione del divenire, e chi rifiuta ogni autorità morale potrà essere portato a non ammettere neanche l’esistenza materiale di quanto è fuori dell’io. Tale parallelismo (non dico coincidenza) fra spirito germanico e spirito protestante, lungi dall’essere fortuito, è storicamente determinato: il tedesco moderno [intendi: la lingua tedesca] si formò nel secolo travagliato della Riforma, e dei riformatori appunto reca le impronte profondissime. L’estensione di werden nella perifrasi del futuro … è dovuta in primo luogo appunto a Lutero, autore del De servo arbitrio e fondatore della chiesa per la quale la fede altro non è che divenire incessante della coscienza individuale.4
Prescindendo dalle radici teologiche del pensiero, Mittner vide dunque un solo aspetto del problema; e sottolineando l’ineluttabile necessità del divenire trascurò di considerare la tracotante affermazione della volontà di un ‘io’ fermo nei suoi propositi demiurgici. Ma c’è il modo di unire per immediata successione i due aspetti, così opposti, vittimistico e violento – un modo assai antico: la scelta di un Agamennone sopraffatto sopraffattore sta lì a mostrarlo. Dalla sottomissione alla necessità scaturisce l’attivismo. Del resto, interpretare il quesito della responsabilità alla luce della prede4 Ladislao Mittner, La concezione del divenire nella lingua tedesca, Vita e Pensiero, Milano 1931, p. 65.
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stinazione e del sangue non può in alcun modo sottrarre alcuno ad alcuna responsabilità, definita come l’esito di un divenire ‘oggettivo’: in tal modo si confonde infatti deliberatamente l’azione obbligata con l’azione inevitabile, e l’azione inevitabile con l’azione inconsapevole. Oreste agisce contro la madre perché istigato ad uccidere dalla minaccia apollinea del morbo, e vive attraverso le conseguenze alterne del suo crimine, che sono già di per sé una condanna e una pena. Non conoscendo i suoi veri genitori, d’altra parte, l’azione di Edipo fu del tutto inconsapevole – e ciò malgrado egli credette di doversi punire per questo. Agamennone, al contrario, ebbe chiarissimi i termini del l’alternativa, alla quale avrebbe potuto sottrarsi con l’abdicazione ad un comando elettivo, o di semplice fatto5 – ma se ne uscì dal misfatto del sacrificio sentendosi pienamente libero e assolto. Quanto al vivere angosciosamente i conflitti di coscienza come pena, in sé, del delitto, noi lo ritroviamo più tracotante che mai sotto le mura di Troia. Se ne vorrebbe allora dedurre che la morale di Eschilo è meno severa di quella di Sofocle, e anzi persino complice, grazie ad Omero? Nelle sue lezioni su I greci e l’irrazionale Eric Dodds ha collocato Eschilo in una posizione di uscita da un’età omerica, la quale conoscerebbe la vergogna ma non la colpa. Grazie al sussidio dell’antropologia, nei suoi studi questa età viene di fatto a coincidere col mondo dei primitivi (e persino con la mentalità dei contadini greci d’ogni tempo!). Sebbene la sovrapposizione di classificazioni antropologiche faccia subire al suo discorso antichistico vistose peripezie, la posizione di distacco di Eschilo da un mondo (diciamo così) arcaico risulta, ad ogni modo, notevolmente accentuata: gl’impulsi dell’emotività sono in lui ormai moralizzati.6 In che cosa consista questa moralità non è tuttavia ben chiaro, se non si dice che a un certo punto della storia letteraria le Erinni cominciano a dispensare i loro impulsi emotivi secondo criteri razionali (non più casuali) di giustizia, i quali presuppongono una misura discutibile di responsabilità e di colpa. A differenza di quanto sembra credere il Dodds, questo vale già per Eraclito: il quale ha delle buone ragioni politiche per desiderare che la giustizia della terra ponga limiti agli arbitri di un sole tirannico.7 Neppure si capisce bene in che cosa consista il cosiddetto ‘irrazionale’, se non si dice che nel mondo omerico (più ancora che nel mondo antico, in generale) l’uomo non conosce che l’azione ininterrotta: gli eroi non possiedono 5 Eschilo ignora la leggenda dell’impegno a difendere l’onore di Elena col giuramento reso a suo padre Tindaro, che avrebbe vincolato l’onore di Agamennone. Tucidide apertamente la smentisce (I 9, 1-3). 6 Eric Dodds, I greci e l’irrazionale, Nuova Italia, Firenze 1959, p. 13. 7 Ivi, p. 11 (da DK 94).
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la benché minima nozione di libero arbitrio, perché «riconoscono invece [soltanto] la distinzione fra azioni normali ed azioni compiute in stato di átē».8 Appunto: nient’altro che azioni, dunque; e anche chi si apparta a meditare tristemente come Achille, per esempio, lo fa solo aprendo un dialogo con la madre. Ciò che con l’allocuzione di Calcante Eschilo chiede ad Agamennone non è che una pausa dell’azione – una rinuncia all’attivismo, che è tipico della mentalità antica, o forse ‘arcaica’: ecco la rara novità. E sebbene Agamennone compia poi una scelta impulsiva, non si vorrà negare che egli, insieme col fratello, non abbia soppesato i termini dell’alternativa nei versi 206-208: «Grave sorte il non persuadersi – ma grave [pure] se ucciderò un’infante». È proprio dall’interruzione della continuità dell’azione che nasce una responsabilità. E se dunque nel capitolo dedicato alla drammaturgia musicale insisterò tanto nel combattere il pregiudizio wagneriano della continuità dell’azione, in difesa non necessariamente dei numeri chiusi, ma almeno del respiro (diciamo così) drammaturgico, o della sistole e diastole narrativa, il lettore capirà fin d’ora che ciò non avviene per semplici ragioni di gusto personale. Quanto all’improponibilità di un quesito di libero arbitrio nel mondo antico, da una parte, non ci si può appigliare (come fece Quadri) alle note battute di Aristofane, che vedono Eschilo recitare la parte del predestinazionista nel bisticcio con Euripide: Euripide [recitando il primo verso della sua Antigone]: «All’inizio Edipo era felice…». Eschilo: Ma neanche per idea: era infelicissimo per natura! Prima che nascesse, Apollo aveva predetto che avrebbe ucciso suo padre – prima che nascesse, dico. Come si fa a dire che all’inizio era felice?! Euripide: «Poi diventò l’uomo più sventurato…» Eschilo: Neanche per idea, ti dico: piuttosto, non cessò mai di esserlo.9
Con simili facezie Aristofane si proponeva precisamente di mettere alla berlina i sostenitori della responsabilità ‘oggettiva’, che diventa facilmente una non-responsabilità con la predestinazione.10 Il fatto che abbia scelto un autore come Eschilo quale preteso campione di questa posizione non può più significare assolutamente nulla, per noi: sarebbe come fare ancora di Dante Ivi, p. 10. Le rane, vv. 1182 ss. (Paduano). Eschilo visto da Aristofane costituisce un’eloquente celebrazione di entrambi nel volumetto di Americo De Propris, Eschilo nella critica dei greci. Studio filologico ed estetico, SEI, Torino 1941. La grandezza di Aristofane ne esce alquanto appiattita su quella del «fratello di genio» Eschilo, che fu per il commediografo un po’ ciò che Virgilio fu per Dante. Unì entrambi saldamente la comune posizione antisofistica. Per il resto, l’autore non si sofferma in vere trattazioni su alcun problema particolare, ma si sforza di fare ricadere sul personaggio di Euripide (nelle Rane) ogni riserva aristofanea nei confronti di Eschilo. 8 9
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un ghibellin fuggiasco; e ogni scolaro ripete ancora che Eraclito è il filosofo del pánta rèĩ. Alla fine del V secolo simili idee potevano essere comuni fra il pubblico – ma proprio di Eschilo si vorrà fare ancora oggi l’antonomasia del l’assolutore d’ufficio? Proprio di colui che scrisse il Prometeo? D’altra parte, quella di Oreste non è una predestinazione genetica: è bensì una predestinazione ‘naturale’ soltanto nel senso che egli è prigioniero del suo carattere letterario. La missione moralistica lo governa con la stessa intensità e con lo stesso peso di un corpo fisico che governi come un burattino gli automatismi tipici d’ogni altro carattere. Per capire perfettamente il significato del peso esercitato nel personaggio da questo e da ogni altro carattere, desidero citare due strofe da quel monumento fra i più imperituri della poesia del Novecento che è, insieme con Fanciulle, I prigioni di Umberto Saba – vero e proprio condensato gnomico degno della Commedia dantesca: Sempre, come ritorni primavera, di me tu devi ricordarti. Io sono il matricida Oreste, e un sacro dono porgo ai mortali: la Tragedia austera. Figlio di re, nella reggia straniera vissi a un pensiero, e non parvi ancor buono a cinger l’arme, che per tutto il suono si udì di mia vittoria orrenda e fiera.
Il moralismo non è che la morale, o la spiritualità, quando acquista la dura consistenza di un peso corporeo, diventando così nient’altro che la tomba di se stessa. In questo senso ‘grave’ si può parlare di ‘tara’, e di un essere ‘tarati’. Ma il significato non è genetico, è teatrale – ancorché si possa facilmente trasferire per analogia il carattere dei personaggi alla vita delle stirpi, e persino delle nazioni. In ciò consiste veramente il servo arbitrio: nella tipologia teatrale di una specie, ossia nella natura passata in letteratura, e nel pregiudizio fatto drammaturgia sotto innumerevoli sembianze, persino le più insospettabili. Persino teologiche. Con la sua caratteristica brutalità di pensiero Lutero, in definitiva, prima ridusse l’escatologia a soteriologia, e i destini ultimi dell’umanità alla sua salvezza personale immediata; e poi, con un processo inverso, non fece che estendere all’intero genere umano la sorte pretesa della sua propria specie. ***
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Bisogna ammettere che tutto quanto un clima politico e culturale fatto di logica mistica e d’arianesimo, di bergsonismo e di tedescherie (rese autarchiche come machiavellerie), contribuì a diffondere fra gli studiosi italiani degli anni Trenta e Quaranta un violento e ineluttabile ‘senso del destino’ che si compendia nell’adorazione del cosiddetto ‘atto’. È una storia climatica, relativamente recente, di provincialismo da subcontinente germanico, per lo più, che inizia con quell’alleanza triplicina mediante la quale, nel 1882, all’Italia fu elargita la statura di grande potenza europea solo perché andasse a misurarsela davvero in Africa contro Francia e Inghilterra, senza nuocere agl’interessi degli sprezzanti (a torto o a ragione) elargitori.11 A dispetto delle Fame usurpate dell’Imbriani, e poi dei giovani come Papini; a dispetto del sentimentale rovesciamento delle alleanze, e dell’intervento in guerra nel ’15, i principali orientamenti di un’intelligenza filosofica compradora, che vive sull’importazione, com’è per lo più la nostra, non poterono cambiare – se non altro, perché il nazionalismo spense la nostra migliore creatività, che è sempre stata xenofila e kath’hólou. Il difetto di genio saggistico della nostra letteratura filosofica contemporanea, d’altra parte, ha sempre creato problemi di continuità nei confronti delle letterature atlantiche, lasciando così, anche per forza di cose, spalancata la principale via alpestre del normale approvvigionamento di materie prime che si apre col Secondo Reich. Prima, non era stata praticabile che la via marittima dell’idealismo napoletano, la quale mostrò rendersi necessario ai maghi del nord aggirare la valida resistenza illuminista di un’Italia che non s’inkanta. Il positivismo post-hegeliano completò l’opera di risalita della penisola. Ma dopo che Pantalone e il dottor Balanzone ebbero spedito Pulcinella a scambiare legnate coi mori, non ci fu più bisogno di aggiramenti, e l’importazione divenne lentamente costume di rigore. Le eccezioni eminenti (in un paese che quasi non conosce altro ai suoi vertici che eccezioni) non possono modificare il giudizio sull’edificio di una repubblica dei cólti che assomiglia più ad un obelisco che ad una piramide. Quanto alla debolezza generale del genere saggistico nella nostra cultura filosofica contemporanea, bisognerà pure riconoscere che il talento di Croce è stato l’eccezione che ha fatto qualche scolaro senza fare scuole: e per capire la 11 Mi riferisco ai grandi disegni originari, bismarckiani, dell’alleanza; perché è noto che nel seguito tanto Francesco Giuseppe che Schlieffen, invece, giudicarono con preoccupazione l’impresa di Libia, interpretandola (a torto o a ragione) come una prova generale di guerra contro gl’imperi centrali – forse persino la risposta ai piani che il Conrad era venuto facendo contro l’Italia fin dal 1907. Ma ciò non cambia nulla, e non può anzi che confermare il giudizio sulle basi politicamente equivoche di quell’alleanza, e sull’equivocità, per conseguenza, di tutto quanto il clima culturale nel quale si formarono gl’intellettuali che dettero poi forma alla personalità teorica del Novecento italiano.
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differenza basta pensare ad un confronto tra la consistenza della nostra filosofia e quella della nostra fisica, per esempio: questa autonoma, e quella no. La distinzione fra poesia e non-poesia, d’altra parte, ha soffocato quanto di meglio la nostra tradizione letteraria ha sempre saputo dare d’indistinguibile nell’unità sentimentale di sensibilità e intelletto. Tagliata la radice di questa linfa caratteriale italiana, e riaffermato il dualismo delle facoltà conoscitive (gl’idealismi vanno e vengono, il kantismo come ultima forma mentis del l’intellettuale organico dell’amministrazione rimane), di un sostanziale rinnovamento della cultura che non fosse fatto soltanto d’importazioni e d’eccezioni non si è potuto più parlare. Se l’originalità di un intellettuale profondamente autoctono come Croce in mezzo secolo non ha saputo fare scuola, le scuole, invece, le hanno fatte i ministeri, con intellettuali formati nel clima della Grosse Politik der europäischen Kabinette. I caratteri e i difetti in qualche modo naturali di una letteratura e di un ceto intellettuale si consolidano in programmi ministeriali e vaticani nel ’22 e nel ’29, e diventano vero e proprio costume dopo il ’36, dotando la mentalità accademica di apparati e di una continuità che troppo spesso hanno distolto i nostri teorici dal concedersi autonome intuizioni generali, o dall’ac costarsi ai problemi liberi da assunti filosofici o dande bibliografiche altrui. Se non è un semplice dato di fatto, sempre rimediabile, il provincialismo nasce dal bisogno ossessivo di sprovincializzarsi – e allora diventa irrimediabile, col sacrificio dell’attività del ragno a quella, pur sempre lodevolissima, dell’ape. Non si vorrà negare che nel guardarsi intorno in cerca di più ampi orizzonti non vi sia sempre, in una personalità debole, anche la tentazione di cercarsi dei tutori. Sotto tutela, del resto, è sempre stata la nostra politica estera – e ciò non è sempre stato un male; e la filosofia è potuta andare immune da un’identica tentazione ancillare soltanto con una sua boriosa immaginazione. Sono proprio le bibliografie, che stanno lì a dimostrare che l’Italia non può (come avrebbe voluto Mazzini) ‘fare da sé’. D’altra parte, un processo di svecchiamento che comincia pressappoco con le esortazioni della Staël deve pur terminare dopo un paio di secoli, per esempio, con la pretenziosa e ridicola asserzione del filosofo il quale, al termine di un convegno su l’interiorità nel romanzo, esclude drasticamente dal mondo contemporaneo la possibilità stessa dell’interiorità dopo l’avvento della fenomenologia.12 12 L’interiorità. Modi di rappresentare la vita psichica nel romanzo, Sant’Arcangelo di Romagna, 25-26 maggio 2007. Non è che un esempio di dipendenza scelto fra mille, naturalmente, e non certo dei più cospicui. Basta andare in libreria per cercare opere di Lessing senza trovarle, e scoprire che di Heidegger, invece, si tradurranno e pubblicheranno forse, tra non molto, anche i compiti di scuola. I titoli che lo riguardano disponibili sul mercato italiano sono circa trecento.
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Ciò che può venire a mancare in questa situazione in qualche modo ‘naturale’ di dipendenza del nostro paese, e nei climi generazionali via via diversi, sono dunque l’autonomia della scelta dei riferimenti sui lontani orizzonti del passato (il canone dei nostri poeti-filosofi), oltre che del presente (il canone delle nazioni) – nonché l’originalità congenita: la capacità del singolo studioso, in particolare, di realizzare ancora un incontro fra autore e lettore simile a quel primo incontro fra due amanti che Stanislavskij raccomanda ai suoi attori. È qui, in una vigile prima unità sentimentale della conoscenza, che entra nel discorso filosofico la filologia. Cosicché, nell’insieme, la Necessità della Storia o il Senso del Destino sono finiti per passare sopra gl’individui un po’ come il filosofo passa sopra la parola della poesia, e il critico sopra l’imbroglio del filosofo.13 Lo storicismo (in qualsivoglia accezione teorica del termine) ha reso i caratteri di ogni singola epoca storica inassimilabili ai moderni, non meno che fra loro. Ciò è potuto servire per escludere ogni possibilità di giudizio – a cominciare, innanzitutto, dai giudizi di responsabilità: perché ciascuno agisce sotto l’impulso di una legge ineluttabile di progresso, ovvero obbedendo al bisogno di attuazione della personalità o della specie, quali che possano essere le conseguenze. Questo senso dei fatti e della storia (in cui si compendiano necessità e destino, grande personalità e impersonalità, irresponsabilità della contemplazione e dell’azione, e quant’altro), questa romanticheria, insomma, esce dagli studi e dai gabinetti del XIX secolo per diventare una morale pratica, con la quale il ‘senso tragico’ si mette alla portata dei grandi e dei piccoli uomini d’azione del Novecento. Uno dei suoi principali vettori è il marxismo, il quale si giova della consanguineità dell’idealismo e del positivismo per dotare le masse popolari di un’equivoca nozione di giustizia: il grido dell’oppresso, che la reclama, non serve che per soffiare nella stessa direzione di un uragano. Troppi intellettuali hanno creduto di doversi assumere l’onere di un impegno in questa fisica dei fluidi. *** La nozione di responsabilità degli antichi (per tornare immediatamente a noi) non era poi tanto diversa dalla moderna, se nella Repubblica Socrate poteva così parlare a Cefalo: 13 Non tutti, si capisce, si sono lasciati incantare dall’ineluttabilità dei Fati, gloriosi o funesti: basta pensare al refrain de La Belle Helène di Offenbach: «C’est la fatalité!». E contro tutto ciò che quaggiù passa, e che si lascia, qualcuno ebbe pure l’ardire di confessare l’anelito per gli amori che non passano e per le coppie che durano (Sully Prudhomme, musicato da Fauré). Si pensi, poi, al platonismo di Erik Satie, e a tante simili forme di resistenza al wagnerismo.
24 introduzione Se qualcuno ricevesse in consegna da un amico sano di mente delle armi, e se poi costui divenuto pazzo le richiedesse, tutti converrebbero che quelle armi non dovrebbero essere rese, e che giusto non sarebbe chi le rendesse, come giusto non sarebbe chi volesse dire tutta la verità ad un uomo che si trovasse in un simile stato di mente.14
È vero che il ragionamento di Socrate è parzialmente viziato, sotto il profilo logico, dall’introduzione di un’anomalia patologica, che gli fa rasentare il sofisma; e che noi avremmo gradito conoscere quale responsabilità si assumerebbe colui che dovesse restituire a un uomo sano di mente un’arma ricevuta in custodia da quel medesimo uomo, nelle medesime condizioni di spirito. In ogni caso, la responsabilità impersonale (di un’intera città, per esempio) non è mai considerata nella letteratura storico-politica greca una responsabilità soltanto ‘oggettiva’ (vale a dire: alleviata da ragioni essenziali e naturali, o da circostanze di forza maggiore, tali da rendere l’azione nonimputabile secondo un cosiddetto ‘senso del destino’). Nei rapporti impersonali fra le città le ragioni oggettive dell’ineluttabile necessità dei conflitti (come il reciproco timore, o l’eccessivo accrescimento di potenza dell’uno che costringe l’altro a premunirsi mediante alleanze, o mediante una guerra preventiva, e simili) non sono ragioni più valide, o più frequenti, delle nozioni invocate di giustizia e di onore, o delle accuse di protervia e di responsabilità nell’azione dell’intera personalità cittadina. Gli scrupoli nell’evitare coinvolgimenti indesiderati o sospetti sono talvolta persino legalistici, nel mondo greco. Se si fa del mondo antico, sotto questo profilo, qualcosa di non assimilabile al nostro, non solo si perde la possibilità d’intendere, per esempio, la maggior parte delle orazioni tucididee (le quali insegnano che la storia procede per libere scelte fra opinioni alternative), ma si perde altresì la possibilità di giudicare in una vasta prospettiva storica le questioni di responsabilità che si sono poste, per esempio, nel Novecento: il quale, tanto per chi le afferma, come per chi le nega, è stato dopotutto il secolo per eccellenza dei quesiti di responsabilità statuale e nazionale: dove tutti sono responsabili, nessuno lo è più. E allora non posso esimermi dall’avanzare, francamente, la poco maligna supposizione che in certi studi sull’Agamennone si siano anche propagati, alla lontana, gli umori dei revisionismi di Versailles: secondo i quali non avrebbe senso (al modo antico) imputare una responsabilità ad un violento disegno di egemonia fallito, come quello tedesco – mentre ne avrebbe (al modo moder14 331 c (Adorno). Anche sotto il profilo giuridico e contrattuale, del resto, «la regola per il diritto greco era che ciascun debitore fosse [personalmente] responsabile pro parte» (Arnaldo Biscardi, Diritto greco antico, Giuffrè, Milano 1982, p. 172).
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no) imputare una responsabilità a chi, come i francesi, di quel disegno fece una severa questione di principio e di risarcimento. Come si vede, chiamando in causa nientemeno che il quesito della libertà dell’uomo, o del libero arbitrio, il problema filosofico e storico della responsabilità è capace di sommuovere un po’ tutti i nostri orizzonti teorici. Mi sembra utile riassumere qui una simile conclusione, che potrebbe anche sembrare ovvia, non soltanto per giustificare un’introduzione così ampia, ma anche per farla fungere da contrappunto ad un’identica affermazione che verrò illustrando nel capitolo sulla drammaturgia musicale: dove dirò come il problema della musicazione di un parodo sia capace di sommuovere un po’ tutte le nostre conoscenze di teoria, etnologia e storia della musica. Il giustificazionismo di centro La cultura politico-letteraria di sinistra è stata, per parte sua, altrettanto pesantemente influenzata dai climi della responsabilità oggettiva – che diventa facilmente irresponsabilità per latitanza del destinatario dell’imputazione, allorché la Storia, o l’egoismo della nazione, o l’interesse di classe prendono il posto di Dio. Il difetto generale di senso dello Stato nella cultura di sinistra non ha affatto generato un’accentuazione del senso di responsabilità individuale (que sto si può dire, semmai, delle correnti anarchiche). E anche là dove questo senso dello Stato è apparso assai forte, come nella socialdemocrazia tedesca fra Otto- e Novecento, le responsabilità individuali sono state del tutto devolute alla difesa dell’interesse statale, oppure nazionale. Per capire la sottile differenza basta leggere, per esempio, le pagine con cui Franz Mehring presentò al pubblico nel 1906 la terza edizione della Leggenda di Lessing. Contro la storiografia nazional-liberale, egli negò alla Prussia, federiciana o bismarckiana, ogni diritto a rivendicare l’assolvimento di una missione storica, rinnovatrice della nazione tedesca; e dopo avere così raccolto per le mani della socialdemocrazia la bandiera lasciata cadere nel fango, se pure mai sollevata, giustificò invece in tutto e per tutto l’operato guerresco di Federico II (che è un classico caso storiografico di responsabilità) come quello del tipico despota dinastico del secolo decimottavo, impegnato nella difesa del suo Stato contro una congiura aggressiva delle grandi potenze.15 Bene – precisamente questo sarebbe diventato solo otto anni dopo, nel 1914, il principale argomento della propaganda Franz Mehring, La leggenda di Lessing, Rinascita, Roma 1952, pp. 17-21.
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di guerra tedesca; e per conquistare il consenso della socialdemocrazia bastò sostituire l’interesse dell’intera nazione a quello, così regionalmente limitato, dello Stato dispotico federiciano. L’idea, più volte ripetuta, che Federico II abbia agito «nell’interesse della pace europea», o nient’altro che «per la pace», o per «meglio mantenere la pace», è opinione che nel suo discorso sta del tutto a pigione. Mi dolgo di dover giudicare in tal modo un uomo tanto degno di stima e di lettori, come Franz Mehring – ma tali furono il carattere e la costituzione intellettuali dell’Impero tedesco, da non possedere efficaci anticorpi letterari contro quel vizio che, sulle ceneri del Secondo Reich, fu definito il suo orgoglio criminale e gerarchico. Mi basterà, qui, aggiungere una sola conferma contestuale. Per condannare duramente il carattere della società del Secondo Reich, arricchitasi anche col puntuale pagamento delle riparazioni di guerra pretese da Bismarck, Franz Mehring così si esprime: Il carattere di Lessing sta in aspra e stridente contraddizione con quello della borghesia tedesca di oggi. Pusillanimità e simulazione, una sete inesausta di guadagno, la gioia per la caccia al profitto e, più ancora, [la gioia] per il profitto stesso, l’autosufficienza intellettuale, contenta di un paio di parole ad effetto come conclusione della sapienza terrena, l’impostura di un sistema di cricca e di réclame infinitamente ramificato, la più incredibile stima per tutti i fronzoli e le sciocchezze del mondo, il servilismo verso l’alto e l’oppressione verso il basso, un bizantinismo radicato, la permanente congiura del silenzio anche davanti alle più patenti ingiustizie, un arrogante e sempre debole contegno nelle lotte politiche e sociali del nostro tempo: sono queste le qualità che la distinguono.16
Le qualità che distinguono «la borghesia» tedesca – appunto: non il Secondo Reich. Il lettore nota immediatamente come lo spostamento dell’osservazione nella direzione dei conflitti sociali di classe, secondo l’ideologia marxista, faccia qui del tutto salvi il carattere e le responsabilità dell’edificio gerarchico dell’Impero. E noterà non meno chiaramente che dal profilo di questi vizi è assente il benché minimo accenno ad una qualsiasi aggressività egemonica e militare verso l’estero – cosa che, mi pare, sfiderebbe decisamente i più ambiziosi traguardi di ogni revisionismo storico. Messa la cosa in questi termini, è chiaro che per un uomo come il Mehring l’avanzare ex post una questione di ‘revisione’ (nei termini attuali, s’intende) non sarebbe stato neppure concepibile – per non parlare, poi, di una questione di responsabilità storica. Si possono così spiegare le sorprendenti simpatie che certi intellettuali Ivi, pp. 26-27.
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di destra affettano nei confronti del marxismo della Seconda Internazionale. La dottrina marxista, d’altra parte, dovette non poco il suo irrigidimento dogmatico nell’età della Terza Internazionale proprio al fatto di essersi dovuta aggirare come un fantasma tra gl’infuocati quesiti nazionali, dai quali aveva dovuto pretendere di tenersi estranea. *** Col socialismo nazionale, o di Stato, ci troviamo ancora in una zona ideologicamente ibrida, o di scambio tra fronti ideologici opposti. Per passare decisamente dall’altra parte bisogna pensare che un ruolo corrispondente a quello svolto per la destra italiana dal clima triplicino è stato giocato nella cultura di sinistra, in tempi solo di poco più recenti, dai legami stabiliti dal Comintern con i partiti comunisti (con l’idea staliniana, tanto per capirsi, che quando si taglia un albero le schegge volano, e simili) – ma con la differenza che le origini dei giustificazionismi di sinistra sono anche meno pratiche, assai più spiccatamente teoriche (come è naturale del resto per chi, di solito, non ha l’abitudine all’esercizio del potere). Ciò chiama direttamente in causa gl’intel lettuali senza la possibilità di cercarsi degli alibi amministrativi. Ma questo è tutt’altro che facile – e per conseguenza dovremo indugiare ancora un poco nella nostra zona di centro, dove si trovano le radici teoriche comuni ai giustificazionismi di destra e di sinistra. Queste radici teoriche centrali sono principalmente due: spinoziana e kantiana. Dal nostro mondo contemporaneo, nel quale discende attraverso la mediazione delle scuole romantiche e dei loro derivati, la prima risale nientemeno che verso i lidi della metafisica teologica: nella quale non si può porre, a stretto rigore logico di termini, alcun problema di responsabilità, né di giustizia e di giudizio. Quella spinoziana degli ‘attributi’ della Sostanza è una soluzione terminologica del dualismo cartesiano, che può già trovare la sua progenitrice teorica nel IV secolo, nella soluzione sabelliana dell’enigma trinitario. L’indistinzione delle Persone, o del rapporto fra una molteplicità di sostanze, e la sostituzione della Sostanza stessa, o essere, mediante l’esercizio del tutto svolto, attuato, del suo ‘attributo’ linguistico di Ragione, aprono la strada a tutta la superfetazione del manierismo speculativo moderno e contemporaneo. L’indistinzione dell’azione della ragione e dell’essere genera un attivismo (puramente intellettualistico, o meramente pratico) che esclude qualsiasi quesito di responsabilità. L’irresponsabilità sostanziale degli esseri diventa argomentazione storicistica con Hegel, agonistica con Marx o, viceversa, del tutto
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remissiva con Schopenhauer. Con una sintassi mistica il nostro Gentile, infine, ha ricavato da tutto ciò un’unica conclusione pratica, pedagogica. La convinzione di appartenere in ogni caso al cosiddetto ‘corso della storia’ fa il resto; e questo ‘resto’, ultima manifestazione della Sostanza come Spirito o Logos, come Lotta o Lavoro, come Volontà, come Speranza, come Noia Appetito Fede Unità e quant’altro, che via via si libera da quelle vesti caduche che sono le forme, i rapporti di produzione, le rappresentazioni, e tutto ciò che l’affetta d’immaginario – questo ‘resto’, dunque, raccoglie per buona parte le vittime della peggiore storia del Novecento. Le sue vittime non sono state soltanto i corpi dei vivi, bensì anche (male minore) gli spiriti dei morti. Non importa che, per esempio, in uno dei suoi frammenti in verità più oscuri (DK 12) Eraclito l’orgoglioso, l’appartato, lo sprezzante la vita cittadina, parli di anime aleggianti al di sopra di acque sempre diverse; no – si può sempre capire e fargli dire esattamente l’opposto: che siamo tutti immersi nello stesso flusso irresistibile, che ci attraversa e ci trasporta. Con lo storicismo del perpetuo divenire vengono così a mancare al significato della storicità i suoi aspetti complementari (che devono pure esistere, e che restano anzi i principali): quello della storicità come insieme dei condizionamenti sociali e materiali che agiscono in relativa permanenza su di una cosa; quello del significato storico di un’azione in quanto essa non è che variazione individuale di una tipica ripetizione; e quello, infine, della storicità come persistenza di un problema sempre aperto in virtù, semplicemente, della sua natura logica. *** Kant resta fuori da tutta questa faccenda, soltanto perché la sua critica fu un rifacimento del cartesianesimo nello stile superfetativo e affastellato del Sacro Romano Impero di Nazione Tedesca, ed ebbe di fatto il merito di cercare fuori del primato ontologico della Sostanza qualcosa che sarebbe anche potuto diventare un primato speculativo dell’Essenza – vale a dire: dell’impersonalità della legge come soluzione formalmente provvisoria di ogni rapporto di contraddizione fra sostanze. È Schopenhauer che s’incarica, poi, di fare rientrare il kantismo nell’alveo sostanzialistico spinoziano. Ma doveva per forza finire così, perché lo stesso Kant non risolse mai il dualismo in uno stabile esito interno alla dialettica di termini opposti, bensì mediante continue superfetazioni logiche e continui rilanci su piani ogni volta più alti e peregrini, fino ad approdare da ultimo al problema che avrebbe dovuto affrontare per primo: quello del Giudizio, morale o estetico – ossia, veramente, del pregiudizio: unica vera
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sintesi a priori in cui si trovano saldate in latente unità sentimentale, originaria, indistinguibili, le facoltà conoscitive della sensibilità e dell’intelletto. E le multiformi risorgenze del kantismo, quando non hanno coltivato il dualismo di sensibilità e intelletto (di cui il dionisiaco e l’apollineo nicciani, o la poesia e la non-poesia crociane, lo psicologismo e il logicismo husserliani e simili, non sono che le più popolari e infestanti fra le innumerevoli varianti) – queste risorgenze, dunque, hanno infatti preso, per lo più, la strada del superamento degli opposti, anziché della costituzione in un loro stabile rapporto. Non esiste in Kant mai, da nessuna parte, la benché minima nozione di un’approssimazione insensibile all’oggetto, così come non esiste alcuna nozione di percezioni indistinte – per il semplice fatto che egli non possedette mai (innanzitutto sul piano matematico) la benché minima nozione di gradazione infinitesima. Che è come dire: il meglio di Hume e di Leibniz – nonché, diciamolo pure, di Valla. Esiste invece, e in misura assai sovrabbondante, persino monumentale, l’attività speculativa rampicante di superfetazione dell’oggetto – questa sì. E il lettore può facilmente capire da sé quale sia l’importanza dei diversi presupposti filosofici, ancorché assai lontani, nel caso di una seria problematizzazione teorica dell’approccio registico all’antico.17 Sul piano pratico, poi, chi ha voluto avere (anche a sinistra) il senso dello Stato si è detto spesso kantiano. Ma la tenacia con la quale Kant cercò di dare a tutti i costi la certezza di un fondamento senza contenuti (senza pregiudizi!) all’intellet tualismo e al moralismo categorico è stata il presupposto indispensabile per avanzare la pretesa di scientificità del socialismo, prima, nonché per diventare, poi, la fonte dell’attivismo nazionale, o nazionalismo: nientemeno che le due principali ideologie del Novecento. Fu anche con la certezza di possedere un fondamento sicuro che la colomba della critica terminò il suo volo sulla Marna.18 17 Parlo di regìa in senso assai generico, come versione e allestimento. A scanso di equivoci, desidero inoltre precisare che con approssimazione ‘insensibile’ intendo riferirmi ad un’approssimazione sentimentale per gradi infinitesimi della sensibilità e dell’intelletto indistinti, e non certo perorare un approccio intellettualistico all’oggetto che proceda da una netta, e gerarchica, distinzione fra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale. 18 Per ragioni di congruenza con l’oggetto di questo studio dovrei dire, piuttosto, che essa terminò il suo volo a Siracusa. In un discorso alla cittadinanza (Tucidide I, 140-144) Pericle illustrò, del tutto kantianamente, condizioni possibilità e limiti della vittoria ateniese nella guerra incipiente. Il mancato rispetto di simili realistiche restrizioni viene deplorato (implicitamente anche da Tucidide) come causa ultima dell’avventura siciliana, che portò Atene alla catastrofe. Il ragionamento è identico a quello degl’in tellettuali di Weimar, i quali deplorarono la Germania essere sfuggita alla guida sicura di Bismarck, dopo l’accettazione delle sue dimissioni, per gettarsi (con la politica di riarmo navale, soprattutto) in un’impresa senza scopi ben definiti. Si tratta di un ragionamento viziato sul piano storico (la Germania, dopotutto, non fu sconfitta sui mari), e persino sofistico sotto il profilo logico: perché se quello fu il risultato inatteso, è chiaro che non tutte le condizioni, non tutte le possibilità e i limiti dell’impresa furono preliminarmente presi in considerazione. Nel suo discorso Pericle, per esempio, raccomanda restrizioni all’azione nello
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Che cos’è, in definitiva, il fondamento kantiano? È la pretesa di dare certezza all’induzione. Su questa pretesa logica si è consumato l’orgoglio dell’avventura tedesca del Novecento. La ricerca nei vuoti a-priori della sensibilità di un fondamento sicuro per i voli dell’intelletto non fu che una trovata. La certezza in tal modo acquisita non avrebbe potuto essere che una certezza nell’Io sento, anziché nell’Io penso. Ciò avrebbe richiesto tutta una revisione del cartesianesimo in chiave antropologica, magari alla luce, per lo meno, delle acquisizioni del moralismo francese. Un pietista convinto e profondo questo avrebbe dovuto intuirlo, prima ancora di capirlo con chiarezza – e Kant probabilmente anche lo intuì. Se non che, egli era uomo tutt’altro che sensibile e profondo – inutile negarlo, mi sembra: basta leggerlo; né era, d’altra parte, uomo capace di cimentarsi direttamente con i grandi autori, senza prenderli per le falde della fama (come dicendo: “Platone e Leibniz, i due grandi intellettualisti!”, e simili casi), o senza arrampicarcisi sopra (come fece con Cartesio). Prima ancora che su un piano morale, dunque, un quesito di responsabilità su un piano teorico andrebbe posto, e va posto, in primo luogo, sotto il riguardo dell’onestà intellettuale nei confronti degli autori, e del rigore delle discipline. Oggi nessuno si meraviglia se si afferma il marxismo essere fallito, e il pensiero di Marx rivelare facilmente l’inconsistenza della sua pretesa scientifica. Perché non dovrebbe constatarsi la medesima cosa anche con Kant? La modesta risonanza del recente bicentenario non è stata immune da un certo imbarazzo – e del tutto priva, poi, di virile franchezza intellettuale (senza considerare le ironie). Non una sola opera scientifica di Marx è stata portata a termine, com’è noto – e tuttavia una kantiana volontà di concludere trotzdem und alledem, malgrado tutto e poi tutto, non avrebbe, e non ha, dato vita che ad una triste disciplina della (diciamo così) rivulsione permanente. E proprio spazio, ma trascura completamente di considerare il tempo; gli strateghi del 1914 trascurarono di valutare l’economia delle forze in relazione alle potenze neutrali, mentre i tattici calcolarono esattamente lo spazio e il tempo, ma trascurarono di valutare l’intenzione e il mezzo. Nelle mentalità (accademica, diplomatica, burocratica, militare) del Secondo Reich la deduzione categoriale dai vuoti a-priori sensibili dello spazio e del tempo conferisce all’attività dell’intelletto un fondamento, o una supposta garanzia di certezza scientifica, che diventa intellettualismo non appena una sola di queste condizioni e possibilità venga trascurata. In entrambi i casi il ragionamento prescinde nientemeno che dalla costituzione del soggetto: nel caso del discorso di Pericle, esso prescinde da ogni considerazione sul carattere della democrazia ateniese; nel caso tedesco alla svolta del secolo scorso, esso prescinde dal carattere o dalla personalità dell’Impero. Trascurare il fatto che un soggetto non è soltanto un puro centro di attività, ma è anche ‘soggetto’ a se stesso, aggiunge all’intellettualismo l’attivismo: i morti della letteratura romantica, che si lanciano al galoppo nella notte, scoppiano tutti quanti di salute. Per congruenza con il nostro ambiente tragico, dunque, bisognerebbe parlare di una colomba delle critica che spiega le sue ali verso Siracusa; ma è pur vero che, senza affatto rendere più comprensibile il discorso, un simile riferimento implicherebbe la non meno vistosa incongruenza di attribuire a Pericle una posizione neo-kantiana!
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questo, in effetti, è per lo più avvenuto con la filosofia professionale: la pretesa liberazione dai nostri umori pregiudiziali, buoni o cattivi, mediante la dissipazione teoretica ed estetica nel Giudizio. Il nostro giudizio determinante su di un crimine (su di un infanticidio, per esempio: che non è mai un giudizio privo di sieri, di umori, di essudati corporei), può venire promosso e finalizzato verso un ordine di legittimità superiore mediante un Giudizio cosiddetto ‘riflettente’ che costituisce, in definitiva, la base teorica di ogni giustificazionismo. Il fallimento di un’inconcludenza teorica sancito dalla storia dei regimi totalitari del Novecento sta, dunque, a confronto col fallimento dell’inconcludenza teoretica sancito dalla metastasi di quei Giudizi che sono le filosofie della storia. Eppure, quanto diversa fu in Marx l’efficacia del giudizio polemico, e quanto profonda l’umile tenacia dello studio sulle opere altrui, e quanto disinteressata la costanza delle sue acquisizioni sostanziali nei campi disciplinari più disparati! Quanto più forte l’invito a dotarsi di una cultura politecnica, in confronto con le elucubrazioni sugli a-priori di qualsivoglia disciplina! Si dirà che il paragone dei due fallimenti non può sussistere perché gli manca, su di un lato, il requisito della materializzazione storica: Kant non è diventato neppure suo malgrado, si dirà, l’ideologo di alcun regime vigente. Ciò, tuttavia, non toglierebbe nulla alla verità di un successo o di un fallimento teorico – e del resto è anche falso: la mentalità diffusa nei circoli del Secondo Reich senza Kant è impensabile; e il manierismo speculativo, e la perfetta inutilità della filosofia accademica del mondo contemporaneo non possono conoscere alcuna catastrofe, pur costituendo di fatto un regime. Se giustizia dev’essere fatta a costo di qualunque perdita o sacrificio (per lo più altrui, come Eschilo mostra nel primo caso non biblico della storia letteraria), è ben vero che l’opera di Kant rappresenta la più grave impresa di propaganda teorica della necessità di un crimine politico del tutto priva di qualsiasi fondamento nella tradizione. Il Principe è nulla, al confronto – e del resto per scriverlo anche Machiavelli si affidò alla logica, tralasciando la storia. La legittimità dell’azione teorica e pratica che con Kant il pensiero cercò in se stesso volle escludere, anziché porre, un problema di responsabilità. La libertà della costruzione del giudizio sul mondo e sul ‘senso delle cose’ risulta sempre, e in ogni caso, una conferma dell’esistente considerato nelle sue possibilità perfettive più prossime. In nessun caso il dovere è una rinuncia all’azione, proprio secondo una logica amministrativa. Non ha molto senso, allora, sottolineare l’impossibilità di un fallimento per mancanza di un’identificazione con un regime: perché qualunque amministrazione può diventare il corpo accogliente di un simile contagio diffuso fra un’intelligenza professionale strettamente specializzata su se stessa – e per il resto in tutto dipendente.
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Quello di Calcante è il primo caso eminente, nella storia della letteratura, della difficile posizione in cui viene a trovarsi un intellettuale amministrativo (quella figura assai più accomodata, tanto per capirsi, che Tamino incontra per prima entrando nel palazzo di Sarastro). Se l’interpretazione illustrata in questo studio risulterà convincente, si vedrà che la sua azione è, in definitiva, un’interferenza coi disegni del potere. E questo potere è tutt’altro che arbitrario, tutt’altro che incompatibile con la Ragione. Ciò viola un principio kantiano meno noto: il principio del dovere d’omissione. La moralità remissiva malamente teorizzata da Kant col dovere d’omissione (che con Schopenhauer diventa nientemeno che un’etica metafisica della complicità col potere se non è, come per lo più si pretende, che un letterario annullamento di sé) – questa moralità remissiva enunciata nella Teologia naturale e illustrata nelle Quantità negative, dunque, è il presupposto indispensabile per l’acquiescente trasmissione della superiore volontà di qualsivoglia Ragione eticamente premurosa in senso paternalistico, non illuministico (la nozione di Illuminismo in Kant è una semplice opinione pubblicistica, del tutto estranea alla prima Critica: finalità pratica logicamente incongrua e infondata, nella quale s’intravvede il Giudizio della terza Critica). Tutto ciò non contribuì affatto ad affermare un’etica della responsabilità, bensì un’etica dell’amministrazione; e l’esecutore di qualunque fatto o misfatto poté sempre dire d’aver fatto, o non fatto, nien t’altro che il suo dovere.19 19 Mi rendo perfettamente conto che il fare risalire a Kant l’origine di un vizio intellettualistico va contro l’opinione di coloro che interpretarono il suo pensiero in chiave irrazionalistica, e persino mistica. Questa fu l’unica nota in comune fra le recensioni di Rohde e di Wilamowitz a Nascita della tragedia di Nietzsche, per esempio. Rohde affermò che «la presunta onnipotenza della conoscenza logica è stata vittoriosamente respinta col criticismo kantiano», il quale insegna che «la fitta trama delle connessioni causali nel fenomeno cela per sempre il vero essere delle cose all’indagine scientifica costretta nei vincoli della logica». Wilamowitz si limitò a buttar là un vago giudizio su un presunto «carattere autenticamente ellenico», il quale si sarebbe sforzato di resistere all’invadenza del misticismo eccentrico e orgiastico, noncurante di limiti, mediante un culto del senso della misura «quale sano equilibrio spirituale contro la bigotteria trascendentale» (Serpa, Polemica sull’arte tragica, pp. 195, 207; 226). Se quella di Rohde sembra un’esercitazione schopenhaueriana, in Wilamowitz mi sembra notevole la persistente azione logica (del tutto suo malgrado!) di a-priori e dilettantismi nicciani (con sintesi a-priori quali ‘carattere ellenico’ e ‘senso della misura’, innanzitutto – mentre colpisce la superficialità filosofica e terminologica del professorone che biasima il dilettantismo filologico). Ciò malgrado, per ragioni teoriche che non posso qui illustrare, resto della mia opinione – vale a dire: 1) l’irrazionalismo diffuso nei circoli pubblicistici del Secondo Reich non spiega niente della tragedia del Novecento, contò politicamente ben poco, e come fenomeno senz’altro il più vistoso fu comunque complice della tendenza intellettualistica decisiva; 2) l’aspirazione dei circoli accademici burocratici economici e militari tedeschi (gli unici che contassero davvero) all’egemonia europea nel Novecento fu disegno perfettamente razionale, e fallì principalmente per vizi d’uso e d’abuso di una mentalità prettamente intellettiva dotata di una pretesa di certezza (anche nel moralismo dei giudizi, che non ha nulla affatto d’irrazionale!), anziché per interferenze esercitate sull’intelletto da altre oscure facoltà antropologiche; 3) quella mentalità intellettiva seppe dominare, giustificare, organizzare e utilizzare queste facoltà più torbide; e l’intellettualismo moralistico risultante si espresse, nell’insieme, mediante l’alacre vagheggiamento
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Il giustificazionismo di sinistra Una discussione sull’Agamennone di Eschilo, in queste prospettive, può trasformarsi nientemeno che in una storia delle principali correnti intellettuali e ideologiche del mondo contemporaneo. Agamennone non si sarebbe giustificato (e di fatto non si giustifica) diversamente che con l’etica del dovere – ma ha per giunta avuto la fortuna di trovare uno stuolo di giustificatori, a sinistra non meno che a destra. A nessuno di costoro viene in mente (neppure a chi salda l’etica della fedeltà all’amministrazione con la morale cristiana) che il primo dovere nell’adempimento obbligato di un sacrificio dev’essere l’offerta di se stessi. Il dovere d’omissione dovrebbe essere, in certi casi, il dovere di dare le dimissioni – ma niente del genere è mai passato per la testa del teorico del ‘tu devi, dunque puoi’. La barbarie biblica del sacrificio d’Isacco rappresenta un precedente sublime, e lava le mani a tutti: far parte dei giusti, si sa, costa qualche sacrificio. Fra i dieci comandamenti, del resto, non compare l’obbligo della tutela dei figli; e l’esempio di Abramo non è mai servito a nient’altro che a mandare alla guerra i giovani – per lo più altrui. Tantum religio potuit suadere malorum: la sentenza di Lucrezio a commento del sacrificio d’Ifigenia (I 101) sancisce una condanna nei confronti di un’età arcaica dominata dalla cieca necessità della fede, e apre la questione sul versante del giustificazionismo laico, o ‘di sinistra’. Fra quegl’intellettuali del nostro tempo che dovrebbero essere illuminati almeno quanto Lucrezio, le ragioni lontane della predisposizione a giustificare la sottomissione a superiori volontà con un’etica del dovere tragico possono essere di tipo contemplativo (come da Spinoza), oppure di tipo autovincolante (come da Kant) – ma il risultato non cambia: si tratta soltanto di discutere se noi tutti si abbia le mani legate, o se ciascuno debba legarsele da sé.20 Da simili lidi lontani, che ho creduto necessario sorvolare brevemente, si può scendere per li rami. Negare addirittura, come fa Di Benedetto, che possa mai esistere nel mondo greco un qualsiasi interrogativo circa la libertà e di un Giudizio imperiale dotato di premesse teoriche ‘fondate’, di forma disciplinare gerarchica, di mezzi prettamente amministrativi, di scopi puramente ideologico-energetici del tutto ‘naturali’ nello sviluppo di una grande personalità nazionale; 4) la filosofia di Kant sta alle origini teoriche della possibilità di questo imperiale Giudizio, così come dell’intellettualismo accademico, e della conseguente decadenza intellettualistica della filosofia, che caratterizzano gran parte del pensiero contemporaneo fino ai nostri giorni. A dispetto delle catastrofi politiche e militari tedesche, ciò costituisce il cartaceo impero virtuale, tutt’altro che disprezzabile, che la Germania ha saputo estendere sul Novecento. 20 Il lettore avrà capito che prescindo qui del tutto da una trattazione dell’argomento in termini di antropologia comparata: la quale fa del sacrificio umano una costante non suscettibile di giudizio, se non per la variabilità delle forme del fenomeno. La sagra della primavera di Stravinskij, insomma, qui non c’entra. Ma ne parlerò brevemente nel commento al parodo.
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la responsabilità mi sembra davvero azzardato.21 Non si capisce in tal modo, per esempio, la differenza fra il mondo dell’Iliade e quello dell’Odissea: ciò che Ulisse pronuncia al termine delle sue imprese non è che un giudizio di responsabilità, con tanto di distinzioni; e nello stesso Agamennone, del resto, il coro distingue chiaramente fra la responsabilità dell’esecutrice materiale della vendetta e le forze impersonali dalle quali Clitemnestra si pretende animata. In linea di principio, potrà anche essere vero che un problema di responsabilità individuale può sorgere soltanto con un monoteismo dell’onnipotenza divina, e con la conseguente certezza dell’imputabilità dell’azione o dell’omissione; e ciò sarà ancora più vero, aggiungerei, col cristianesimo: il quale aggiunge al giudizio trascendente, meramente punitivo, il sentimento personale della responsabilità, e l’espiazione volontaria, esemplare, che il mondo classico non conosce (anche il sacrificio individuale del mondo romano, ignoto al mondo greco, non ha nulla a che fare con la responsabilità e la colpa, bensì soltanto con l’economia di vitalità della specie). Tutto ciò sarà vero; ma non si può trascurare di considerare che una cultura politeista conosce sempre innumerevoli forme di contrattazione personale fra l’uomo e le diverse divinità o potenze – le quali, in definitiva, se ne contendono gli auspici e i favori: non inizia la vicenda dell’Agamennone, del resto, proprio a causa dell’invidia fra gli dèi?22 Calcante interviene proprio perché in questa contesa si sente responsabile come parte, o termine di un rapporto fiduciario con Artemide, la quale, dice, non pone che una condizione all’impresa. Zeus può essere assai perentorio nel sancire la sua volontà – ma in questo caso la manifesta con un prodigio che va interpretato, e l’àugure riesce a trasformare l’episodio in un trasferimento di responsabilità su Agamennone. Non si può parlare, secondo Di Benedetto, di un «meccanismo della necessità», il quale «scatti dopo che la decisione è stata presa, come se la necessità fosse per così dire creata dalla decisione» dell’uomo (in questo caso, di Agamennone). Il significato del discorso sta tutto in quel «dopo», col quale si creerebbe una responsabilità personale dell’azione – mentre il meccanismo della necessità nel mondo antico starebbe, a quanto pare, tutto ‘prima’. A necessità oggettiva corrisponderebbe dunque una responsabilità oggettiva – vale a dire, 21 Vincenzo Di Benedetto, L’ideologia del potere e la tragedia greca. Ricerche su Eschilo, Einaudi, Torino 1978, p. 177. 22 Ivi, pp. 169, 171. Allo scopo di rendere l’idea di un simile spirito di contrattazione fra l’uomo e le divinità basterà accennare, tanto per capirsi, all’episodio narrato da Ammiano Marcellino sullo sdegno di Giuliano verso Marte Ultore: allorché i buoi apprestati per il sacrificio gli si presentarono in modo sfavorevole, «a quella vista Giuliano, profondamente sdegnato, gridò, chiamando Giove a testimone, che mai più avrebbe fatto sacrifici a Marte» (XXIV, 6 17; Selem).
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in definitiva: nessuna responsabilità. Ma la necessità esiste ‘prima’, e non si crea con una decisione personale, soltanto perché nel mondo pagano ne esistono tante, quanti sono le personalità degli dèi con le quali l’uomo stabilisce un rapporto di contrattazione. Con la sua preghiera l’uomo pagano rende in qualche modo responsabile la divinità alla quale si rivolge, e questo dovrebbe accadere, a solo rigor di logica, anche nel cristianesimo – ma con la differenza che qui il supplicante non diventa in qualche modo un rappresentante di quella divinità, alla quale si rivolge. Mediante la preghiera, l’uomo pagano assume su di sé l’investitura di una sola, particolare potenza che gli conferisce i suoi particolari poteri, nonché il dovere di un esercizio coerente con la natura di questi poteri. La coerenza di questo esercizio deve implicare una responsabilità. Nel cristianesimo questo non succede affatto. È vero, dunque, che tutto ciò finisce col trionfo del monoteismo – ma non si vorrà trovare nella supplica di una misera larva al suo Dio onnipotente una qualche sanzione di responsabilità proprio a carico d’essa! È proprio la Necessità unica e anche ‘del prima’, antecedente a qualunque azione, la Necessità come Sostanza, che si afferma col monoteismo, contro le molte necessità delle potenze del paganesimo. In concorrenza col cristianesimo essa sorge in filosofia col neoplatonismo e con la dottrina emanatistica, del tutto sconosciuta al platonismo e al mondo greco; risorge in età moderna con la metafisica spinoziana, e nelle menti dei filosofi contemporanei s’installa ed agisce, come filosofia politica, con quella che può essere considerata tutta quanta una metastasi della metafisica spinoziana: la metafisica dell’idealismo romantico. *** Non si può negare, credo, che la tragedia ha senso soltanto se si ammette che l’uomo possa scegliere se sottoporsi al comando di potenze diverse. Se egli non è concepito come una misera larva in cerca unicamente di salvezza per una vita futura, fra queste potenze devono essere comprese anche le sue proprie. Tutto il parodo dell’Agamennone ruota intorno al problema personale di una scelta. Da un capo all’altro della sua lunga discussione della legge del páthei máthos, del resto, Di Benedetto insiste molto sul significato «oggettivo», impersonale ed etico-didattico della formula solonico-esiodea o delfico-solonica: la quale incornicia nel suo contesto esistenziale, astorico, il contenuto «soggettivo» e storico di una morale epica ed eroica. Il contesto moralistico oggettivo, insomma, in Eschilo vince e trascende il
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soggettivo.23 Pur affermando ripetutamente che Eschilo è uomo di teatro, questa posizione finisce per sacrificare proprio il senso del teatro, ossia la scena (come situazione, personaggio, azione e narrazione) agli scopi pedagogici più generali del teatro, che sono un’altra cosa: perché uno scopo pedagogico metodicamente perseguito come un fine letterario, e non come un risultato immediato, avrebbe fatto di Eschilo (come fa d’ogni autore, del resto) nient’altro che un noioso mediocre. E infatti, secondo Di Benedetto, il significato di quella ch’egli chiama «la legge del páthei máthos» enunciata da Calcante nel prologo non trova proprio lì, nel momento della scelta di Agamennone, il suo significato, bensì lo acquisterà poi, allorché Agamennone tornerà da Troia (secondo Di Benedetto) come un altro uomo: trasformato da una guerra durata dieci anni, riluttante a posare il piede calzato sulla corsìa rossa alla maniera orientale, ben disposto a discutere collegialmente le sue decisioni insieme col popolo, e così via. Ora, tutta questa saggezza conseguirà pure (si suppone) da ogni genere di sofferenze patite a Troia – ma non certo dal sacrificio d’Ifigenia. E dunque col parodo (e anche col teatro, dove le supposizioni su ciò che non si vede e non si sente contano poco) tutto questo non c’entra. Come si vedrà dal commento sviluppato in questo studio, nel sacrificare la figlia Agamennone non è affatto un uomo che soffre: è piuttosto un uomo che cessa di soffrire dopo essere uscito dall’incertezza – unica vera ragione visibile, udibile, della sua sofferenza. Né si può ripetutamente affermare che quello di Agamennone sia un atto di «empia temerarietà» o di «temeraria follia», dal momento che egli non sfida certo gli dèi, e dal momento che alla sua decisione non è estraneo il calcolo politico.24 L’attrazione esercitata dal comune significato pedagogico della sentenza del páthei máthos è del resto così forte, così abituale, che gli stessi Fraenkel Mazon Untersteiner Bollack – de la Combe, dei quali preferisco la lezione testuale, traducono il verso secondo questo comune significato pedagogico (come si vedrà a suo luogo); e non diversamente fanno, sulla medesima lezione, Valgimigli («sapere è soffrire») e altri, fino al più pedagogico Ammendola (con tre versioni di commento, oltre a quella del Valgimigli: «maestra di prudenza l’esperienza del dolore», «il rimorso benefico mezzo di saggezza», «che dalla sofferenza acquisti valore il sapere»). Il significato statico della formula, Di Benedetto, L’ideologia del potere, p. 178. Ivi, pp. 155, 156, 157, 162 e 176. Secondo Di Benedetto la temerità delle grandi imprese (come quella di Serse), che suscitano l’invidia degli dèi, equivale alla tracotanza di chi osa sfidarli: entrambe sono follia. Vale anche per Prometeo? 23 24
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invece, da me così interpretata e tradotta come ‘lucidità nel dolore’, corrisponde anche perfettamente, mi sembra, al ruolo architettonico del prologo come stilobate drammaturgico, o enunciato statico preliminare al successivo svolgimento tragico. Lo sforzo di rendere questo carattere monumentale, o scultoreo, mi sembra aver trovato la sua più efficace espressione stilistica nella scarna e scattante, persino angolosa e scalpellata traduzione garzantiana di Ezio Savino, indipendentemente da un giudizio generale sull’aderenza al testo eschileo, e dalla soluzione di ogni singola difficoltà.25 Un canone sospeso Nella presente interpretazione desidero insomma tentare di leggere Eschilo per ciò che effettivamente fu: innanzitutto un grande uomo di teatro. Lo ha già fatto Pasolini, si dirà; e dopo di lui Peter Meineck. Ma la versione pasoliniana è stata eseguita, come si sa, con la tecnica del florilegio, che sacrifica del tutto la filologia, com’egli stesso spiega: Ho cominciato a tradurre l’Orestiade su richiesta di Gassman, il che significa del tutto impreparato. È vero che la richiesta di Gassman mi è stata fatta in seguito alla notizia che io stavo traducendo Virgilio – e il giro un po’ si chiude: ma Virgilio non è Eschilo e il latino non è il greco. (…) Con la brutalità dell’istinto, mi sono disposto intorno alla macchina da scrivere tre testi: Eschyle… par Paul Mazon…, The Oresteia of Aeschylus… by George Thomson…, e Eschilo: Le tragedie, a cura di Mario Untersteiner… Nei casi di sconcordanza, ho fatto quello che l’istinto mi diceva: sceglievo il testo e l’interpretazione che mi piaceva di più. Peggio di così non potevo comportarmi. Sapevo che c’erano delle altre buone traduzioni italiane (Valgimigli, Traverso…): ma non ho voluto leggerle, dato il poco tempo a disposizione per risolvere gli scrupoli e detergere le possibili suggestioni.26 25 Su traduzioni e traduttori italiani dal 1900 al 1960 si veda Paolo Zoboli, La rinascita della tragedia. Le versioni dei tragici greci da D’Annunzio a Pasolini, Pensa Multimedia, Lecce 2004. In riferimento, in particolare, alla traduzione di Pasolini, si veda il capitolo di Vittorio Russo, Riappropriazione e rifacimento: le traduzioni, in Pasolini e l’antico. I doni della ragione, a cura di Umberto Todini, ESI, Napoli 1995, pp. 117-143, oltre al capitolo del medesimo Umberto Todini Sotto il segno di Molière: il latino di Pasolini nello stesso volume, pp. 145-163. Il secondo fascicolo 2008 della ‘Rivista di letterature moderne e comparate’ ospita un’interessante recensione di Arnaldo Marcone del libro di Claire Lechevalier, L’invention d’une origine. Traduire Eschyle en France de Lefranc de Pompignan à Mazon: le ‘Promethée enchaîné’, Champion, Paris 2007. 26 Pier Paolo Pasolini Lettera del traduttore in Eschilo, Orestiade, Einaudi, Torino 1960, pp. 1-2. Vedi anche la testimonianza di Gassman nel capitolo sulla filologia teatrale, alla nota 23. Della polemica sulla traduzione pasoliniana non mi occupo: essa fa parte della storia degl’intellettuali italiani degli anni Sessanta, oppure del repertorio senza storia delle idiosincrasie degli antichisti (Enzo Degani, Recensione a Eschilo ‘Orestiade’, nella traduzione di Pier Paolo Pasolini, in ‘Rivista di Filologia e Istruzione Classica’, 1961; Nadia Fagioli, L’Orestiade di Pasolini, in ‘Resine’, 1961. V. anche: Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, Nuova Italia, Firenze 1996).
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Chi parla in tal modo è fin troppo severo con se stesso. Un certo margine di scelta fra lezioni o versioni secondo il gusto personale è sempre inevitabile; ed è stato un positivismo aggressivo e mediocre, alla Lachmann, a volerlo negare. Benvenuto chi confessa i suoi limiti e le sue preferenze dove di solito non s’usa; e il Bédier, che della preferenza ha fatto addirittura un metodo, ha avuto pure i suoi meriti. Quanto a Peter Meineck, la sua esperienza teatrale vorrebbe addirittura costituire in qualche modo il presupposto della traduzione – o così, almeno, egli sembra pretendere, senza accorgersi di rischiare (in via soltanto teorica, per fortuna) il sacrificio del testo. Afferma infatti: Sono fermamente convinto che una delle mie responsabilità quale traduttore di un testo drammatico sia stata quella di prendere delle posizioni del tutto competenti riguardo ai movimenti scenici [to make informed decisions about stage movements]. Ho fatto ciò basandomi sull’esperienza di allestimenti del dramma greco tanto a Delfi che a Epidauro, nonché in centinaia di moderni spazi teatrali d’ogni forma e dimensione.27
Chi legge simili parole introduttive con una certa preoccupazione si deve poi ricredere: perché la traduzione del Meineck è assai più fedele di altre, ed egli insiste ripetutamente sulla «fidelity to the Greek», nonché sulla necessità di una «faithful performance». Tutta la sua insistenza sulla primaria importanza della lunga esperienza scenica si riduce, in definitiva, a perorare l’utilità dell’uso di maschere per l’intero svolgimento delle tre rappresentazioni. Venendo sancita parecchi anni dopo i lavori, per esempio, di Julie Taymor, una simile perorazione suona alquanto ingenua, mi sembra. La fotografia sulla copertina del libro, che mostra il ritorno trionfale sulla Quinta Avenue del generale Douglas Mac Arthur (il quale saluta la folla in delirio stando in piedi su un’auto scoperta, come su un cocchio) può dare un’idea di ciò che in realtà uno come Meineck potrebbe sempre avere in mente. Siamo in presenza, mi sembra, di uno sfasamento riguardo a quello che debba intendersi per originalità. Una lodevole fedeltà al testo si accompagna con l’immaginazione più interessante – ma del tutto scollegata. Di qui a parlare (come del resto si fa) di testo come pretesto non ci vuol niente. Da parte mia, mi sforzerò di mostrare come la nostra vita presente (e innanzitutto l’esperienza del Novecento, indiscutibilmente) sia rinvenibile attraverso un’immersione nella parola antica, che da un passato per lo più ignoto finisce per ricondurci sempre a noi stessi con la semplice necessità di fare rivivere 27 Aeschylus, Oresteia, tradotta da Peter Meineck e introdotta da Helene P. Foley, Hackett, Indianapolis 1998, p. xlix.
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quella parola sulla scena. Si dirà che ‘immersione’ è una metafora, e che le metafore sono sempre fuorvianti. Sono d’accordo. E sono talmente d’accordo, che in questo studio, come si vedrà, farò ricorso, in qualche caso ignoto, all’analogia – che considero invece relazione logica di perfetta stabilità, discutibilità e simmetrica chiarezza. Se non si vuole parlare per metafore, talvolta però si cercano vie più sottili ma non meno scivolose. Una di queste predilige la sostituzione della ‘immersione’ con la ‘immedesimazione’, o con la cosiddetta ‘empatia’ (come preferisce dire qualcuno, evitando di parlare apertamente di un qualche ‘spirito dionisiaco’, che può già suscitare il sorriso). Per rendere il senso della tragedia greca si tratterebbe dunque di riuscire in qualche modo a rivivere l’antico, come anche si dice, ‘da dentro’. Non desidero spendere parole su questo modo più astratto di esprimersi, che fa soltanto rimpiangere la concretezza di espressioni come ‘immergersi’, ‘tuffarsi’, ‘calarsi’, e simili, che almeno sono chiare. Dico però soltanto che tutte queste soluzioni terminologiche più astratte si basano sul tacito presupposto della superiorità della conoscenza ottenuta mediante un profondo cosiddetto senso ‘interno’ rispetto ad un superficiale cosiddetto senso ‘esterno’. Simile presupposto e simile distinzione sono tuttavia nient’altro che un sofisma, installato dal pietismo alle radici della filosofia contemporanea. Ma dice bene Hume: «Il calore del fuoco, quando è moderato, si pensa che esista nel fuoco; mentre il dolore che cagiona nell’avvicinarsi troppo, nessuno pensa che abbia un’esistenza fuori della percezione».28 La gratuita associazione kantiana al ‘senso interno’ della sola dimensione a-priori del tempo esclude lo spazio e le immagini dell’interiorità, o immagini del cuore, dal novero delle conoscenze fondanti d’ordine superiore. Una simile gratuita asserzione (che a Kant poteva anche sembrare naturale) apre poi, anche sul piano teorico, la via allo storicismo, per il quale ogni cosa è nient’altro che la sua fenomenologia cronologica. Se non che, è vero esattamente l’opposto: è vero che ogni conoscenza la più complessa è sensibilmente conosciuta e conoscibile, è mnemonicamente conservata e conservabile, è tecnicamente tramandata e tramandabile proprio soltanto attraverso il massimo raccoglimento di nozioni entro la densità delle immagini. La narrazione s’incarica poi di rendere comunicabili e discutibili quelle immagini collocandole nel senso svolto del tempo. È divertente osservare, talvolta, come gli studiosi dei moralisti dell’età moderna, per esempio, serbino nei confronti della pia 28 David Hume, Trattato sulla natura umana, libro I, parte IV, sez. II. Riparlerò di ‘interno’ e di ‘esterno’ nell’Appendice Terza.
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compunzione kantiana un venerando rispetto (dettato anche non poco, diciamolo pure, dal timore delle astrusità metafisiche), senza rendersi conto che la loro posizione, se filosoficamente (oltre che storicamente e letterariamente) argomentata, significa nientemeno che il crollo dell’intero affastellamento innalzato sulla base dell’estetica kantiana. Il coerente svolgimento teorico di ogni tipo di posizione letteraria, del resto, non può che portare a questa conclusione. Ne scaturisce una completa estraneità, e persino ostilità, tra filosofia e letteratura, fatta di scambi di boria e d’indulgenza, che non ha alcuna ragion d’essere, se appena si riflette che la filosofia stessa non è che un genere letterario – come appunto mostrano i migliori monumenti, non professionali, del pensiero moderno. La filologia, più in particolare, sta all’estetica come la matematica sta alla scienza. Un uomo come Parodi, che esortava a conquistare uno ‘stile italiano’ nella filologia come nelle scienze, non esitò a parlare anche di «materialismo filologico».29 *** Si è volentieri riconosciuta a Pasolini la capacità d’immedesimarsi e di «covare il senso più profondo dell’antica tragedia», facendone emergere una «lettura ‘viscerale’» – persino a dispetto di quella presa a prestito dal Thomson.30 Ora, con tutto il rispetto per l’opera del Thomson, devo dire che è piuttosto triste vedere come un uomo creativo debba quasi sempre andarsi a cercare un paio di stampelle ideologiche per segnare i confini del campo nel quale mettersi a scavare – tanto più che, scavando dove lo portano gl’istinti, egli non saprà, poi, che altro farsi delle stampelle: il campo ideologico, così delimitato e segnato dal cippo deterrente dell’erma o del drappo rosso, servirà tutt’alpiù a tenere lontani i seccatori (‘io sono di sinistra, punto e basta!’). Questo vale tanto per il Thomson che per Pasolini, i quali vanno entrambi giudicati per ciò che hanno saputo dare di veramente proprio. E mi pare che i vessilli innalzati sul campo abbiano indirizzato assai più le ricerche del Thomson, che condizionato la versione eschilea di Pasolini. Parlare per lui, come frequentemente succede, di una misteriosa capacità d’immedesimazione nella profondità del testo, e persino di una ‘visceralità’ della sua partecipazione alla situazione drammatica, mi sembra, oltre che pe29 Ernesto Giacomo Parodi, Il dare e l’avere fra i pedanti e i geniali, Perrella, Genova 1923, pp. 16 e 14. 30 Maria Grazia Bonanno, Pasolini e l’Orestea: dal teatro di parola al cinema di poesia, in Pasolini e l’antico, pp. 48, 50, 51.
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ricoloso e illegittimo, anche vagamente comico. È pericoloso e illegittimo, perché in tal modo si finisce regolarmente per approdare alle sponde del cosiddetto ‘irrazionale’, che accolgono sempre volentieri tutti i coraggiosi naufraghi dilettanti.31 Ma ammettiamolo pure: più che accoglienti e lussureggianti sponde, l’irrazionale e il geniale e il viscerale funzionano piuttosto da centro d’accoglienza temporaneo per creatori e creature in attesa di destinazione e di giudizio. È anche vagamente comico, d’altra parte, perché questa profonda e viscerale immedesimazione dette una sorprendente prova di sé allorché, dopo una conferenza tenuta a Salerno, e dopo avere rifiutato l’invito a trattenersi per la notte, con una certa perplessità dei suoi accompagnatori Pasolini si ritirò nella sala d’attesa della stazione pregando d’essere lasciato in pace; e tirò fuori dalla borsa la traduzione dell’Orestiade, e si mise tutto solo a lavorare finché il treno, dopo una lunga attesa, non giunse.32 È lecito supporre che Pasolini abbia, poi, lavorato anche in viaggio, magari per tutta la notte – e che cosa c’è di male? Niente: prima c’era una versione di meno, e adesso ce n’è una di più – ma ci sono i giudizi, di male. C’è l’obbligo per una certa intelligenza critica di ammantare gli aspetti ordinari, e anche caduchi, del lavoro creativo, o imitativo (com’è questo, in definitiva), di un’aura speciale, venerabile e preziosa, talentosa e romantica – specialmente dove i conti non tornano. Così, di solito, non si sbaglia mai. Ma l’infortunio, in questo caso, c’è. E non mi riferisco affatto alla lista degli abbagli presi da Pasolini nella sua pretesa traduzione (che una traduzione, veramente, non è, e non va giudicata, bensì una recezione: una traduzione è l’opera vòlta in altra lingua; una recezione è l’opera vòlta in altra mentalità – Roberto De Simone ha lavorato molto in questo senso), quanto mi riferisco piuttosto al fatto che nel Manifesto per un nuovo teatro del 1968 Pasolini propugnò, sull’esempio dell’antico teatro greco, una glorificazione della parola talmente estrema, da sacrificare alla pura parola addirittura l’azione scenica, e la stessa messa in scena.33 Ciò non ha nulla a che fare col cosiddetto ‘irrazionale’ – mentre dovrebbe avere molto a che fare con la filologia. Quanto al sacrificio dell’azione e della messa in scena a favore della parola, si tratta di conclusioni pasoliniane non indispensabili, in sé, per un ritorno alla parola. Il teatro non potrà e non dovrà mai ridursi ad un laboratorio di dizione. Del resto, il ritorno alla parola della Camerata Fiorentina non ha forse aperto la strada alla nascita dell’Opera? Di questa importanza centrale della parola si farà, in questo stu Ivi, specialmente p. 55. Italo Gallo, Pasolini traduttore di Eschilo, in Pasolini e l’antico, p. 34. 33 Bonanno, Pasolini e l’Orestea, pp. 47-48. 31 32
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dio, ampia discussione, soprattutto nel primo capitolo della Parte Terza dedicato alla drammaturgia musicale: là dove si discutono, a mo’ d’esempio, i giudizi di Gianandrea Gavazzeni sull’Introduzione all’Agamennone di Ildebrando Pizzetti. Si vedrà chiaramente, spero, che l’apprezzamento di Gavazzeni per l’abbandono della parola nella composizione di Pizzetti non può avere alcun significato programmatico per il compositore che si accinga a musicare un parodo come il nostro. *** Intanto, però, visto che ci troviamo a fare la critica della critica, desidero aggiungere ancora qualcosa sui critici che non si mettono in cammino senza un viatico – un santino in tasca, insomma. E sembra, nel nostro caso, che non si possa scrivere di tragedia senza essere prima passati da qualche mago del nord per informarsi su ciò ch’essa sia essenzialmente. E così si apprende, per esempio, che secondo Hegel e Goethe ‘il tragico’ (magia del sostantivo cambiato di sesso!) si fonda su un conflitto senza possibilità di conciliazione: «Ogni tragicità è fondata su un conflitto inconciliabile. Se interviene o diventa possibile una conciliazione, il tragico scompare».34 Se ne dovrebbe dedurre che l’Orestea, che si conclude con una conciliazione, non è tragica, e che la proposta di Calcante (e la stessa rimostranza d’Artemide, dopotutto) servirebbero meglio ad allestire una commedia. Ma il critico dovrebbe non sapere che farsi di simili consulenze. Il fatto è che l’Orestea si compone di più tragedie, la prima delle quali è il sacrificio d’Ifigenia, nel parodo dell’Agamennone. Il fatto è che Agamennone avrebbe senz’altro potuto sottrarsi all’alternativa mediante l’abdicazione al comando, e che un simile soggetto non è dunque quello di un eroe romantico che si scontra col fato invincibile, bensì di chi è ‘soggetto’ a se stesso, e si assume una responsabilità. Il fatto è che, come la Bonanno giustamente sottolinea a più riprese, l’intera trilogia non si risolve con la vittoria sicura di uno dei contendenti su di una parte soccombente. Eschilo non era tanto ingenuo da cadere in un simile ottimismo da teatro di propaganda. L’Orestea è tutta quanta un manifesto della conciliazione giudiziaria. Fra la giustizia cittadina sancita per legge, e il costume arcaico della vendetta per rappresaglia, si viene nell’Orestea a stabilire, in definitiva, l’equilibrio di un «canone sospeso». Come Pasolini seppe precisare: nel teatro della democrazia ateniese lo spettatore possiede «quella fiducia quasi mistica nella democrazia Parole di Goethe al cancelliere von Mueller, da Bonanno, Pasolini e l’Orestea, p. 50 nota 17.
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che consente un dialogo, totalmente disinteressato e idealistico, sui problemi posti o dibattuti (a canone sospeso!) nel testo».35 Che cosa vuol dire? Vuol dire che qui non ci sono i ‘superamenti’ dialettici dei canoni gerarchici a sviluppo verticale. Vuol dire che lo schema logico di due polarità opposte, giacenti entrambe su un medesimo piano orizzontale, conosce, sul percorso attrattivo che porta al loro scontro, anche una zona intermedia di neutralità; e questa zona neutra non è affatto il cosiddetto ‘nulla’, o il matematico ‘zero’. Nel pensiero contemporaneo il vizio logico consistente nell’annullare il centro della contraddizione, ovvero nel considerare irrilevante la consistenza della posizione di neutralità (della quale si ignorano le proprietà come potenza), ha origini kantiane, e ha portato, nientemeno, la Germania per due volte alle sue catastrofi: in entrambi i conflitti mondiali del Novecento la vittoria è toccata a chi ha saputo giovarsi dell’appoggio di potenze inizialmente neutrali. I gruppi dirigenti nazionali tedeschi, questo, non hanno mai saputo capirlo; e si sono interrogati con sincera sorpresa sul significato del l’azione sopravvenuta e imprevista di alleati degli avversari, in una lotta per l’egemonia che si sarebbe dovuta combattere, nell’immaginazione, soltanto ‘fra noi e loro’. E nondimeno, ancora in decenni recenti teorie giuspubblicistiche conformi a questo schema logico hanno conosciuto una notevole popolarità nel mondo degli studiosi italiani. Nel caso dell’Orestea, che pone per l’appunto un quesito giurispolitico fra i più generali (sebbene non fra potenze esterne alla città), la zona di neutralità dalla quale scaturisce la decisione è il sorgente spazio del dibattimento giudiziario, nel quale si genera la giurisdizione fra uguali ragioni passionali per opera di una neutra potenza. Sebbene la Bonanno, come spesso succede nel costume intellettuale italiano, voglia per forza mettere insieme i Lari coi Penati, e Goethe con Hegel, vale la pena di precisare che questo schema evolutivo del ‘canone sospeso’, come Pasolini lo chiama, o della tripartizione orizzontale, o della dialettica polare centrata senza superamento, o come si vuole, è proprio e soltanto di Goethe; e nulla esso può avere a che fare con quella trovata puerile (come Goethe la giudicò) della dialettica hegeliana. Con il suo interesse per il pleroma vegetale, Goethe andò in cerca di una generazione che si rinnova continuamente dall’interno, dal profondo e dal centro – proprio come avviene con la generazione di foglie attorno all’asse centrale di una pianta. E questa pianta vive come un individuo che tende alla pienezza della sua perfezione, senza superamento di alcunché, che non sia l’elementarità di se stesso. Per vie 35 Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in ‘Nuovi argomenti’ 1968, p. 4 (cit. da Bonanno, Pasolini e l’Orestea, p. 52).
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del tutto indipendenti, con riferimenti a Vico e a Proudhon (non a Goethe), in Francesco De Sanctis, per esempio, questa teoria del pleroma come idea media, o idea madre, posta fra il particolare e il generale, trova importanti svolgimenti – pur senza acquistare la solida consistenza di un centro.36 Non diverse sono le personalità della storia, o i frutti della creatività artistica, o le forme del progresso civile: tutto scaturisce dal centro di uno stabile conflitto, e fornisce soluzioni di forma alle forze opposte che costituiscono il soggetto – il quale non è più libero di quanto sia soggetto a se stesso. Eschilo non credeva affatto che l’umanità si fosse gettata alle spalle per sempre la fase più arcaica della sua storia: non era tanto ingenuamente ottimista da pensare che l’umana natura potesse spogliarsi degl’istinti della vendetta privata. Qualcuno ha scritto: «Archimede sarà ricordato quando Eschilo sarà dimenticato, perché le lingue muoiono, ma le idee matematiche no».37 È strano che un matematico non capisca che è impossibile separare il destino delle idee dal destino delle lingue – compresa la matematica; mentre è meno strano che egli non capisca come il sentimento della vendetta per un’offesa subita è tanto inestirpabile dal cuore umano, quanto lo è la resistenza opposta da un liquido ad un corpo che vi venga immerso. Chi ragiona così pensa che, perdendosi la lingua di Eschilo, noi perderemmo sì anche Archimede – ma di sicuro non tarderebbe a sorgere da qualche parte un altro Archimede. Credo si possa rispondere con altrettanto tranquilla sicurezza che, perduto Eschilo, noi non tarderemmo a veder sorgere da qualche parte un’altra Orestea. Non sotto ogni cielo, però. La differenza fra la letteratura delle scienze e la letteratura delle passioni non è antropologica, né tanto consiste nella convenzione linguistica o nel rigore terminologico, quanto proprio nel fatto che le scienze sono necessariamente letteratura scritta, mentre le passioni non lo sono affatto necessariamente. La matematica è fiorita sotto tutti i climi e tutte le latitudini, sebbene assai discontinuamente, mentre la necessità della memoria scritta delle passioni, con il bisogno di una loro periodica rievocazione narrativa, enumerativa (col racconto e con lo spettacolo, insomma – vale a dire: con la pretesa d’ignorare l’esito di una vicenda ben nota, e col bisogno d’immedesimarsi liberamente in un destino che è già stato sancito dai fat36 Francesco De Sanctis, Conferenze su Niccolò Machiavelli, in Opere, XIV, Torino 1972, p. 85. Le conferenze sono del 1869. L’idea media, o idea madre, non diventa un solido centro perché, allo scopo di spezzare l’automatismo della tripartizione hegeliana, De Sanctis colma lo spazio che divide i termini opposti dell’opposizione mediante una gradazione insensibile. Nel far questo egli si riferisce a Proudhon – ma lo schema è prettamente leibniziano. 37 G. H. Hardy, citato in epigrafe al primo capitolo del libro di Simon Singh, L’ultimo teorema di Fermat, BUR, Milano 2006, p. 21.
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ti) – il bisogno di questa memoria scritta, variata e tramandata, dunque, si è lasciato sentire assai più tardi e isolatamente. Questa letteratura scritta, e pubblicamente praticata, e gelosamente conservata delle passioni è proprio ciò che ormai contraddistingue ciò che chiamiamo ‘Occidente’ fin dai tempi di Omero: noi non possediamo i poemi asiatici equivalenti. La sua massima grandezza consiste nel sapere intendere e rappresentare anche le ragioni altrui, oltre alle proprie; e dunque, sotto qualunque genere o mediante qualunque tecnica si presenti, la grande letteratura di ogni genere possiede sempre una natura essenzialmente drammatica, ed esercita un’inseparabile vocazione di egemonia culturale come costituzione di un rapporto. Non la scienza, non il diritto, non il pensiero costituiscono, in sé, l’essenza dell’Occidente, bensì questo tipo di letteratura scritta e pubblicamente praticata e tramandata – a meno che scienza diritto e pensiero non siano intesi proprio nient’altro che come altrettante forme di questo tipo di letteratura. Senza l’esempio della tragedia, del resto, non vi sarebbero state le orazioni tucididee, che diventano vero e proprio teatro nel dialogo degli ateniesi coi meli, né vi sarebbero stati i dialoghi di Platone. Ogni altra opera di pensiero non è che una drammaturgia della mente, nei casi migliori – e se no, di solito, un pesante romanzo filosofico. È soltanto in questo senso limitato, della letteratura scritta, che noi possiamo ammettere il giudizio del matematico sull’aleatorietà della comparsa di un altro Eschilo: perché per la tradizione orale, invece, la continuità di questa comparsa è dovunque sicura – almeno finché ogni assassino saprà raccontare le sue ragioni a qualcuno che sia disposto ad ascoltarlo. Sotto ogni cielo è sempre stata amministrata la giustizia. Ma Eschilo credeva proprio che con la tragedia e con la giurisdizione cittadina fosse iniziata la storia di una perpetua disciplina scritta della vendetta: la trilogia dell’Orestea rappresenta, in definitiva, la prima forma di verbalizzazione di un processo (è sufficiente, per capirlo, confrontare la narrazione omerica della vendetta di Ulisse).38 Sarà questo canone sospeso di due forze opposte in conflitto, infatti, a emanare giustizia mediante il dibattimento giudiziario e la sentenza finale, e non una legge definitivamente sancita per sempre, che garantisca la legalità per il semplice automatismo di un ‘superamento’ dell’età arcaica.39 Per Eschilo ogni futura giurisdizione non Una discussione divagatoria è contenuta nella prima delle appendici che corredano questo libro. Il primo e più noto propugnatore di questa tesi del definitivo superamento di un arcaico e sanguinario costume tellurico, femminile e matrilineare da parte di un moderno e apollineo diritto solare, maschile e patrilineare fu nel 1861, com’è noto, Johann J. Bachofen. Per l’insistente applicazione di associazioni metaforiche gratuite, o di pregiudizi misogini infondati, e per il gran numero delle incongruenze involontarie (dalle quali poi un Nietzsche poté lasciarsi suggestionare e spronare come volle), la 38 39
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sarebbe stata perciò, in definitiva, che un modo per ricelebrare infinite volte in tribunale la tragedia alla quale si assiste in teatro; e per uomini di legge la tragedia greca rappresenta in un certo senso ciò che la passione di Cristo rappresenta per dei religiosi, con la celebrazione della messa: quest’ultima non è, in definitiva, che rievocazione di una tragedia e di un processo nello spettacolo. *** Il significato giudiziario di Peithō costituisce nientemeno che l’apoteosi finale della giustizia penale nelle Eumenidi, in cui Peithō viene invocata da Athena come maestra dell’arte del dibattimento e della persuasione, moderatrice del furore vendicativo delle Erinni. Athena (rivolgendosi alla Vendetta, che parla per bocca del coro): Non mi stancherò di ripetere i benefici a te riservati, perché tu, antica dea, non abbia mai a proclamare che da me più giovane, e dagli abitanti della città, sei mandata a rovina, priva dei tuoi onori e bandita da questo suolo come un’esule. Ma se sacra è per te la maestà di Peithō, dolcezza e incanto della mia lingua, ebbene tu devi rimanere. Se disdegni di restare, non certo secondo giustizia riverseresti su questa città ira o rancore o rovina agli abitanti: ti è concesso, infatti, di essere in pieno diritto proprietaria di questa terra, e onorata per sempre.40
La legge arcaica della vendetta, come ben si vede, non è affatto bandita e storicamente ‘superata’ – tutt’altro. La soluzione della contraddizione per Eschilo non risiede affatto in una dialettica di superamenti senza residui, ma anzi nel riconoscimento a questi pretesi residui arcaici del valore di una costituzione antropologica: nient’altro che gl’istinti di un essere emotivo che, sostanzialmente, non cambia e non può cambiare. Niente di più lontano dall’immaginazione di Eschilo della pretesa pedagogica di creare il cosiddetto ‘uomo nuovo’. Almeno uno dei termini della contraddizione è destinato a rimanere immutato, senza illusioni. Questo è l’insegnamento profondo della trilogia eschilea, che Pasolini seppe intuire: «come la sospensione percepita nel finale dell’Orestea sia quanto di più segreto il poeta moderno abbia inteso serbare dell’antico».41 Un conflitto, una contraddizione indefinitamente sospesi, dunque. Com’è possibile? Che cosa mai significa ciò – al di là delle polemiche sugli schemi logici? La novità consiste nel fatto che nelle Eumenidi Athena invoca la nasua grande opera sul matriarcato va ormai letta più alla luce della psicanalisi, che della storia della cultura (Lotta del diritto materno contro il principio apollineo nell’Agamennone di Eschilo, in Il matriarcato, Einaudi, Torino 1988, I, § 31-32, pp. 162-169). 40 Eumenidi, vv. 881 ss. (Medda). 41 Pasolini, Manifesto (da Bonanno, Pasolini e l’Orestea, p. 57).
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scita di una costituzione penale cittadina nel nome di Peithō. E questa è una sorpresa, oltre che una novità, perché la trilogia dell’Orestea si apre, al capo opposto, con un coro che si dice animato proprio da Peithō – mentre qui, alla fine, questo coro è del tutto pervaso dallo spirito della Vendetta. Che relazione ci può essere, fra i due nomi? Forse che il coro che apre l’Agamennone possiede già in sé la potenza risolutiva invocata alla fine della trilogia da Athena, sebbene nelle Eumenidi esso opponga alla persuasione la vendetta? Sarebbe davvero paradossale, un enigma incomprensibile davvero eccessivo, anche per un iniziato col gusto dei misteri! No. Questo significato giudiziario finale di Peithō non può avere, come tale (cioè come atto giudiziario), nulla a che fare con l’atto di presentazione del coro al pubblico, ai versi 105-106 dell’Agamennone: perché non credo proprio che in questo parodo, dicendosi animato dalla forza di Peithō, il coro desideri assumere la parte dell’avvocato persuasore nella vicenda d’Ifigenia – una parte che, del resto, non assume affatto, dal momento che si tratta di tutt’altra faccenda; ed è anzi proprio all’assenza di una Peithō come consigliera che Agamennone deve la sua scelta impulsiva. Dalla tragedia arcaica del sacrificio d’Ifigenia l’Orestea passa alla tragedia moderna, che vede la nascita del regno giudiziario dell’eloquenza di Peithō – la quale è anche eloquenza di benevolenza e d’amore per gli offesi. Se si pensa che il semplice nome abbia un significato obbligante, tanto varrebbe, allora, identificare l’una e l’altra Peithō con la terza, sciagurata seduttrice di Elena del verso 385, l’ irresistibile figlia di Ate consigliera. Ma no: il significato strettamente giudiziario dell’Orestea si trova tutto quanto dopo il parodo dell’Agamennone; e nel parodo un riferimento giudiziario potrebbe riguardare semmai, con l’anamnesi del sacrificio, la parte del giudice istruttore: il quale non ha, tuttavia, il benché minimo ufficio persuasivo. La Peithō nel cui nome si apre il parodo significa, come spiegherò, tutt’altra cosa: intonazione, o consonanza armonica, o talento polifonico. Ed essa ha a che fare col significato finale, soltanto nel senso che la potenza della conciliazione di due forze opposte nel dibattimento giudiziario si presenta fin dall’inizio della vicenda come potenza della conciliazione armonica dei suoni.42 Il punto di equilibrio dello schema logico dell’opposizione, il pleroma, l’idea media o idea madre, o ciò che Pasolini chiama ‘canone sospeso’, è persino evidente nel testo eschileo – nella strofe III, vero e proprio centro 42 Il possibile significato di Peithō come intonazione, o consonanza armonica, verrà ampiamente discusso nel primo capitolo della Parte Terza, dedicato alla drammaturgia musicale. Un quarto significato alquanto tardo di Peithō è quello di propiziatrice di matrimoni – e qui i poteri della persuasione all’amplesso si uniscono coi poteri della legalità. Attorno al significato nuziale si sofferma a lungo Erika Simon, compilatrice della voce dell’Enciclopedia dell’arte antica, classica e orientale, Treccani, Roma 1958.
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del parodo: dove si intuisce l’esistenza di una simmetrica contrapposizione fra le due potenze del cielo e della terra. La scarsa chiarezza del discorso e della distinzione ha più di una ragione: a parte un certo gusto eschileo per il segreto dell’iniziazione misterica, che gli è sempre stato congeniale, egli non voleva probabilmente (come dirò nella discussione della strofe) cadere in ciò che noi chiameremmo ‘manicheismo’. E c’è stato anche chi, sulla scorta degli studi del Nilsson, ha molto insistito addirittura sull’identità sostanziale di queste due forze contrapposte, e sulla natura ctonia di uno Zeus confuso con la Madre Terra.43 Si tratterebbe, in definitiva, di un conflitto permanente e non risolvibile, non superabile, fra una potenza del cielo, del tutto ignara di legge, e una potenza della terra che sancisce una legge per costume. La cosa è del tutto plausibile, se solo si riflette sul fatto che il nostro parodo si apre con un prodigio celeste, nel quale si manifesta una volontà di vendetta oltracotante, e con l’immediato risveglio di una reazione, di una volontà opposta che chiede compensazione, pegno e risarcimento – una disciplina della mera azione impulsiva, dunque. La legge in quanto tale nasce insomma, per Eschilo, dalla terra, e non senza il comando di Apollo. La legge del ‘mondo civile’ ogni volta sancita nel tribunale di Athena, con la quale si conclude la trilogia, trova il suo diretto presupposto, in quanto almeno essa è legge, non già nell’oltracotanza dello Zeus celeste, bensì proprio nel costume arcaico della vendetta. Allo scopo di evitare di cadere in infiniti problemi di definizione di queste forze opposte, nonché di argomentare a vuoto sulla loro mitica mescolanza, ho preferito, come si vedrà, parlare di Ecate. Ma in ogni caso un simile impianto teorico, saldamente ancorato nel testo, esclude che nell’interpretazione più generale si possa assumere la posizione ideologica fortemente soggettiva di uno sviluppo idealistico. L’antropologia della giustizia, e del bisogno di giustizia, in definitiva non cambia, e non si supera. In questo, almeno, un uomo come il Thomson aveva sentito giusto, e Pasolini ha trovato la formula. Se vogliamo trovarne un’altra, più consona all’uso tradizionale, diciamo che conservare gli umori della vendetta, disciplinandoli, è ciò che può far parlare di un ‘neoclassicismo’ giurispolitico di Eschilo.
Quadri, I tragici greci, pp. 24-25.
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Sunto teorico sommario Allo scopo di giustificare la disposizione della materia, e il significato unitario di tutta quanta l’analisi che seguirà, non sarà inutile tornare a precisare qualche assunto teorico. Il lettore capirà, spero, che non si tratta di petulanza, bensì di ribadire, con la fedeltà al testo e alla plausibilità della messa in scena, la scelta generalissima che consiste nell’effettuare un avvicinamento approssimativo all’antico come ad un materiale sepolto parzialmente incognito e sempre vivo attraverso i millenni, emanante energia sua propria come (pressappoco) un deposito semiesaurito di scorie radioattive. A chi non piaccia questa similitudine, in verità poco simpatica, basterà rammentare, sotto il profilo critico, la lezione del Laocoonte di Lessing, mentre sotto il profilo speculativo basterà parlare, in poche parole, di perpetua esistenza di una inconoscibilità delle cose. L’approssimazione viene effettuata mediante l’esercizio delle facoltà che consentono di percepire le variazioni minime, o indistinte, secondo le teorie humiana e leibniziana della prima conoscenza. Ne ho già parlato più sopra, per combattere l’inconsistenza e la grossolanità dell’approccio speculativo kantiano, e non occorre che mi ripeta. Un approccio logico e metodico del tutto diverso dall’approssimazione, ma procedente anch’esso sul piano teorico dalpresupposto dell’inconoscibilità delle cose, è il modello periegetico. Nel presentare la sua versione dell’Orestiade Leone Traverso cita queste parole di Hofmannstahl: «Nell’intimo delle opere d’arte non penetriamo mai; è già abbastanza poter girare intorno ad esse, ricavarne – osservandole – qualche appunto». Tale è poi, per conseguenza, anche tutta la versione di Traverso, e le simili, che effettuano sul testo una sorta di spigolatura per cime o primizie. La materia così captata viene poi di volta in volta rifusa per lampi d’intuizione. Esempi di un simile modo di procedere sono le versioni di Romagnoli e di Wilamowitz. Non si può escludere che approssimazione e periegesi possano giovarsi a vicenda, come anche in questo studio si vedrà – ma non, però, esercitandosi sul medesimo oggetto nel medesimo tempo, perché questo è impossibile. L’approccio periegetico ha molto in comune col frottage, col quale si ottiene una sorta di calco della materia per impressioni salienti, e può dare il meglio di sé non in sede di traduzione, bensì di regìa. Come il lettore vedrà, in questo mio studio ho cercato di saldare le due cose una sull’altra, facendo in modo che la periegesi o il frottage registico si effettuino sulla base di una versione approssimativa. Un terzo approccio ugualmente dipendente dal presupposto dell’inconoscibilità, vale a dire l’approccio fenomenologico, o mirante alla ricreazione
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della cosa nel pensiero, è invece del tutto incompatibile con i due precedenti. Come il lettore avrà già capito da qualche accenno anteposto, sotto il profilo filosofico nulla è più lontano da questo studio dell’idea che le cose, presenti o passate, si riducano in definitiva a nient’altro che ad una nostra rappresentazione, della quale si può fare ciò che si vuole ragionando per assunti e per montaggi. Nulla, che sia riduzione di storia a storiografia. Nulla, in una parola, è più lontano da questo studio dell’idea e della prassi che fa di una cosa qualsiasi, e del suo problema, nient’altro che una bibliografia o un vaglio lessicale: sui quali si esercita nel presente il sentimento caotico o accademico (i due approcci sono complementari) della nostra volontà di vivere. È dunque questo, detto francamente, uno studio d’impianto teorico anti-kantiano e anti-schopenhaueriano – con quel che ci sta in mezzo e che vien dopo come Gipfelwanderung, o canonico sorvolo di cime. Con un gioco di parole, la lingua italiana può ben descrivere, e ha descritto, la misteriosa inconsistenza di quest’approccio sostitutivo nei suoi ultimi esiti heideggeriani, per esempio, dicendo che il linguaggio non è ‘modo’, bensì ‘mondo’ della comunicazione.44 Ma per restare più vicini all’oggetto della nostra trattazione, bisogna proprio dire che uno dei primi rilevanti prodotti d’ingegno di tipo ‘kantiano’ (ante litteram) si ha, durante il ventennio che precede la pubblicazione della prima Critica, con la storia della musica di padre Martini, nella quale la musica antica si presenta non come l’oggetto di un’approssimazione, bensì già come un risultato depositato nella silloge dei giudizi degli autori antichi: nient’altro che una nostra rappresentazione, appunto. Ancora il Muratori, invece, giudicava di musica antica e di teatro tragico secondo presupposti teorici che procedono verso l’oggetto per via di approssimazione. Non si deve dunque credere che io qui voglia ‘applicare’ (come si dice, con un verbo nefasto) alla storia della musica un giudizio, o pregiudizio, sul criticismo kantiano. È vero, semmai, esattamente il contrario: è vero che i presupposti culturali del manierismo criticista stanno già nelle condizioni della sensibilità europea, e nella storia della musica. È vero che il criticismo kantiano (con la preliminare distinzione delle facoltà in sensibili e intellettive, innanzitutto: che per un artista, e in primo luogo per un musicista, è del tutto priva di significato, e serve soltanto a gettarsi in una ricerca senza fondamento di fondamenti) – questo criticismo, dunque, nasce non soltanto dalla storiografia dossografica della filosofia (quella che sui banchi di scuola fa ancora del criticismo la sintesi e il superamento dell’empirismo inglese e dell’intel Ho dedicato all’argomento una lunga discussione nella seconda appendice di questo libro.
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lettualismo franco-tedesco, tanto per capirsi), bensì nasce anche, il criticismo kantiano, dal vasto dibattito di primo e di mezzo Settecento sulla riforma del melodramma come bisogno di riforma del comune sentire dell’intelligenza europea e della pubblica opinione. Di simile dibattito esso rappresenta per buona parte l’elucubrata eco, ultraprovinciale, nel nuovo professionismo filosofico che chiude l’età moderna, e che conferisce i caratteri principali alla nostra filosofia contemporanea. *** Dal momento che il significato di un testo drammaturgico deve sempre risultare, in definitiva, dall’allestimento, nel quale finisce per convergere tutto; e dal momento che l’allestimento non è altro che un giudizio, o dipende in qualche modo da un giudizio, elaborato o mascherato quanto si vuole; non sarà del tutto inutile, in sede di sunto teorico, chiarire in poche parole la natura logica di questo giudizio, che governa più o meno lucidamente ogni lavoro di regìa. Esso non consiste in un concetto, bensì in una nozione; e del resto si vorrà facilmente concedere che il concetto di una cosa non si possa neppure confondere con un giudizio su quella cosa. Il concetto consiste in una definizione, o in una quanto più possibile succinta descrizione, la quale non può e non deve contenere alcuna contraddizione. Ciò pone dei limiti insuperabili alle possibilità di conoscenza del concetto, evidentemente, il quale non può in alcun modo descrivere esseri complessi – vale a dire: esseri viventi di una o più contraddizioni, secondo la molteplicità delle loro relazioni. Per descrivere simili esseri complessi, o soggetti d’ordine superiore (la nozione di responsabilità, d’involontarietà, d’ambizione mista a pietà, di rimorso misto a calcolo, d’orgoglio misto a timore, di sconsigliata prudenza sorgente da generosità impulsiva, e via aggiungendo termine su termine), occorrono strumenti d’ordine superiore quali sono la narrazione e la rappresentazione. Raccogliendosi la nebulosa delle più varie impressioni attorno a quel centro di gravità che è la nozione, ogni cosa non semplice acquista una natura essenzialmente letteraria, narrativa; e la letteratura, ossia la necessità di rammentare e di raccontare secondo gli artifici maieutici e allusivi tipici dell’arte, assume valore conoscitivo primario – o come anche si può dire, con qualche maggiore pretesa, valore ontologico. Narrazione e rappresentazione hanno il potere di suscitare in noi la percezione della natura di una cosa in forma di nozione, o di verità chiara e ancora non distinta per parti e per definizioni, per concetti e per argomenti. Questi ultimi seguiranno poi, mediante la critica, la quale si
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occupa per suo proprio ufficio e per inesausto discorso, per logos, di questo lavorìo (per così dire) di cracking. Il centro di gravità della costellazione nozionale può essere virtuale, oppure reale: una semplice formula, un simbolo, una parola, oppure un personaggio, un avvenimento, una località. Ma in noi la conoscenza sensibile, o estetica (che ha ben poco a che fare con la cosiddetta scienza del bello, naturalmente), si presenta divisa nei capi opposti della verità radicale e della verità apicale. Col silenzio, con l’osservazione e con l’ascolto si depositano nell’unità della nostra sede antropologica più radicale tutti i pregiudizi – vale a dire: le mere opinioni, o le sintesi a priori altamente complesse di altrettante indistinte verità che dominano gli automatismi delle nostre reazioni. Col dialogo, ovvero con lo scambio attivo della narrazione e della rappresentazione di un essere complesso, si può raggiungere d’altra parte, dopo un lungo tirocinio, una ferma opinione su di una realtà per forza di cose assai incerta e contraddittoria. Questa ferma opinione governa, invece, gli automatismi delle nostre azioni. Nella sua Settima Lettera Platone ha descritto questa verità apicale con l’immagine di una fiamma che s’accende nell’anima, e che poi seguita a brillare per forza propria. Egli volle completamente trascurare l’esame delle verità istintive, pregiudiziali o radicali. Ma a diventare intuizioni, attraverso lo studio, non sono che i nostri primi sentimenti dell’oggetto. Non è difficile capire che la filologia e la critica stanno in mezzo a tutto ciò: come secondo, e non come terzo momento (perché proprio nello scambio fra queste due posizioni consiste, principalmente, l’intellettualismo). Né è difficile capire che il lavoro di allestimento e di regìa di un dramma (il quale lavoro in definitiva si riassume in un giudizio, vale a dire nell’espressione che dà ‘senso’ a una nozione) deve procedere dal primo e dal terzo di questi spessori antropologici della conoscenza. Non diversamente deve fare il musicista – il quale però ha il privilegio di poter scegliere, e persino il privilegio di potere non scegliere: usando entrambe le mani per esprimere nello stesso tempo tanto le verità apicali, che le radicali.
Questo libro rappresenta uno sviluppo parziale del mio primo corso di Estetica Politica, tenuto nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena nella primavera del 2006 col titolo: ‘Eraclito e il senso tragico’. Ebbi un solo studente, Andrea Gurgone, che ringrazio per l’assiduità. All’origine didattica sarà dovuta qualche divagazione, insistenza o ripetizione. A suo complemento seguirà la pubblicazione di uno studio sul pensiero di Eraclito, che fu didatticamente l’argomento principale del corso, col titolo Eraclito d’Efeso. Diario. Il testo eschileo è, per lo più, quello di Murray, tratto dall’edizione commentata di Ammendola (Nuova Italia, Firenze 1955) e dalla traduzione dei Morani (UTET, Torino 1987). Confronto, caso per caso, le edizioni di Bollack – de la Combe (Université, Lille 1981), Enger (Teubner, Leipzig 1874), Fraenkel (Clarendon, Oxford 1950), Headlam (University, Cambridge 1910), Humboldt (Fleischer, Leipzig 1816), Keck (Teubner, Leipzig 1863), Mazon (Belles Lettres, Paris 1975), Meineck (Hackett, Indianapolis 1998), Page (University, Oxford 1957), Thomson (University, Cambridge 1938), Untersteiner (IEI, Milano 1946-1947), Verrall (Macmillan, London New York 1889), West (Teubner, Stuttgart Leipzig 1998), Wilamowitz (Weidmann, Berlin 1914 e traduzione Weidmann, Berlin 1901). Oltre alle traduzioni annesse ad alcune delle edizioni suddette, confronto inoltre, caso per caso, le traduzioni italiane di Bellotti (Orsa Maggiore, Foggia 1989, con note di Sergio Musitelli), Cantarella (Mondadori, Milano 1985), Carena (Einaudi, Torino 1956), Fanoli (BUR, Milano 2003), Medda (BUR, Milano 2004), Pasolini (Einaudi, Torino 1960), Romagnoli (Zanichelli, Bologna 1979), Savino (Garzanti, Milano 1989), Tonelli (Marsilio, Venezia 2004), Traverso (Le Lettere, Firenze 1961), Ubaldi (Salesiana, Torino 1909), Valgimigli (Newton Compton, Roma 2004). Ringrazio vivamente il responsabile del ‘Goethe Institut’ di Los Angeles, Stefan Kloo, che ha messo gentilmente a mia disposizione il filmato dell’allestimento berlinese di Peter Stein del 1980. Ringrazio altresì l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa per avere messo a mia disposizione i filmati dei due allestimenti del 1994 (musica e regia di Roberto De Simone) e del 2001 (regia di Antonio Calenda e musiche di Germano Mazzocchetti). Alla cortese disponibilità del maestro Mazzocchetti sono altresì debitore di alcune incisioni di sue composizioni, oltre che di un prezioso scambio d’opinioni. Soltanto grazie alle cortesi risposte del maestro D’Amico ho potuto ottenere alcune preziose informazioni sull’allestimento siracusano del 2008, che non è ancora disponibile in video. Fortunatamente l’editore Flaccovio di Palermo ne ha curato una ricca sintesi fotografica. Simone Ciolfi mi ha gentilmente fornito una sua relazione dal titolo: La mitologia nell’opera italiana del secondo Novecento. Essa fu letta (ma non pubblicata) al Conservatorio di musica S. Cecilia di Roma, in occasione del decimo convegno annuale della Società Italiana di Musicologia (17-19 ottobre 2003). L’invito ricevuto nel corso di una fortunata conversazione con Louis Van Delft e con la moglie Claude mi ha costretto a precisare qualche importante assunto teorico. Desidero infine rivolgere un particolare ringraziamento a Silvano Del Carlo, che ha letto e francamente giudicato il capitolo sui Problemi di filologia teatrale.