Rime

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quaderni aldo palazzeschi

Benvenuto Cellini

Rime edizione critica e commento a cura di

Diletta Gamberini

Benvenuto Cellini

Artista tra i più rappresentativi del tardo Rinascimento fiorentino, assunto nel Parnaso della letteratura italiana in virtù del capolavoro autobiografico, Benvenuto Cellini (1500-1571) è autore di oltre un centinaio di poesie, composte – come la Vita – nell’ultimo, travagliato periodo della sua biografia. A lungo negletti dalla critica a causa della loro oscurità e di una radicale distanza dagli ideali classici di armonia e decoro formale, questi versi vengono qui per la prima volta pubblicati criticamente e ampiamente commentati. L’edizione mette a frutto uno studio rigoroso dei testimoni, innanzitutto i due manoscritti Riccardiani – in parte autografi – che conservano la quasi totalità del corpus poetico dell’artista. Una simile indagine ha permesso di individuare una cospicua serie di rime dubbie o apocrife e di pervenire alla datazione più sicura del materiale celliniano, predisponendo, sulla base di risultanze obiettive, un nuovo ordinamento. Il minuzioso commento che correda i testi si applica alla decrittazione di una lettera spesso ambigua e contorta, ma anche a una sua sistematica contestualizzazione nell’ambito delle principali problematiche artistiche e culturali che caratterizzano la coeva realtà fiorentina. Indagate nella loro genesi, di solito apologetica o polemica, le poesie riemergono allora quale potente documento di una personalità tempestosa come quella del Cellini.

Rime

Diletta Gamberini ha studiato Filologia medievale e umanistica presso l’Università di Firenze e qui ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Italianistica. Attualmente è Research Fellow all’Italian Academy della Columbia University di New York.

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centro di studi «aldo palazzeschi» Università degli Studi di Firenze Facoltà di Lettere e Filosofia

quaderni aldo palazzeschi nuova serie

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La collana ospita ricerche di area italianistica compiute da allievi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, giudicate meritevoli di pubblicazione dal Consiglio Direttivo del Centro di Studi «Aldo Palazzeschi». La Facoltà fiorentina intende in questo modo onorare la memoria e la patria sollecitudine di Aldo Palazzeschi, che l’ha costituita erede del suo patrimonio ed esecutrice della sua volontà.


Benvenuto Cellini

Rime edizione critica e commento a cura di

Diletta Gamberini

SocietĂ

Editrice Fiorentina


© 2014 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-283-8 issn: 1721-8543 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina: Benvenuto Cellini, sonetto autografo (dettaglio), Firenze, Biblioteca Riccardiana, cod. Riccardiano 2353, c. 26r (su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. È vietata ogni ulteriore riproduzione o duplicazione dell’immagine con qualsiasi mezzo)


indice

Introduzione iii. Storia editoriale e ricezione di un «faticoso scalpellatore di poesie» iii. Una nuova edizione delle «Rime» iii. Una silloge d’autore nel codice Riccardiano 2353 Nota al testo iii. Descrizione dei testimoni principali iii. Altri testimoni 1. Manoscritti 2. Cinquecentine 3. Edizioni moderne Criteri di edizione

ix ix xxxv lvii lxxi lxxi xci xcii ciii civ cxi

rime Poesie ordinate e trascritte dall’autore Poesie non ordinate dall’autore Rime dubbie Rime apocrife

3 67 343 367

Tavola delle corrispondenze tra la presente edizione e l’edizione Maier 387 Tavola metrica 391


Bibliografia e abbreviazioni bibliografiche 393 1. Fonti 2. Studi e repertori

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Abbreviazioni 433 indici Indice dei capoversi 437 Indice delle parole notevoli 441 Indice dei nomi di persona citati nelle ÂŤRimeÂť 445 Indice dei nomi e delle opere 447


Introduzione

i. Storia editoriale e ricezione di un «faticoso scalpellatore di poesie» Per lungo tempo e fino ad anni a noi prossimi, la singolare fortuna critica ed editoriale della Vita di Benvenuto Cellini1 non ha favorito un’attenta ed equilibrata disamina degli altri scritti dell’autore. I Trattati dell’oreficeria e della scultura, i Discorsi sulle arti e le Rime hanno infatti condiviso l’oscuro destino spesso riservato alle opere “minori” dei protagonisti del nostro canone: quando non totalmente ignorate, esse sono state relegate dalla storiografia nel limbo di una sub-letteratura che avrebbe potuto interessare soltanto uno sparuto numero di addetti ai lavori. All’interno della cospicua messe di contributi novecenteschi dedicati allo studio del Cellini scrittore, ad esempio, le notazioni riservate a tali testi risultano perlopiù fugaci e non di rado sprezzanti, quasi che una loro distratta menzione costituisse il necessario ma un po’ ingrato corollario all’indagine sull’autobiografo. Secondo non pochi critici, frequentare quelle pagine rap­ ­presentava un’incombenza gravosa, visto che tanto alle Rime quanto ai Trattati sarebbe mancato un autentico «soffio creativo»: giusto, dunque, considerarli alla stregua di una trascurabile «appendice della Vita»2.

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Sulla fortuna dell’autobiografia, inaugurata nel Settecento dalle celebri pagine con le quali Giuseppe Baretti incoronava Cellini come «il meglio maestro di stile che s’abbia l’Italia», si veda Bruno Maier, Svolgimento storico della critica su Benvenuto Cellini scrittore, in «Annali triestini», xx, 1950, pp. 173-202 (prima parte: Dal Cinquecento a tutto l’Ottocento; la citazione barettiana si legge a p. 180), e xxi, 1951, pp. 105-146 (seconda parte: Gli studi celliniani nel Novecento). Carlo Cordié, Introduzione a Opere di Baldassarre Castiglione, Giovanni della Casa, Benvenuto Cellini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, p. xxxiii.


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La condanna estetica sembra insomma aver ostacolato, almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso, uno studio approfondito degli scritti tecnici e dei versi dell’artista fiorentino. Bruno Maier, uno dei più assidui e acuti indagatori dell’opera di Benvenuto Cellini, sosteneva d’altronde che le Rime fossero scampate a un legittimo naufragio nel mare magnum della poesia cinquecentesca unicamente in virtù del prestigio conquistato dal «geniale autore della Vita»: qualsiasi rimatore, il quale avesse lasciato un corpus di versi come quello messo insieme dal Cellini, difficilmente avrebbe potuto ottenere l’ingresso nella storia della letteratura; o, forse, si sarebbe tutt’al più attirato l’attenzione – esteticamente opaca – di qualche erudito, desideroso di colmare il più possibile i quadri d’un determinato periodo o momento della civiltà letteraria3.

Alla metà del Novecento, quando Maier pubblicava tali considerazioni, la subalternità della produzione poetica di Cellini rispetto al capolavoro autobiografico era stata d’altro canto codificata da una secolare tradizione, che giova qui ripercorrere brevemente. Se la primissima, modesta campionatura di componimenti celliniani era andata in stampa senza notazioni di sorta sulla qualità di quei testi4, la ben più ambiziosa e significativa silloge curata da Francesco Tassi nel 1829 era preceduta da un avvertimento esemplare per equilibrio e sobrietà. L’editore segnalava innanzitutto l’opportunità di pubblicare, come rilevanti testimonianze degli interessi e del vissuto dell’autore, numerosi inediti contenuti dai due principali manoscritti delle Rime. Lontano tanto dall’istintivo entusiasmo di Vittorio Alfieri5 quan­

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Bruno Maier, Le “Rime” di Benvenuto Cellini, in «Annali triestini», xxii, 1952, pp. 307-358 (parte prima: Gli editori ed i critici delle “Rime” celliniane, pp. 307-323; parte seconda: Poesia e letteratura nelle “Rime” celliniane, pp. 324-358): 307. Per quanto mi risulta, la prima, esile antologia di Rime è quella pubblicata all’interno del terzo volume delle Opere di Benvenuto Cellini, edite a Milano presso la Società tipografica de’ classici italiani fra il 1806 e il 1811, a cura di Giovanni Palamede Carpani (voll. i e ii) e di un anonimo collaboratore del progetto (vol. iii): si rimanda alla Nota al testo per la descrizione analitica dei contenuti di questa e delle altre edizioni delle poesie celliniane. Secondo l’Astigiano, il famoso v. 8 del sonetto proemiale della Vita celliniana («che molti io passo e chi mi passa arrivo») basterebbe a comprovare come «Benvenuto potea essere sommo poeta». Il giudizio, annotato su una perduta copia dell’editio princeps della Vita del Cellini, è richiamato in nota dallo stesso Tassi (Vita di Benvenuto Cellini orefice e scultore fiorentino scritta da lui medesimo, restituita alla lezio-


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to dalla sdegnosa condanna che avrebbe costituito la cifra distintiva delle successive riflessioni critiche, Tassi giudicava tale corpus degno di attenzione e di qualità non del tutto disprezzabile: Nel pubblicare le Poesie del Cellini, tratte nella più parte dai Codici Riccardiani 2353 e 2728, non fu nostra intenzione di offrire ai dotti una lettura dilettevole ed amena, ma volemmo bensì che per mezzo di queste si conoscesse quanto quell’uomo straordinario, senza soccorso di buone lettere, avea saputo avvicinarsi anco in sì fatto modo di componimento agli ingegni i più grandi e sublimi. Le poche Rime adunque, che di esso daremo in luce, se rivestite non saranno di un vero pregio poetico, non lasceranno però di risvegliare un qualche interesse, sì per la novità dei grandiosi e bizzarri concetti, di cui abbondano, che per la stretta connessione che alcuni dei loro argomenti hanno o con le di lui opere, o coi fatti nella Vita descritti; e più ancora perché da esse si renderanno palesi non pochi avvenimenti ch’egli credé proprio in quella di occultare, o che si dimenticò pure di riferire6.

Se l’antologia curata dal Tassi evidenziava, per la prima volta, l’interesse delle Rime, il vero spartiacque nella loro storia editoriale è costituito però dalla stampa, nel 1857, dei Trattati dell’oreficeria e della scultura a cura di Carlo Milanesi. Il volume recava in appendice una raccolta ormai quasi completa delle poesie di Benvenuto Cellini, tratte dai due codici Riccardiani già segnalati dal Tassi e da altri manoscritti conservati nelle biblioteche fiorentine7. Dichiarato proposito del curatore era integrare la campionatura del 1829 attraverso la pubblicazione degli inediti, senza riguardi di ordine estetico. Nel corpus delle Rime dell’artista, argomentava Milanesi, era d’altronde

ne originale sul manoscritto Poirot ora Laurenziano ed arricchita d’illustrazioni e documenti inediti…, Firenze, presso Guglielmo Piatti, 1829, p. lxv). 6 Le Poesie sono contenute dal terzo volume che correda la fondamentale edizione della Vita del 1829, prima menzionata, intitolato Ricordi, prose e poesie di Benvenuto Cellini con documenti la maggior parte inediti in seguito e ad illustrazione della “Vita” del medesimo (pp. 389-493). L’avvertenza dell’editore è riportata in nota alle pp. 394-395. 7 I trattati dell’oreficeria e della scultura di Benvenuto Cellini; nuovamente messi alle stampe secondo la originale dettatura del codice Marciano per cura di Carlo Milanesi; si aggiungono i Discorsi e i Ricordi intorno all’arte, le Lettere e le Suppliche, le Poesie, Firenze, Felice Le Monnier, 1857, pp. 319-399.


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facile imbattersi in testi di dubbia qualità, che avrebbero potuto offendere i delicati sensi dei più raffinati cultori di belle lettere: Il Tassi fu il primo a porre in luce un saggio delle poesie celliniane, sobriamente scelte. Esaminando gli autografi riccardiani, mi parve che essi potevano dar materia ad una seconda scelta; ma nel rispigolare mi venne fatto di raccogliere tutte le rimanenti, e tutte le do per compagne alle già pubblicate; chiedendo scusa se non ho saputo risolvermi a sceverare dal buono o mediocre il cattivo, e se ho più che raddoppiato, con le nuove, il numero delle già pubblicate8.

Per comprendere pagine importanti della storia editoriale delle poesie del Cellini, occorre immediatamente avvertire che l’encomiabile intendimento di pubblicare tutti gli inediti conservati nei codici nascondeva un’insidia destinata, per oltre centocinquant’anni, a inficiare la definizione stessa del corpus, fuorviandone al contempo la stima. La premessa di Milanesi accreditava infatti l’immagine di una tradizione manoscritta monolitica e integralmente autografa, aliena da ogni problematica relativa all’autenticità dei componimenti. In realtà, però, quelli che Milanesi definiva «autografi riccardiani» sono – come vedremo – due codici compositi, caratterizzati da una fascicolazione irregolare e perlopiù fittizia, che ha aggregato carte non coerenti sotto il profilo del supporto scrittorio, dell’inchiostro e della grafia utilizzati, dove i numerosi testi redatti dal Cellini si alternano a parecchi componimenti idiografi o adespoti. I testimoni riuniscono insomma materiali profondamente eterogenei, sulla cui paternità sarebbe stato necessario pronunciarsi dopo un’attenta analisi dell’aspetto codicologico, paleografico e stilistico. Nessuna di queste fondamentali cautele ecdotiche fu adottata dal Milanesi, né tantomeno dagli editori successivi: non è dunque difficile intuire quali siano state le deleterie conseguenze di una prassi che, di fronte a documenti tanto complessi, obliterava la necessità di sceverare i testi autentici. Con la stampa del 1857 cominciava infatti il processo di inquinamento delle Rime attraverso l’inserzione di poesie adespote sui manoscritti9: determinate dallo stesso proposito in

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Carlo Milanesi, Prefazione a I Trattati dell’oreficeria e della scultura di Benvenuto Cellini, cit., p. xxxvii. Alla luce dei risultati di cui si darà conto in questo studio, possiamo oggi verificare che ben otto componimenti sicuramente apocrifi sono stati compresi nel novero


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clusivo che aveva guidato Milanesi, altre contaminazioni sarebbero intervenute con la monografia e l’edizione curate dal Mabellini sul finire del secolo, trasmettendosi quindi a tutte le pubblicazioni novecentesche. Ma il volume Le Monnier rappresenta un discrimine non soltanto per colpa di tali involontarie interpolazioni. Esso è un momento dirimente anche sotto il rispetto dell’organizzazione testuale: l’ordinamento scelto da Milanesi è stato infatti accolto dai successivi editori delle Rime. Di fronte a un materiale di proporzioni ingenti, perlopiù affidato a una serie di carte sciolte confluite in maniera disorganica nei codici Riccardiani, Milanesi adottava un criterio di tipo tematico-formale, suddividendo le poesie in sei classi: – sonetti intorno alla disputa di precedenza fra la scultura e la pittura; – sonetti scritti in carcere; – sonetti spirituali; – sonetti di vario argomento; – poesie di vario metro; – frammenti. Simile ordinamento, funzionale ad accreditare l’immagine di una raccolta coesa e dominata da una rigorosa logica interna, risultava nondimeno inadatto a rispettare le peculiarità di una produzione che non fu organizzata o razionalmente strutturata dal suo autore10. La classificazione introduceva inoltre degli steccati all’interno di una materia che non conosce compartimenti stagni: un penetrante contributo critico di Enrico Carrara avrebbe anzi individuato nell’ubidelle Rime a partire dall’edizione curata da Milanesi: si vedano, per una puntuale disamina, le introduzioni ai sonetti Fu sempre amara et odiosa morte; Tu che gli Angeli fai lieti e contenti; Ove è la fronte più che ’l ciel serena; Sì come fuor vedete i sensi frali; Molza, che mentre avrà possanza il sole; L’arco e lo strale, Amor, per cui già ’l petto; L’epitaffio son io, quest’altro è il vaso, nonché al frammento Felici alme regali, illustri dive, un caso diverso dagli altri perché trascritto di proprio pugno da Benvenuto Cellini. 10 Di una sistemazione «incapace di aiutarci a penetrare nell’interno della produzione lirica del nostro autore e dei motivi che vi si dispiegano e avvicendano» ha parlato Bruno Maier (Le “Rime” di Benvenuto Cellini, cit., p. 313). Lo stesso Maier, nell’edizione delle Opere celliniane da lui curata (vd. infra), ha però mantenuto il criterio proposto dal Milanesi.


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quità di un limitato nucleo di immagini uno dei tratti distintivi della rimeria celliniana, in quanto «Benvenuto si aggira, poetando, in un cerchio assai ristretto di idee e di espressioni, sicché spesso si ri­ pete»11. Particolarmente opinabile appare, ad esempio, la separazione istituita fra i «sonetti scritti in carcere» e quelli «spirituali», visto che quei testi condividono numerosi contenuti e tratti stilistici; altrettanto problematica risulta poi una categoria sfuggente come quella dei «sonetti di vario argomento», idonea a recepire la rimeria estravagante. Anche sotto il profilo della ricezione delle poesie del Cellini, il volume di Milanesi riveste un’importanza capitale: nelle pagine della premessa compaiono infatti delle espressioni che avranno un’eco duratura nella critica otto e novecentesca. È il caso della censura relativa alla rozzezza e all’oscurità del Cellini poeta, degno di essere ricordato soltanto per offrire un ritratto esauriente dell’eccelso autobiografo: Un artista di così viva e mobile fantasia, di tanto facile invenzione, non poteva non essere ancora poeta. Poeta, oltracciò, e non dispregievole, fu il padre suo. Sennonché, le poesie del nostro Benvenuto non aggiungono a gran pezza il valore delle sue prose. Vive le immagini, vivo l’affetto; ma rozza la forma, e nuda affatto di quelle doti che sono veste necessaria ad ogni poesia perfetta; colpa principalmente della tirannia della rima, al Cellini, come ad ogni altro inesperto, intollerabile, così che talvolta in luogo di rima bastagli l’assonanza, o se ne franca del tutto, o traesi d’impaccio con una sconcordanza persino. Né meno grave tormento della rima gli era la legge del ritmo. Da questo nasce che i suoi concetti (se ne eccettui ben pochi, espressi, a vero dire, con bella felicità) or sono strani e capricciosi, ora così nebulosi, stiracchiati e contorti, che non è dato d’intenderli affatto. Non v’è, insomma, nelle sue rime quella pulitezza di locuzione, quella venustà di forma, quell’arte e regola perfetta, che viene dalla coltura delle buone lettere e dallo studio de’ migliori esemplari. Ciò nonpertanto, a farsi intera ragione dell’ingegno di Benvenuto importava anco conoscerne questa parte12.

Enrico Carrara, Per un sonetto di Benvenuto Cellini, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», lxxxviii, 1926, pp. 37-63: 38. 12 Carlo Milanesi, Prefazione a I trattati dell’oreficeria e della scultura di Benvenuto Cellini, cit., pp. xxxvi-xxxvii. 11


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A un secolo di distanza dalla perentoria formulazione di questa condanna, Bruno Maier avrebbe segnalato le aporie di una critica che, «mentre lodava anche esageratamente la Vita per la sua eslege natura, per la sua aperta ribellione alle regole dell’arte, al contrario biasimava le Rime, proprio per l’identica ragione»13. Tale dicotomia veniva spiegata sulla base delle contrapposte estetiche che disciplinavano, nel diciannovesimo secolo, prosa e poesia: il fatto è che quegli studiosi dell’Ottocento, mentre per la prosa si facevano caldi fautori della libertà, della popolarità, della vivezza dello scrivere “parlato” e “naturale”, per la poesia apparivano ancora generalmente ligi alla tradizione letteraria ed ai rigorosi dettami di questa: né s’accorgevano che, in fondo, quella “rozzezza formale”, di cui essi crucciosamente parlavano, non era poi troppo lontana da certi bruschi, energici e violenti modi di scrittura, sperimentati con così eletti risultati, come è noto, nella prosa della Vita14.

L’antologia pubblicata da Milanesi in appendice ai Trattati segna quindi, per più aspetti, la svolta decisiva negli studi sul Cellini rimatore. Il duraturo impatto di quel lavoro può essere misurato già a partire dall’ampia monografia che, nel 1885, il giovane Adolfo Mabellini (appena ventitreenne) dedicava alle Rime15. Lo studio si proponeva, per la prima volta, di analizzare compiutamente le caratteristiche della produzione poetica celliniana, inquadrandola entro il contesto della storia letteraria e spirituale del Rinascimento. L’attenzione al grande affresco storico sembrava però far perdere di vista all’autore i dati, senz’altro prosaici ma determinanti, relativi alla natura materiale dei testimoni manoscritti, appena menzionati in queste pagine. Per quel che concerne la valutazione del Cellini poeta, Mabellini aderiva, nel complesso, al giudizio di Milanesi, mutuandone non poche osservazioni critiche: Le Poesie infine, benché certamente di gran lunga inferiori alle prose e assai rozze riguardo alla forma, son tuttavia da studiarsi come quelle che, rivelandoci un altro lato del suo felice ingegno, ci dànno Bruno Maier, Le “Rime” di Benvenuto Cellini, cit., p. 310. Ibidem. 15 Adolfo Mabellini, Delle Rime di Benvenuto Cellini, Roma-Torino-Milano-Firenze, Paravia, 1885. 13 14


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un’idea più completa dei suoi sentimenti, non sempre, come per lungo tempo s’è creduto, terribili e violenti, e della sua grande versatilità […]. La poesia del Cellini, sebbene spesso piena di affetto e di sentimento, è rozza e manca del tutto di ogni grazia che le avrebbe potuto procacciare l’arte; solo in qualche luogo si trova felicemente e ciò, diremmo quasi, istintivamente estrinsecato qualche pensiero e concetto. La rima e il ritmo sono i più terribili nemici del Cellini; e vediamo infatti che bene spesso nelle sue poesie infrange le leggi dell’una e dell’altro. Per la rima assai di frequente a lui basta la semplice assonanza […]; e per questa stessa cagione cade spesso in sconcordanze […]. Gli sbagli di ritmo poi sono in lui più frequenti ancora16.

Adottando di fronte agli eterogenei materiali attestati dai codici lo stesso indiscriminato principio inclusivo che aveva contraddistinto l’edizione del Milanesi, Mabellini pubblicava poi un’appendice di venticinque Sonetti e frammenti inediti di Benvenuto Cellini. All’interno dell’appendice trovavano spazio tanto testi autografi, omessi dalla stampa del 1857 a causa dei contenuti osceni o dello statuto frammentario, quanto testi adespoti nei manoscritti Riccardiani17. Mabellini contribuiva così, attraverso la pubblicazione di componimenti e lacerti inediti, alla conoscenza del Cellini rimatore, ma allo stesso tempo amplificava la contaminazione del corpus tramite l’inserimento di poesie dal dubbio statuto autoriale. La più vistosa conseguenza di un simile azzardo metodologico venne presto denunciata da un anonimo recensore della monografia che, sulla «Nuova Antologia» del settembre del 1885, segnalò l’abusiva attribuzione al Cellini di una corona di sei sonetti satirici, trascritti da un ignoto copista all’interno del codice Riccardiano 2353 ma in effetti parte dell’Apologia degli Academici di Banchi di Roma contra M. Ludovico Castelvetro di Annibal Caro18. Il pertinente richiamo sortì tuttavia un ben Ivi, pp. 19-21. Ivi, pp. 297-320; per la descrizione dei contenuti dell’appendice, si rimanda alla Nota al testo. 18 Anonimo, recensione ad Adolfo Mabellini, Delle Rime di Benvenuto Cellini, cit., in «Nuova Antologia», liii, 16 settembe 1885, pp. 386-387. I testi (Arroganza degl’huomini infinita; Lingua ria, pensier fello, oprar maligno; Queste son le tuo doti, anima vile; Di più lingu’aspe e scorpio di più code; Il mostro di ch’io parlo e di ch’io scrivo; L’impura sechia ha per suo nume un drago) si leggono alle cc. 30r-32v del cod. Ricc. 2353. 16 17


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modesto risultato: le successive edizioni delle Rime celliniane, pur espungendo i testi del Caro, hanno infatti pacificamente accolto tutte le altre aggiunte proposte dal Mabellini. Maggiore impatto sembra invece aver avuto un’altra anonima e impietosa recensione, la quale, fra gli altri limiti del volume del 1885, indicava come fondamentale difetto metodologico la stessa scelta di dedicare un’estesa monografia alle poesie dell’artista: Anzitutto vi è un vizio che chiameremo metodico; l’A. è riuscito a convincersi che veramente le rime del Cellini hanno una grande importanza, che egli è un poeta, o per lo meno, ad usare le parole sue, che del poeta ha “il vero temperamento” […]. Nei versi del Cellini risplende talora la vivacità e l’arguzia del suo spirito; ma noi non riusciamo a trovare in essi nessuna di quelle qualità che caratterizzano il poeta […]: le sue rime sono stentate sino all’oscurità, sbilenche, convenzionali, sciatte, insomma meno che mediocri. Quindi noi non possiamo giudicare se non come un vizio di metodo la considerazione larga e quasi solenne, che il M. ha creduto di dar loro. Che valesse la pena di classificarle, come egli ha fatto, non lo neghiamo, e di annotarle e tentarne la spiegazione, meglio di quello che egli ha fatto, non lo neghiamo: ma insisterci sopra troppo, no19.

Pur condizionato dalla lapidaria stroncatura ricevuta20, Mabellini non rinunciò al tentativo di studiare in modo approfondito le Rime, che infatti vennero da lui ripubblicate nel 189121. In questo volume, le poesie figuravano per la prima volta non a corredo di altre opere dell’autore ma come autonome testimonianze della versatilità del suo ingegno, finalmente dotate di un’ampia introduzione e di un apparato di note esplicative. Il criterio di ordinamento veniva mutuato dalla stampa edita da Milanesi nel 1857, per quanto Mabellini adottasse alcune lievi variazioni in merito alla succes Anonimo, recensione ad Adolfo Mabellini, Delle Rime di Benvenuto Cellini, cit., in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», vi, 18, 1885, pp. 424-426. 20 Bruno Maier (Le “Rime” di Benvenuto Cellini, cit., p. 314) ha rilevato come Mabellini fosse indotto dalla poco benevola recensione uscita sul «Giornale Storico della Letteratura Italiana» a rivedere in parte il proprio giudizio: nel 1891 l’editore attenuò infatti sensibilmente le considerazioni di sei anni prima in cui affiorava una certa stima per il Cellini poeta. 21 Le Rime di Benvenuto Cellini, pubblicate ed annotate per cura di Adolfo Mabellini, Torino, Paravia, 1891. 19


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sione dei testi, fra i quali comparivano anche le prove poetiche della Vita. La premessa rielaborava il materiale costitutivo della monografia del 1885 e la stima complessiva della poesia di Cellini, ritenuta appassionata ma priva della grazia e dell’arte necessarie a nobilitarne i contenuti22, risentiva per più aspetti dei rilievi di Milanesi. Risulta curioso e illuminante osservare come, nella prefazione del 1891, gli unici componimenti oggetto dell’esplicito apprezzamento del Mabellini fossero proprio quelli che, con la presente edizione, vengono espunti dal novero delle Rime celliniane e dichiarati senz’altro apocrifi: è questo il caso del sonetto L’epitaffio son io, quest’altro è il vaso, di Pietro Aretino, o della serie di cinque sonetti religiosi di Gabriele Fiamma, che venivano segnalati dall’editore ottocentesco per le singolari qualità stilistiche ed espressive. Rientrano nella misura di tale improprio apprezzamento anche dei testi oggi classificati come dubbî, perché d’incerto statuto autoriale: un esempio significativo è offerto, a tal proposito, dai due sonetti d’amore Se bene ingrata la mia donna sia e Quanti, lasso, sospir, lacrime quante. Talvolta le valutazioni di Mabellini autorizzano addirittura il sospetto che l’editore fosse inconsciamente indotto ad accreditare la paternità celliniana proprio dal desiderio di attribuire all’artista componimenti di qualità, tali da poter figurare in una seletta antologia della lirica cinquecentesca23. Il singolare controsenso, in base al quale sono stati quasi esclusivamente i testi spurî o dubbî a riscuotere il plauso della critica, era destinato a perdurare almeno fino alla metà del Novecento, quando Bruno Maier passava in rassegna i migliori frutti del Cellini poeta: una rassegna che, in effetti, comprendeva perlopiù degli apocrifi24. Tale paradosso era in fondo il coerente portato di un criterio ecdotico inaffidabile e di un tenace pregiudizio classicistico, che apprezzava, in poesia, un nitore formale e una padronanza tecnica de Adolfo Mabellini, Premessa a Le Rime di Benvenuto Cellini, cit., p. 12. Il giudizio del Mabellini sul Cellini poeta si trova puntualmente riecheggiato anche nello studio di Ada Berti, Artisti-Poeti Italiani dei secoli XV e XVI, Firenze, Bernardo Seber Libraio-Editore, 1907, pp. 40-44: 43. 23 Si vedano, a tal riguardo, le introduzioni ai testi citati, nelle due appendici di poesie dubbie e apocrife. 24 Bruno Maier, Le “Rime” di Benvenuto Cellini, cit., pp. 334-336, 353. 22


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gli strumenti espressivi sconosciuti ai testi autenticamente celliniani. Lo scultore che si dilettava di comporre versi subiva lo stesso tipo di censura estetica che ha sanzionato a lungo Michelangelo: è difficile, in effetti, resistere alla tentazione di accostare i giudizi fin qui richiamati a quelli che spesso hanno stigmatizzato la maniera poetica michelangiolesca. Si pensi, fra i numerosi esempi possibili, alla riflessione di Ugo Foscolo, che indicò nel difetto d’arte il principale limite di Michelangelo rimatore, incapace di esprimersi «continuativamente con quella perspicuità che non può aversi se non per costante abitudine di scrivere, né con quella dizione poetica che fa caldi e luminosi anche i ragionamenti più freddi»25. E, per comprendere quanto duraturo sia stato il gusto che ha determinato tale sanzione, si ricordi che anche Benedetto Croce stigmatizzava l’assenza di «disciplina» e dell’«abilità del letterato» dalle poesie del Buonarroti, e quelle loro «improprietà, zeppe, oscurità, contorsioni, durezze, che non si possono accettare, perché realmente sgradevoli»26. I due scultori hanno insomma condiviso, per un certo periodo, la condanna di una critica cui risultavano sgradite le conseguenze più vistose del­l’approccio «non professo» alla scrittura in versi, bensì – secondo la nota definizione michelangiolesca – «goffo e grosso»27. Fra Otto e Novecento, la maggioranza dei giudizi sulla poesia celliniana avrebbe posto l’accento sulla mancanza di un’adeguata strumentazione tecnico-formale. Di un conclamato dilettantismo parlava, ad esempio, Angiolo Orvieto, in un interessante contributo uscito sulla rivista «Il Marzocco» nel 1900, ove si sottolineava come Cellini riuscisse tuttavia «più evidente e scultorio di tanti petrarche Ugo Foscolo, Michelangelo, in Saggi e discorsi critici, edizione critica a cura di Cesare Foligno, Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 456 e 467 («he does not express himself, at all times, with that perspicuity which can only be attained from the constant habitude of writing, nor with that poetical diction which imparts warmth and brilliancy even to the coldest reasonings»). Il giudizio è citato in Arnaldo Bruni, A proposito di Michelangelo poeta, in Filologia e critica nella modernità letteraria. Studi in onore di Renzo Cremante, a cura di Andrea Battistini, Arnaldo Bruni, Irene Romera Pintor, Bologna, Clueb, 2012, pp. 33-45: 38, all’interno di una ricognizione dei principali contributi critici sulla poesia michelangiolesca. 26 Benedetto Croce, Poesia popolare e poesia d’arte: studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, a cura di Piero Cudini, Napoli, Bibliopolis, 1991, p. 346. 27 Si tratta della dichiarazione che leggiamo nel capitolo Com’io ebbi la vostra, signor mio, v. 48: vd. Michelangelo Buonarroti, Rime, a cura di Matteo Residori, Milano, Mondadori, 1998, p. 155.

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schi levigatori di rime suoi contemporanei […], molto più sincero, molto più forte, molto più personale, nonostante le oscurità e i contorcimenti della forma, i versi che non tornano, le rime sbagliate, le sgrammaticature frequenti»28. Su un fondamentale difetto di tecnica insisteva poi un critico avvertito come Enrico Carrara, quando accostava le Rime di Benvenuto Cellini alle «dure crustae poetiche» di Michelangelo, al pari di lui «faticoso scalpellatore» di versi29. Carrara, pur esprimendo pesanti riserve sulla qualità di testi spesso sgraziati e oscuri, segnalava nondimeno come una positiva anomalia, nel paludato secolo dei petrarchisti più squisiti, il piglio eccezionalmente vigoroso e personale che caratterizza tanti componimenti celliniani: Quale che ne sia la forma, la poesia del Cellini non è quasi mai vacua né oziosa; anzi appassionata, come la sua Vita; canta – per modo di dire – le cose che possiedono l’anima sua, e a queste è così attaccato, che non cura, o non sa, crearne dei fantasmi poetici. Se mai la sua poesia pecca di prosasticità (che non è lieve, ma neppur raro difetto), non già di freddezza. Dice quel che ha da dire, con l’usata immediatezza; salvo che, obbligato a stiparlo in undici sillabe (o press’a poco) con rima e accenti ritmici, finisce per riuscire avviluppato, egli così sciolto e limpido nelle pagine migliori della sua prosa. Ma con tutto ciò, c’è più «filosofia» diceva il Parini parlando di lui, che in cento petrarchisti contemporanei; voglio dire che c’è più vita, più la sua vita30. Angiolo Orvieto, Le Rime, in «Il Marzocco: periodico settimanale di letteratura e arte», v, 44, 4 novembre 1900 (numero interamente dedicato al Cellini in occasione del quarto centenario della nascita), p. 4. 29 Enrico Carrara, Per un sonetto di Benvenuto Cellini, cit., pp. 38 e 48. 30 Ivi, p. 41. Il giudizio pariniano, qui evocato, è quello che leggiamo a proposito dell’autobiografia del Cellini nel De’ principi fondamentali e generali delle Belle Lettere applicate alle Belle Arti (si veda oggi Parini e le Arti nella Milano Neoclassica, a cura di Graziella Buccellati e Anna Marchi. Coordinamento e direzione scientifica Gennaro Barbarisi, testi introduttivi di Gennaro Barbarisi, Fernando Mazzocca, Silvia Morgana. Testi di Giuseppe Parini a cura di Gennaro Barbarisi, Silvia Morgana, Milano, Università degli Studi di Milano, 2007, p. 214). La Vita veniva dal Parini giudicata «una delle cose più vivaci, che abbia la lingua italiana»: «fra gli autori italiani del Cinquecento risplende ordinariamente più filosofia nelle opere degli eccellenti artisti, che in quelle de’ grandi Letterati; perché questi preoccupati furono la maggior parte dalle opinioni, o vere o false che fossero, da essi bevute nelle scuole, e ne’ libri, dove gli altri andarono in traccia della natura e della verità, condotti dal solo raziocinio». 28


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Le categorie messe a punto da tale riflessione avrebbero spinto Carrara a parlare, nella premessa all’edizione della Vita celliniana del 1927, di versi «brutti sì ma ardenti»: una definizione di memorabile icasticità, che sintetizzava in maniera incisiva la dicotomia di un giudizio diviso fra l’apprezzamento di contenuti ad alto voltaggio esistenziale e la sanzione di una forma lontanissima dai canoni classici31. Oltre che per i rilievi di ordine estetico, l’articolo di Carrara si segnalava per la messa a fuoco delle principali questioni ecdotiche relative alle Rime: questioni destinate a rimanere lungamente inevase. Lo studioso deplorava infatti la situazione in cui versavano i testi celliniani, caduti a suo avviso «nelle mani d’un critico poco esperto che, dopo averne congegnato un grosso volume, tolse ad ogni altro la voglia di ritentare l’impresa». Venivano quindi indicate le priorità per una nuova edizione delle poesie: chi avesse voluto sobbarcarsi l’ingrata fatica, scriveva Carrara, avrebbe dovuto armarsi «di buona lente critica e anche di molta pazienza, perché c’è tutto da fare o da rifare. C’è da ordinare con approssimazione ragionevole tutta la materia secondo la successione cronologica; c’è probabilmente da sceverare, dagli autentici, i componimenti apocrifi che forse il Cellini abbozzò ed altri rifinì. C’è poi da capirli, che non è sempre agevol cosa; e infine da coglierne il palpito vivo»32. Nel già menzionato contributo del 1952, Bruno Maier avrebbe sottoscritto le osservazioni di Carrara circa la necessità di un’edizione che si affrancasse dai gravi limiti ecdotici delle stampe precedenti33. Il critico avrebbe poi sviluppato nel senso di una crociana distinzione fra poesia e non poesia la consolidata gerarchia tra il Cellini autobiografo e il rimatore, a suo avviso incapace di sublimare entro una superiore armonia un’incandescente materia passionale: La prefazione è stata riportata da Ferrero in apertura al volume utet delle Opere celliniane: Benvenuto Cellini, Opere, a cura di Giuseppe Guido Ferrero. Con un profilo della Vita celliniana di Enrico Carrara, Torino, utet, 19802 (prima ed. 1973), p. 39. 32 Enrico Carrara, Per un sonetto di Benvenuto Cellini, cit., pp. 37-38. 33 Vd. Bruno Maier, Le “Rime” di Benvenuto Cellini, cit., pp. 309-310: «Uno studio moderno di queste, capace di metterne in luce i caratteri ed i limiti, manca tuttora. Le pagine che seguono vorrebbero dare, almeno, l’avvio ad un simile studio: il quale potrà essere portato a compimento in modo esauriente solo quando le Rime del Cellini saranno ripubblicate in un’edizione criticamente condotta e corredata da un vasto commento».

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Alla base delle Rime e della Vita sta sempre, per noi, il medesimo Cellini, anche se è necessario tenere ben ferma la distanza che passa tra il capolavoro geniale, librato in un clima fantastico di memoria trascritta e sublimata in poesia, e le documentazioni rimate di alcune tappe d’un itinerario terreno, rimasto avvinto alla sua originaria, agonistica, confidenziale, confessionale terrestrità34.

La prosaica «terrestrità» delle poesie era il portato, secondo lo studioso istriano, del loro basilare carattere pratico e occasionale, geneticamente estraneo a un’autentica ispirazione lirica: Quella del Cellini è, per una gran parte, non già “poesia dilettantesca”, bensì, proprio, non poesia, e cioè letteratura, oratoria, effusione, rimeria di supplica, d’intrattenimento, di polemica, di discussione, di preghiera, di cronaca, in cui la forma metrica, direbbe il De Sanctis, sta spesso “a pigione” e appare determinata non già da un’imprescindibile esigenza espressiva, ma da una moda, da un costume, da una convenienza letteraria, per cui gli scambi verbali tra letterati ed artisti venivano frequentemente commessi alla misura strofica del sonetto. Appunto per questo, dovendo giudicare le Rime di Benvenuto, è da parlare di “letteratura”, se letteratura è, per seguire la nota definizione del Croce, essenzialmente, una costumanza sociale, una funzione e rivelazione di civiltà, un asservimento della forma poetica ad istanze e scopi che poetici non sono, bensì conoscitivi, comunicativi, disquisitori, confidenziali, pratici in una parola, nel senso più lato. Quella del Cellini è, inoltre, se vogliamo, “poesia d’occasione” […], e anche meglio che di “poesia d’occasione” è da parlare di “poesia di circostanza”, stimolata da una pratica finalità ed a questa strettamente congiunta35.

Nel 1968, a coronamento di fruttuosi decenni di “militanza” celliniana, Maier dava poi alle stampe una nuova, fondamentale edizione delle Opere di Benvenuto Cellini36. Pur avendo condiviso i rilievi Bruno Maier, Le “Rime” di Benvenuto Cellini, cit., pp. 315-316. Sul legame tematico e stilistico fra la Vita e le Rime insiste anche un quasi contemporaneo articolo di Mario Pomilio (Gusto episodico e coscienza letteraria nella “Vita” di Benvenuto Cellini, in «Convivium», iv, 1951, pp. 667-725: 700-704), dove osservazioni importanti risultano però condizionate da un’inattendibile definizione del rapporto cronologico fra i testi. 35 Bruno Maier, Le “Rime” di Benvenuto Cellini, cit., p. 319. 36 Benvenuto Cellini, Opere, a cura di Bruno Maier, Rizzoli, Milano, 1968, pp. 881996. 34


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di Carrara circa l’opportunità di un’edizione delle Rime radicalmente rinnovata rispetto alle precedenti, Maier manteneva inalterato l’impianto dei lavori di Milanesi e di Mabellini e il loro criterio di ordinamento tematico-formale. Nel pubblicare i versi celliniani, l’e­ di­tore espungeva le poesie contenute dalla Vita, in quanto organiche a un diverso progetto letterario, accogliendo però senza verifica la definizione ottocentesca del corpus. Sotto il profilo filologico, l’opera non rispondeva, quindi, agli auspicî di Carrara: essa apportava nondimeno, rispetto ai volumi del diciannovesimo secolo, significative migliorie. Per quanto fossero ancora numerosi i conguagli e le normalizzazioni del dettato, il testo risultava infatti più aderente alla lezione dei codici, l’apparato di note più attento a individuare le principali auctoritates letterarie cui Cellini guardava. Non sorprende, pertanto, che tale lavoro abbia rappresentato il modello di riferimento per tutti i successivi editori, a partire da Giuseppe Ferrero37, che − nel volume utet delle Opere celliniane − mutuava dalla stampa Rizzoli il testo e la disposizione delle poesie, fornendo al contempo un commento più puntuale a molteplici loci oscuri. Nell’introduzione, Ferrero ribadiva le tradizionali riserve circa il valore letterario delle Rime, che apparivano nondimeno parzialmente riscattate dalla loro grande intensità e dal loro obiettivo interesse quali multiformi testimonianze di una personalità d’eccezione come quella del Cellini: Forse un documento integrale della psicologia di Benvenuto, complessa e contraddittoria, ci possono offrire soltanto le Rime, nella loro frammentaria e discorde effusività. Assai manchevoli come lavoro d’arte, esse sono una testimonianza umana vivida e molteplice. Nelle Rime c’è veramente, in frammenti dispersi e, a volte, repugnanti l’uno all’altro, tutto il Cellini. C’è, anzitutto, l’altera coscienza della propria “virtù” e della propria eccellenza di artista […]. C’è la dogmatica asserzione della precellenza dell’arte da lui in vario modo coltivata […]. Ma c’è anche l’amarezza e lo sdegno per la propria virtù disconosciuta: che, specialmente nell’età più inoltrata, si effondono in querele […]. Quell’uomo animoso e spavaldo ha scritto alcuni dei suoi versi più umani e, forse, artisticamente più validi, nelle ore di pena, al limite dell’angoscia. E in quelle ore deserte, dal fondo dell’anima gli sale, innegabilmente sincera, un’invocazione a Benvenuto Cellini, Opere, a cura di Giuseppe Guido Ferrero, cit., pp. 839-973.

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Dio […]. La religiosità del Cellini ha vivida espressione anche in più luoghi della Vita. Non ha riscontro, invece, nella Vita, un altro aspetto delle Rime: il gusto delle sottigliezze ingegnose e degli arzigogoli, quasi al confine dell’enigmistica38.

All’incirca negli stessi anni in cui vedevano la luce i lavori di Maier e di Ferrero, alcuni testi di Benvenuto Cellini erano accolti in due importanti antologie della poesia cinquecentesca: indizio significativo di una lenta riscoperta e di un crescente interesse critico nei riguardi di un versante lungamente trascurato della produzione dell’autore. Risale al 1968 la pubblicazione di un manipolo di undici sonetti o frammenti nella seconda edizione del volume utet dei Lirici del Cinquecento: Guido Davico Bonino, curatore dell’iniziativa, faceva figurare Cellini tra i cinque poeti da lui «inclusi ex novo» nel piano dell’opera, motivando tale scelta sulla base dell’indiscutibile statura dello scrittore39. Degne di nota le osservazioni relative ai caratteri distintivi della sua rimeria, ancora una volta messa a confronto con quella del Buonarroti e collocata su un versante alternativo rispetto alle modalità espressive dominanti nel Cinquecento: Prodotto di un artista-letterato, che non cela, anzi ostenta, quasi a patente di nobiltà, gli echi da Petrarca e da Dante, le liriche del Cellini possono riuscire a prima vista troppo scopertamente autobiografiche: mentre, all’opposto, proprio in questa zona di privata confessione, sortiscono gli esiti più intensi e felici […]. Poesia esacerbata e dolente, solinga e appartata per la natura stessa dell’ispirazione, questa del Cellini: singolare e sconcertante anche nelle sue scelte stilistiche, atteggiate ad una certa durezza di tratto, ad un gusto dell’incondito, che – con tutte le precauzioni del caso – può richiamare alla mente il “non finito” di un altro poeta-scultore: Michelangelo40.

Sul finire degli anni Settanta veniva stampata una seconda, più modesta selezione di Rime all’interno di un’antologia di poesia cinquecentesca: si tratta della raccolta curata, per i tipi di Garzanti, da Ivi, pp. 9-11. Lirici del Cinquecento, a cura di Daniele Ponchiroli. Nuova edizione a cura di Guido Davico Bonino, Torino, utet, 1968 (prima ed. 1958), p. 36. 40 Ivi, p. 580. 38 39


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Giulio Ferroni, che ospitava nella sezione dedicata alle Esperienze marginali ed eterogenee una scelta di cinque sonetti di Cellini41. La collocazione ribadiva il carattere eterodosso della produzione celliniana, difficilmente ascrivibile alle modalità tipiche della corrente rimeria contemporanea. I versi del Cellini configurano, a dire di Ferroni, «un riattraversamento di occasioni quotidiane, una serie di scatti di violenza che sostituiscono l’azione». Inconditi e ingenui, «con improvvisi scatti di rozzezza che escono completamente dal corretto codice petrarchistico», i testi non riuscirebbero «ad articolarsi in un codice nuovo ed originale: collegandosi, a secolo avanzato, al realismo della tradizione toscana (senza fare a meno del riferimento a certe cose di Michelangelo)»: tale realismo verrebbe però declinato a partire da «una posizione di singolare soli­ tudine»42. Occorreva attendere la più recente delle edizioni delle Rime, quella curata da Vittorio Gatto nel 2001, perché le consuete riserve di carattere estetico venissero meno, dando infine luogo a un pieno, maturo apprezzamento del «personalissimo itinerario» dell’autore «nel grande solco tracciato dai rimatori del secolo XVI»43. Nella prefazione all’opera, l’editore rielabora spunti e suggestioni provenienti dalla critica precedente secondo una prospettiva intesa, per la prima volta, a valorizzare compiutamente le poesie dell’artista fiorentino. Gatto individua nella difformità rispetto alla tradizione petrarchesca di marca bembista, dominante all’altezza del secondo Cinquecento, la ragione della duratura condanna di questi versi: È a questo spirito innovatore […] che bisogna ricondurre anche il discorso sulle rime celliniane per sottrarle a quella fin troppo facile e scontata condanna […] a cui le esponeva un gusto derivato dalla tradizione aulica ancora ben vivo e radicato fino ai nostri giorni. Niente in effetti di più distante dal petrarchismo allora imperante, nel cui alveo la cultura linguistica e letteraria del Cellini personalissima e approssimativa potrebbe pur esser fatta rientrare in qualche modo. Ma certamente niente di meno assimilabile a quella via bem Poesia italiana: il Cinquecento, a cura di Giulio Ferroni, Garzanti, 1978, pp. 393397. 42 Ivi, pp. 393-394. 43 Introduzione a Benvenuto Cellini, Rime. Introduzione e commento di Vittorio Gatto, Roma, Archivio Guido Izzi, 2001, p. vii. 41


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besca che, mentre salvava lingua e modi della lirica del Petrarca, li svuotava del tormento ideologico e psicologico ad essi sotteso44.

Secondo l’editore, i critici educati a un gusto classicistico − predominante almeno fino agli ultimi decenni del Novecento − non potevano che giudicare rozze, sgraziate e oscure le poesie celliniane, magari avvertendo al contempo l’interesse di un canto tanto impervio quanto vigoroso e inconfondibile. Nella premessa, Gatto evidenzia il ruolo decisivo del dantismo nella tessitura dei versi celliniani, accostando un simile recupero a quello che caratterizza anche l’opera letteraria di altri due artisti-scrittori di formazione fiorentina, il Buonarroti e il Bronzino. L’editore sottolinea, poi, la straordinaria importanza che le Rime rivestono per la conoscenza di «un Cellini altrimenti inedito e sconosciuto, […] un Cellini la cui esperienza personale e storica si riveste di una umanità sofferta e tormentata, di ragioni e moti interni risentiti e dolenti in opposizione cosciente al proprio tempo e agli accadimenti in cui si trova coinvolto»45. La stampa del 2001 si segnala, quindi, per la revisione complessiva del giudizio sul Cellini poeta: occorre però avvertire che, dal punto di vista strettamente filologico, il lavoro di Gatto non si affranca dai limiti che avevano condizionato le pubblicazioni precedenti. Nello specifico, il testo delle Rime viene ancora una volta mutuato dal Maier, e vengono accolti senza verifica sui codici tanto la consolidata definizione del perimetro del corpus poetico quanto il tradizionale ordinamento di tipo tematico-formale. Rispetto alle edizioni del Novecento, sono nondimeno numerose le migliorie: il commento amplia in misura importante il ventaglio delle auctoritates letterarie e apporta una serie di novità significative, quali ad esempio i ricorrenti richiami all’autobiografia, ai Trattati e ai Discorsi, ma anche a documenti in grado di fare luce sulle vicende personali da Cellini adombrate nei suoi versi. L’edizione curata da Vittorio Gatto si inserisce nel quadro di un rinnovato interesse critico nei confronti del Cellini poeta, secondo una tendenza che accomuna l’autore della Vita ad altri artisti-scrit Ivi, p. xii. Ivi, pp. x, xiv-xvi.

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