Il mercante armeno

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Massimo Ghelardi

Livorno, Venezia, le Fiandre, terre di frontiera geografica e umana, dove marinai, malfattori, soldati e mercanti chiamano all’avventura i cuori più giovani e coraggiosi: è questo lo scenario che, nella prima metà del 1600, fa da sfondo alla storia di Sevag e di suo figlio Hagan, ultimi discendenti di una famiglia di commercianti armeni di caffè trasferitasi nella città labronica. Costretti dalla vita a separarsi prematuramente, ignaro l’uno del destino dell’altro, i due uomini saranno impavidi protagonisti nella guerra, nel tradimento, negli affari e nell’amore.

Il mercante armeno

Massimo Ghelardi è nato a Pisa e vive da molti anni a Livorno; è sposato con Mirella e ha due figli. Dopo aver lavorato a Roma, Grosseto e Siena, è tornato nella città labronica, dove si dedica al mare, alla vela e allo studio della storia locale. Da queste passioni è nato Il mercante armeno, suo primo romanzo.

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Il mercante armeno

Massimo Ghelardi

romanzo



Massimo Ghelardi

Il mercante armeno Romanzo

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Editrice Fiorentina


© 2010 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it blog www.seflog.net/blog facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account www.twitter.com/sefeditrice isbn 978-88-6032-142-8 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Grafica elettronica (Napoli)


Alla mia cara Mirella ai miei figli Davide e Nicola ai nipoti Alessandro e Lorenzo



Il mercante armeno



l’ospite

La galera dei Cavalieri di Santo Stefano si avvicinava al porto sospinta dal leggero ponente, lasciando alla sinistra le infide secche della Meloria. Il colore acceso del tramonto che disegnava all’orizzonte il profilo della Corsica era assorbito e trattenuto dalla mole in mattoni rossi della Fortezza, ingresso e presidio del porto, riflesso, invece, dal candore di marmo della torre del Marzocco. La galera avrebbe atteso il mattino successivo per iniziare le operazioni di sbarco del carico di spezie e caffè predato alla nave turca abbordata al largo delle coste corse. Spezie, caffè e schiavi mori, era stato un buon bottino e la folla variopinta si accalcava nella darsena a osservare le ultime manovre della nave mentre metteva la prua contro il vento che increspava il mare in piccole onde. Al pubblico vociante si offrì la vista dell’alta poppa e della lanterna che veniva accesa per la notte. Il giorno successivo i mercanti che si fossero aggiudicate le mercanzie predate avrebbero inviato i loro barconi da carico per trasportarle nei magazzini che si aprivano al livello dell’acqua dei canali. Scheriman, mercante armeno, era interessato al caffè che avrebbe poi in parte rivenduto e in parte tostato e servito nelle sue Botteghe del Caffè; in particolare in quella posta sulla via Ferdinanda, là dove questa si apriva nella grande Piazza d’Arme. Una bottega frequentatissima dai commercianti livornesi, israeliti, armeni, greci, fiorentini, lucchesi. Scheriman aveva ottenuto l’appalto per la mescita della bevanda di recente provenienza dai paesi del Nord Africa e la bottega di via Ferdinanda era la più elegante e accogliente della città. 3


Ma non per questo l’armeno era venuto al porto quella sera. Un’altra nave, più piccola, aveva dato fondo già da qualche ora, mantenendosi comunque fuori dal porticciolo prospiciente il Duomo, e a quella era rivolta la sua attenzione. Sapeva che il carico che stava attendendo sarebbe stato trasportato, a notte fonda, da una scialuppa fino ai suoi depositi attraverso quei fossi che dal porto si sviluppavano all’interno della città e suddividendosi in canali permettevano ai commercianti di ricevere le merci portate dalle barche direttamente nei magazzini sottostanti ai loro ricchi palazzi. Molti anni prima Scheriman era giunto da Venezia, dove viveva una vivace nazione armena, a Livorno e aveva visto crescere questa città dalle mani, dai muscoli e dalle sofferenze di migliaia di uomini liberi e di schiavi che realizzarono in un breve arco di tempo il sogno mediceo. Il sogno che Cosimo I aveva concepito e reso palese sin nella scelta della sua residenza, quel piccolo palazzo, quella prua di nave costruita a stagliarsi nell’angolo di Fortezza rivolto verso sud-ovest a frangere le onde del libeccio sull’orgoglioso stemma fiorentino, a guardare i tramonti di nuvole nere e cielo rosso e navi alla fonda. Come in una nave il capitano dorme a ben poca distanza dalle amache pidocchiose dove a turno i marinai stirano le membra fradice di mare e di sale, così il Granduca alloggiava e dormiva sulla prua della sua città a poche centinaia di metri dal “Bagno dei forzati”, dove i pirati turchi catturati e resi schiavi venivano rinchiusi al tramonto dopo aver contribuito, giorno dopo giorno, ora dopo ora, pietra dopo pietra all’edificazione del sogno dei Medici. Venezia e Livorno, due città di mare, ma niente di più diverso. Era arrivato a Venezia bambino, insieme al padre già affermato mercante. Durante il lungo viaggio suo padre gli aveva narrato la storia della Repubblica, descrivendogli i palazzi, i marmi bianchi alternati, nello specchio delle acque, ai 4


rosa e ai rossi degli intonaci sul Canal Grande. Guerrieri, marinai, mercanti scaltri che competevano con i furbi mercanti arabi, con il denaro ottenendo ciò che non era possibile ottenere con la forza. Parlavano una lingua musicale i Veneziani, fantasiosa, così diversa dallo scabro linguaggio dei Genovesi che a lungo avevano loro conteso il dominio del mare e che suo padre aveva avuto modo di conoscere nei suoi viaggi. Una lingua, quella di Venezia, che sembrava voler nascondere dietro la sua apparente lievità la forza temibile della sua flotta e la fiera determinazione del suo popolo. Il padre lo aveva condotto con sé per iniziarlo al commercio, in modo da trovarsi pronto al momento in cui avrebbe dovuto assumere la responsabilità della ditta. A Nuova Giulfa, la grande e vivace città da cui provenivano, era rimasto lo zio come fondamentale corrispondente dell’attività che gli Scheriman avevano intenzione di avviare a Venezia. E a Nuova Giulfa era restato il cuore del ragazzo. Era, questa, l’ultima di molte città belle e ricche cui gli armeni avevano dato vita nel loro oriente. I racconti che aveva ascoltato sin da bambino, con trepidazione, con speranza o rabbia, narravano della splendida città di Ani dalle mille chiese che per oltre un secolo fu luce e splendore di un piccolo regno armeno, poi conquistata e distrutta. E nuovamente si narrava degli armeni in cammino attraverso le regioni inospitali del Tauro e del principe Rupen che li condusse in Cilicia per fondare quel nuovo piccolo regno che accolse i guerrieri crociati che giungevano sulle galee veneziane, pisane o genovesi e insieme ai soldati giungevano frati e monaci che si avventuravano sulle piste carovaniere che si addentravano verso oriente, verso il misterioso impero mongolo. Fu in questa terra stretta tra il mare e i monti del Tauro, che gli armeni, cristiani d’oriente, stabilirono quei rapporti di reciproca conoscenza con le potenze militari e mercantili del mondo cristiano d’occidente che avrebbero permesso loro, nei secoli successivi, di trovare sponde fertili per le loro attività in tutti 5


gli Stati europei. Da Venezia a Genova, da Amsterdam a Livorno, dal Mar Baltico al Mediterraneo saranno gli Armeni a far da tramite per le importazioni delle merci d’oriente che le carovane trasportavano attraverso i deserti e gli altopiani dell’Anatolia. Destino di un popolo senza patria. Ma per il ragazzo che giungeva a Venezia insieme al padre, la patria era là dove era stato timidamente salutato da due grandi occhi neri che lo osservavano dal molo, sotto il grande fazzoletto colorato che coprendo il capo scendeva sulle spalle. Nessuno dei racconti paterni poteva eguagliare lo splendore che la città offerse ai suoi occhi. Il sole del primo mattino non riusciva ancora a fugare la leggera nebbia che nascondeva alla vista l’acqua della laguna. Dalla nebbia emergevano pali neri di pece che sembravano indicare il percorso che la nave doveva seguire nell’avvicinarsi alla città. La nave stessa sembrava galleggiasse nell’aria non fosse stato per il lieve sciabordio dello scafo. Ed ecco che agli occhi sgranati del ragazzo armeno apparve sulla sinistra, appoggiata sulla nuvola di nebbia, la Basilica di San Giorgio i cui marmi, abbacinati dai primi raggi di sole, ne restituivano la luce quasi a svelare l’ingresso al bacino di San Marco. Le voci, i comandi, i colori, i bagliori di nuovi marmi imponenti e leggeri sull’acqua che da quel momento travolsero gli occhi e i sensi tutti del giovane Scheriman non raggiunsero, però, nel suo cuore, l’intensità dell’emozione che lo aveva scosso all’apparire soprannaturale della bianca Basilica di San Giorgio, lievemente adagiata sulla nebbia della laguna. Seguì suo padre, frastornato; pur essendo ancora un ragazzo ne aveva già visti molti di porti e mercati. La sua stessa città, Nuova Giulfa, era un luogo di scambi e commerci: mercanti di tutte le razze, stoffe, spezie, manufatti preziosi venivano venduti e comprati in una babele di lingue e idiomi che si rincorrevano nelle strette vie, nelle piazze e nei fondachi dei mercanti. Ma nulla era paragonabile a Venezia. La piazza sulla quale si affacciava il palazzo del Doge e dove turbinavano 6


le vesti colorate delle donne e i vestiti maschili che con quelle gareggiavano in leziosità e ricercatezza era un ingresso oltre il quale la città si negava allo sguardo, chiudendosi nell’intrigo delle sue strette vie che improvvisamente si aprivano in piccole piazze e ponti che davano l’illusione di aver conquistato lo spazio aperto per precipitare poi nuovamente nell’occluso viluppo di calli e canali. Suo padre, che già conosceva Venezia e bene si era immaginato le impressioni che questa avrebbe eccitato nella testa fantasiosa di suo figlio, lasciava che il ragazzo si godesse la sorpresa e la meraviglia. Camminava adagio, seguito dal figlio e dal servo che portava il baule con le vesti e quant’altro sarebbe loro servito nel soggiorno veneziano. Non aveva con sé merci ma lettere di presentazione e alcune pezzature di un tessuto estremamente pregiato giunto a Nuova Giulfa con le carovane provenienti dall’estremo oriente, particolarmente adatto, così riteneva, al gusto raffinato delle donne veneziane. Furono giorni di emozione e stupore che lasciarono nel cuore del ragazzo immagini che avrebbe per sempre portato con sé. Questi ricordi di anni ormai lontani affollavano gli occhi ancor più che la mente di Scheriman mentre attendeva nel buio, all’ingresso del suo magazzino appena nascosto dalla cortina umida che saliva da quei fossi che, similmente a Venezia, solcavano gran parte della città di Livorno. Proprio questo porto aperto sul mare dinanzi alle isole del Tirreno, dove era giunto con l’intento di stabilirsi solo per alcuni anni, era diventata nel tempo della vita la sua città, cui adesso era legato da ricordi a volte sereni, per lo più dolorosi, qui aveva costruito la sua fortuna e aveva sofferta la più cocente delle amarezze. La sua vita sembrava rispecchiare il carattere di Livorno. I Medici avevano creato dal nulla una città dalla perfetta e misteriosa forma geometrica pentagonale e da quel piccolo 7


borgo fortificato che era ancora sul finire del secolo precedente si era sviluppata una città in continua espansione al seguito delle crescenti fortune del suo porto, moderna nell’impianto viario, provvista di pubbliche fontane e di fognature, di case salubri in muratura (belle in particolare quelle che si affacciavano sulla via Ferdinanda, le cui facciate erano ornate di affreschi e graffiti che rappresentavano le imprese dei Cavalieri di Santo Stefano). Infine il 19 marzo 1606 Ferdinando aveva concesso il titolo di Città a una Livorno che superava ormai i tremila abitanti e veniva definita dal Granduca «la pupilla dell’occhio del dominio». Immaginata la città e avviatane la realizzazione bisognava immaginarne la popolazione: «A tutti voi, mercanti di qualsivoglia nazione, Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, mori, Armeni, Persiani e altri concediamo reale, libero, amplissimo salvacondotto e libera facoltà e licenza che possiate venire, stare, trafficare, passare e abitare con le famiglie e negoziare nella città di Livorno…», così proclamava Ferdinando I, granduca di Toscana. E così fu. I mercanti di qualsivoglia nazione popolarono la città e giunsero artigiani forestieri, in particolare vennero invitati a Livorno e favoriti nel loro insediamento manifattori di sartie, calafati, maestri d’ascia, muratori, fabbri, scalpellini, pescatori e marinai. E poi avventurieri di ogni razza, perseguiti dalla legge nei loro Stati di origine, vi trovarono rifugio e libertà. Una città, dunque, dall’architettura ordinata e rigorosa all’interno della quale ribolliva una mescolanza turbolenta di genti e di passioni. Così come la sua vita, veniva pensando Scheriman, ordinata e meticolosa all’apparenza, un florido commercio, un’abitazione prestigiosa, ma quanto dolore e quanta turbolenza aveva agitato e ancora agitava il suo cuore. Un figlio, l’unico, oramai perduto e l’incapacità della moglie, che pur amava, di dargliene altri. A che scopo, si tormentava, aveva creato 8


ricchezza e prosperità per una famiglia sterile? A che scopo, se tutto sarebbe finito con la sua morte? Era l’ora, il lieve rumore dei remi nell’acqua segnalò a Scheriman la barca in arrivo prima che riuscisse a distinguerla nel buio di quella notte senza luna, l’oscurità del canale proteggeva l’equipaggio della scialuppa. Un fioco lume all’ingresso del portone che dava accesso ai magazzini dell’armeno segnalò al timoniere il punto di accosto. Tutto si svolse rapidamente e in silenzio. Una figura minuta protetta dal mantello e dal cappuccio, saltò agilmente sul pontile d’approdo e mentre Scheriman lo spingeva bruscamente oltre il portone la barca proseguì la voga senza quasi fermarsi. Non ci furono parole, il sotterraneo era illuminato da alcune fiaccole, il cappuccio del nuovo arrivato calato sugli occhi gli impediva di vedere il percorso e solo la guida della mano di Scheriman stretta sul braccio gli impediva di urtare ostacoli o scivolare sul pavimento umido. Salirono una scala piuttosto agevole, Scheriman armeggiò per aprire la serratura di una porta con una pesante chiave, ancora qualche passo in un ambiente più caldo ma pur sempre buio, ancora una porta e infine la luce di una stanza. L’armeno soffiò fuori rumorosamente tutto il fiato che sembrava avesse trattenuto fino a quel momento, sin da quando aveva ricevuto l’ospite dalle mani dei barcaioli. Si tolse la pesante cappa e chiamò ad alta voce la moglie: «Anush, vieni, presto». Si accorse di stare stringendo con forza il braccio della figura imbacuccata nel mantello che, accanto a lui, non aveva più mosso un passo né pronunciata parola. Anush entrò nella stanza richiudendo in fretta la porta dietro di sé. Rimase impietrita guardando alternativamente il marito e l’altro, pallida. La stanza disadorna, fatta eccezione per due grandi armadi di legno scuro e una cassapanca che poggiava su piedi di 9


leone, era illuminata debolmente da due lampade che ardevano conferendo l’illusione del movimento alle ombre delle tre persone immobili. «Non so che lingua parla, togligli il mantello». Anush si avvicinò a quella cappa nera che sembrava vivere di vita propria piuttosto che ricoprire un essere umano, allungò il braccio per scoprire il capo dal cappuccio, ma la figura si ritrasse: «Parlo la vostra lingua» e due mani, gettando indietro il cappuccio, scoprirono il volto di un ragazzo o meglio di un bambino. Anush lasciò ricadere il braccio ancora alzato nel gesto appena accennato, guardò quel viso riconoscendovi quello della persona tanto amata, gli occhi le si riempirono di lacrime, cadde in ginocchio e prese una mano del bimbo appoggiandosela al volto. «Alzati, che stai facendo?» Scheriman si rivolse bruscamente alla moglie. «Bene, tu parli la nostra lingua, così sarà più facile intendersi. Anush, le serve si sono ritirate?». «Ho dato l’ordine poco fa, e nessuno è in giro per la casa». «Bene, proseguiamo. E tu, stai dietro di me». Il ragazzo obbedì seguendolo, subito dinanzi ad Anush. La piccola processione si inoltrò tra le stanze del palazzo dove la servitù aveva già provveduto a soffocare il fuoco delle candele e a smorzare le lampade. Scheriman procedeva, senza accorgersene, con la stessa cautela che avrebbe usato un ladro introdottosi di soppiatto nella casa. Finalmente, aperta un’ultima porta, emersero dall’oscurità in una stanza illuminata da quattro grandi candelieri. Era la stanza dalla quale Scheriman dirigeva i suoi affari, dove teneva i libri contabili e, negli armadi con la blindatura in ferro, il denaro e i documenti più importanti, una stanza severa con un tavolo su quale era ordinatamente disposto l’occorrente per scrivere e far di conto. Dietro quel tavolo si sedette l’armeno: «Togliti la cappa e siediti». 10


Il ragazzo si tolse il pesante mantello rivelando un fisico gracile e nervoso, appena coperto da una corta tunica di tela grezza stretta in vita da una cintura di cuoio e da larghi pantaloni infilati negli stivaletti. Gli attraversava il petto la tracolla di un tascapane. Sedendosi tolse dalla borsa un libro rilegato in spesso cuoio che porse, senza una parola, a Scheriman. L’armeno lo guardò incuriosito: era una Bibbia, indubbiamente un oggetto molto costoso. Guardò il ragazzo, in un silenzioso interrogativo. «Sotto la rilegatura» rispose. Gli occhi del ragazzo gli ricordavano quelli della persona a lui così cara: questi erano cupamente azzurri, probabilmente gli occhi della madre, gli altri, quelli che ricordava come se li avesse dinanzi, erano bruni e vivaci, ma entrambi inquieti e fieri non si abbassavano a fronte dell’altrui sguardo insistente. Scheriman indugiò, quasi dispiaciuto a dover manomettere un oggetto così bello, poi, con la punta dello stiletto da tavolo incise la pelle e la tagliò lungo il bordo anteriore. Si spiegò l’importanza e la voluminosità della rilegatura. Molti fogli avvolgevano la Bibbia dal frontespizio anteriore alla parte posteriore. Per estrarli fu costretto a incidere e tagliare anche questa. Erano fogli consistenti ma molto più fini di quelli comunemente in uso, così fini non li aveva mai visti, dovevano essere, pensò, di una manifattura molto particolare, su nel Nord. Anush sedette, era pallidissima, non parlò, il nodo alla gola le impediva qualsiasi parola, le toglieva il respiro. Padre, adorata Madre – Anush piangeva silenziosamente – se leggerete questa mia lettera significherà che Hagan è arrivato ed è salvo. Non avevo voluto rivelare la sua identità alla persona tramite la quale vi avevo preannunciato il suo arrivo. Come avrete intuito Hagan è mio figlio, il figlio che ho voluto salvare dall’orrendo massacro che si sta perpetrando qui nelle Fiandre. Non so se quando leggerete queste parole io sarò ancora 11


vivo. Se lo sarò, se resterò ancora tempo sufficiente in questa valle di lacrime, tenterò di fare avere mie notizie a Voi e a Hagan. Solo adesso, mentre vi scrivo, mentre sto per abbandonare mio figlio consegnandolo in mani amiche ma estranee, solo adesso immagino il vostro sgomento, il dolore della mia cara madre in quel lontano giorno allorché, come un ladro, lasciai nottetempo e furtivamente la casa che mi aveva visto nascere, la madre che mi aveva nutrito del suo latte, il padre che in me aveva riposto le sue speranze per l’avvenire. Mi sono pentito? Non so. Immagino quanto queste ultime parole incidano il vostro cuore, quanto risveglino, se mai si è sopito, il Vostro risentimento, padre mio. Sono fuggito perché volevo vedere il mondo, so che anche Voi, padre, mi avreste consentito di viaggiare e conoscere. Gli interessi del vostro commercio avrebbero avuto bisogno di un referente in paesi lontani, ma io non volevo vivere tra carte e calamai per far di conto, non volevo pesare caffè e grano, al profumo delle spezie preferivo quello dell’avventura e della vita. Non sapevo, allora, quanto spesso questo si confonda con l’odore della morte. Come avrete in seguito saputo, lasciati i miei abiti, indossai quelli del figlio della serva, non voleva, ma lo costrinsi minacciandolo di chissà quali ritorsioni, spero che per questo non sia stato punito. Ormai molti anni sono trascorsi da quella notte, avevo sedici anni, adesso quasi trenta, anche se ho cessato di contare gli anni così come i compagni morti e le ferite di cui il mio corpo porta cicatrici non rimarginate nel cuore. Scheriman interruppe la lettura ripiegando ordinatamente i fogli e chiudendoli nel segreto del tavolo, Anush lo interrogò con lo sguardo, avrebbe voluto continuare ad ascoltare le parole del figlio, la sua voce, quella voce che mai in questi anni aveva abbandonato i suoi sogni notturni e che ora le sembrava scaturisse, viva, da quella lettera. 12


indice

3

L’ospite

17

Fuga

33

Hagan

44

Fango e sangue

64

Venezia

78

Tradimento

82

L’inquisitore

99

Peste

108

L’agguato

122

Nairi

138

Terremoto

147

Padre e figlia

154

La festa

158

Guerra sul mare

174

L’accusa

176

Phoenix

197

L’addio


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