Rivoluzione

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Rivoluzione

Massimo Ghelardi

romanzo


Dello stesso autore Il mercante armeno


Massimo Ghelardi

Rivoluzione Romanzo

SocietĂ

Editrice Fiorentina


© 2012 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it blog www.seflog.net/blog facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account www.twitter.com/sefeditrice isbn 978-88-6032-225-8 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Studio Grafico Norfini (Firenze)


A Mirella che prese per mano Massimo a Enrico, giovane anarchico, nel 1972 a Enrica, custode di affetti e memorie



Rivoluzione



prologo

Pisa, anno 1972 Venne il cattivo tempo, la pioggia inzuppava gli eskimo. Nell’aula magna della Sapienza l’aria impregnata di panni bagnati e fumo di sigarette ottundeva le voci dei capannelli che ascoltavano distrattamente l’analisi politica che il compagno di Avanguardia Operaia elargiva all’assemblea. In attesa dell’intervento di Lotta Continua che avrebbe infiammato la platea con pochi slogan di immediata presa, i ragazzi più giovani, inebriati dall’aria greve, dalle luci degli austeri lampadari offuscate dal fumo, dalla parola “rivoluzione” che ricorreva nei lunghi estenuanti interventi, respiravano l’odore delle compagne, in un turbine di sensazioni e sconvolgimenti che facevano loro invidiare, detestare e adorare i capi, ai quali soli, sembrava, fosse riservato il privilegio del libero amore. Si maceravano nella tempesta provocata dal contatto con corpi femminili, con lunghi capelli sfiorati e annusati, tornavano a casa la sera pieni di parole, desideri, di voglia di rivoluzione, di voglia di scopare, portandosi dentro il fumo, le luci, gli odori, il chiasso dell’assemblea appena conclusa, l’impazienza esasperante di confondersi di nuovo, l’indomani, nella calca che precede il corteo per esplodere nell’urlo degli slogan. Venne il cattivo tempo, a Pisa la pioggia di novembre rendeva lucidi e scuri i mattoni delle spallette dei lungarni; le sedi della rivoluzione, sparse nelle vecchie strade del centro, accoglievano compagni che si alternavano al ciclostile. Sui volantini sigle diverse: Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Federazione anarchica, Lega dei Comunisti, Circolo Carlo Marx, Servire il Popolo. 3


Si avvicinava il 12 dicembre del 1970, primo anniversario della strage alla Banca dell’Agricoltura. In ogni città si organizzavano manifestazioni e ci si preparava agli scontri con la polizia. Per Bruno ed Emanuele erano straordinarie le sensazioni che tumultuavano nell’animo durante le ore antecedenti alla manifestazione: la paura, l’orgoglio di esserci, la voglia di partecipare allo scontro con la polizia, tanto temuto quanto desiderato, e tutto questo esaltato dal loro essere anarchici, dal sentirsi depositari di un ideale e non di un’ideologia. Sembrava straordinario quello stringersi del cuore, quella scarica di adrenalina che scorreva nel sangue passando dinanzi alla caserma della Polizia, in via S. Francesco, nel vedere le camionette che si riempivano di agenti, che preparavano elmetti e scudi e poi, più avanti, in via Cavour, la caserma dei carabinieri, altre camionette e i moschetti. Ci passavano davanti per raggiungere il luogo di concentramento del corteo, oltre l’Arno, ci passavano davanti per godere di quella tempesta nel cuore. Aveva diciassette anni Bruno e quindici Emanuele. Amavano i loro genitori, borghesi e moderati, con quello strano, contradditorio sentimento che a quel tempo ispirò una scritta comparsa sui muri dei licei: «voglio essere orfano». I sentimenti si accavallavano, li esaltavano e turbavano allo stesso tempo, accrescendo la voglia di partecipare a un’epoca straordinaria della vita e della futura rivoluzione. La manifestazione si concluse senza incidenti. La sera il ritrovarsi a casa di altri compagni finì di sciogliere la tensione in lunghe discussioni. Altre assemblee, altre manifestazioni. A Pisa passava il tempo e la loro vita. In Italia molto sangue veniva versato nelle strade e forse alimentava alcuni dubbi, sempre respinti, però, giù nel profondo, quasi con vergogna. La scelta politica era talmente legata al gruppo di amici che era impensabile poterla porre in 4


discussione senza dover abbandonare quella che a diciotto anni è la vita, la sicurezza la passione: l’amicizia, appunto. Cambiare, pensare diversamente da come fino a un certo punto si è pensato e si è dimostrato di pensare, significava tradire e dover rinunciare agli amici con i quali si stava crescendo. Impossibile solo a pensarci, ed ecco, quindi, per soffocare i dubbi, l’inasprirsi delle idee e degli atteggiamenti. E poi tornò il bel tempo, la primavera dell’anno 1972, ben poco era mutato nella vita quotidiana del movimento a Pisa. Ben poco era cambiato nella vita di Bruno ed Emanuele. Giocavano con il sole e con la loro età. In quell’anno il gruppo anarchico Pinelli era cresciuto, la sede della Federazione anarchica si trovava in via S. Martino, nelle grandi soffitte di un antico palazzo. Nella sala più grande, arredata con alcune file di poltrone da cinema, tra bandiere rossonere, ne spiccava una, grandissima, completamente nera e un ritratto di Pietro Gori. Il gruppo era formato prevalentemente da studenti delle scuole superiori. L’anarchismo che li aveva affascinati viveva nei libri di Malatesta, negli scritti e nelle poesie di Pietro Gori, nelle figure dei vecchi compagni, Nilo e Foresto. A quest’ultimo, in particolare, erano tutti molto legati. Una persona semplice, quasi paterna, che dell’ideale viveva l’aspetto umanitario, e la fierezza di una storia sconfitta ma bella. Giorni convulsi di fine di aprile del 1972; per il 5 maggio era previsto un comizio di Niccolai, esponente del Msi, a chiusura della campagna elettorale. Sui muri della città Lotta Continua affisse centinaia di manifesti e un unico grande slogan, «cascasse il mondo sulla città niccolai non parlerà». In città la tensione era grande e percepibile, dinanzi alle scuole il volantinaggio ininterrotto, si susseguivano le assemblee. Tutti erano consapevoli che sarebbero arrivati allo scontro con la polizia. Il comizio era stato confermato: si sarebbe svolto in Largo Ciro Menotti. In pieno centro della città. Lotta Continua e tutti i gruppi rivoluzionari vivevano questa concessione come una provocazione. 5


Bruno ed Emanuele, la sera, spenta la luce, ognuno nel proprio letto, testa a testa separati dal mobiletto divisorio, ne parlavano. Rivoluzione, anarchia, comunismo, Marx e Bakunin, parole e nomi sui quali si spendevano emozioni e vite. La rivoluzione: sembrava di esserci dentro quel giorno sul Ponte di Mezzo. Arrivò il corteo, giù da Corso Italia, tra le bandiere rosse spiccavano le poche bandiere nere degli anarchici. Dinanzi, oltre il ponte, piazza Garibaldi era presidiata dai poliziotti. La Celere con i tascapane gonfi e i gipponi. I carabinieri sui lungarni di tramontana. Il ponte era un lembo di terra tra due grandi eccitate paure. Di là dall’Arno: i celerini, gli elmetti, le celate calate sul volto, mani strette sui manganelli, volti tesi. Dall’altra parte del ponte: il corteo, la rivolta, Lotta Continua in testa e poi gli altri gruppi ognuno con le proprie bandiere sui corti bastoni da scontro. Si alzò il coro dell’Internazionale, cantavano Bruno ed Emanuele e sembrava un’avventura: il canto metteva i brividi e la voglia di guerra. E poi di nuovo gli slogan gridati. Il sole si abbassava sul fiume e il ponte era un lembo di terra tra sogni diversi. I due ragazzi non conoscevo i sogni degli elmetti schierati contro, esistevano solo i loro, quelli che salivano nel canto comune che animava i cuori dei poeti violenti della nuova storia. Dinanzi, il silenzio degli scudi e delle celate travestiva e nascondeva i sogni dei ragazzi in divisa che Pasolini aveva difeso e cantato a Valle Giulia. Alle prime cariche della Polizia il corteo sbandò, si sciolse, si frantumò in gruppi diversi, i gruppi organizzati e preparati alla battaglia. La Polizia caricava in Corso Italia mentre i dimostranti si dividevano e fuggivano in via La Nunziatina e piazza La Pera. 6


Il Lungarno fu interrotto da una barricata formata dalle auto lasciate in sosta. Terminate le molotov già preparate prima degli scontri, altre ne vennero predisposte prelevando la benzina dalle auto. Gli scontri si svolsero durissimi, a lungo, finché gli agenti non dispersero le ultime resistenze e superarono l’ostacolo della barricata dilagando in Lungarno. Un anarchico, Franco Serantini, fu catturato e picchiato. Portato in carcere morì nella notte del 6 maggio 1972. Non cascò il mondo sulla città. Non cascò il mondo sulla città ma Franco perse la vita, i sogni, la gioventù, il suo futuro.

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bandiere nere – bandiere rosse

Livorno-Genova, 1892 «Sovare, porta gli zerri a tuo padre e poi torna subito a casa». Sovare, una semplificazione familiare di Souvarine, era il primo nome di Gino. Suo padre, lettore appassionato del Germinale di Zola, così aveva iscritto il neonato all’anagrafe, imponendolo, contro la volontà della moglie Maria, a ricordo del minatore anarchico, protagonista maledetto del romanzo. Per accontentarla avevano scelto Gino come secondo nome. Così, secondo le circostanze, il figlio veniva indifferentemente chiamato Souvarine o Gino Non era felice quando la mamma lo incaricava di portare qualche pietanza al babbo. Spesso erano zerri, pesci della dimensione poco più grande dell’acciuga, fritti e conservati sotto pesto, aglio e aceto. Ogni volta che suo padre, Ferruccio Gualandi, si tratteneva all’osteria Vita Nova con i compagni, Sovare doveva portargli un piccolo tegame con la cena. Il Circolo anarchico era composto da due stanze, ambedue con il soffitto a volta. Nella prima, lunga e stretta, trovavano posto un banco in pietra e un grande lavandino. All’estremità del banco era posizionata una damigiana dalla quale i compagni mescevano il vino nei boccali. Alle pareti, fiocamente illuminate da lampade a petrolio, erano appese copie dei giornali rivoluzionari e disegni a carboncino di rivolte popolari, frutto della fantasia o delle interpretazioni di vicende reali di un pittore, dotato e misero, che trovava a Vita Nova apprezzamento e un bicchiere di vino. La seconda stanza, più ampia, era attrezzata con alcuni tavoli, panche e un lungo banco in legno scuro quasi addossato alla parete opposta a quella d’ingresso, dietro trovavano 8


posto tre sedie e, distesa sulla stessa parete, lunga quanto il banco stesso, la bandiera anarchica, nera orlata di rosso. Ferruccio era tornato da Genova dove anarchici e socialisti aveva definito le proprie posizioni e constatato l’incompatibilità di una comune organizzazione. Mentre il secolo stava vivendo i suoi ultimi anni, il movimento operaio italiano aveva riunito i delegati delle organizzazioni socialiste e anarchiche e, a Genova, consumò la prima scissione della sua lunga storia. Un’assemblea tesa, nervosa, nella quale i delegati di socialisti e anarchici si erano scontrati tra invettive e proteste senza riuscire, per molte ore, a dare un senso allo scontro che si stava consumando: dopo anni di lotte comuni e di violente dispute, per le due anime del movimento operaio era giunto il momento di prendere definitivamente atto che le strade si dividevano irrimediabilmente. «Il congresso senza Malatesta è un’assurdità». Ferruccio parlava ad alta voce per farsi sentire dal compagno vicino, tanto era il frastuono per le grida e i fischi che accompagnavano le parole degli oratori socialisti o anarchici. «Turati vuole la scissione, vogliono un partito riformista, vogliono tradire il popolo e la rivoluzione. Sono giunti preparati e determinati, mentre noi…». L’assenza di Errico Malatesta era avvertita da molti anarchici con angoscia. Era lui che si era opposto con decisione alla svolta riformista di Costa, sacrificando, con l’intransigenza della sua militanza segnata dalle galere di mezzo mondo, la storia di una lunga amicizia, rotta non appena il socialista aveva accettato il mandato parlamentare e prestato quel giuramento nelle mani del re che suonava come una bestemmia al cospetto del popolo. Quell’amicizia, temprata nel fuoco delle battaglie comuni, non aveva trovato più ossigeno vitale nelle ceneri del compromesso con la borghesia. Ma se Malatesta, fuggitivo in Svizzera, inseguito da un mandato di cattura, era assente, non mancavano certo esponenti di rilievo dell’anarchismo. 9


Pietro Gori, avvocato, poeta, oratore trascinante, combattente dell’ideale e per questo esule in Europa e nelle Americhe, era riuscito a rientrare in Italia e poteva tener testa ai socialisti Prampolini e Turati. Genova proletaria che digradava di caruggio in caruggio verso il mare, cercando l’aria libera e pulita che potesse disperdere il puzzo dei vicoli, sapeva, aspettava, ospitava quegli uomini, quelle pagliette e quei berretti flosci che a stento facevano ombra a sguardi di fuoco, quei fiocchi neri annodati spavaldi a camicie senza colletto. Genova proletaria li proteggeva. In quei caruggi, in cui l’odore delle reti dei pescatori si mescolava a quello delle stanze umide e malsane che non trovavano aria sufficiente a dare fiato e respiro a lenzuola e maglie sudate, in molti si aspettavano che quegli uomini generosi, quei delegati delle associazioni di mutuo soccorso, dell’Internazionale, delle leghe socialiste e degli anarchici, quegli uomini che tutti insieme contavano centinaia d’anni di carcere o di esilio, potessero trovare, nel greve agosto, il soffio potente del vento di maestrale a cacciare dai vicoli il puzzo della miseria: il soffio potente della rivoluzione sociale. Ma così non fu. Il movimento operaio si divise e il giorno successivo socialisti e anarchici proseguirono, divisi e in luoghi diversi, i loro congressi. Pietro Gori, politico intelligente ma soprattutto poeta uso a percepire i sentimenti del cuore, aveva ben chiaro che la scissione appena consumata con i socialisti aveva creato perplessità, delusione, sgomento nell’animo di molti delegati anarchici. «Compagni, fratelli, è accaduto quanto non avremmo mai voluto che accadesse. Conosco la vostra amarezza perché è la mia stessa amarezza. Molti di coloro che hanno abbandonato questa sala erano nostri amici fraterni, compagni di battaglie e di galera, li abbiamo conosciuti uno a uno come uomini coraggiosi. Forse 10


saremo nuovamente insieme nel prossimo futuro sulle barricate della libertà. Forse. L’abbandono da parte loro della lotta intransigente per l’uguaglianza sociale ha lasciato sgomenti i vostri, i nostri animi, ma dobbiamo riconoscere che quanto avvenuto ieri ha fatto chiarezza e sarà faro di azione nel tempo futuro. Loro chiedono il voto, loro accettano di sedere in quel parlamento ove siedono i nemici del popolo, loro credono che nel parlamento si possa agire in nome del popolo. Bando agli inganni, ai giochi di parole, non sarà il parlamento della borghesia oggi o dei socialisti domani quello che darà giustizia, emancipazione, uguaglianza. La via del voto è una falsa strada. Non vogliamo elemosina, non vogliamo le briciole del banchetto borghese. Noi vogliamo un mondo libero per tutti, un mondo di eguali e questo si ottiene solo con la rivoluzione sociale. Viva la rivoluzione, viva l’anarchia!». Tutti, nessuno escluso, parteciparono all’ovazione. Pietro Gori aveva letto nel loro animo e aveva detto le parole che ciascuno aspettava. Il congresso riprese vigore, seguirono altri interventi. Molti anarchici avevano bisogno di parlare, avevano bisogno di riaffermare la propria fede per cacciare dai cuori ogni nero presagio. Ma se riuscirono a rassicurare se stessi, la scissione pose il seme della sconfitta. Ferruccio aveva partecipato al congresso ed era tornato a Livorno amareggiato e fiero nello stesso tempo: i socialisti avevano scelto la collaborazione con la borghesia, ma gli anarchici no! Loro avrebbero continuato la battaglia in nome dei proletari d’Italia e del mondo. Quella sera Ferruccio avrebbe esposto ai compagni di Livorno gli esiti del congresso. «Vieni Sovare» accolse il figlio con uno scappellotto «mettiti a sedere con noi». 11


Gli tolse il piatto dalle mani e prese un pesce, invitando con un gesto gli altri a servirsi. «Ha detto mamma che devo tornare subito a casa». «Dai siediti che nessuno ti mangia» «Babbo, è buio». «E tu hai paura del buio? Non c’è niente nel buio. O forse hai paura di quel diavolo con cui ti riempie la testa tua madre. Diavoli e preti; accidenti a lei! Li vedi questi uomini? Loro sono i diavoli, guarda le mani. Lo vedi? Sono nere. Sono nere perché hanno spalato carbone all’inferno. Sono i diavoli nelle cui mani brucia il fuoco della rivoluzione sociale. Anche il tuo nome è nero, Souvarine, è il nero e il buio della miniera da cui scaturirà la luce della libertà». Ferruccio parlava serio e feroce. Gino lo guardava impaurito.

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indice

3 Prologo

8

13 Carabinieri

Bandiere nere – Bandiere rosse

15

Giuseppe Bandi

23

Il pugnale

25 Sangue

27

30 Sciopero

La fuga

37 Margherita

48

54 Volontario

Casa Sarfatti

59

In trincea

63

Il ritorno

71 Mussolini

77

83 Loredana

89

Battaglia in cittĂ Una famiglia per Gino

Fasci di combattimento

96

101 Guerra

108 Vittorio

122

Il notaio Degortes

127

Servizio segreto

134

Missione in Corsica

143

Bruno e Vittorio


149

167 Bombardamento

Il segreto di Cardona

173 O.V.R.A.

185

Fuga a Cagliari

189

Carabinieri: arrestate Mussolini

197

Rosaria Figuera

202

Due spari nella villa Viaggio di notte

207

214 Bruno

219

228 Armistizio

234

237 Epilogo

Cardona è salvo Livorno è libera


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