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Stefano Giovannuzzi
La persistenza della lirica Stefano Giovannuzzi
saggi qui riuniti toccano Pavese, Sereni, Ungaretti, Gatto, Bertolucci, Fortini, Amelia Rosselli, Pasolini e documentano nel secondo Novecento una linea che non coincide con la nozione di poesia che si ibrida con la prosa abbassandosi inesorabilmente di tono. Nel dopoguerra, come dimostra Fortini (ma lo stesso vale per Pasolini o per Sereni), molto spesso la radice della poesia seguita ad essere legata all’esperienza degli anni Trenta, ad uno statuto lirico, se non espressamente all’ermetismo. Questo vale ancora per Amelia Rosselli, che, senza soluzione di continuità, nella Libellula come in Documento, concepisce la poesia in termini di assoluto e sublime: e proprio negli stessi anni in cui il Gruppo 63 sta segnando la vera brusca rottura rispetto ai modi tradizionali. Non è di poco conto – ben oltre gli anni Settanta – che, come estrema reazione di difesa di fronte alla crisi in atto, la strada intrapresa da non pochi poeti – Solmi come Fortini e Sereni, Giudici, ad esempio – sia quella del lutto e della rappresentazione di sé come ormai postumi, ridefinendo la strategia lirica come estraneità al mondo e alla storia. Non si tratta di risorgenze episodiche, bensì di una estesa fenomenologia che consente di rileggere in modo più complesso, secondo una pluralità di linee, la stagione posteriore agli anni Cinquanta, ancora poco storicizzata e spesso indagata col ricorso a categorie critiche elaborate all’interno degli stessi movimenti.
La poesia italiana nel secondo Novecento da Pavese a Pasolini
Stefano Giovannuzzi è ricercatore di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Torino. Ha lavorato sulla letteratura delle Origini (Dante e Boccaccio), ma soprattutto fra Otto (Leopardi, Manzoni, De Sanctis) e Novecento. Si è occupato di Dino Campana, di cui ha ripubblicato Il più lungo giorno (2004 e 2012), e di letteratura primonovecentesca (d’Annunzio, Boine, Tozzi, Soffici); ha scritto soprattutto saggi e interventi sulla poesia contemporanea, e in particolare sul secondo Novecento (Bertolucci, Pavese, Montale, Gatto, Sereni, Pasolini, Caproni, Penna, Rosselli). È il curatore del «Meridiano» L’opera poetica di Amelia Rosselli.
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La persistenza della lirica
studi 6
studi 6
Stefano Giovannuzzi
La persistenza della lirica La poesia italiana nel secondo Novecento da Pavese a Pasolini
SocietĂ
Editrice Fiorentina
Stampato con il contributo del Dipartimento di Scienze Letterarie e Filologiche - Università di Torino
© 2012 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-208-1 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
Indice
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La persistenza della lirica: per una rilettura forte del secondo Novecento
Nel territorio instabile fra poesia e prosa
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Pavese, prosa e poesia
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La «poesia in prosa» di Feria d’agosto
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Sereni dalla prosa agli Immediati dintorni
Inseguendo la continuità dell’opera 69 Ungaretti: Ragioni di una poesia
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Alfonso Gatto dopo la guerra: un controverso ritorno alla lirica Bertolucci tra “camera” e “anti-camera”
La lirica come condizione postuma
123
Sereni fra Gli strumenti umani e Stella variabile: la condizione postuma della poesia
141
Fortini: lirica versus storia
Rosselli, Pasolini e gli anni Sessanta
155
Campana, Montale e gli altri: La Libellula di Amelia Rosselli
179
Gli infelici nodi della gola: Pier Paolo Pasolini e Amelia Rosselli
199
Pasolini, la poesia e la modernitĂ
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Indice dei nomi
La persistenza della lirica: per una rilettura forte del secondo Novecento
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono
1. Scrive Fortini nei Poeti del Novecento: Secondo un luogo comune a molta critica degli anni Cinquanta, la lacerazione inferta alla società italiana dalla guerra fascista e da quella civile avrebbe indotto mutamenti più nei contenuti e nella tematica della poesia e della letteratura che nelle sue forme. Quasi dieci anni dopo la fine della guerra vigevano ancora, è stato detto, gli schemi ritmici e le scelte lessicali che si erano venuti costituendo nel corso degli anni Trenta1.
Quella di Fortini è, evidentemente, una posizione militante, che rifiuta ogni forma di continuità con il passato dopo la «lacerazione» della guerra, liquidandola come un «luogo comune». I poeti del Novecento retrodata la presa di coscienza di una rottura “formale” a prima del conflitto: I poeti non avevano atteso il 1945 per riconoscere una realtà di catastrofe. Ed è anche possibile identificare, nel periodo 1938-43, testi poetici, che, rifacendosi a modelli del l’espressionismo vociano […] o, più in generale, a una linea antiermetica, si ponevano in opposizione al gusto dominante […]2.
Non c’è dubbio che una crisi, o meglio un esaurimento, dei modi poetici fissati negli anni Trenta affiori già verso la fine del decennio, per quanto paia difficile ricavarne una direzione di marcia netta e univoca. Lo stesso Fortini di Foglio di via documenta la difficoltà di piegare codici lirici ed ermetici, persistenti, a una poesia di intento civile. Persino il modello che Fortini indica per attaccare il discorso sul dopoguerra, Pavese, si caratterizza, proprio in quegli anni per una intensificazione dei tratti della poeticità – non necessariamente
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Franco Fortini, I poeti del Novecento, Roma-Napoli, Laterza, 1977, p. 119. Ivi, pp. 119-120.
viii la peristenza della lirica: per una rilettura del secondo novecento
lirici –; persino quando scrive in prosa il suo codice di riferimento continua a essere quello poetico. Pavese, con i suoi «poemetti narrativi-descrittivi»3, torna spesso comodo quando si è a caccia di una linea antiermetica; non è un ermetico, certo, e nondimeno proprio negli anni Trenta la sua lingua poetica va incontro a un lavoro di formalizzazione per niente diverso da quello che spinge l’ermetismo a cristallizzarsi in una grammatica della poesia. Il processo è talmente profondo che anche l’ultimo romanzo, La luna e i falò, mantiene in funzione i moduli ritmici di Lavorare stanca. Pavese rimane all’interno di una strategia di ricerca per cui la prosa – per quanto in modo controverso – si muove nell’orbita della poesia, e non viceversa. Si tratta di un paradigma diffuso – basti pensare del resto a come lo teorizza Solmi fin dagli anni Venti –, che entra in crisi in Montale e Sereni nel secondo dopoguerra, ma tuttavia ben attivo. Quello di Pavese è solo uno dei casi di come la lettura corrente seguiti ad accentuare gli strappi, sottovalutando che le direttrici di forza – una di queste è la lirica – sono altre. E che le periodizzazioni della storia civile non coincidono affatto, o non necessariamente, con i movimenti di lungo periodo della letteratura. Della poesia, in particolare. Per quanto assumendo prospettive diverse, i saggi qui riuniti ruotano intorno all’idea che fra gli anni Trenta e – grossomodo – il ventennio che segue la guerra non si registri una vera discontinuità. Ungaretti come Gatto, Bertolucci, per fare esempi tra loro assai diversi, restano fondamentalmente ancorati alla necessità di trovare una sistemazione all’esperienza degli anni Trenta e intorno a essa ridefinire l’unità della loro opera. Il fatto che il ruolo della poesia possa essere percepito come problematico non significa per niente e, tantomeno automaticamente, la sua eclissi. In termini più generali, non si assiste ad un progressivo degrado che spinge la poesia verso la prosa, confinando liricità e sublime ai margini, e accentuando una discesa avviata – in Italia – con la rottura dei crepuscolari. Al contrario, se i crepuscolari sono inattivi come modello – malgrado la Neoavanguardia, non hanno mosso di un millimetro la poesia di questi anni –, l’asse lirico conserva invece una centralità formidabile. La lirica è la vera questione messa a tema nel secondo dopoguerra. Non coglie nel segno la linea – ribattuta ancora da Curi – che salda avanguardie storiche e neoavanguardia archiviando tutto il resto in parentesi: alla radice un’idea vittoriniana, di cui la Neovanguardia va debitrice, intrinsecamente militante. Se dal fronte ideologico ci spostiamo su quello dei fatti accertabili, è invece un fatto l’asse che si tende, attraverso gli anni Trenta, fra d’Annunzio e Pasolini. Così come lo è quello, storicamente senza interruzione, che da Campana si propaggina nella perfetta coincidenza fra poesia e tensione al sublime senza cui non è possibile immaginare il lavoro di Amelia Rosselli fra anni Cinquanta e Sessanta. Il punto di partenza dei saggi qui riuniti è un volume di ormai un decennio
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Ivi, p. 120.
la peristenza della lirica: per una rilettura del secondo novecento ix
fa, Tempo di raccontare (1999), di cui la ricerche condotte in questi anni sono ideale prosecuzione (e talora correzione). L’obiettivo non è però sostituire a una lettura dominante una opposta ma non meno ideologica; quanto mettere in luce la complessità storica dei fenomeni e l’impossibilità di procedere per epoche nettamente distinte e nello stesso tempo strategie perfettamente lineari, ignorando o livellando ogni forma di resistenza. Non si vede infatti perché per la seconda metà del Novecento italiano non possa costituire una base di lavoro importante quanto Berardinelli osserva a proposito di Celan e Bonnefoy: «Due lirici in piena regola e in grande stile sono stati per esempio Paul Celan e Yves Bonnefoy, per i quali la tradizione ermetica e simbolista sembra non essersi mai interrotta»4. Il contesto italiano è diverso; varierà dunque la declinazione locale, ma la questione della permanenza della lirica, e dei modi in cui questa permanenza si manifesta, sembra egualmente difficile da eludere. E in termini ampi, non secondo lo schema ristretto – Penna, Rosselli, Zanzotto – cui sembra inclinare Berardinelli. 2. Pensare che la guerra segni uno scarto rischia di semplificare molto l’immagine storica del dopoguerra, obbedendo a un impianto che storico non è. Specialmente per quanto riguarda la poesia, una discontinuità prende corpo in tempi molto più lunghi, e passando attraverso crisi ulteriori, considerato il ruolo e il prestigio che essa aveva ricoperto negli anni Venti e Trenta. Si legge nei quaderni di appunti di Debenedetti per il corso sulla poesia tenuto nel 1958-’59, a proposito di Onore del vero, di Luzi: […] un libro di versi, di rigorosa ispirazione e stampo ermetici, un libro che, per quanto vivo, per quanto uno dei più nobili libri di poesia di queste annate, avrebbe potuto uscire, salvo le mutate e approvate occasioni, negli anni del più denso e tenace arroccamento ermetico […]5.
Onore del vero vede la luce nel 1957: per una svolta oltre l’ermetismo bisogna attendere Nel magma, del 1963. Anche ammettendo l’eccezionalità di Luzi, la vischiosità dei modelli – in particolare di quello lirico – determina una fase di transizione che continua per anni, durante i quali più che il salto di qualità sembrano prevalere i modi per evitare che fra il prima e il dopo della guerra si apra una divergenza insanabile. Il che significa, per molti e non necessariamente i più anziani, evitare il pericolo di una falla identitaria che travolgerebbe allo stesso tempo la poesia e il poeta. Il caso di Solmi è illuminante. Negli stessi anni in cui Gatto e Quasimodo saltano il fossato della poesia civile (ma il primo per fare rapidamente marcia indietro con le Nuove poesie, appena varcata la soglia degli anni Cinquanta), Solmi – il cui impegno civile è
Alfonso Berardinelli, Poesia non poesia, Torino, Einaudi, 2008, p. 61. Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento. Quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1980, p. 17. 4 5
x la peristenza della lirica: per una rilettura del secondo novecento
fuori discussione – è invece visibilmente preoccupato di non mandare in stallo la sua macchina poetica. «La cappella rustica emergeva col suo colore di rosa calcinoso e sbiadito dal folto dei sambuchi, e due pini marittimi stenti le facevano guardia all’ingresso»: ad apertura, Meditazioni sullo Scorpione – siamo nel 1944-’456 – fa scattare il cortocircuito con la prima raccolta, Fine di stagione. Tanto più evidente nell’edizione in volume del 1972, dove le Meditazioni seguono subito a ridosso le Prose 1925-1928, ovvero una selezione delle prose liriche di Fine di stagione. La memoria e i paesaggi dell’adolescenza paiono annullare d’un balzo la guerra e gli anni Trenta per riattaccarsi alle origini, in una zona lirica, a volte ribassata dalla prosa, ma senza equivoci lirica, o di preparazione alla lirica. In ogni caso vicaria. Il presente e la storia – con la tragedia della guerra civile oltre che della guerra – entrano nel testo, ma solo al termine di un cauto processo di avvicinamento (e di contenimento), come manifestazione storica di un male cosmico che fissa la radice dell’essere. Grazie a Leopardi, fondamentalmente, l’oscuro groviglio privato di Fine di stagione si dilata in una struttura poetica e di pensiero che, mantenendo intatto il legame a ritroso con tutta l’opera di Solmi, spiega il presente tamponandolo nella sua cornice di rilettura mitica. Solmi riesce così ad arginare i danni di una frattura troppo esposta fra poesia e storia e a far transitare le sue matrici liriche nel secondo dopoguerra, rendendole ancora utilizzabili. Ma nel far questo – di nuovo grazie alla mediazione di Leopardi – ne accentua il carattere antagonistico, di opposizione intransigente alla storia e alla modernità, di non mediabilità: un tratto che si mantiene costante fino a Dal balcone, connotando l’intera ultima stagione solmiana. La sua è un’operazione da equilibrista che cerca di non cadere mantenendosi sospeso su due assi sempre più divaricate. Solmi non è però il solo a spingersi verso una posizione così rischiosa e paradossale, di conflitto e inattualità dell’assunto lirico. Con ben altri propositi ma con pari energia, come si vedrà, a cavallo fra anni Quaranta e Cinquanta Ungaretti si prefigge di cancellare la guerra, per riattaccarsi a un prima – la ricerca poetica che si sviluppa intorno a Sentimento del Tempo – quale unica fondazione integra su cui attestare una rinascita della poesia e progettare un’immagine di sé come uno dei capisaldi lirici del Novecento europeo. Il segno è dunque opposto rispetto a Solmi – in Ungaretti non c’è nessuna traccia di ritirata –, ma il punto di partenza resta il medesimo. L’atteggiamento dei due poeti, si potrà rilevare, sconta una risposta naturale, difensiva, reagendo all’insegna della continuità alla crisi culturale che si apre con gli anni Cinquanta e al senso di smarrimento / inadeguatezza rispetto ai cambiamenti in corso. Vittorini invece è uno scrittore che non ha mai fornicato con la poesia. Se però prendiamo Diario in pubblico, del 1957, scopriamo una propensione non molto diversa. La scansione per categorie ideo6 In «Lettere ed arti», ii, 4, aprile 1946, poi in Meditazioni sullo Scorpione e altre prose, Milano, Adelphi, 1972.
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logiche – dalla «Ragione letteraria», 1929-’36 a quella «civile», 1948-’56 –, ma sostanzialmente temporali, con cui riorganizza la scelta dei suoi saggi vuole indicare una linea ininterrotta e uno sviluppo coerente nella sua riflessione ormai trentennale: «Questo libro è stato scritto tra l’ottobre del 1929 e il maggio del 1957»7, scrive, senza perciò ignorare il lavoro di selezione e di sutura che salva alcuni dei pezzi scritti. A pochi anni dal dibattito su «Industria e letteratura», Vittorini ricapitola una vicenda che muove dalla «Ronda»: «Certo un debito noi abbiamo, impagabile: ed è verso la “Ronda” […]»8. Non è un’affermazione che lasci indifferenti. L’impresa del Diario in pubblico funziona, ma al prezzo, non proprio lieve, di cancellare quasi completamente la storia: il susseguirsi dei frammenti critici, dei «passaggi»9, decontestualizzati riconfigura l’assoluto della letteratura. Fortini ne coglie con acume, al solito, l’intrinseca ambivalenza: Diario in pubblico, titolo perfetto, fu l’ultimo gesto di scrittura italiana rivolto in quella direzione, dove si cercasse ancora equilibrio fra il narcisismo della letteratura che parla di se stesso e l’altruismo di un linguaggio che si vuole di relazione10.
E subito dopo aggiunge, con una formula altrettanto geniale: «Vittorini aveva saputo superare e conservare l’estetismo della sua formazione»11. Non è sempre agevole inseguire il labirinto delle prese di posizione e della provocazioni di Fortini (nel caso della polemica Vittorini-Togliatti arriva a difendere, retroattivamente, le ragioni di Togliatti): restano comunque la testimonianza di un sottile e pur tenace dissenso che lo oppone a Vittorini, rinnovando una tensione costante fra «valore» – come criterio astorico di giudizio – e «storicità delle opere», «verticalità» e «orizzontalità»12. In Vittorini la persistenza di una nozione autonoma e assolutizzante della letteratura – che è poi quella della sua formazione fra le due guerre – cerca con insistenza un dialogo con la storia: forse, per Fortini, è proprio questo l’errore più pericoloso, da cui discende l’accusa, rivolta a Vittorini, di essere un «progressista»13, e di compromettere la letteratura con la contingenza della storia. Per Fortini, con una logica categoriale ferrea, «il consumo della poesia-valore permane e non può essere compiuto che nei modi culturali tuttavia esistenti»14. In altre parole, o è poesia, e
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Elio Vittorini, Avvertenza, in Diario in pubblico, Milano, Bompiani, 1957, p. 8. Id., Maestri cercando, in Diario in pubblico, cit., p. 11. Ibidem. 10 Franco Fortini, Ma esisteva Vittorini?, in «L’Espresso», 2 febbraio 1986, poi in «L’ospite ingrato», iii, 2000, p. 293. 11 Ibidem. 12 Lettera di Franco Fortini a Elio Vittorini, in Franco Fortini, Elio Vittorini, Lettere scelte 1947-1965 e allegati, in «L’ospite ingrato», iii, 2000, (Dalla corrispondenza di Franco Fortini, 1), p. 231. Si tratta in realtà dell’allegato. 13 Franco Fortini, Ma esisteva Vittorini?, cit., p. 293. 14 Id., Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in Verifica dei poteri, Milano, Einaudi, 1965, p. 137. 7
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xii la peristenza della lirica: per una rilettura del secondo novecento
allora non differisce in nulla dal passato, o non è poesia. Se rimuoviamo la spessa crosta ideologica, ricompare intatto l’aut aut di Letteratura come vita. Malgrado un retroterra culturale sostanzialmente omogeneo, che confida nell’autonomia della letteratura, lo scarto non potrebbe essere più vistoso: Fortini riallarga la crepa che Vittorini propende invece a sanare. Se dovessimo delimitare dei confini, Fortini si troverebbe oggettivamente in compagnia di Solmi e Ungaretti. Benché appartengano a generazioni diverse e a formazioni culturali anche molto distanti, di fronte al mutare delle condizioni storiche reagiscono allo stesso modo, fatta la tara delle appartenenze ideologiche, rifiutandosi di mettere in discussione la poesia. Quantomeno, non ritengono utile farlo. Ciò che però va segnalato con forza è che l’orizzonte di Ungaretti come di Fortini non è diverso da quello di Vittorini. La polarità fra «valore» e «storicità», in altre parole fra poesia e storia, per quanto possa essere declinata in una pluralità di maniere, è in effetti un passaggio difficile da eludere, che mette chiaramente in gioco la questione non meno irrisolta della continuità / discontinuità fra prima e dopo la guerra, nonostante i tanti pronunciamenti a sostegno dello strappo e una storiografia letteraria che l’asseconda a mo’ di vulgata. Si tratta di uno snodo critico che riguarda in primo luogo e innanzitutto i poeti. Per un narratore e teorico come Vittorini, per il quale il romanzo si mantiene comunque a stretto contatto con la realtà, o con quella che, per comodità, possiamo continuare a chiamare la realtà, il problema non è così grave. Negli anni Cinquanta e poi all’inizio del decennio successivo si tratterà di tarare il romanzo e la sua lingua su un paesaggio via via nuovo, fino a quello neo-capitalista dominato dall’«industria». Non è un impegno da poco, ma individua con chiarezza l’oggetto e quindi cerca il linguaggio adeguato. Lo stesso criterio applicato alla poesia appare devastante, perché mette in discussione l’identità e la natura stessa del linguaggio, la sua presunzione di intangibilità (al di là di ogni accettabile adeguamento). È perciò ovvio che la poesia arretri e cerchi una direzione diversa. La poesia si sottrae a una strategia di adattamenti e riconversione ai tempi, “progressista”, se Ungaretti ancora alla fine degli anni Quaranta può individuare in essa, nella sua invarianza, lo strumento mitico per rifondare l’uomo, senza però alcuna necessità di sottoporlo a verifica, mettendo in parentesi la storia recente. Considerando anzi la poesia una sorta di eterno categoriale. In effetti c’è una vicenda storica della poesia – ereditata nei secoli ma rafforzata nel corso del Novecento – che non è possibile ignorare: quella che si è ridefinita con forza e consolidata fra le due guerre; non necessariamente e non solo attraverso l’ermetismo, ma certo fondamentalmente attraverso la tensione che porta con sé l’esperienza ermetica. Impossibile pensare a due giovani come Fortini e Pasolini, o anche al coetaneo Zanzotto, senza l’ermetismo (e Ungaretti) e senza una nozione di poesia intesa come assoluto, parola oracolare che prescinde dal tempo e dalla storia. Pur con i suoi adepti e sostenitori – Quasimodo, ad esempio, certo Gatto – la poesia come impegno nei confronti della storia rimane un fatto circoscritto, spesso di incerta qualità, nella media della
la peristenza della lirica: per una rilettura del secondo novecento xiii
scrittura poetica di quegli anni. Rigettata dalla destra, Ungaretti, come dalla sinistra, Fortini. L’idea (e la pratica) di convertire il codice ermetico alla poesia civile produce una magniloquenza intollerabile. E infatti il fenomeno si esaurisce negli stessi anni Quaranta. Diverso è il progetto civile di Pasolini negli anni Cinquanta, a partire da un ben diverso spessore culturale; ma anch’esso viene tenuto in piedi per un volontarismo pervicace già in crisi dopo la sfida delle Ceneri di Gramsci. E comunque, anche nel suo caso, sarà molto arduo valutare la raccolta del 1957 senza l’apporto determinante del grande stile, addirittura del d’Annunzio delle Laudi. E dunque ancora in rapporto alla lirica. L’antinomia fra poesia e storia Fortini la incarna in corpore vivo. Per lui, prima e più che per altri, il «valore» non risiede nella storia, che anche in una lettura marxista è un fenomeno transitorio, ma in una poesia che è per statuto antitesi della storia. Senza possibilità di cedimento: Fortini alza barriere che rendono impraticabile un qualsiasi rapporto fra i due universi della prassi, a meno che non si tratti di «poesia-fatto», che però non è poesia, semmai oratoria parenetica. È dunque arduo immaginare il secondo dopoguerra senza rilevare il nesso di strenua continuità con la stagione precedente, che seguita a garantire i codici e i paradigmi di riferimento. Per Fortini, come per molti altri. Basti pensare a come al bivio fra anni Quaranta e Cinquanta si presenti perfettamente attuale la lezione ungarettiana di una modernità radicata nella tradizione, nelle sue forme metriche ecc. Il centro nevralgico dell’ultimo Ungaretti, quello su cui imposta l’immagine più coerente di sé e della sua poesia, è proprio nella riaffermazione ossessiva di questi valori fondativi. La Terra Promessa e Un Grido e Paesaggi sono libri contemporanei di Laborintus: Ungaretti, anche per le generazioni più giovani, non è affatto un attardato. Ciò che ne scrive Fortini nei Poeti del Novecento – 1977 – è una testimonianza importante, che compensa le molte critiche: […] l’ultimo libro di Ungaretti, quello del suo ultimo ventennio, contro l’intenzione dell’autore, contro il platonismo e petrarchismo suoi (e di molti suoi ammiratori), è di fatto un libro nostro contemporaneo, anche se guarda in direzione opposta all’Allegria. Si ha poi l’impressione che da venti anni la nostra letteratura poetica saccheggi, a man salva e di nottetempo, il corpo archeologico di Ungaretti. Certo, l’ultimo Ungaretti […] sembrerà sempre indicare una via opposta a quella di Montale: ossia la via della poesia come possibile istituto durevole, ascesi e chiave alla salvezza; e comporterà dunque un pericoloso grado di illusione sulla struttura della società da cui e a cui parla15.
Fortini sottolinea i rischi di una distanza dalla storia che si trasforma in illusione, distogliendo dalla percezione reale della società; e purtuttavia Ungaretti rappresenta nel dopoguerra e fino agli anni Settanta la persistenza di una nozione alta, immutabile, di lirica, ovvero di una «fede nell’inesauribilità (e nel valore) di un rapporto fra esistenza e linguaggio quale ha accompagnato la
Id., I poeti del Novecento, cit., p. 83.
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xiv la peristenza della lirica: per una rilettura del secondo novecento
nostra letteratura dalle origini a oggi»16. Il lascito è così imponente e pervasivo da poter annoverare fra i saccheggiatori della sua poesia pratiche opposte come quella di Zanzotto e di Porta, ovvero almeno di uno spicchio significativo dell’avanguardia. Si è discusso, e con buone ragioni si potrà continuare a farlo, di una lirica che si abbassa di tono, che si prosaicizza diventando sempre più inclusiva; le linee di forza o di resistenza sembrano delineare però un quadro più complesso17. La lirica e la tradizione lirica restano paradigmi con cui fare i conti, che spesso, pur fra ondeggiamenti e ripensamenti, fondano la coscienza e la rappresentazione di sé come scrittore. La sua assenza, o la sua interdizione storica, definiscono la paralisi o il vuoto della scrittura: Sereni, ad esempio, nella vasta lacuna fra Diario d’Algeria e Gli strumenti umani. 3. Rispetto al quadro della persistenza di una poesia come «possibile istituto durevole, ascesi e chiave alla salvezza» che si conferma intorno a Ungaretti, in molti si osserva però uno spiccato oltranzismo nell’isolare lo spazio lirico; un oltranzismo che con buona probabilità paga un pesante tributo ad un contesto culturale e politico che è davvero problematico tenere sotto controllo, e a uno statuto sociale in rapido declino, come avrebbe osservato Pasolini negli anni Sessanta. La lirica finisce per essere l’equivalente di uno sguardo che si ritrae dal mondo presente, senza forma, e che viene rivolto al passato, l’unico luogo in cui possono realizzarsi ancora le forme. Pasolini, fino all’Usignolo della Chiesa cattolica, vive in questa fissazione (anche con gli aggiustamenti di tiro vistosi delle Ceneri di Gramsci); scontando l’angoscia della separazione. Se non al passato lo sguardo è rivolto alla fine – fine propria e fine della poesia –, che è poi, circolarmente, la stessa cosa, con un completo azzeramento dell’orizzonte storico. A ben vedere – scardinando ogni logica generazionale –, si tratta del nucleo resistente con cui Montale impasta la Bufera: recupero della grande lirica – non solo del grande stile – e nello stesso tempo tematizzazione della morte del poeta e della poesia. Costitutivamente, la lirica porta con sé un’idea di morte, come caduta disforica della tensione. Ma – per restare in ambito novecentesco – una cosa è la morte di Sentimento del Tempo, il passaggio obbligato per riconquistare l’innocenza e la condizione originaria fuori dal tempo e dalla storia; altra è la morte della Bufera, disegnata – nelle Silvae, in particolare – come mezzo di autorappresentazione del poeta e dello spazio comunicativo che ha prescelto per la sua opera. Prescelto intenzionalmente, va aggiunto, non residuale, malgrado le apparenze di cui si vorrebbe vestire: la saldatura fra lirica e rappresentazione funeraria di sé e dello spazio lirico non è Ibidem. Ci sarebbe infatti da chiedersi, e con una certa ampiezza di documenti, quanto del linguaggio della lirica trovi la via per sopravvivere nella narrativa, al di là del caso eclatante di Pavese; e quindi accertare quanto il ruolo della lirica continui a incidere – ad esempio – nel primo Tobino, o, in tutt’altro orizzonte di scrittura, in Volponi, almeno fino a Corporale, metabolizzata e persino contestata nel romanzo (è il caso di Corporale), ma purtuttavia ben presente. 16 17
la peristenza della lirica: per una rilettura del secondo novecento xv
una scelta obbligata; implica invece una certa propensione al ripiegamento e alla vittimalità. Quest’ultima è destinata a diventare una delle configurazioni più stabili, talora compiaciuta, della poesia recente, costretta come si sente a vivere ai margini e a percepirsi nella congiura avversa dei tempi. L’elezione di un teatro funerario, un grande teatro – e qui la partita se la giocano Sereni e Fortini – o un teatro su scala ridotta, a seconda dell’indole, costituisce una novità che contraddistingue il secondo dopoguerra. Non sarà un caso se proprio il modello buferesco riscuoterà un enorme successo, fino a imporsi come autentico cliché in una zona discretamente ampia – da Sereni, a Giudici, a Raboni, per indicare alcuni nomi –, anche solo per questo vistosamente montaliano: per paradossale che possa apparire, essere morti al mondo rappresenta la via per ristabilire il dialogo lirico in una zona protetta e interdetta alla minaccia dell’informe della storia, alzando il tiro e sistemando la lirica in un luogo del tutto finzionale che non interferisce più con la realtà, se non per opposizione. Non si tratta beninteso dell’aldilà come utopia che si rovescia contro il mondo – il modello dantesco, al pari di quello petrarchesco del resto, non ha mai davvero funzionato nel Novecento –, ma della scelta di un orizzonte negativo e di sofferto disimpegno nei confronti di un mondo dichiarato incomprensibile e ostile. Il Solmi che In a Giacomo Leopardi (Dal balcone) si accompagna al poeta morto rappresenta al meglio questa attitudine, per cui, in definitiva, la tradizione anziché essere messa alla prova della storia, configura un territorio isolato, inagibile se non al poeta stesso e ai morti. Un territorio che nel Bertolucci della Capanna indiana (Lettera da casa, in particolare) comporta un sottofondo di ineliminabile angoscia da cui si genera tutta la ricerca successiva. Un confinamento del genere non esclude – in Solmi, ad esempio – un acuto senso etico e civile, ma consente di non toccare mai veramente il linguaggio della poesia. Sarebbe impegnativo catalogare questa lirica come lirica pura, oracolare e autoritaria; è una lirica al condizionale. Dimidiata e per interposta persona, come è stato detto, intrinsecamente piegata al colloquio. Ma più che questo emerge con forza lo spaesamento dell’immaginario lirico e la conflittualità che intorno a esso si genera nella scrittura, soprattutto fra i più giovani. Fortini e Pasolini sono o sarebbero stati due grandi lirici del secondo Novecento. E per frammenti lo sono anche, ma sempre per negazione, mai in una zona liberata. È forse difficile stabilire in che cosa consista il loro nucleo lirico: certo è che rappresenta un elemento ineliminabile, complicato in entrambi – e all’origine – dalla coscienza della sua perdita e dunque dal senso di morte che inevitabilmente lo connota. Il nini muart come le altre presenze di Poesie a Casarsa si ritagliano su un fondale di morte, che è l’unico dove mettere in scena l’immaginario lirico, sottratto a un presente inospitale. Le forme di negazione e di autoironia di Fortini, fin dagli esordi, non vanno assunte come la volontà di annullare la lirica, ma come il paradossale pedaggio che rende lecita – in modo al limite perverso – una sopravvivenza lirica, in uno spazio intravisto e nello stesso tempo rifiutato, ma costantemente alluso, magari con l’aggravante ulte-
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riore del senso di colpa. Se non fosse così sarebbe davvero arduo comprendere le posizioni del teorico della letteratura e del critico militante. La rappresentazione di sé come poeta che ne emerge è quella di figure condannate a vivere la contraddizione di universi che non comunicano, anziché scegliere risolutamente intervenendo sulla lingua. Ma forse bisognerebbe aggiungere che proprio la radicalità della contraddizione è la migliore garanzia della persistenza lirica. Basti pensare, di nuovo, a Pasolini, Fortini, allo stesso Sereni. Quando la scelta viene compiuta – o viene descritta come compiuta – e il discorso dovrebbe ridursi a uno, scatta il senso di colpa per aver tradito la vocazione autentica: Documento (1976) di Amelia Rosselli è interamente costruito sul bilancio negativo di una scelta sbagliata. Rinunciare alla grande poesia – l’obiettivo della Libellula – in nome della storia e dell’impegno civile: storia e impegno civile che, peraltro, se fanno capolino nella sua opera lo fanno a loro volta solo per negazione, senza diventare mai valore. In effetti mettere in scena la rinuncia alla grande poesia è l’unica alternativa possibile: l’altra non si dà. Questa stagione, per così dire in mezzo al guado, identifica uno spazio di scrittura spesso rovesciato su se stesso, in cui l’impasse tende a restringere la prospettiva e a fissarsi sulle risorse e sui limiti del linguaggio poetico piuttosto che sulle cose. Con una implicita ma forte spinta alla teatralizzazione del lutto del linguaggio poetico. Sarebbe un errore pensare Pasolini solo in questi termini: certo è che nel passaggio cruciale fra L’usignolo della Chiesa cattolica e Poesia in forma di rosa la sua poesia è assediata dal problema della lingua letteraria, delle forme poetiche e dalla tentazione di liquidarle, poi portata a effetto. Il fatto che la poesia rifletta sulle proprie risorse e sui propri limiti connota da sempre la scrittura poetica: anche in questo caso non si tratta di una novità del secolo trascorso. La sua messa a tema è però una circostanza che caratterizza in modo insistente e pervasivo il secondo dopoguerra. C’è una notevole differenza rispetto all’Ungaretti che discute di Petrarca e di Leopardi e che negli anni Quaranta porta a termine soddisfatto il Recitativo di Palinuro rifacendo la sestina. Nella dialettica fra tradizione e modernità il discorso di Ungaretti si ricompone, fa quadrato, produce testo. Non è la stessa cosa per Pasolini o per la Rosselli, dove il testo si produce, persino in sovrabbondanza, ma solo per dichiarare in un circuito vizioso la propria indisponibilità, con una insostenibile proliferazione verbale. Nemmeno per Sereni, se pensiamo al trattamento perplesso di d’Annunzio in La poesia è una passione, il circuito si riattiva: «Quei versi | li sentivo lontani da noi: ma era quanto restava, | un modo di parlare tra noi». Salvo, ellitticamente, riagganciarsi al modello per negazione. L’inquieta interrogazione che la Rosselli rivolge ai modelli – Campana, Montale, fin dagli anni Cinquanta – si risolve nell’appurare l’opacità e l’inerzia della lingua poetica: la ricerca del sublime nella Libellula si arresta di fronte all’inautenticità e artificialità che connota il codice della letteratura, ma senza uscire dalle secche in cui essa si è arenata. Come per Fortini la poesia coincide senza alcuna riserva con la sua tradizione poetica, il suo linguaggio,
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non esiste altra possibilità. E dunque si tratta di un vicolo cieco: non è possibile scrivere che in lingua mortua. O escogitare complessi apparati autogiustificativi per poter continuare a scrivere poesia: Fortini e Pasolini sono due maestri in questo; Pasolini in modo particolare con l’invenzione officinesca dell’“allegato”, ovvero del testo che chiarisce preliminarmente le intenzioni della poesia, spostando e amplificando vertiginosamente la questione. La resistenza di una nozione di grande lirica fa dunque sistema con una sorta di diffuso alone mortuario, infeltrito, per così dire, da un’autoriflessività della scrittura poetica che gira a vuoto, ecolalica ed esasperante. La poesia inscrive in modo drammatico il cortocircuito fra la letteratura, ancora legata ai propri miti e ai propri valori, e un contesto culturale e politico profondamente mutato. Non a caso la riflessione, quando interviene, non può che riaffermare, come che sia, magari con il dispetto di Pasolini nell’Usignolo della Chiesa cattolica, la non negoziabilità del linguaggio lirico. Laddove si cerca una conversione della lirica alla storia non si finisce che per spostare il problema, senza risolverlo. Se dovessimo adottare una formula per descrive il secondo dopoguerra poetico, non tutto certo, un settore predominante, dovremmo senz’altro parlare di una situazione di blocco e di stallo. Un blocco che in alcuni casi non viene mai risolto e che si protrae fino al termine del secolo: Sereni come Fortini, che guarda caso intrecciano strettamente le loro vicende e che, entrambi, approdano a grandi autorappresentazioni funerarie. Stella variabile, Paesaggio con serpente e soprattutto Composita solvantur sono una grandiosa messa in scena, tragica, della morte del poeta. Autocelebrazioni contrabbandate – di fatto – come eclissi della poesia. All’opposto si colloca la massiccia impalcatura difensiva che impegna Bertolucci per decenni per isolare il suo universo lirico e fissare per sempre la sua identità di poeta, ma sigillando tutto nell’inflessibile rigore di un presente che equivale alla morte, condannato a ripetere all’infinito se stesso, senza scampo. In un quadro del genere l’arrivo dell’avanguardia interrompe un meccanismo perverso mandando in soffitta, una volta per tutte, la questione della lirica come linguaggio non negoziabile. È davvero questo il momento – ma siamo all’inizio degli anni Sessanta – in cui si apre il redde rationem con una tradizione che tutto sommato era riuscita a passare abbastanza indenne attraverso la strettoia degli anni Quaranta. Non è certo corretto ipotizzare una dipendenza diretta, ma senza lo spiazzamento prodotto dall’odiato Gruppo 63 forse non avremmo la grande apertura sperimentale di Pasolini. Forse non avremmo nemmeno l’ultimo Montale, che indubbiamente ha più risorse ed è più moderno di quello aulico della Bufera. Ciò non significa sposare le ragioni dell’avanguardia e le sue sistemazioni ideologiche del Novecento letterario; ma avviare una considerazione più oggettiva e storica – meno militante – della funzione dell’avanguardia negli anni Sessanta, in rapporto a ciò che le sta intorno, al di là dei risultati poetici conseguiti dai neoavanguardisti (scarsi) e delle premesse ideologiche che li guidavano (discutibili). La poesia non sta
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comunque nell’avanguardia, ma altrove; e tuttavia l’avanguardia ha un impatto formidabile nel panorama culturale del dopoguerra, per cui non è più possibile il gioco che immobilizza tanta poesia nel suo splendore funerario e nei suoi cortocircuiti di forme e linguaggio. Che il dopo poi risulti incerto da definire – ma la prospettiva non può essere quella di Berardinelli in Poesia non poesia –, non inficia affatto il ruolo storico del Gruppo 63 (e dintorni), senza dubbio da rimeditare. Alcuni saggi si spingono cronologicamente ben oltre, ma la Neoavanguardia e gli anni Sessanta costituisco la soglia ideale su cui si arresta il volume. Ungaretti: «Ragioni di una poesia» e Fortini: lirica versus storia sono inediti; Bertolucci tra “camera” e “anti-camera” fonde in un discorso continuo Bertolucci e il «romanzo in versi», ovvero come ricostruire un’identità poetica forte, in Le forme del narrare, Atti del VII Congresso Nazionale dell’ADI, Macerata, 24-27 settembre 2003, Firenze, Polistampa, 2004, e L’anti-camera da letto, in «Il Caffè illustrato», 18, maggio-giugno 2004. Campana, Montale e gli altri: «La Libellula» di Amelia Rosselli ripensa due contributi limitrofi: Amelia Rosselli e la funzione Campana, in «Trasparenze», 17-19, 2003 (fascicolo monografico dedicato ad Amelia Rosselli, a cura di Giorgio Devoto e Emmanuela Tandello) e Amelia Rosselli e la funzione delle «auctoritates» nella «Libellula», in La citazione, Atti del xxxi Convegno Interuniversitario, «La citazione», Bressanone, 11-13 luglio 2003, a cura di Gianfelice Peron, Padova, Esedra, 2009. Degli altri, tutti rivisti, si fornisce il titolo originario e il luogo della prima pubblicazione: Pavese, prosa e poesia era apparso come Pavese tra romanzo e angoscia per la perdita della poesia: «La terra e la morte» e «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», in «Sotto il gelo dell’acqua c’è l’erba». Omaggio a Cesare Pavese, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001; La «poesia in prosa» di «Feria d’agosto» ripropone, aggiornato, Pavese e il nodo del realismo, in Tipologia della narrazione breve, Atti del Convegno di Studio «Il Vittoriale degli Italiani» - mod, Gardone Riviera, 5-7 giugno 2003, Manziana, Vecchiarelli, 2004; Sereni dalla prosa agli «Immediati dintorni» era uscito in «Filologia e critica», XXVII, III, settembre-dicembre 2002; Alfonso Gatto dopo la guerra: un controverso ritorno alla lirica in «Trasparenze», 11 (2001); Sereni fra «Gli strumenti umani» e «Stella variabile» ripropone La condizione postuma della poesia: Sereni fra «Gli strumenti umani» e «Stella variabile», in «Studi italiani», 2004, 1, gennaio-giugno 2004; Gli infelici nodi della gola: Pier Paolo Pasolini e Amelia Rosselli era apparso con il titolo Il nodo della lingua: Pier Paolo Pasolini e Amelia Rosselli, in «Se dalle tue labbra uscisse la verità». Amelia Rosselli a dieci anni dalla scomparsa, Atti del Convegno del Circolo Rosselli, Firenze 8-9 giugno 2006, a cura di Stefano Giovannuzzi, «Quaderni del circolo Rosselli», 3, 2007; Pasolini, la poesia e la modernità, è uscito col titolo «È passato il tuo tempo di poeta»: Pasolini, la poesia e la modernità, in L’acuto del presente. Poesia e poetiche a metà del Novecento, a cura di Chiara Sandrin, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2009.
Un ringraziamento a Raffaella Scarpa, per la lettura di queste pagine e i sempre acuti consigli.