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Pasquale Guaragnella è professore di Letteratura Italiana nell’Università di Bari. Studioso di storia delle forme letterarie in età moderna, è autore di libri sulla prosa della «nuova scienza» e su storici, moralisti e narratori del Seicento. Il suo ultimo volume è Il servita melanconico. Paolo Sarpi e l’“arte dello scrittore” (Milano, 2011). Attende attualmente a uno studio su lessico e retorica in Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri.
€ 18,00
Pasquale Guaragnella Pasquale Guaragnella
La prosa di alcuni autori studiati in questo libro – di Pirandello, Palazzeschi, Sbarbaro, Vittorini, oltre che degli stessi De Roberto e Ungaretti – disvela, secondo registro ancipite, una figura che attraversa emblematicamente il nostro Novecento letterario: dell’«uomo solo» che, partecipe tenacemente della vita e a un tempo distante da essa, incontra le emozioni del mondo ora con un volto a ciglio asciutto, ora con un volto gaio.
I volti delle emozioni
Giuseppe Ungaretti, dialogando con Leone Piccioni, invitava l’amico a non dimenticare quale implacabile ironia si nascondesse per lui dietro la parola Allegria. Mutuando un pensiero di Federico De Roberto – scrittore che, per le incomprensioni patite, si intendeva di amara «disdetta» della vita – potremmo dire che, sotto il segno della malinconia, il tempo si porta via talvolta non solo il riso, ma anche il sorriso.
I volti delle emozioni Riso, sorriso e malinconia nel Novecento letterario italiano
biblioteca di letteratura collana internazionale diretta da Gino Tellini
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comitato scientifico internazionale Marc Föcking, Universität Hamburg Michael Lettieri, University of Toronto Anna Nozzoli, Università degli Studi di Firenze Pasquale Sabbatino, Università degli Studi di Napoli Federico II Michael Schwarze, Universität Konstanz William Spaggiari, Università degli Studi di Milano Paolo Valesio, Columbia University Antonio Carlo Vitti, Indiana University
Pasquale Guaragnella
I volti delle emozioni Riso, sorriso e malinconia nel Novecento letterario italiano
SocietĂ
Editrice Fiorentina
© 2015 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-320-0 issn: 2036-3559 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina: Roberto De Robertis, Ritratto di donna, 1930, Bari, Pinacoteca Provinciale “Corrado Giaquinto” (Foto Archivio Pinacoteca Provinciale di Bari, per gentile concessione)
Ad Anna, al suo sorriso
Indice
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Avvertenza Filosofia del ridere e malinconia. Introduzione
i volti delle emozioni 3
i. «Ai miei figli, giovani oggi, vecchi domani». Maschere di malinconia nell’incipit di un romanzo di Luigi Pirandello
27 ii. Scene da un teatro di guerra. Su La paura di Federico De Roberto
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iii. Arte del ridere e malinconia nel primo Palazzeschi iv. Esercizi di scrittura sulla Grande Guerra. Camillo Sbarbaro e i volti delle emozioni
115 v. «Tristezza asciutta e lucida follia dànnosi in te la mano». Osservazioni tematiche sull’Addio a Pierangelo di Camillo Sbarbaro 125
vi. Prove di ricezione e fantasticherie melanconiche. In margine a un racconto del giovane Vittorini
153 vii. Figure del riso e della malinconia in Conversazione in Sicilia 171
viii. Giuseppe Ungaretti, il deserto e la risata dell’angelo nero
187 ix. Un riso indulgente e fremente. Su Viaggio nel Mezzogiorno di Giuseppe Ungaretti 215
x. «E m’è rimasa nel pensier la luce…». Icone della mente in una prosa di viaggio di Ungaretti
Epilogo. Un sorriso sul volto della malinconia
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251 Indice dei nomi
Avvertenza
Questi studi sono stati composti per lo più in occasione di festeggiamenti e pubblicazioni in onore di maestri e amici. Il mio intendimento costante è stato di dar corso a quanto mi ero ripromesso, agli inizi degli anni Novanta, con le Maschere di Democrito e di Eraclito. Scritture e malinconie tra Cinque e Seicento: ovvero di sondare le figure del riso e della malinconia anche in autori di area novecentesca. Trascorsi tanti anni, verrebbe fatto di sorridere per aver finalmente ottemperato a un impegno scientifico-professionale. Il capitolo su I vecchi e i giovani deriva da un saggio apparso con il titolo Il cominciamento de I vecchi e i Giovani di Luigi Pirandello, in Per Romano Luperini, a cura di Pietro Cataldi, Palermo, Palumbo, 2010; il capitolo su Federico De Roberto deriva da un saggio apparso su «Belfagor», anno lxiv, 31 luglio 2009, n. 382, con il titolo Il teatro della Grande Guerra nel De Roberto postremo, pp. 393-418; il capitolo su Palazzeschi deriva da un saggio dal titolo Filosofia del ridere e malinconia. Aldo Palazzeschi del Controdolore al Codice di Perelà, apparso in Lettere ed arti. Studi in onore di Raffaele Cavalluzzi, a cura di Vitilio Masiello, Grazia Distaso e Pasquale Guaragnella, Bari, Graphis, 2009, pp. 513-543; il capitolo su Sbarbaro e la Grande Guerra deriva da un saggio apparso con il titolo A proposito dell’esperienza bellica di Camillo Sbarbaro e di alcuni studi sulla Grande Guerra, in Monica Giachino,
xii i volti delle emozioni
Michela Rusi, Silvana Tamiozzo Goldmann, La passione impressa. Studi offerti a Anco Marzio Mutterle, Venezia, Libreria editrice Ca’ foscarina, 2008, pp. 153-172; il secondo capitolo su Sbarbaro deriva da Il dono dell’amicizia. Nota su Camillo Sbarbaro e l’Addio a Pierangelo, in In un concerto di voci amiche. Studi di letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli, a cura di Marinella Cantelmo e Antonio Lucio Giannone, Galatina, Congedo editore, 2008, t. I, pp. 381-388; il primo capitolo su Vittorini deriva da Elio Vittorini dalla ricezione di Svevo al racconto «Quindici minuti di ritardo», in Studi sul ’900 toscano offerti a Giorgio Luti in occasione del suo 80° compleanno, a cura di Enrico Ghidetti e Anna Nozzoli, Firenze, Tipografia del Comune di Firenze, 2007, pp. 47-72; il secondo capitolo su Vittorini deriva da Conversazione in Sicilia, in Italienische Romane des 20. Jahrhunderts in Einzelinterpretationen Herausgegeben von Manfred Lentsen, Berlin, Erich Schmit verlag, 2005, pp. 104-118; il primo capitolo su Ungaretti deriva da Il «demonio meridiano». Un’antica credenza popolare in una prosa di viaggio di Giuseppe Ungaretti, in Studi in onore di Vito Carofiglio, a cura di Giovanni Dotoli, Fasano, Schena, 1998, pp. 321-334; il secondo capitolo su Ungaretti deriva da Vedere l’antico. Su «Viaggio nel Mezzogiorno» di Giuseppe Ungaretti, in «Esperienze letterarie», anno xxvi, n. 4, ottobre-dicembre 2001, pp. 3-29; il terzo capitolo su Ungaretti deriva da Icone della mente. Su un viaggio pugliese di Giuseppe Ungaretti, in Forme e contesti. Studi in onore di Vitilio Masiello, a cura di Francesco Tateo e Raffaele Cavalluzzi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 595-620. A conclusione del lavoro il mio ringraziamento va a Gino Tellini che ha ospitato generosamente il libro in una collana da lui diretta. Ringrazio caramente Piero Sisto, italianista attento ai rapporti tra letteratura e pittura, e la dott.ssa Clara Gelao, direttrice della Pinacoteca provinciale “Corrado Giaquinto” di Bari, i quali mi hanno cortesemente proposto un corpus di immagini da cui è stato scelto il Ritratto di donna riprodotto in copertina. Un pensiero grato infine è rivolto all’amico Bepi Bonifacino e alle dottoresse Rosanna Lavopa e Bianca Vittoria Ranieri per i suggerimenti e la preziosa collaborazione.
Filosofia del ridere e malinconia. Introduzione
Angelo Fortunato Formiggini, l’editore modenese della collana dei «Classici del ridere», nelle pagine della tesi di laurea da lui discussa, nel 1907, all’Università di Bologna con il professor Tarozzi – intitolata significativamente Filosofia del ridere – osservava che «non c’è nulla che provochi meno l’ilarità di una discussione sul ridere». In quello scritto Formiggini rilevava poi che «si ride per la gioia e si ride anche per il dolore, per benevolenza e per amore, ma anche per ira, per odio, e soprattutto si ride di ciò che è ridevole»; quindi, tentando di definire una gamma tipologica del ridevole, concludeva che il riso può essere provocato «da ciò che è comico, esilarante, ridicolo, umoristico, spiritoso, ameno, grottesco, faceto, ironico, satirico»: e così via dicendo – o via ridendo. In verità, muovendosi nel panorama non sempre leggero del primo Novecento italiano, e pur essendo assai giovane, Formiggini doveva aver maturato una cospicua esperienza intorno alle filosofie del ridere e ai loro volti mutevoli. Solo alcuni anni prima di discutere quella sua tesi di laurea a Bologna, lo studente modenese aveva frequentato all’Università di Roma le lezioni di un noto filosofo, Antonio Labriola; e aveva avuto poi un singolare incontro. In quel tempo Labriola soffriva, in misura acuta, di un cancro al laringe: poteva parlare con molta difficoltà. Formiggini aveva il compito di auscultare le flebili parole del professore, registrarle e pronunciarle ad alta voce a beneficio dell’uditorio. Senonché il filosofo cassinate – lui che da giovane aveva compiuto strenui esercizi per liberarsi da
xiv i volti delle emozioni
ogni inflessione dialettale nella voce – manifestava, anche in quella occasione “difficile”, la sua ben nota attitudine umoristica, e riusciva a scherzare sull’inflessione emiliana della pronuncia del Formiggini. Il quale doveva probabilmente restare ammirato dall’umorismo del maestro, considerate le condizioni di salute: ma non possiamo dire quanto dovesse sentirsi mortificato. Mortificato e malinconico, invece, Formiggini si dichiara senz’altro per un episodio vissuto nelle vesti di accompagnatore del professore. L’episodio è registrato in alcune note di carattere diaristico dello stesso Formiggini: Ecco un giorno che io non dimenticherò tanto presto: Antonio Labriola ha subito una operazione di tracheotomia nell’ultimo autunno. Quest’anno fa lezione alla università dettando alla meglio. L’illustre uomo ha l’abitudine di farsi accompagnare da qualcuno [al Caffè Aragno] dopo aver fatto lezione. Oggi l’accompagnerò io pure.
Il 9 febbraio 1903 Angelo Formiggini accompagnava dunque per la prima volta Antonio Labriola; e il professore – secondo quanto registra lo stesso Formiggini – dové essere sin da quel primo incontro particolarmente impressionato dal giovane studente modenese. Infatti, durante il tragitto dall’Università al Caffè Aragno, Labriola ripeteva che Formiggini «è un giovane che mi è simpatico molto». Ma, sorprendentemente, aveva pure occasione di dire «che gli ebrei dovrebbero sì avere i diritti civili, ma che non dovrebbero poter partecipare alle funzioni dello Stato. Che Heine fu grande, ma che fece la spia. Che compiere un atto sodomitico passivo – egli disse, senza però usare nessuna perifrasi – era cosa pensabile in un letterato, ma far la spia è roba da ebrei». Le parole del Labriola dovevano provocare una reazione di triste stupore nel giovane studente modenese, il quale per timore di turbare il filosofo si limitava ad osservare apertamente che le teorie del maestro sembravano essere in stridente contrasto coi suoi principi ultra liberali. «Non ebbi però il cuore – prosegue Formiggini – di dirgli con chi parlasse per non procurargli una seccatura». Formiggini era di famiglia ebrea. Con tono pervaso di malinconia, così Formiggini conclude le sue riflessioni su quella giornata: «È più sconfortante la sola deposizione del Labriola contro gli ebrei che non quella di tutti i preti o prefissanti uniti insieme».
filosofia del ridere e malinconia. introduzione xv
Angelo Formiggini, sebbene si presentasse con un volto malinconico, doveva rivelarsi “simpatico” pure a un altro importante protagonista della vita culturale italiana tra Otto e Novecento: quel Giovanni Pascoli che dopo alcune celebrazioni modenesi in onore di Alessandro Tassoni – il poeta dell’eroicomico – segnalerà l’opera meritoria di Formiggini in quanto si era proposto di pubblicare a proprie spese una miscellanea di studi sull’autore de La secchia rapita. Nella Prefazione a quella miscellanea Pascoli delineava un acuto ritratto del giovane editore modenese: E grazie sieno al raccoglitore paziente e munifico editore di questo libro che sa del buon tempo antico. [...] Egli è filosofo del riso [...]; e del riso, proprio dell’uomo come del pianto, egli suol ragionare eloquentemente, con una sua lunga e bruna faccia malinconica. Oh! Egli al fine delle feste tassoniane, che hanno fin qui tanto esercitato la sua perfetta fortitudine, che è nell’agire e più nel patire, possa, vedendo qual bella e durevole opera ne resta, sorridere d’un sorriso pretto, senza mescolanza d’amaro!
«Possa sorridere d’un sorriso pretto, senza mescolanza d’amaro». Con tale auspicio sortiva Pascoli, seppure inconsapevolmente, l’effetto di “consolare” il giovane modenese dalle osservazioni pungenti del Labriola sugli ebrei. Intanto, quando Formiggini si era laureato con la sua tesi sulla Filosofia del ridere, i temi della simpatia contrapposta alla mera intelligente indifferenza erano stati al centro della sua attenzione. Aveva infatti scritto a questo proposito il giovane laureando: «Io confermo che secondo me il riso è l’esponente mimico di una vera e propria emozione sui generis, non in opposizione ma strettamente legata al sentimento di simpatia». E aggiungeva: «Io direi di più, che quando ridiamo sentiamo una inclinazione benevola verso ciò che ci ha fatto ridere». Si trattava di una tesi critica opposta alla visione di Bergson il quale postulava, ai fini della “incubazione” del sentimento del ridere, uno stato di indifferenza in cui veniva a tacere la sensibilità. V’è di più. Importa rilevare come il Formiggini – prendendo probabilmente spunto anche dalle condizioni di corpo e di spirito del Pascoli – abbia avviato una sua personale riflessione sulla filosofia del ridere connessa allo stato di salute:
xvi i volti delle emozioni Molti hanno osservato, che a ogni stato di salute corrisponde un particolar modo di considerar le cose; molti pensatori cambiano completamente il loro indirizzo filosofico col mutare delle condizioni di salute. Ho raccolto deliziosi materiali sulla psicologia della convalescenza, che deter mina un rinnovamento completo del nostro spirito. Nella convalescenza ci pare, come ha detto il Nietzsche, «di essere entrati dentro una nuova pelle».
Certo, a proposito della condizione del convalescente, se Formiggini menziona direttamente Nietzsche per trarre conferma alla sua propria riflessione, risulterebbe difficile non richiamare in proposito pure la riflessione sulla psicologia della convalescenza suggerita da Baudelaire, il quale acutamente descriveva la convalescenza come «un ritorno verso l’infanzia». Scriveva difatti Baudelaire: il convalescente, come il bambino, gode al massimo grado della facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche a quelle dall’apparenza più triviale. [...] Riandiamo alle nostre più giovanili, più mattinali impressioni, e riconosceremo che esse avevano una singolare parentela con le impressioni, così vivacemente colorate, che abbiamo più tardi ricevuto in seguito a una malattia fisica, purché questa malattia abbia lasciato pure e intatte le nostre facoltà spirituali. Il bambino vive tutto come novità, è sempre ebbro. Nulla più della gioia con cui il bambino assorbe la forma e il colore assomiglia a ciò che si chiama ispirazione.
Il comico può avere rapporto con l’infanzia e può averlo con la sessualità. Non per nulla in una pagina della sua Filosofia del ridere Formiggini scrive: nel costume moderno l’uomo si sforza di tener celata la propria animalità quanto più è possibile: la pudicizia è un prodotto atavico della civiltà, più che un istinto originario […]. La pudicizia dunque può essere considerata come un guinzaglio posto all’istinto: il riso che è provocato da una frase o da una immagine lubrica starebbe a indicare uno sfogo, una liberazione.
Tale forma di riso, dunque, può convenientemente considerarsi uno sfogo da una costrizione. Qui Formiggini richiama il Sully, il quale aveva interpretato il riso come «una protesta contro l’artificio», perché la pudicizia è un artificio. Non solo: Sully – rammenta Formiggini – aveva pure ipo-
filosofia del ridere e malinconia. introduzione xvii
tizzato che «nel nostro ridere si nasconda qualche cosa della gioia del fanciullo, dell’uomo della natura Walt Witman, alla vista di ciò che si tiene nascosto d’ordinario». Ora, che si tratti del rapporto con l’infanzia o si tratti del rapporto con la sessualità o con altri volti della psicologia delle emozioni, è da rilevare che tra Otto e Novecento, il riso e il comico hanno disvelato spesso – giusta un’acuta osservazione critica di Ezio Raimondi, precisamente a proposito della esperienza intellettuale di Formiggini – un elemento semitico. Non per nulla, nella sua Filosofia del ridere, Formiggini rivolgeva una specifica attenzione a uno scrittore umorista ebreo, Alberto Cantoni; e conviene rammentare che Cantoni, nel Re umorista – che risulta uno dei suoi testi più interessanti – pronuncia vere e proprie dichiarazioni “fuori di chiave” che sembrano alludere a una vasta gamma della psicologia delle emozioni. Come per esempio questa: Ho grande speranza di aver finalmente ucciso l’umorista dentro di me: leggete la più sfortunata qualità di un uomo che possa premere sopra la terra, l’uomo che ride per piangere, che piange per ridere, che non sa nemmeno lui se sia buono o cattivo, liberale o mummia, coraggioso o pigro. Ha tanto di tutto e fuori di posto dentro di sé, che quando vuole tirare fuori una cosa, gliene esce un’altra, quando vuole tacere, parla: quando vuole parlare, tace.
Ridere e piangere compongono dunque una identità plurima, problematica: malinconica, ovvero sofferente e allegra a un tempo. Nella sua tesi di laurea bolognese, Formiggini aveva operato un’acuta riflessione sul filosofo che studi la filosofia del ridere. Infatti, come scrive Formiggini, quel filosofo si troverà di fronte ad una singolare forma di filosofia, l’umorismo, che non è un genere letterario particolare, perché a tutti i generi si adatta, ma che è un particolare modo di vedere e giudicare le cose e i fenomeni di questo mondo e […] può essere considerato […] come un metodo particolare di filosofare, come una lente deformante posta fra l’occhio dell’osservatore e la cosa osservata […].
Formiggini, oltre che Alberto Cantoni, nella sua tesi di laurea, menzionava Luigi Pirandello non ancora celebre come l’autore del saggio sull’umorismo.
xviii i volti delle emozioni
A sua volta, Pirandello, com’è noto, mostrerà di apprezzare molto Alberto Cantoni e a lui dedicherà il saggio Un critico fantastico. Ora, se Cantoni aveva scritto che l’umorismo è paragonabile «alla mezzanotte del primo novembre, ove si registra il passaggio dal giorno dei santi al giorno dei morti: ovvero dall’allegria alla tristezza», così Pirandello, richiamandosi a Cantoni come a un maestro, guarderà all’umorismo come a «un fenomeno di sdoppiamento nell’atto della concezione; è come un erma bifronte, che ride per una faccia del pianto della faccia opposta». Riso e pianto stanno a disvelare una costellazione importante nel cielo delle emozioni umane. In questo senso, un nome richiamato da Ezio Raimondi per segnalare la genealogia ebraica delle filosofie del ridere nel primo Novecento, è quello di Attilio Momigliano, anche lui di origine ebrea, il quale nel 1909, nella «Cultura filosofica», pubblicherà un saggio sul comico, dopo che aveva già pubblicato un libro su Luigi Pulci e il riso. Alla base del saggio di Momigliano sul comico sarebbe stata non soltanto l’influenza della cultura tardo-positivistica, bensì la conoscenza di autori importanti della scienza psicologica moderna come Bergson e Sully. Ancora nell’ambito delle pur note relazioni tra il comico e l’ebraismo, Raimondi ha rilevato che proprio nella cultura di Formiggini – se è vero che nell’ambito di una competenza cospicua intorno alla psicologia moderna e alla relativa letteratura, l’unico personaggio assente risulta Sigmund Freud – già nel 1913 un autore legato allo stesso Formiggini, Giulio Augusto Levi, in un libro sul comico, dedicava un intero capitolo al padre della psicoanalisi e al motto di spirito. Scriveva con acutezza dunque Levi: Se intendo bene il pensiero del Freud – nel motto di spirito il senso e il nonsenso si renderebbero, con un giuoco abbastanza complicato, un servizio scambievole; in quanto il senso fa sfuggire alle proteste (o alle censure) della critica il nonsenso; e a sua volta il piacere del non senso seduce e addormenta il giudizio al contenuto di verità del motto di spirito.
«Si verrebbe – concludeva Levi – in grazia a questo gioco a girare intorno alle barriere o alle censure due volte». Motto di spirito e contenuto di verità sono posti dunque in stretta relazione: ovvero il riso è amico della verità. Si tratta di un topos di lunga durata. Non per nulla, aprendo il suo terzo Saggio sul
filosofia del ridere e malinconia. introduzione xix
materialismo storico intitolato significativamente Discorrendo di socialismo e di filosofia, Antonio Labriola auspicava che nella società dell’avvenire potessero crescere a dismisura «gli uomini atti a discorrere con l’eroico coraggio della verità che ora ammiriamo in Bruno e in Galilei, e si moltiplicheranno in infiniti esemplari i Diderot capaci di scrivere le profonde capestrerie di Jacques le Fataliste»; per concludere il Saggio proprio con un elogio sulla «gaia dialettica del ridere»: se c’è chi abbia il bisogno di vivere fin da ora nel futuro, come da sentirlo e da provarlo sulla propria pelle [...], permetta [...] a me, che pure ho un qualche diritto d’inviare la mia carta da visita ai posteri, di esprimere la speranza, che quei del futuro, non trasumanati tanto da non esser più comparabili a noi del presente […] serbino tanto della gaia dialettica del ridere, da farsi beffe umoristicamente dei profeti dell’oggi.
«Farsi beffe [...] dei profeti». Si tratta di un’attitudine democritea, in quanto, nell’ambito di una antica tradizione letteraria e iconografica Democrito appare il filosofo folle che ride a fronte delle follie – queste sì autentiche e non apparenti – del mondo e della vita: ed è contrapposto a Eraclito, il filosofo che piange o appare malinconico e a ciglio asciutto. Ma a Democrito ridente, ritenuto folle, si attribuisce pure un’attitudine divina: lo si considera infatti portatore di furore, e anche di verità. Verrebbe fatto di pensare a questo proposito a un celebre saggio intitolato Democrito ed Eraclito, in cui Montaigne dichiara la sua opinione sulla piacevolezza e sul potere dissacrante del riso: «Io preferisco l’umore del primo, Democrito [contrapposto ad Eraclito], non perché sia più piacevole ridere che piangere, ma perché è più sprezzante, e ci condanna di più; e mi sembra che noi uomini non possiamo essere mai tanto disprezzati quanto lo meritiamo». Ora, negli appunti di alcune lezioni tenute nell’ambito dei suoi corsi universitari, Antonio Labriola svolgeva alcune acute osservazioni critiche proprio su Montaigne e su un filosofo italiano contemporaneo di Montaigne. Si legge negli appunti di Labriola: Montaigne […] aveva pubblicato i Saggi in lingua viva. Pure Bruno è indeciso. Si appella sempre ai suoi scritti latini. Dialogo vero. Tono di conversazione, ravvivato dal talento poetico. Scherzo: descrizione viva, messa
xx i volti delle emozioni in scena e satira: obbrobri: indignazione: versi (Eroici furori). Non mai stile convenzionale; ma la lingua pare indocile, lo stile fa crepacci, il classico è già prossimo al barocco.
Appare significativo l’accostamento, proposto da Labriola, dei Dialoghi italiani di Bruno ai Saggi di Montaigne. Labriola rilevava nell’opera del Nolano la tipologia di una «conversazione» attraversata dai sali della satira, e soprattutto – è quanto qui più interessa — dallo scherzo e da una teatralizzazione umoristica intesa al rovesciamento in «basso» dei valori dell’«eroico». Non per caso, toccando il problema della ritrattazione di Bruno a Venezia nel giugno del 1592, dopo il suo arresto, quando il Nolano avrebbe implorato la grazia, Labriola aveva modo di osservare che «ai teatrali dell’eroismo, ciò dispiace, ma per me aggrava la colpa di chi l’ha ucciso». E riferendosi alle minacce indirizzate da papa Leone XIII al giovane Stato italiano postunitario scriveva ancora in occasione della costruzione del monumento di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori: per quanto questo stato sia relativamente debole, per quanto sia fiacco da noi lo spirito pubblico, per quanto immatura la democrazia, noi siamo a tale che io, modesto insegnante di filosofia, senza sforzo posso fare quello che un titano del pensiero come Bruno non poté fare. Sarebbe perfino ridicolo mettersi in atteggiamento tragico di fronte a tal gesto di minaccia sul quale passa allegramente l’ironia delle cose. Non occorrono parafulmini contro i fulmini che non toccano.
Scriveva Labriola, a conclusione del suo richiamo bruniano: O Gregorio VII, o Innocenzo III, [...] dite al vostro successore che Giove s’è oramai dimesso da persona tragica e si toglie in mano a titolo di fulmine un giocattolo da parodia. [...] Noi spettatori del cielo riformato secondo lo Spaccio della bestia trionfante – noi che abbiamo l’annunzio da tre secoli – noi ridiamo di cuore.
Dallo stile bruniano dello Spaccio della bestia trionfante Labriola, dunque, sembra derivare direttamente alcune tipologie umoristiche. «Noi ridiamo di cuore», scriveva il buon Labriola: e il suo, anche se non improntato a bonomia, non può definirsi un riso cattivo. Più sfumato nella rappresentazione del riso appare quell’Alberto Cantoni – di cui abbiamo già fatto menzione – il quale ancora una volta,
filosofia del ridere e malinconia. introduzione xxi
in Un re umorista, consegna al protagonista questa riflessione: «Ho visto una volta Pierrot che stava serio da una parte e si scompisciava dal ridere dall’altra parte. Io faccio peggio, ora. Sto serio per di fuori, e rido dentro. Ma rido male». Lo stesso Cantoni, in un altro testo costituito da un dialogo tra un vecchio – personificazione dello humour classico – e un giovane – rappresentante dello humour moderno – scriverà: «Io ho gli occhi rossi quando rido, perché ho spesso voglia di piangere, e voi [è il giovane-humour moderno che si rivolge al vecchio-humour classico] dovreste picchiarvi il petto per la vostra antica e smodata propensione a ridere. Siete stato più fortunato di me?», mettendo ancora una volta in evidenza lo stretto nesso esistente tra la propensione umana al riso e quella al pianto. Luigi Pirandello, mostrando di apprezzare tanto Giordano Bruno quanto Alberto Cantoni, aveva anche scritto, com’è assai noto, che, nell’umorismo, «la riflessione diventa come un demonietto che smonta il congegno […] del fantoccio messo su dal sentimento». Demonietti e fantocci: si tratta di un dizionario peculiare. Ed è sintomatico che Friedrich Nietzsche attribuisca al suo Zarathustra la volontà di avere attorno a sé «dei folletti, perché io sono coraggioso. Il coraggio che caccia via gli spettri, si crea dei folletti; il coraggio vuol ridere. Chi di voi è capace di ridere, e, insieme, di essere elevato? Chi sale sulle vette dei monti più alti, ride di tutte le tragedie, finte e vere. Non con la collera, ma col riso si uccide». E di derivazione niciana, forse più di quanto non sia stato rilevato, risulta essere l’ultimo romanzo di Pirandello, Uno, nessuno e centomila, nel quale si legge di un singolare episodio. Una sera, il folle Moscarda, nella stanza del vescovo Partanna, guardando dai finestroni ha occasione di scorgere «un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo»: Esposto lì al vento furioso, si faceva svolazzare attorno al corpo magro, di una magrezza che incuteva ribrezzo, la coperta del letto: una coperta di lana rossa, appesa e sorretta tra le due braccia in croce, su le spalle. E rideva, rideva con un lustro di lagrime negli occhi spiritati, mentre gli volavano di qua e di là, lingueggiando come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossicci.
E «rideva, rideva con un lustro di lagrime». Una descrizione, quella di Moscarda – la cui follia sarà sancita, verso la fine del romanzo, anche dal suo ossessivo osservare e tastare la trama e i fili di
xxii i volti delle emozioni
una coperta di lana verde. Una postura, quella del personaggio esposto al vento, che molto ricorda quella, analoga, di un folle che ride e che piange, divenendo agli occhi dei suoi osservatori uno spettacolo freudianamente inquietante. Ne I vecchi e i giovani, il punto d’osservazione diviene una chiesa, in cui una folla è in ascolto di un’omelia che ha per sottofondo «sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolii che spesso avevano distratto più d’uno, diffondendo [...] uno sbigottito rammarico della vanità di quella interminabile esercitazione oratoria». Ma a distrarre i presenti vi è, come per l’episodio di Moscarda, una visione assai singolare: Parecchi se n’erano stati a guardare attraverso uno di quei finestroni il terrazzino d’una vecchia casa dirimpetto, sul quale un povero matto pareva provasse chi sa che voluttà, forse quella del volo, esposto lì al vento furioso che gli faceva svolazzare attorno al corpo la coperta del letto, di lana gialla, posta su le spalle: rideva con tutto il viso squallido, e aveva negli occhi acuti, spiritati, come un lustro di lagrime, mentre gli scappavan di qua e di là, come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossigni.
L’uomo scappato dal letto con una coperta rossa; il pazzo ridente con la coperta gialla; Moscarda con indosso la sua coperta di lana verde. Pare quasi che la coperta divenga filo conduttore di una strana esibizione di follia; e assieme a questa torni il riso spiritato: un riso non convenzionale, e dunque esso stesso folle. Pure nel segno di Nietzsche, nel clima dell’avanguardia primonovecentesca e dei suoi rovesciamenti parodici, si muove Aldo Palazzeschi, il quale, per così dire, promulga un vero e proprio manifesto del riso. In una pagina del suo Controdolore si legge infatti come «la superiorità dell’uomo su tutti gli animali è che ad esso solo fu dato il privilegio divino del riso. Un piccolo e misero topo può farci udire il suo pianto, i suoi lamenti; nessun animale ci ha fatto udire ancor una calda sonora risata». Spiegava ancora Palazzeschi: Che il riso (gioia) è più profondo del pianto (dolore), ce lo dimostra il fatto che l’uomo, appena nato, quando è ancora incapace di tutto, è però abilissimo di lunghi interminabili piagnistei. Prima che possa pagarsi il lusso di una bella risata avrà dovuto seguire una buona maturazione.
Sulla spinta di questa motivazione si fissava nel Controdolore un programma educativo peculiare:
filosofia del ridere e malinconia. introduzione xxiii Fissate bene in viso la morte – scrive ancora il poeta – ed essa vi fornirà tanto da ridere per tutta la vita. Io affermo essere nell’uomo che piange, nell’uomo che muore, le massime sorgenti della gioia umana. Bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato, più insolente, al coraggio di ridere rumorosamente appena ne sentano la necessità.
Si tratta dello stesso Palazzeschi che, nel 1914, dichiarava la necessità di «tornare come quel fanciullo», intendendo riferirsi alla poetica del fanciullino di Pascoli: in un tempo in cui quella poetica poteva costituire un implicito obiettivo polemico per un giovane come Palazzeschi, che si credeva arruolato nella schiera dei futuristi. Quello di Palazzeschi non era certo un fanciullino che piange: era bensì un bambino sfacciato, irrispettoso e burlone, che restava però come nascosto sotto le immagini stilizzate di strani, bianchi o «candidi fanciulli», quali quelli che appaiono nelle raccolte dei Poemi e dell’Incendiario. Se dobbiamo stare alle pagine del Controdolore, il tema del bambino che ride è per il primo Palazzeschi più un’istanza programmatica che un’immagine concreta e frequente di scrittura poetica. È stato osservato, a proposito delle sembianze del riso nei Poemi – pubblicati nel 1909 – come quelle sembianze rappresentino per Palazzeschi un autentico rovesciamento, una svolta verso il divertimento e una provocazione, nonché l’uscita dall’anonimato: «Palazzeschi ha più volte ricordato come un improvviso miracolo la scoperta del riso, e l’ha anche attribuita all’imprevista reazione dei propri primi lettori»; e qui sono da rammentare le parole del poeta: «allorquando ne volli far parte agli altri tutti si misero a ridere, a ridere tanto da doversi reggere la pancia. Questo m’incoraggiò anche di più: avevo trovato la mia strada». Ma una grande disperazione doveva far seguito a quell’allegria. La giovinezza del poeta, se si deve credere a una sua confessione che si legge nella prefazione alle Opere giovanili del 1958, era stata una «giovinezza turbata e quasi disperata», sebbene illuminata dalla scoperta e dal miracolo dell’allegria, del riso. Di questo evento misterioso Palazzeschi cercò di chiarire a se stesso le ragioni nella prosa riflessiva del Controdolore, in cui è un nucleo “rivoluzionario”, futurista, di trasformazione del pianto in riso, in cui il nucleo ancora più profondo e originale è dato dal re-attingimento di una purezza e ingenuità e capacità di gioia che sono proprie dei fanciulli, sempre
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pronti a «ridere con fragore non appena ne avvertono il bisogno e dappertutto». Palazzeschi si rappresenta, com’è noto, come il «saltimbanco» della propria anima: esserlo, spiegava Soffici, significa per il poeta una apertura sterminata oltre ogni convenzione, ogni preoccupazione extra lirica, ogni ridicolo preconcetto didattico, civico, umanistico, tendente a fare del poeta qualcosa di simile a un apostolo, illuminatore, consolatore e guidatore dei popoli... Estetica del clown, si dirà. Appunto, e il clown, se e in quanto dilettante, rappresenta meglio di ogni altro la figura dell’artista disinteressato, l’idea del divertimento per il divertimento.
Riso e pianto si alternano dunque nel corso del Novecento letterario italiano, in una continua e irrinunciabile complementarità. Ma una riflessione sul “riso” nel tempo storico del Novecento deve tenere in considerazione almeno un autore, cui paradigmaticamente si associa l’idea dell’angoscia: questi è Franz Kafka. È stato rilevato che Kafka, forse come nessun altro autore mitteleuropeo, ha ereditato dai cabalisti «la loro profonda, complicata ilarità, ovvero la capacità di trasformare l’angoscia in ilarità, il terrore scomposto in danza agile e leggera». Si racconta che, durante una lettura ad alta voce delle pagine d’esordio del Processo, gli amici di Kafka risero fino alle lacrime, particolarmente ove è la questione della grazia; e l’autore stesso rise fino alle lacrime assumendo egli stesso «i tratti di quell’essere grottesco, Odradek, di cui ci lasciò scritto». Ma chi è Odradek? Così si legge nel racconto di Kafka: «Come ti chiami?» «Odradek», dice lui. «E dove abiti?» «Senza fissa dimora», replica ridendo; ma è soltanto una risata priva di polmoni.
Colui che interroga Odradek è un padre di famiglia, il quale, con segreto affanno, recita: «Invano mi domando: che sarà di lui? [...] È evidente che non fa del male a nessuno; però l’idea che potrebbe sopravvivere anche a me finisce quasi per riempirmi d’angoscia». Proprio nella scia di Kafka – lo ha sottolineato Contini – si svolge un racconto di Elio Vittorini, in cui si trapassa da fantasmi fune-
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bri e dolorosi al riso. Si legga un passo da Nome e lagrime, dove il protagonista si lancia nell’affannosa ricerca di una donna: La città, a quelle latitudini, si alternava in prati e alte case, campi di Marte oscuri e fiere di lumi, con l’occhio rosso del gasogeno al fondo. Domandai più volte: “È passata di qua?” Tutti mi rispondevano di non sapere. Ma una bambina beffarda si avvicinò, veloce su pattini a rotelle, e rise. “Aaah!” rise. “Scommetto che cerchi mia sorella”. “Tua sorella?”, io esclamai. “Come si chiama?” “Non te lo dico”, la bambina rispose. E di nuovo rise; fece, sui suoi pattini, un giro di danza della morte intorno a me.
E di lì a poco il riso della bambina si ripete, riverberandosi nella strada vuota e nella mente del protagonista – e del poeta: “Aaah!” rise. “Dimmi allora dov’è” io le domandai. “Aaah!” la bambina rise. “È in un portone”. Turbinò intorno a me nella sua danza della morte ancora un minuto, poi pattinò via sull’infinito viale, e rideva. “È in un portone” gridò da lungi, ridendo.
Anche qui, dunque, riso e angoscia: come sarà in Conversazione in Sicilia. Vi è in particolare un passaggio del romanzo, in cui il riso «dell’uomo Porfirio» si contrappone al mesto dondolare degli altri personaggi: Mesti, essi dondolavano il capo cantando sulla panca, e pareva che lo dondolassero come alcuni lo dondolano quando piangono, e il loro canto era roca lamentazione... A lungo l’uomo Porfirio guardò loro, poi di nuovo guardò Ezechiele, me, [...] e io pensai che era forse costernato [...]. Ma egli era sereno, invece [...]. Non guardò più nessuno, e la sua faccia fu ridente, non vide altro, dinanzi a sé, che l’ignuda felicità, da gnomo del vino, di Colombo. E giacque nella matrice del vino [...], fu il ridente addormentato antico che dorme attraverso i secoli dell’uomo, padre Noè del vino.
Vero è che Italo Calvino – tracciando un bilancio dell’opera di Elio Vittorini, e segnalando le incomprensioni dello scrittore siciliano nei confronti della letteratura dell’angoscia – osservava che «Beckett sembra confermare ed evocare la catastrofe perché ci piange (o ride, che è lo stesso). Ma io credo che Beckett possa essere letto in un senso anche opposto, possa essere apprezzato in un senso anticatastrofico: ridendo, facendo sberleffi al pianto, Beckett non esorcizza, forse? Non rende inutilizzabile, abitandola, ogni immagine di
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catastrofe?». Calvino ha impartito anche in questo modo la lezione del dubbio, dei chiaroscuri, delle sfumature. Per questo si potrebbe dire che, tra angoscia e speranza, senza fissa dimora come Odradek – ovvero con la gamma assai ampia delle sue tipologie e delle sue figure – il riso, sospeso tra le dimensioni dell’antico e le dimensioni del moderno, sembra costituire ancora oggi un affascinante segreto. Del resto, ancora molti anni dopo il Controdolore, un altro poeta del “difficile” Novecento italiano, avendo ben presente l’originaria lezione di Nietzsche, ma anche il tempo storico dell’avanguardia e la solidarietà con Palazzeschi, si faceva ancora una volta assertore della maschera del riso. Così, infatti, Giuseppe Ungaretti, scrivendo da Harvard al suo amico Leone Piccioni, si confessava, cercando di spiegare, e di spiegarsi, quel misto di curiosità e ammirazione che la sua presenza suscitava in quel luogo: «Non posso non avere il pianto dentro ma per gli altri non avrò mai il muso e continuerò a ridere fino alla fine dei secoli. [...] Sono allegro, almeno d’aspetto; ma sai quale implacabile ironia ci sia, per me, nella parola Allegria». postilla Ungaretti scriveva a Leone Piccioni invitandolo a ricordare quanta implacabile ironia si nascondesse dietro la parola «Allegria». A maggior ragione tale indicazione doveva valere per Angelo Fortunato Formiggini, il cui stesso nome disvela una incredibile contraddizione, a considerare la «disdetta» o la «malora» nascoste nel suo destino. Negli ultimi anni della sua vita, Formiggini inseriva nella collana dei «Classici del ridere» un testo autobiografico, la Ficozza, che lui stesso definiva il suo «amaro stil novo». Era un libro in cui veniva annunciato il destino futuro dell’autore modenese: il quale in una pagina intensa invitava il figlio a raccogliere, dopo la propria morte, le ceneri del padre e a disperderle nei luoghi che a lui erano stati cari. Mutuando una osservazione icastica di Federico De Roberto, altro autore che, per le incomprensioni sofferte, di amara «disdetta» della vita s’intendeva, potremmo ben dire «che il tempo passa e si porta via anche il sorriso, finché non resta più nulla». Infatti nel 1938, per silenziosa risposta alle leggi razziali promulgate dal regime fascista a cui pure aveva aderito, Formiggini decideva di lan-
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ciarsi dalla torre Ghirlandina, a Modena, la sua città. Secondo quanto è stato suggerito, dovremmo veramente proporci di intendere il paradosso della morte di quest’uomo – suicida per una protesta della quale lui stesso dichiarava, con molta lealtà, di non sentirsi testimone autentico. Forse proprio per questa ragione la vicenda di Formiggini può disvelare una figura che attraversa emblematicamente il nostro Novecento letterario: quella dell’individuo «estraneo» o «escluso»; il quale – partecipe della vita degli altri e sradicato a un tempo – prova a nascondere la propria tristezza profonda dietro la maschera gaia del ridere. riferimenti bibliografici (secondo l’ordine di trattazione) i. Opere Angelo Fortunato Formiggini, Filosofia del ridere. Note ed appunti, a cura di Luigi Guicciardi, Bologna, Clueb, 1989. Giovanni Pascoli, Prefazione alla Miscellanea Tassoniana di studi storici e letterari pubblicata nella festa della Fossalta 28 giugno 1908, a cura di Tommaso Casini e Venceslao Santi, Bologna-Modena, Formiggini editore, 1908. Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, con prefazione di Ezio Raimondi, Torino, Einaudi, 1992. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, in Id., La gaia scienza. Idilli di Messina e Frammenti postumi, a cura di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, Milano, Adelphi, 1967. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, versione di Mazzino Montinari e con una nota di Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 1976. Jake Sully, Essai sur le rire. Ses formes, ses causes, son développement et sa valeur, traduzione dall’inglese a cura di Léon e Adrienne Terrier, Parigi, Felix Alcan editeur, 1904. Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, a cura di Federica Sossi, Milano, se, 2002. Alberto Cantoni, Humour classico e moderno, a cura di Massimo Rizzante, Trento, Editrice Università degli studi di Trento, 1997. Alberto Cantoni, L’umorismo nello specchio infranto, a cura di Fabiana Barilli e Monica Bianchi, Mantova, Edizioni Al Cartiglio Mantovano, 2005 (comprende tutti gli scritti). Antonio Labriola, Scritti varii editi e inediti di filosofia e politica, a cura di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1906.
xxviii i volti delle emozioni Antonio Labriola, La concezione materialistica della storia, con introduzione di Eugenio Garin, Bari, Laterza, 1973. Antonio Labriola, Scritti politici (1886-1904), a cura di Valentino Gerratana, Bari, Laterza, 1970. Luigi Pirandello, L’umorismo, introduzione di Nino Borsellino, prefazione e note di Pietro Milone, Milano, Garzanti, 1995. Luigi Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura di Anna Nozzoli, cronologia di Simona Costa, Milano, Mondadori, 1992. Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, a cura di Giancarlo Mazzacurati, Torino, Einaudi, 1994. Aldo Palazzeschi, Tutti i romanzi, a cura e con introduzione di Gino Tellini, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 2004, vol. i (comprende pure Il controdolore). Franz Kafka, I racconti, a cura e con introduzione di Giulio Schiavoni, Milano, BUR, 1985. Elio Vittorini, Le opere narrative, a cura di Maria Corti, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 1974, voll. i e ii. Italo Calvino, Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980. ii. Studi Angelo Fortunato Formiggini: un editore del Novecento, a cura di Luigi Balsamo e Renzo Cremante, Bologna, il Mulino, 1981. Eugenio Garin, Editori italiani tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1991. Palazzeschi e i territori del comico (Atti del convegno di studi, Bergamo, 9-11 dicembre 2004), a cura di Matilde Dillon e Gino Tellini, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2006. Eraldo Bellini, Studi su Ardengo Soffici, Milano, Vita e Pensiero, 1987. Pasquale Guaragnella, Il pensatore e l’artista. Prosa del moderno in Antonio Labriola e Luigi Pirandello, Roma, Bulzoni, 2005. Calvino e il comico, a cura di Luca Clerici e Bruno Falcetto, Milano, Marco y Marcos, 1994. Filippo Ceccarelli, Sorriso e riso. Saggio di antropologia bisociale, Torino, Einaudi, 1988. Gianni Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione comicità scrittura, Torino, Einaudi, 1975. La novella e il comico da Boccaccio a Brancati, a cura di Nicola Merola e Nuccio Ordine, Napoli, Liguori, 1996. Jean Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, a cura di Corrado Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, 1984.
filosofia del ridere e malinconia. introduzione xxix L’arte del saltimbanco. Aldo Palazzeschi tra due avanguardie (Atti del convegno internazionale di studi, Toronto, 29-30 settembre 2006), a cura di Luca Somigli e Gino Tellini, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2008. Gino Tellini, Le muse inquiete dei moderni. Pascoli, Svevo, Palazzeschi e altri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006. Simone Magherini, Introduzione a Aldo Palazzeschi-Ardengo Soffici, Carteggio 1912-1960, a cura di Simone Magherini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011. Raffaele Donnarumma, Palazzeschi e «Il codice di Perelà». Narrare nell’avanguardia, in «Belfagor», 59, luglio 2004, pp. 446-458. Marino Biondi, Cronaca di un’amicizia, in Id., La provincia e la sua ombra, Firenze, Vallecchi, 1984, pp. 137-152. Antonio Saccone, «Qui vive | sepolto | un poeta». Pirandello Palazzeschi Ungaretti Marinetti e altri, Napoli, Liguori, 2008. Giuseppe Ungaretti, L’allegria è il mio elemento. Trecento lettere con Leone Piccioni, a cura di Silvia Zoppi Garampi, Milano, Mondadori, 2013. Andrea Tagliapietra, Non ci resta che ridere, Bologna, il Mulino, 2013. Bruno Brunetti, Luigi Pirandello. Il fu Mattia Pascal, in L’incipit e la tradizione letteraria italiana. Novecento, a cura di Pasquale Guaragnella, Stefania De Toma, Lecce, Pensa MultiMedia, 2011.