Michele Barbieri lavora come ricercatore in Filosofia Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena. È titolare di un insegnamento di Estetica Politica. Allo studio delle forme e radici letterarie di una mentalità nazionale ha già dedicato un libro sui drammi giovanili di Goethe.
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Michele Barbieri
Manierismo di Kant michele barbieri manierismo di kant. studio di estetica politica
Questo libro è prodotto di un’Italia che “non s’inkanta”: l’autore vede iniziare con Kant e con la filosofia professorale la parabola discendente del pensiero moderno. L’assunto generale riconosce alla contemplazione e all’imitazione, alla narrazione e all’ascolto, il valore di fonte primaria d’ogni conoscenza d’ordine superiore, e attribuisce alla trattazione filosofica una dignità non diversa da quella di un particolare genere letterario, senza altre pretese. La trattazione kantiana si distingue per la povertà culturale delle sue pretese. L’insolita attenzione lungamente dedicata alla lettura degli scritti precritici dà la misura dello scarso talento teorico delgiovane e meno giovane Kant, e toglie alla Critica della ragion pura l’inspiegabile aura del geniale raffazzonamento creativo. Un minuzioso lavoro di comparazione fra le traduzioni italiane (Gentile, Colli, Chiodi, Marietti, Esposito, oltre a Carabellese) viene effettuato su una campionatura di passi scelti della prima Critica. A dispetto di ogni difficoltà sorgente nella teoria e nella scrittura, si vede come Kant si lasciò guidare per lo più dall’istinto della fuga: lo stile rivela il suo compunto disordine. Cresciuto all’ombra di giganti, egli seppe dare una statura alla mediocrità. La prospettiva filosofico-politica di questo studio illumina i lontani pregiudizi dei gruppi dirigenti nazionali. Il dualismo teorico kantiano ha formato la mentalità attivistica di chi ha voluto fare del Novecento il Secolo della Germania. Il moralismo pratico, d’altra parte, è complice di quell’arte massima della minima giustificazione che solleva gl’intellettuali da ogni responsabilità nel momento dell’azione, e permette di svernare con dignità ai reduci di tutte le svolte.
Studio di estetica politica
Società
Editrice Fiorentina
Michele Barbieri
Manierismo di Kant Studio di estetica politica
SocietĂ
Editrice Fiorentina
La presente pubblicazione è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali dell’Università degli Studi di Siena e con fondi del piano di Ateneo per la ricerca
© 2007 Società Editrice Fiorentina via G. Benivieni 1 - 50132 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-032-2 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina Jusepe de Ribera (1591-1652), Il tatto, 1615-1616 ca, olio su tela, 115,9 x 88,3 cm (Pasadena, CA, The Norton Simon Foundation)
All’amico e maestro Claudio Annaratone
Non è soltanto nella poesia e nella musica che dobbiamo seguire il nostro gusto e il nostro sentimento, ma anche in filosofia. David Hume
Indice
Presentazione
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Introduzione: Filosofia politica de la critica
27
Libri da ascoltare Manierismo, autismo Militarismo, revisionismo, moralismo Anarcosindacalismo, barbarie, pregiudizio Neokantismo Libertà e forma, egemonia Nozioni, istituzioni Filosofia politica, dottrine politiche Analogie Intellettualismo e caratteri Schemi, archetipi Impressioni originarie complesse Dogmatismo linguistico dell’empirismo Formule logiche secondarie, giudizi in concetto Intellettualismi rivali Bibliografie: nient’altro che percorsi di lettura
28 31 36 41 48 53 59 62 64 67 69 71 75 77 81 84
Parte prima: Avanti «La Critica»
87
i. Analisi tematica
89
Su di un profilo dossografico Su di un profilo stilistico Su di un profilo logico Su di un profilo esemplificativo Su di un profilo formale Su di un profilo metaforico e testuale Su di un profilo figurale
92 104 123 138 154 170 181
ii. Analisi cronologica
189
«L’unico argomento» La «Teologia naturale» Le «Quantità negative» Le «Osservazioni», i «Sogni»
190 206 240 262
Parte seconda: «La Critica» 291 i. Una critica del testo
293
294 301 307 315 324 334 343
La città sensibile La città tralasciata La città antonomastica La città concreta La città nascosta La città celeste La città fondata
ii. Una logica del testo
351
353 363 370 379 391 396
La città animastica La città data La città intuitiva La città esterna La città svelata La città cosmica
Epilogo: Centralità logica di un problema lirico
407
indici 421
Indice onomastico 423 Indice tematico 429
Presentazione Mortali del tutto ignari vanno errando, dalla doppia testa: perplessità nei petti dirige infatti la lor mente vagante; e sordi insieme e ciechi, inebetiti, son trascinati senza criterio, tenendo l’essere e il non-essere lo stesso, oppure no, e pronti a rifare ogni strada a ritroso. Parmenide (DK 6) L’imitare è connaturato agli uomini sin da fanciulli, e in ciò si distingue l’uomo dagli altri animali: in quanto è un essere estremamente imitativo, e si procura per imitazione le prime nozioni. Aristotele, Sulla poetica
Desidero cominciare giustificando l’insolita ampiezza di questa Presentazione: tra le innumerevoli letture che spesso lo attendono, penso che il lettore abbia il diritto di annusare un libro, per capire nello spazio di poche pagine se valga la pena di perderci il suo tempo. Il titolo, Manierismo, significa per lo più: intellettualismo sensibilmente fondato – vale a dire: la pretesa di dare una fondazione sensibile all’intellettualismo, che contraddistingue Kant rispetto ai filosofi ‘intellettualisti’ da lui stesso come tali apertamente menzionati (Platone e Leibniz), o non apertamente menzionati (gli scolastici), o come tali non menzionati (Cartesio) nella Critica della ragion pura. Il sottotitolo, Studio di estetica politica, sta a significare la più scomoda espressione: Studio logico e ideologico, su base per lo più filologica, di filosofia politica. S’intende che le due espressioni valgono come equivalenti – solo, si capisce, non reciprocamente: con la filologia che sta all’estetica, e con questa che sta alla filosofia, come contenuto a contenente. E parlando di ‘estetica’ non intendo riferirmi ad alcuna pretesa scienza del bello, naturalmente, bensì alla disciplina di qualsivoglia sensibilità intelligibile, o almeno discutibile; né intendo per ‘filologia’ alcuna arte ricostruttiva del testo, bensì nient’altro che l’attenzione specialmente rivolta a percepire l’intenzione dell’autore, e il risultato del testo.
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Comunque lo si vorrà giudicare, e sebbene io non pretenda di rappresentare nient’altri che me stesso, questo libro risulta essere di fatto il prodotto, non del tutto singolare, di un’Italia che «non s’inkanta»1. Ma il suo scopo non è quello di distogliere da false vie maestre né, tantomeno, di abbassare la statura di alcuno. Esso vuole offrire un contributo allo studio delle origini prossime di una mentalità nazionale, a cominciare dalle forme prime di mentalità dei ceti dirigenti intellettuali. Il caso tedesco è stato di eccezionale importanza per spiegare l’avventura del Novecento: la quale ha visto addensarsi nei piani dei circoli economici burocratici e militari aspirazioni e arroganze già da lungo tempo vive e sancite in ambienti accademici. Da simili aspirazioni e responsabilità Kant è stato di solito esentato, e fatto anzi lume in tempi di tenebre: lume irenico, oppure realistico. L’appello, in entrambi i casi, è legittimo – ma lo considero in ogni caso un errore. E in quanto è stato, in particolare, un errore ‘di sinistra’, considero il ritorno a Kant nient’altro che uno dei tanti fallimenti teorici della sinistra – il secondo, almeno, dopo la pretesa di fare del socialismo una scienza. E non basta: perché al di là del ripiegamento su Kant, che è piuttosto frequente negli hegeliani disarmati o pentiti (in coloro, insomma, che non si sono limitati a ripiegare soltanto sino a Fichte – per poi, di solito, riaprire la dialettica autistica del ciclo idealistico), c’è ancora un terzo errore, consistente nel gettare, al di sopra e a dispetto di Leibniz, più lontani sguardi sul retroterra strategico della metafisica spinoziana – vale a dire: sulle complicità che il primato teologico della Sostanza può offrire a un materialismo ideologico, avido di assoluto semplicemente perché stanco delle dialettiche. Dopo avere accolto l’invito kantiano col cercare di dare fondamento scientifico a un’ideologia della fraternità, della speranza e del lavoro, il marxismo si è reso responsabile anche di questo sconfinamento prospettico del socialismo, dal quale esso ha tratto i suoi veri paraferni totalitari, al di là degli armamentari hegeliani. E al di là dello spinozismo, su di uno sfondo ancora più remoto, s’innalza poi lo schema neoplatonico dell’unica emanazione graduata dall’alto: il quale costituisce, in definitiva, la legittimazione metafisica di ogni ideologia della politica intesa (la politica) come estensione e continuità dell’amministrazione – vale a dire: della politica concepita come negazione dell’essenza
1 Il giudizio di Melchiorre Gioia è tratto da Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1966, iii, p. 1071. Con sufficienza Garin rimprovera all’ambiente filosofico italiano d’avere esaurito un’esigenza antidogmatica in una «pura descrizione della vita psichica», incapace d’innalzarsi alla filosofia trascendentale e alla metafisica del «kantismo». Il biasimo si riduce, in definitiva, al fatto di non aver saputo cogliere tempestivamente l’occasione per salire sull’ultimo treno della Storia della Filosofia.
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o forma della politica2, e come affermazione di un significato ‘forte’ (cogente sanzionatorio statualistico) dell’ideale di una umanità riunita nell’edificio amministrativo dell’Impero. Il neoplatonismo come tarda, e tardiva, ideologia cosmica dell’Impero concepito come uno Stato (basato, cioè, su una relazione di emanazione gerarchica, e di diretta partecipazione dell’autorità ai territori e ai soggetti, anziché, essenzialmente, su di un libero rapporto d’imitazione e di emulazione: come invece è stato tipico, per esempio, del feudalesimo, e come è ora tipico delle democrazie contemporanee in ciò che abitualmente chiamiamo Occidente); il neoplatonismo, dunque, è già nient’altro che una teologia della Sostanza estesa nei modi. E più indietro ancora, infine, c’è la pura e semplice confusione logica e terminologica della nozione di essenza con la nozione di sostanza, che è tipica di tutto il mondo antico. Il suo inizio può essere rintracciato nella gnomica oracolare di tipo eracliteo, nella quale si trova per la prima volta, accanto alla fisica e metafisica della multiforme e fluente Sostanza, anche l’intuizione dell’Essenza, ossia dell’unità ontologica come puro rapporto simbolico e come stabile forma sensibile – o come ‘senso’ dell’essere, insomma, che manca al pitagorismo. Una quantità di ragioni, storiche e non, ha poi fatto sì che il pensiero speculativo sull’Essenza, o sulla forma e sul rapporto, non abbia avuto uno sviluppo neppure lontanamente paragonabile ai grandiosi sviluppi sistematici della metafisica della Sostanza. Già il completo sacrificio del pensiero eracliteo all’idea del perpetuo divenire e del fuoco, che si consuma sin dai suoi primi imitatori e seguaci, sta lì a mostrarlo – insieme con la conseguente, inevitabile, polemica antiintellettualistica parmenidea contro uomini incapaci di darsi una qualsiasi ferma opinione: in balìa (diremmo noi) di tutti i regimi, indifferenti, ovvero pronti a correre in soccorso dell’ultimo vincitore. Il perpetuo fluire delle opinioni non è che successione ininterrotta di relazioni – ma è un errore credere che nulla ne rimanga di stabile: esistono anche le ferme e rette opinioni, le nozioni virtuali d’ordine superiore che si generano per via cinematica di narrazione – a partire, per esempio, dall’Umanità e dalla Giustizia. Il loro involontario scopritore è Hume, il quale credeva di potere, così descrivendole, soltanto smascherare come pure illusioni dell’immaginazione. Scrive egli infatti in una pagina del Trattato sulla natura umana: 2 Uso qui come altrove, per lo più, i termini ‘essenza’ e ‘forma’ come sinonimi; e intendo la forma come niente più né meno che l’aspetto sensibile dell’essenza. Dovrò precisare, all’occasione, che i termini non si equivalgono (nella Parte Seconda, al capitolo sulla Logica del Testo, per esempio, fra le note 16 e 17).
12 presentazione La vera natura ed essenza della relazione è, appunto, di unire le idee le une alle altre, e all’apparire dell’una facilitare il passaggio all’idea correlativa. Il passaggio tra le idee in relazione è, quindi, così piano e facile, che produce ben lieve alterazione nella mente, e sembra la continuazione di un medesimo atto; e poiché la continuazione d’uno stesso atto è un effetto della continuata osservazione di uno stesso oggetto, questa è la ragione per cui attribuiamo l’identità ad ogni successione di oggetti in relazione. Il pensiero scorre attraverso quella successione con eguale facilità, come se considerasse un oggetto solo, e quindi confonde la successione con l’identità3.
Ma in tal modo Hume non faceva che togliere la maschera a una verità: dell’uomo come animale emotivo, mnemonico, immaginoso. Egli non conosceva ancora il cinema – ma è pur vero che il cinema è antico quanto la letteratura; e nelle opportune condizioni la letteratura è in grado di trasformare una successione ininterrotta di relazioni nello stabile rapporto che suggerisce il vero ‘senso’ delle cose. Perciò Eraclito ebbe, in definitiva, un unico torto: quello di non possedere il talento narrativo di un autore tragico; e per naturale conseguenza detestò i poeti, e immaginò che la metafisica fosse qualcosa di diverso e di superiore rispetto alla letteratura – inaugurando, così, una lunghissima e saldissima tradizione, che si spalanca con Platone. Ma il lettore si guardi intorno, e risponda oggi francamente: qual è ormai, per noi, la copia della copia, e qual è l’originale – le trattazioni dei filosofi sulle passioni, o la loro espressione nei poeti? Chi è più vicino all’originale: il secondo libro del Trattato di Hume, o il teatro di Metastasio? Qual è, dopo Shakespeare, il libro scritto a caratteri più piccoli e meno leggibili: quello della città, o quello del cuore? Quanto poi allo schema gerarchico dell’emanazione, ossia del perpetuo flusso dall’alto, è anche vero che esso è a suo modo una stabile forma conciliata con l’idea del perpetuo movimento – ma lo è in quanto questa forma è, per l’appunto, nient’altro che un semplice schema; mentre in quanto questo schema è gerarchico esso rappresenta la pura e semplice negazione del rapporto, e perciò della forma intesa essenzialmente come rapporto. Ma in ogni caso, chi spera o teme di trovare in questo libro una complicata giustificazione preliminare dell’uso di questi termini, o una successiva disquisizione in sede di trattazione, non le troverà: perché ne troverà invece assai di frequente nient’altro che il semplice uso – il più attento ed efficace possibile, ma soltanto un uso: non diverso, come spiegherò nell’Introduzione, dall’uso di nozioni estetico-politiche come ‘civiltà’ e ‘barbarie’ da parte, per notissimo esempio, del Burckhardt. Libro i, parte v, sezione ii (a cura di Eugenio Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1975, i, p. 217).
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Fra un primato (diciamo così) spinoziano della Sostanza e un primato (diciamo così) leibniziano dell’Essenza Kant si trovò nella posizione di potere scegliere, e con la Critica sembrò anche mettersi su di una strada assai promettente; ma per difetto di una buona cultura della sensibilità finì per riaprire la via alla sistematica sostanzialistica. Sotto questo profilo il suo contributo si riassume, di fatto, in un impulso a quella ricostruzione (ma dal basso) di qualcosa di simile all’edificio neoplatonico, che avviene poi coi grandi sistemi dell’idealismo romantico. Nella genericità e nella vacuità degli assunti estetici kantiani questa metafisica di lungo ricorso non fa insomma che perpetuarsi in forme diverse, dando origine, proprio per difetto di vera cultura estetica, a nuove superfetazioni intellettualistiche; le quali sembrano essere, del resto, il complemento immancabile di ogni metafisica della Sostanza. *** Sotto il profilo più specifico della filosofia politica, considero l’appello o l’appiglio a Kant un errore, non già perché egli avrebbe avute aspirazioni e arroganze simili a quelle che animarono tutti coloro che, in ogni paese d’Europa, furono in qualche modo responsabili di una doppia guerra civile: se si bada ai soli enunciati del suo pensiero, filtrati nelle dottrine politiche, è infatti vero esattamente il contrario. E lo considero un errore non tanto perché giudico illusoria ogni fiducia irenica riposta nei dotti auspici delle sue formule, che valgono quello che valgono; ovvero perché ogni periodico ritorno a Kant consiste, per lo più, nel completarne la dottrina facendogli dire, in definitiva, ciò che non ha detto. No: il problema (per chi ama cercare i problemi, anziché trovare le soluzioni proclamate nei fini, o con le intenzioni) è altrove, assai più originario e riposto; ed è un problema logico, che viene in questo libro indagato con metodo filologico secondo un modo d’intendere la filologia come disciplina primaria della conoscenza sensibile. Il problema politico, logico e sociologico, diventa così un problema estetico. E l’estetica possiede tutti gli strumenti, logici e sensibili, per trasformare un pregiudizio in un motivato e discutibile giudizio. È un metodo faticoso; e non credo di sbagliare di molto affermando che per nove decimi la letteratura filosofica monografica ha trascurato, e ancora di solito trascura, la filologia, e spesso persino la lettura attenta dei testi: il pensiero dell’autore non è che un assunto complessivo, dove ciò che conta è un risultato già noto, per lo più, attraverso la mediazione di scuole e di maestri. L’attenzione rivolta ai problemi di testo e traduzione è per lo più lemmatica,
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e tendente alla sintesi concettuale, come accade per lo più nella letteratura delle riviste; e non cura, anzi evita di considerare nel testo delle grandi opere il ‘senso’ prosastico fortemente diseguale, cioè il valore topico e intenzionale, del materiale prescelto per la campionatura: ciò che fa sì, insomma, che a dispetto di ogni significato concettuale già acquisito da un lemma l’autore proceda, in ogni pagina, flettendolo e anche violandolo per ottenere il suo scopo. Trascurando questo valore topico intenzionale il lemma diventa concetto, e il concetto diventa a sua volta un assunto per la letteratura monografica e manualistica – come dire: pronto per la dottrina e per la scuola. La disunione tra filologia e filosofia risulta così, in definitiva, come discontinuità fra la letteratura monografica e la letteratura specialistica delle riviste, o fra l’esegesi di questa e le interpretazioni di quella4. Come si vedrà in questo libro, soprattutto nella Seconda Parte, questo materiale di campionatura mostra un Kant brancolante in una continua lotta fra scrittura e pensiero – e tuttavia ben deciso ad andare avanti, verso qualcosa che egli già sapeva e voleva. A differenza dei principali tipi d’interesse testuale più noti (praticati, per esempio, da uno Smith, oppure da un Vaihinger: la Critica della ragion pura fatta di contraddizioni a ogni pagina, oppure come costruzione di un prodigioso castello di carte), l’attenzione sarà qui rivolta, per l’appunto, al ‘senso’, o logica di tendenza, di questi brancolamenti: vale a dire, al ruolo istintivo di guida di una costruttiva sensibilità latente. Momento per momento, pagina dopo pagina, questa istintiva sensibilità sistematica dovette accompagnare come volontà organizzativa il raffazzonamento del Trattato. Perdendo di vista questa insensibile guida dell’istinto costruttivo, e dopo avere dato del pensiero kantiano un sunto che è troppo simile al pensiero empirico e relativistico di Hume5, allo Smith non resta che narrare le tergiversazioni della prima Critica. Egli fa largo e libero ricorso all’insieme delle opere di Kant, nonché alla letteratura monografica; e del resto non svolge alcun vero lavoro di attenta analisi su di un testo quanto più possibile raccolto, in se stesso unito e per se stesso significante – come qui, invece, si farà. Ma se è vero che Kant è farraginoso e dispersivo per natura, se è vero che la sua opera si presen4 Una recensione ai progressi del Kant-Index di Norbert Hinske, come quella di Hansmichael Hohenegger (Il ‘Kant-Index’: problemi di filologia filosofica negli indici computerizzati, in ‘Filosofia oggi’, 1992) illustra in poche pagine vizi e virtù della filologia statistica informatica, oltre a riassumere per sommi capi gli assunti principali dell’approccio filologico kantiano di tipo tradizionale. Con Text, Translation, and Tradition Moltke S. Gram apre la raccolta degl’interventi al convegno su ‘Rapporti tra filologia e filosofia nella tradizione kantiana’ della American Philosophical Association nel 1980 (Interpreting Kant, University of Iowa Press, Iowa City 1982). 5 Norman Kemp Smith, A Commentary to [on] Kant’s ‘Critique of Pure Reason’, The Humanities Press, New York 1950, specialmente pp. xxxv-xxxvi.
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ta, nel complesso, come un affastellamento all’insegna del ‘Malgrado tutto!’, chi si propone di spiegarlo senza farne il solito sunto dottrinale non può, per giunta, farne schizzare le pagine, a ogni occasione, in tutte le direzioni. L’assunto della dottissima, incompiuta e di fatto inservibile opera del Vaihinger è invece, in definitiva, quello di negare al criticismo il significato storico di sintesi e superamento di dogmatismo e scetticismo: rispetto ai quali esso si collocherebbe piuttosto in un ruolo centrale di mediazione (Vermittlung) 6. Simile stabilizzazione orizzontale della tripartizione verticale hegeliana costituisce uno dei principali assunti teorici anche di questo libro, così come di altri studi che sono andato per lungo tempo svolgendo. Peccato però che, quanto a Kant, essa esista soltanto nell’immaginazione dei suoi interpreti: perché egli ragiona sempre, di fatto, in termini bipartiti – come spero si vedrà. La sua è, in realtà, un’arte del tutto instabile del contrappunto e della fuga, messa in logica e in prosa filosofica. Rinunciando al piacere, per leggere Kant bisogna immaginare di ascoltare Bach. Io mostro inoltre frequentemente come il nostro poco avventuroso eroe, anziché alzare gli occhi a rimirar le stelle, si sia assai più preoccupato di non cadere nei pozzi, muovendosi con circospezione fra le grandi alternative o le prospettive teoriche che gli si aprivano via via dinnanzi nel corso della scrittura. Frammezzo a quei vortici, egli si destreggiò alla meglio con la sua navicella, allo scopo di creare e di preservare l’originalità accademica del suo lavoro. *** Le bibliografie servono di solito a compensare il disinteresse per il testo. Le due cose vanno insieme. E se non si propone di fare storia della cultura, degl’intellettuali o delle scuole, perciò, chi predilige la lettura problematica (non confermativa) del testo con le bibliografie guarda e passa. Sto con Montaigne: «Ho visto fare dei libri con cose mai studiate né intese, l’autore affidando a diversi suoi dotti amici la ricerca di questo e di quest’altro materiale per metterlo insieme, accontentandosi per parte sua di averne progettato il disegno e accumulato con la sua abilità quell’ammasso di provviste sconosciute; almeno son suoi l’inchiostro e la carta»7. È troppo severo, Montaigne: a me basterebbe che fossero sue soltanto le idee. E chi crede di averne di proprie ha il dovere di non sacrificarle ad alcuna industria o comunità del commento – né mai lo 6 Hans Vaihinger, Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, Union D. VG., Stuttgart Berlin Leipzig 1922, vol. i, pp. 49 ss. 7 Saggi, libro iii, cap. xii (a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano 1992, vol. ii, p. 1412).
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fa davvero, del resto: come i naviganti si giovano dei venti a favore, e anche a sfavore, per andarsene pur sempre dove vogliono. Cercare, come si dice, di ‘fare il punto delle ricerche’ significa offrire a un lettore, che si suppone ansioso di sapere a qual ‘punto’ siano le ricerche, una buona ragione per esimersi dal leggere l’autore seguendo liberamente una sua strada – ma un simile lettore non andrebbe certamente incoraggiato. Lo studioso, d’altra parte, si giova di simili esercizi cartografici per chiudersi rapidamente in una fitta discussione con i suoi simili – che è poi l’unica cosa che in definitiva gl’interessa davvero: perché da quando il mondo non è che rappresentazione, anche la volontà non è, per lo più, che la normativa accademica di questa rappresentazione – pena (sembra) il disordine delle opinioni e il dilettantismo delle ricerche. Ma una monografia dovrebbe invece servire innanzitutto come un invito a rileggere l’autore con altri occhi – e in ogni caso questo libro è stato concepito a tale scopo, oltre a proporsi di suggerire una risposta al quesito circa le origini teoriche e le responsabilità ideologiche della guerra civile europea. Il cosiddetto ‘punto’ delle ricerche, del resto, semplicemente non esiste; così come non esiste alcun pensiero come un tutto coerente: le due cose di solito vanno insieme. È questione tanto antica, da iniziare con Teofrasto; e non è raro imbattersi ogni tanto in qualcuno che ancora ci crede – col candore, per esempio, di chi spiega che la diligente e tendenziosa opera di Teofrasto non era una storia della filosofia alla maniera alla quale siamo abituati noi, in cui la dottrina di un dato filosofo è di solito presentata come un tutto coerente; ma piuttosto una storia dei vari modi, in cui i filosofi passati hanno tentato di risolvere certi problemi specifici, prendendo ognuno, per così dire, il problema al punto esatto in cui l’aveva lasciato il suo predecessore. (…) Questo … rende difficile agli storici moderni della filosofia trovare, partendo da Teofrasto, che cosa realmente era nella mente di quegli antichi filosofi (…). Ma è specialmente interessante, in quanto implica chiaramente l’idea di progresso8.
Appunto: senza fede nel progresso non c’è storia delle idee possibile – ma per farla bisogna dunque credere che la lettura di Heidegger, per esempio, sia per noi tutti senza alcun dubbio più interessante della lettura, per esempio, dei presocratici. E allora io chiedo venia sin d’ora al lettore: perché ne dubito. 8 Kurt von Fritz, Aristotle’s Contribution to the Practice and Theory of Historiography, University of California Press 1958, pp. 118 ss. (da: Eraclito, Testimonianze e imitazioni, a cura di Rodolfo Mondolfo e Leonardo Taràn, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. cxcv; a p. 23, nota 18, l’origine teofrastea dei due concetti di ‘punto’ e di ‘progresso’).
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Rinunciando alla compilazione di alcun inutile élegchos, dunque, ma assumendo due semplici sponde dossografiche di partenza, e senza fare storia delle idee, bensì una semplice ordinata cronologia empirica della trattazione, quando serve, seguirò in questo libro la strada della lettura attenta, dedicando l’intera Parte Prima agli scritti cosiddetti precritici, senza sdegnarne affatto il modesto valore teorico: non c’è altro modo per mostrare che, eccettuate le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Kant giunse ben oltre la metà della sua vita senza dar segno di possedere alcuna vera creatività o talento. Ben pochi, del resto, si azzardano ad affermare che li abbia posseduti, mi pare; e infatti la letteratura di metodica trattazione di questi scritti, in una lettura critica in sé raccolta, com’è questa, non abbonda affatto. Ma l’esiguità della letteratura sull’insieme degli scritti precritici non significa che noi ci stiamo qui accingendo allo studio di quesiti che, in definitiva, nessuno ha posto: perché la Critica della ragion pura non può non essere sortita dalla personalità dell’uomo, dal suo Gemüth, specialmente dopo dieci anni di silenzio per le stampe. E che nella Critica Kant abbia per lo più evitato di spiegare proprio quel che sia il Gemüth non è buona ragione per trascurare di auscultarlo in lui. C’è modo e modo di farlo, però. Quest’unità radicale delle facoltà conoscitive nella psicologia della coscienza è proprio ciò che un uomo come Carlo Cantoni e la sua scuola, per esempio, hanno cercato di rendere meno fantomatica nella Critica – ma dubito che Kant avrebbe gradito un servigio, col quale si sarebbe semplicemente portata la distruzione nel suo edificio. I più pericolosi nemici di Kant, come spiegherò, sono i suoi soccorritori. La minuziosa lettura di alcune pagine della Critica della ragion pura, nel primo capitolo della Parte Seconda, con un lavoro di confronto fra le cinque traduzioni italiane, mostrerà fra l’altro, io spero, la debolezza o l’inconsistenza della distinzione basilare fra sensibilità e intelletto: con quella che, quando non è vuota (non cieca!) o non resta a mani vuote, giunge sempre a dare un ‘senso’, per lo più surrettizio, alle peregrinazioni e ai brancolamenti di questo. La sensibilità non può essere cieca, come Kant afferma, impostando malamente un problema con una delle sue più infelici formule – e infatti non lo è, neppure per lui: la scrittura lo rivela. Ed è la scrittura faticosa di un uomo che partì sempre col piede sbagliato, affardellandosi per via quanto più non poteva. È al tatto, è alla sensibilità epidermica che Kant pensava, in realtà, senza neppure sapere bene di che cosa parlasse (dal momento che egli parla di sensibilità senza mai fare alcuna menzione del corpo – salvo doverci ripensare con la tarda Antropologia pragmatica).
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Ma allorché sul finire della Critica la sensibilità deve intervenire apertamente in forme quasi imponenti per sostenere il senso generale del discorso e il suo effettivo approdo teorico, l’analisi e la discussione di alcuni ampi costrutti metaforici (tempio, città, corte di giustizia, e simili) diverrà compito del capitolo conclusivo, dedicato alla Logica del Testo, nel quale bisognerà pure rialzare la testa per vedere, oltre ai moscerini, anche l’elefante. La favola di Krylov in epigrafe ha significato critico, ma anche autocritico, naturalmente, e chiede al lettore di apprezzare la pratica dell’autoironia. In quest’ultimo capitolo si tirano in qualche modo le somme dell’intellettualismo e del manierismo kantiani. Per il suo carattere (moderatamente analitico, e più ristretto intorno a un fascio di pochi sommi capi teorici), la sua lettura m’è parsa alquanto più limpida e agevole – persino orientativa, nel complesso, su tutto il resto. Qualora, al termine della lettura di questa Presentazione, il lettore fosse ancora preoccupato dell’economia del suo tempo, consideri egli perciò anche la possibilità di leggere questo capitolo fra i primi, scegliendo subito se cominciare dall’Introduzione, o dall’Epilogo (come anche s’usa), o proprio da uno sguardo alla Logica del Testo. La discussione delle origini tecniche dell’intellettualismo raggiunge qui il momento più fitto. Con l’introduzione del fondamento ontologico di materia e forma, infatti, che ne è più del fondamento sensibile di spazio e tempo? Kant, a questo punto, avrebbe dovuto scegliere fra l’ontologia e l’estetica, gettando magari il suo brogliaccio, oppure cercando una via di fuga. Non ebbe esitazioni: andò avanti, semplicemente, a forza di quelle qualità di volontà costruttiva e d’applicazione metodica che, trotz alledem, non potevano certo mancargli. E nell’Epilogo, poi, ognuno è invitato ad andarsene liberamente dove gli pare: nessuno studio dovrebbe pretendere di legarsi ad alcuna vera e propria conclusione, né tantomeno di vincolare il lettore ad alcuna deduzione successiva; bensì soltanto lasciargli delle forti e nette impressioni di una seria lettura. Il lettore potrà rimanere perplesso di fronte al bisogno, a quel punto, di ridare spazio all’immaginazione, formulando delle ipotesi generali che sembrano distogliere alquanto l’attenzione dai problemi del Novecento. Ma pretendere di declinare una risposta teorica generale (come l’intellettualismo costituzionale del soggetto, lo svuotamento della sensibilità, il manierismo sistematico, la massa di manovra accademica, e simili) entro i tempi lunghi e lontani della mentalità e del costume è come chiedere a delle nuvole di piovere a comando quando e dove si vuole. Il kantismo ha fatto strada in mille modi. Non sono tanto le ‘nuove’ conclusioni che ognuno trarrà per suo conto, perciò, che m’interessano, bensì i nuovi studi. Forse non è vero che la ripresa di sviluppo della letteratura metafisica sul finire del Settecento prende forze (anche) dall’esaurirsi della tradizione idillica e del genere pastorale, ossia della lirica
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politica messa in teatro; e che prende forze (anche) dalla riforma del teatro, con l’uscita della maschera e del suo ‘buon senso’ dall’immaginazione del pubblico; e che prende forze (anche) dal contemporaneo sviluppo del romanzo. Forse non è vero – ma chi può dimostrarlo? Tanto vale pensarlo. Forse non è vero che l’esaurimento drammaturgico del ruolo antropologico mediatore, centrale, della maschera può (per una sorta di effetto di conservazione energetica nell’immaginazione comune) avere prodotto lo sviluppo su estremi opposti del personaggio morale di carattere, da un lato, e del burattino, dall’altro, con gli automatismi della sua forza tellurica, nella forte sensibilità umorale e moralistica di tutto ciò che noi chiamiamo ‘pre-romanticismo’. Forse non è vero – ma io lo sospetto; e sospetto per conseguenza che le ideologie dei nazionalismi siano nate (anche) come conseguenza della riforma del teatro comico. Questa riforma era ormai indispensabile, certo – ma non furono meno inevitabili le sue conseguenze sulla mentalità. Lo studio di certi personaggi dell’opera lirica e della caricatura di John Grand-Carteret, per esempio, sarebbe utile, a questo scopo. La perdita, con la maschera, del centro antropologico non apre soltanto una violenta polarità fra estremi, ma attribuisce anche all’uno qualcosa dell’altro: cosicché il carattere morale acquista qualcosa dell’automatismo del burattino, e il burattino pretende di drappeggiarsi nei panni di uno stentoreo moralismo. L’uno vive per emanazione, l’altro per animazione. Entrambi parlano assai volentieri di ‘interiorità’. E non sarà evidente per tutti, infine, che la filosofia, checché ne pensino i filosofi di professione, sia un genere letterario, fatta di pura lirica di concetti in forma prosastica di romanzo – ma io lo credo fermamente9. Mi dorrei soltanto che qualcuno, arrivato a quel punto del mio Epilogo, pensasse d’avere sprecato il suo tempo. In tal caso rifletta: è proprio Kant che insegna a darsi il coraggio d’avere opinioni personali, indipendenti, purché giustificabili e discutibili. Che resta, se no, di meglio? Ma si badi, però: che la conoscenza si riassuma, in definitiva, in un’opinione libera e naturale, ossia in un’idea vivacemente risvegliata dalle impressioni e dall’immaginazione, e poi fissata dall’abitudine è, veramente, dottrina di Hume; Kant ci mette sopra, di suo, il puntiglio intellettualistico della legittimazione, e lo scrupolo moralistico della finalità: i quali finiscono per togliere all’opinione ogni naturalezza e probabilità – nonché, da ultimo, anche la libertà. 9 Quest’idea non è poi del tutto singolare, dal momento che è già stata applicata alla storiografia da Hayden White in Retorica e storia, Guida, Napoli 1973. Soltanto al momento di ricevere le bozze di questo libro apprendo da un articolo di Siegmund Ginzberg sul quotidiano ‘la Repubblica’ (27 luglio 2006) della pubblicazione del libro di Francis Wheen, Marx’s Das Kapital. A Biography (Atlantic Book, London), nel quale l’autore arriva a definire Marx, anche sulla base di testimonianze autentiche, «un artista creativo, un poeta della dialettica».
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*** Il quesito circa l’esistenza e le forme delle mentalità è tutt’altro che sconosciuto al mondo degli accademici; ma non si può negare che esso sia sempre stato il terreno privilegiato dei pubblicisti e del giornalismo. A differenza dei narratori, i giornalisti e i pubblicisti hanno il dovere di motivare le loro opinioni; e lo fanno di solito in modo brillante e piacevole, svolgendo la loro preziosissima e persino invidiabile opera di raccordo fra gli studi più astrusi e l’opinione pubblica. Ma una motivazione che abbia come primo scopo quello di rendersi leggibile non rende ancora un’opinione discutibile con qualcos’altro, che non sia semplicemente un’altra opinione. In nome di quello che considero un dovere professionale, chiedo perciò venia al lettore per la faticosa lettura di certe pagine di Kant, che verrà effettuata in questo libro. Troppo spesso, del resto, ‘Kant’ non è che un assunto legittimo: nient’altro che una nostra sintesi a priori, una dottrina o una sentenza, un nome e un pregiudizio, un libro, un richiamo un’esortazione un auspicio, fra la miriade di simili sintesi a priori nella quale ci troviamo immersi. Non intendo affatto rendere assurdo l’assunto, bensì tangibile. Si può definire l’intellettualismo, fra l’altro, come una spogliazione delle sintesi a priori della loro natura complessa e necessaria, ma soprattutto della loro natura sensibile. Uno dei postulati di questo libro consiste proprio nell’ammettere l’esistenza di una miriade di sintesi a priori in qualche modo già date, e piene di proprietà e di contenuti logici e sensibili a un tempo. Se l’uomo è per natura animale imitativo, tutti quanti i suoi a-priori sensibili sono già dati, in quanto è animale, con l’osservazione e nel silenzio, ben prima di quella miriade di sintesi convenzionali che sono le parole; ed essi costituiscono per lui, in quanto è uomo, nozioni formali di una sensibilità che è fin da principio d’ordine superiore. Le nozioni ci avvolgono come una seconda pelle, o un periéchon, e noi le respiriamo. Ma Kant credette invece di doversi interrogare circa la loro possibilità, e di poterle trovare dappresso, quelle sue sintesi, come nature formali semplici e vuote, partorendo così, per difetto di adeguata sensibilità, i due topolini della sua estetica trascendentale che dovettero sorreggere un’intera montagna. Un altro degli assunti di questo libro consiste nel sancire che la deduzione categoriale procede non già da un giudizio, bensì da un pregiudizio: per il semplice fatto (mi si perdoni il tono spiccio) che la cosa non può stare diversamente: inutile aver letto Hume, se no10. E nondimeno ecco Kant appron10 Le letture filosofiche di Kant furono sempre alquanto approssimative, o anche di seconda mano, come si dirà ancora nel seguito di questa trattazione; e Hume per lui non fece eccezione (cfr. Smith, Commentary, pp. xxvii-xxix).
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tare una tavola delle categorie senza prima curarsi di redigere una tavola dei pregiudizi. E un altro assunto, ben più importante, riguarda invece la falsa pista sulla quale Kant ha avviato gran parte della filosofia contemporanea mediante la distinzione fra noumeno e rappresentazione: perché questa distinzione, che con Schopenhauer e con la fenomenologia diventa semplicemente fatale per l’unità sentimentale della coscienza, ha avuto il solo merito di scatenare quella vera e propria sovrapproduzione di sistemi, di quesiti e di equivoci metafisici che ormai è abbastanza vasta da poter vivere soltanto di se stessa e da riprodursi, sembra, illimitatamente. È di qui che prende avvio in definitiva (a cominciare da uomini come Romagnosi e Heine, per esempio) tutto ciò che espone l’idealismo al sospetto di contraddizione logica, al ripudio per inconsistenza conoscitiva, e infine persino al dileggio per goffaggine e oscurità stilistica o per boria accademica: così che da noi lo si è potuto a ragione definire, nei suoi ultimi esiti gentiliani, come «niente più che un’aberrazione del pensiero filosofico, e la migliore dimostrazione di quel che può dare la fantasia speculativa abbandonata a se stessa, priva di ogni regola e misura»11. Anche la poesia di concetti deve pure avere i suoi stili! È una distinzione, quella fra rappresentazione e cosa in sé (o, peggio, fra soggetto e oggetto: che rende impossibile concepire esseri complessi, bisognosi di darsi una costituzione); è una distinzione, dunque, che non tiene in alcun conto l’idea dell’approssimazione infinitesimale alle cose, nonché (tantomeno) dell’approssimazione reciproca fra le cose: per cui non soltanto noi le conosciamo indefinitamente, ma esse stesse, poi, ci si rivelano gradatamente per lenta emanazione delle loro proprietà antiche e nuove. E se Kant non lo capì, questo, è semplicemente perché non fu mai in grado di capirlo: non fu mai all’altezza, insomma, di raccogliere l’eredità di Leibniz dopo avere preso in prestito quel che poteva da Hume. La faticosa lettura e commento degli scritti precritici è indispensabile, se lo si vuole ammettere con franchezza. E credo che la realtà noumenica come un qualcosa che per Kant non sarebbe, in sé, inaccessibile, ma che sarebbe invece «il termine ideale di una gradazione insensibile, di cui la realtà empirica costituisce il punto di partenza» sia esistita, purtroppo, soltanto nell’immaginazione di quella bella e dignitosa figura che fu Piero Martinetti12. 11 Francesco De Sarlo, Gentile e Croce. Lettere filosofiche di un ‘superato’, Le Monnier, Firenze 1925, p. 198. Benvenuto è stato un libro come quello di Massimo Baldini Contro il filosofese, Laterza, Roma-Bari 1991. 12 Introduzione alla metafisica, Clausen, Torino 1904, p. 244. Nel suo libro su Kant ed Hegel in Italia. Alle origini del neoidealismo (Laterza, Roma-Bari 1996) Piero Di Giovanni offre un esame ordinato delle principali varietà di posizioni, come questa.
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Si vede qui uno dei più tipici caratteri di ogni ritorno a Kant: quando non si tratta di staccarsi da una qualche sua costola, oppure di eliminarne o di sanarne qualche incongruenza (come avviene di consueto con ogni grande filosofo), si tratta di metterci quello che non c’è. Rispetto alle operazioni di asportazione, di amputazione e di ortopedia, il trapianto e l’innesto della protesi con Kant sembrano avere sempre decisamente la meglio. Ma non esiste che l’oggetto si mostri a un soggetto senza riservargli la sorpresa di una sua nuova vita empirica, sensibile, soggetta a variazione, così da sfidarne l’interpretazione; e non esiste caso, in verità, che permetta di concepirlo come qualcosa d’inerte, e solo approssimando da parte di un soggetto: altrimenti esso non sarebbe mai problema alcuno per alcun soggetto. E replicare che il soggetto s’interesserebbe all’oggetto solo perché mosso da una sua propria (del soggetto) vita e motivazione ‘interna’, unica cosa viva e unica vera storia, significa praticare un sofisma, ovvero perpetrare un abuso diventato comunissimo proprio con il disinvolto impiego kantiano della coppia terminologica ‘interno-esterno’: perché il cosiddetto ‘soggetto’ non può non restare pur sempre ‘oggetto’ parzialmente inconoscibile anche di se stesso. L’idealismo romantico e lo storicismo hanno fatto di simile equivoco il loro principale caposaldo. Ma non conosco modo più succinto ed efficace per sbarazzarsi di questo sofisma, che citare la seguente osservazione di Hume: «Il calore del fuoco, quando è moderato, si pensa che esista nel fuoco; ma il dolore che cagiona nell’avvicinarsi troppo, nessuno pensa che abbia un’esistenza fuori della percezione»13. *** La cosa in sé, dunque, esiste, ed è cosa ben viva, sebbene per lo più taciturna. Che altro è, se no, una mentalità? Ogni corporazione ha la sua. E dallo studio della mentalità degl’intellettuali, filosofi o poeti padri della patria, la nozione di ciò che si chiama mentalità nazionale può sortire in qualche modo: per conseguenza, per deduzione, per congettura, per analogia, o per come altro si voglia. Ognuno lo vedrà da sé. Il quesito di una mentalità nazionale nel suo insieme è troppo complesso, e non può essere trattato direttamente, come qui, a partire da un solo ceppo di fonti. Se le forme prime di mentalità dei ceti dirigenti intellettuali di una nazione siano generatrici, oppure a loro volta generate da una fantomatica mentalità nazionale; se offrano col loro prestigio, insomma, nient’altro che la legittimazione di qualcosa che già esiste in tacite forme nel popolo, e quali Trattato sulla natura umana, libro i, parte iv, sez. ii; e anche sez. iv (Lecaldano, i, pp. 208 e 239).
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siano queste forme, sulle quali abitualmente si diverte il pregiudizio comune, o infierisce la propaganda di guerra, io non so, e in questo libro non discuto. Ma per combattere un comune pregiudizio non mi sento di assecondarne un altro, affermando che la mentalità popolare sia soltanto il prodotto della mentalità dei ceti cólti, o almeno di una parte significativa di essi, a seconda dell’egemonia ideologica acquisita di volta in volta attraverso le epoche da questo o da quel gruppo dirigente: religioso accademico burocratico economico o militare. Non voglio affatto negare, insomma, che la mentalità dei ceti popolari possa fortemente influenzare i ceti dirigenti intellettuali, e neppure il contrario. Ma se mi rivolgo direttamente alle opere degl’intellettuali padri della patria, anziché svolgere indagini di costume, è perché ritengo che ogni mentalità corporativa sia prigioniera innanzitutto di se stessa, come e assai più di come ogni mente è prigioniera del suo corpo. E il corpo medesimo è anzi prigioniero e fatto schiavo dal moralismo di una volontà categorica: è la lezione antistoica del De voluptate di Lorenzo Valla; così che tanto l’uno come l’altra se ne stanno immersi nel loro blocco di marmo, dal quale emanano fremiti e barlumi di duratura verità. Credo perciò che un quesito circa le responsabilità degl’intellettuali debba essere loro posto direttamente, per auscultazione del mezzo tecnico, stilistico, corporativo, municipale, regionale o nazionale nel quale non possono negare di stare immersi. Che questa immersione corporea della mente sia un fatto innegabile è obiezione di Gassendi; che sia animata di vita in lenta emanazione è lezione di Lessing. I loro nomi torneranno perciò verso la conclusione dell’Introduzione, insieme con il nome di Valla: come a sottolineare la validità di una lezione e tradizione poetica o politecnica di ‘buon senso’ che, da un capo all’altro (il Leopardi dei costumi, il Romagnosi delle indoli e del giudizio pubblico), non è certo soltanto italiana, ma può essere considerata tipicamente italiana in quanto caratterizza in generale il nostro modo di vedere con una costanza e con un pregio che trova forse l’eguale soltanto nella tradizione russa. Romantici e pre-romantici non scoprirono dunque affatto l’immersione corporea della mente – solo, fecero di tutto per trasformarla in una muscolarizzazione dello spirito e della moralità, che vede Kant fra i suoi primi e massimi propugnatori. E che un moralismo categorico, vale a dire intellettualistico, possa fungere da seconda natura, assai meno duttile dei corpi fisici, e anzi pronto a sollecitarli con l’attivismo, è cosa niente affatto paradossale: ne nasce nientemeno che un materialismo delle idee, quando esse sono più solide e indistruttibili delle cose. Credo, del resto, che per spiegare la tragedia del Novecento la via dal basso verso l’alto, o la ‘via romantica’ (diciamo così), sia stata già battuta a sufficien-
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za dagli studiosi; e credo che i pregi dei risultati restino sempre in qualche misura diminuiti dal principale difetto di questo approccio, che consiste nell’aggrapparsi, prima o poi, a quella non-spiegazione che è l’irrazionalismo: in una specie di stato febbrile gl’intellettuali di Otto e Novecento avrebbero ceduto a spinte ‘dal basso’; e queste spinte, si sa, sono irrazionali – anche se nessuno sa come, però; ma intanto ci si serve di metafore patologiche, energetiche, spaziali, farmacologiche, così che la formulazione di un giudizio politico nei suoi termini più generali non può non essere che letteraria. Ma precisamente il fatto che nella formulazione di ogni giudizio politico si manifesta più o meno chiaramente l’esercizio della sensibilità è uno dei principali assunti di questo libro: il quale considera la filosofia stessa, come dirò a iosa, niente più che un genere letterario troppo spesso viziato da cattiva retorica. Occuparsene, dunque, non sarà sempre agevole. Appassionante sì, però, almeno qualche volta. Che senza gli strumenti sintetici della sensibilità non sia possibile formulare alcun tipo di giudizio, e tantomeno il giudizio politico, non è cosa che vada senza rischi, s’intende. Ma una critica letteraria tanto immaginosa quanto ben disciplinata può rendere discutibili le manifestazioni della mentalità, così che anche i caratteri nazionali si possono rendere intelligibili mediante l’auscultazione poetica. In questo libro io batterò questa strada, in senso conforme, però, alla natura speculativa del suo oggetto, del suo personaggio e della sua corporazione; e andrò in cerca dei rapporti di forza che s’instaurano tra le facoltà conoscitive, rendendo forse percepibile e discutibile l’intellettualismo di Kant, nonché la sua pretesa fondazione sensibile, che ho cercato di descrivere col termine di ‘manierismo’. *** La titolazione dei paragrafi nella Parte Seconda con un costante riferimento alla città; il finale richiamo all’analogia platonica fra i due libri della città e dell’anima; l’evocazione della città cosmica timaica nel corso dell’esposizione; sono tutti chiari segni dell’interesse filosofico-politico che mi ha mosso. Non si tratta di un interesse arbitrario. Ogni opera di filosofia è sempre, in modo più o meno involontario, opera di filosofia politica, non meno di ogni sua interpretazione: così che se avessi scritto questo libro rivolgendo costantemente il pensiero, per esempio, ai dinosauri, pur senza mai nominarli, ne sarebbe uscita per forza una lettura paleontologica di Kant. Ma un esplicito interesse politico nella lettura dei suoi scritti potrebbe già procedere dai voli giovanili della sua immaginazione cosmogonica e cosmologica, che testimoniano la precoce origine ‘politica’ della sua ispirazione speculativa; e si riferisce, innanzitutto, a quella città cosmica
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ch’egli giudicò impossibile o fallita in Leibniz, e che cercò di ricostruire a suo modo, a partire da una nuova concezione dello spazio e della realtà14. Che egli abbia definito la sua rivoluzione ‘copernicana’, anziché, come fu, ‘socratica’ e ‘tolemaica’, vale a dire gnoseocentrica, o antropocentrica, è curiosità che può trovare una spiegazione col manierismo stilistico e logico che Kant praticava volentieri: vale a dire col suo gusto colloquiale, distratto, delle inversioni, degli scambi di posizione e delle formule a corrispondenza. Di questo gioco, e dei suoi disgraziati esempi, egli restò vittima in più di un’occasione. Ma si vedrà in questo libro soprattutto, io spero, ciò che non va trascurato di dire sin d’ora, formulando un giudizio tra i più generali: come con Kant venga a esaurirsi nella filosofia moderna il gran tratto della virilità politecnica del pensiero. A dispetto delle poetiche sentenze sui cieli stellati, nei confronti della grande tradizione egli si adattò alquanto precocemente, in realtà, a fare la serva di Talete (vale a dire il cocchiere di Tycho Brahe15), avviandosi regolarmente per il cammino discendente, o minore, delle grandi dottrine.
14 Critica della ragion pura, B 293. Mi servo del testo Reclam a cura di Ingeborg Heidemann, Stuttgart 1966, che riproduce le prime due edizioni, con le varianti accademiche. Avverto sin d’ora che la prima Critica verrà talvolta menzionata come «la Critica» senz’altro. Renderò lo spaziato in corsivo. Salvo indicazione contraria, il testo originale di altri scritti, raramente menzionati, è quello della Edizione Accademica. 15 Sogni d’un visionario spiegati con i sogni della metafisica, in Scritti precritici, a cura di Pantaleo Carabellese, edizione riveduta e aggiornata da Rosario Assunto e Rolf Hohenemser, Laterza, Bari 1953, p. 393. Salvo diversa indicazione, questa sarà l’edizione di riferimento.
Dopo avere per lungo tempo pazientemente ascoltato le imperversanti divagazioni dalle quali è poi sortito questo libro, mia moglie Paola Luciani non si è neppure sottratta alla lettura dei manoscritti. Le sono grato.