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Sandra Maltinti
L’isola che “non c’è” prefazione di
Ugo De Carlo
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Š 2008 Società Editrice Fiorentina via G. Benivieni 1 - 50132 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-066-7 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
Copertina a cura di Rosa Pistolesi
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A tutti quelli che non ci hanno creduto, ma soprattutto ad Andrea, che l’ha gridato...
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prefazione
Quando lessi sul giornale la notizia che Sandra era stata arrestata in conseguenza di reati contro la pubblica amministrazione commessi a Portoferraio fui colto da subitaneo sgomento. Ero incredulo che potesse avere il ruolo di mente tecnica di uno scandalo politico locale proprio lei, una donna sulla cui onestà sarei stato pronto a giurare più che sulla mia. L’avevo conosciuta alcuni anni prima, quando svolgeva lo stesso incarico che l’aveva portata in carcere, perché si era preoccupata di segnalare alla Procura di Livorno, ove prestavo servizio, alcune pratiche edilizie che la lasciavano perplessa. Avevo svolto indagini su alcune di esse e Sandra aveva offerto un prezioso contributo; eravamo diventati amici e avevo potuto stimarne la lealtà, il disinteresse, l’amore profondo per la sua bella famiglia. A Portoferraio si era messa al lavoro con la passione e l’entusiasmo che la contraddistinguono. Poi, un giorno mi aveva parlato di un’indagine in corso presso il Comune, sapevo che le avevano sequestrato montagne di carte, rendendole difficile svolgere il suo lavoro, ma le avevo detto di non preoccuparsi, di andare a parlare con il P.M. che faceva le indagini per rendersi disponibile a chiarire qualunque cosa e per cercare di riottenere le carte più urgenti. Ripensai a quando l’avevo tranquillizzata circa il rischio di un possibile arresto, che è il timore di qualunque cittadino quando viene investito da un’indagine o subisce una perquisizione e che io, invece, dall’alto della mia esperienza, ritenevo il frutto di paure esagerate, da cittadino che non conosce i meccanismi della giustizia. vii
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Ci vogliono gravi indizi di reati importanti e poi necessitano le esigenze cautelari… Tutta la mia conoscenza tecnica franava di fronte all’evidenza di quella notizia di giornale! Telefonai appena possibile al marito, per fargli sentire tutto il mio affetto e soprattutto perché avevo bisogno che lui mi raccontasse quello che era successo, talmente ero sconcertato per quello che avevo letto. Ci siamo sentiti spesso durante la detenzione di Sandra, ho potuto leggere il provvedimento in base al quale era stata arrestata e discuterne a lungo con il marito; ma soprattutto volevo che sentissero la vicinanza di un amico che dava più credito alla certezza morale sull’onestà di Sandra che non alle accuse che le erano rivolte. In questi casi è importante testimoniare anche pubblicamente la propria amicizia per una persona che finisce in carcere, poiché tanto più la persona era inserita socialmente tanto più rischia che le si crei il vuoto intorno; mi era già capitato con un altro caro amico, arrestato e poi assolto, e per quanto possibile volevo fare la mia parte. Finalmente l’incubo finì ed arrivarono gli arresti domiciliari: poter riabbracciare quei figli che non aveva voluto ai colloqui in carcere e da cui era stata strappata all’alba quasi tre mesi prima… Dovetti aspettare anche la revoca degli arresti domiciliari per poterla incontrare; la trovai una donna forte come l’avevo conosciuta, tuttora capace di autoironia, ma sicuramente provata. Era evidente che quell’esperienza l’aveva segnata nel profondo e che in qualche modo doveva essere rielaborata. Manifestò subito l’esigenza di non dimenticarsi delle persone che aveva conosciuto, perché il dolore della galera accomuna colpevoli ed innocenti, ricchi e poveri, insider ed outsider, ma soprattutto perché, lo capii, doveva rielaborare quel groviglio che il carcere lascia dentro. Il suo libro è il frutto di questa rielaborazione, è il tentativo di dare un senso ad un tempo nel quale la vita sembrava come sospesa senza che se ne capisse la ragione. viii
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Scrivere in questi casi ha una funzione catartica, perché oggettivare il dolore che si è provato e poterlo raccontare aiuta a rientrare in contatto con chi quell’esperienza non ha vissuto ed impedisce che una persona rimanga inchiodata a quel passato che la ha così duramente segnata. Il carcere non è solamente privazione della libertà, ma è soprattutto privazione della dignità in quanto anche le esigenze più banali della vita quotidiana, quelle che siamo abituati a soddisfare senza nemmeno rendercene conto, diventano un problema a lungo insolubile per l’esistenza di regole minuziose che unite ad inefficienza amministrativa si rivelano un muro insormontabile. All’inizio della mia carriera di magistrato ho svolto funzioni di magistrato di sorveglianza e ho avuto modo di conoscere il carcere, le sue regole ed i suoi riti. Il carcere è un male necessario per la tutela della società, ma tranne i casi in cui non è possibile altro che la mera contenzione di individui pericolosi, dovrebbe offrire delle opportunità, perché quel tempo non sia perso ma speso per favorire una maturazione ed una crescita umana e professionale, perché in carcere non ci si torni più. Ci sono piccole oasi in cui ciò avviene, poiché si trova un’amministrazione che non contrasta la buona volontà di chi mette in piedi opere che costituiscono un’opportunità di reinserimento per detenuti, ma per lo più questo non avviene e si vive il carcere stando tranquilli nella speranza di ottenere qualche beneficio penitenziario. Ma quando, come Sandra, non stai espiando una pena ma ti trovi solo in custodia cautelare non c’è neanche possibilità di parlare di questo, perché non essendo stata condannata non puoi nemmeno essere rieducata e del carcere conosci solo la sua bruta materialità. Sandra ha raccontato questa materialità in modo asciutto, senza fronzoli, con l’occhio dolente di chi si chiede come mai sia finita in quel posto assurdo, ma nello stesso tempo è capace di condividere la sofferenza delle sue compagne di detenzione; paradossalmente l’azzeramento di qualunque distinix
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zione che esiste nella società permette a persone diversissime, che mai si sarebbero frequentate, di stabilire rapporti dove l’essenza intima della propria umanità è l’unica cosa che si può condividere. Un libro che deve essere letto tutto di un fiato per non diluire il dolore che filtra da quelle pagine e per riflettere su cosa è il carcere evitando di ripetere i luoghi comuni che si sentono sempre ripetere in materia. In attesa di leggere quello su tutta la vicenda che ha portato Sandra in galera non appena l’assoluzione avrà concluso il processo. Ugo De Carlo
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L’isola che “non c’è”
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il risveglio
Rannicchiata in quel terrazzino, con le lunghe gambe ripiegate, fumavo…, aspirando lentamente… e, guardando fuori dalle spesse grate di cemento del carcere, mi chiedevo come avevo fatto a finire là dentro. La mia vita scorreva lentamente davanti agli occhi, senza mostrare apparenti motivi che offrissero risposta alle mie domande. Domande che ormai mi ponevo da mesi, lunghi giorni che scorrevano lenti in quella cella che ormai era la mia casa, lontana da tutto e da tutti quelli che avevano costituito la mia vita fino ad allora. «Buongiorno Sandra! preparo subito il caffè!». Lilly si era svegliata, allegra come sempre. Come ogni mattina doveva prepararsi in fretta per andare in lavanderia e già cominciava a stracciare lembi di tessuto che sarebbero serviti, una volta intrisi di alcool, a fare fuoco. Io dovevo avvertirla nel caso che qualche sorvegliante, attirata dall’odore degli stracci bruciati, si fosse avvicinata al bagno. Lilly si era già rinchiusa dentro ed io non mi ero mossa, sapevo che sarebbe riuscita a fare il caffè senza che nessuno si accorgesse dell’odore, ormai, sia lei che Mara erano bravissime. Non mi ero ancora abituata… fare fuoco nel bagno, al chiuso, mi sembrava pericoloso, ma alla fine mi ero arresa; era l’unico modo di avere un caffè caldo, e io non potevo rinunciarci… già avevo dovuto rinunciare a tutto….
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Mara, o meglio “Nikita”, l’altra abitante di quella cella angusta, dormiva ancora, si sarebbe svegliata solo davanti alla sua tazzina bollente di caffè. Era tra le sue prerogative di “boss”, quella di essere servita. Era stata la prima ad accogliermi quando la sorvegliante si era fermata davanti alla porta della loro cella. Lilly si era alzata di scatto dal letto dove, insieme a Mara, guardava la televisione, urlando che non voleva nessun altro nella “loro” cella. Mara mi aveva accolta così, come sapeva fare; le era bastato un «lasciala entrare» per calmare Lilly che, intanto, si era scagliata alle sbarre, come un cane che abbaiava inferocito. Mara, bionda, magra, un fisico da modella con muscoli da lottatore: era per quei muscoli che sapeva farsi rispettare. Nessuna avrebbe osato mancarle di rispetto, anche le guardie la temevano, ma sapeva essere dolce, estremamente dolce quando voleva e soprattutto quando nessuno la sentiva. Anche Lilly era così: tosta, sempre pronta alla rissa, più femminile di Mara, amante dei trucchi e dei rossetti, dei nastri e delle scarpe coi tacchi; erano tutte e due più piccole di me, ma solo di statura; più spregiudicate, ma anche più indifese, rispetto al mondo esterno in cui vivevano solo ai margini. Le urla delle altre detenute e un bicchiere di caffè bollente mi distraggono dai miei pensieri, mentre Mara, lentamente, inizia a svegliarsi… cerca a tentoni l’accendino. È la prima cosa che fa appena sveglia e prima di addormentarsi… una sigaretta… Lilly è già pronta per uscire e mentre si trucca alla perfezione chiama la guardia: «Mi apre per favore, che devo andare al lavorooo…». Occorre sempre tanto tempo per farsi sentire, ma soprattutto è impossibile farsi ascoltare.
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La galera è un universo di donne urlanti, ma le loro voci giungono silenziose nel mondo, che non le può sentire, che ignora la loro esistenza: dura, giorno dopo giorno. Anche Mara si è svegliata, mentre finalmente le mandate nella serratura fanno aprire la spessa porta e permettono a Lilly di uscire, verso il “lavoro”, surrogato del mondo vero, che sembra comunque irraggiungibile per me, costretta a vivere tutto il giorno chiusa in quella cella. Il caffè bollente scende lentamente a riscaldare il cuore. Un cuore reso freddo e diverso, munito di grate, anche lui, come il resto, a difesa di quello che resta del tuo “io” profondo, di quello che eri, di quello che vorresti ancora essere, a difesa di quello che saresti se non fossi lì, rinchiusa, senza libertà, senza la più piccola elementare voglia da soddisfare: un giro in centro, un’ora dal parrucchiere, un volto amico. Di amici ne avevo molti, un tempo: quelli veri, che ti sono vicini anche nella cattiva sorte; che devono tacere o che ti scrivono lunghe lettere e ti pensano a lungo, in silenzio, leggendo i giornali che accusano, giudicano, condannano senza processo, riportando la cronaca, i fatti. Veri o inventati non importa, basta che facciano notizia. Gli amici di convenienza e quelli falsi, che sempre accompagnano una persona di “potere” come me, com’ero io, l’architetto a capo di una struttura che faceva girare il Comune… Gli interessi, quelli veri, fatti di raccomandazioni e influenze, di soldi, di tanti soldi: i nuovi approdi turistici, quelli grandi per oltre mille imbarcazioni, le nuove lottizzazioni, per milioni di metri cubi edificabili, la gestione dei finanziamenti comunitari e regionali, le gare di appalto per miliardi, le concessioni di spiagge e ristori, la gestione di ormeggi, le concessioni per gli esercizi pubblici, ristoranti, bar, negozi, perfino le autorizzazioni per le bancarelle in piazza. Le assegnazioni di oltre cinquecento case popolari, la loro revoca… il bilancio, le entrate di miliardi, le spese di miliardi… 5
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Quella che ero una volta e che adesso fatico anch’io a riconoscere, se mi guardo, se sento quella che sono adesso, senza difese, senza unghie, con l’amor proprio ferito, con le speranze deluse, dopo tanto lavoro, dopo tanta fatica per arrivare… … fatica distrutta in un solo momento, con un solo foglio, con una sola parola: arrestata. Una vita arrestata, sospesa, interrotta… «Non ho voglia di andare al lavoro! Sono stufa!». «Non è una novità Mara, ma almeno passi il tempo no?, meglio che stare qui tutto il giorno senza nient’altro da fare che pensare…». «Dici…? forse hai ragione. Oggi ti cerco delle matite per colorare, devo pulire la biblioteca, cerco di fregare anche una gomma da cancellare, sennò come fai?». «Sì, una gomma mi farebbe proprio comodo, io non sono come te che parti decisa a disegnare con la biro e non fai mai correzioni, devo prima disegnare e poi ripassare, rivedere; lo sai, sono un po’ perfezionista». «A disegnare sei proprio brava, non come me!». «Ma che dici… non sarei capace di fare quel pappagallo che hai fatto tu!». Mara aveva disegnato sui muri della cella: disegni grandi, colorati, che la rendevano meno triste, li guardavo per ore, cercando di rifarli, sui fogli da disegno che ero riuscita a farmi mandare da fuori. Era così tanto tempo che non disegnavo, che mi pareva di non essere neppure più capace di farlo. La sorvegliante non aveva voluto darmi le matite, né la gomma, che mia sorella mi aveva mandato e che avevano impiegato un mese per arrivare… chissà poi perché… Mara è già pronta, non ha da truccarsi lei, come Lilly, va a letto vestita e dopo il caffè può ripartire, già pronta, in fretta, anche se in galera non si va da nessuna parte. 6
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La sorvegliante arriva subito, anche se mi sembra che Mara non abbia nessuna fretta di uscire, come sempre… «Dammi un bacio, ci vediamo dopo!». «Ciao».
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indice
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Prefazione di Ugo De Carlo
L’isola che “non c’è” 3 8 11 15 18 21 25 28 32 35 41 46 49 57 61 67 70 73 76 79 84
Il risveglio Al mattino La scopina La scrivana L’avvocato La “dottoressa” Commissione vitto ovvero anche qui… Il pranzo Il “telefono” I “passeggi” delle belve La vendetta ovvero la giustizia La poesia dei carcerati L’ora di “relazione” La “spesina” Il processo Don Cuba e il vescovo I bomboloni Il ritorno di Lilly I colloqui La rapina La “libertà”