Massimo Mannucci
Cactus Otto storie di crimine
SocietĂ
Editrice Fiorentina
I diritti di autore di questa pubblicazione saranno devoluti alla Lega Italiana Fibrosi Cistica ONLUS (www.fibrosicistica.it).
Š 2006 Società Editrice Fiorentina via G. Benivieni 1 - 50132 Firenze tel. 055 5532924 fax 055 5532085 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 88-6032-009-7 prima edizione: aprile 2006 prima ristampa: luglio 2006 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata
Copertina Luigi Fabii/Pagina
A Neda, Anna e Barbara, in ordine di apparizione, le donne della mia vita
Cactus Otto storie di crimine
la rapina
Lucia mi piaceva proprio tanto, ma lei purtroppo non mi filava per niente: mi vedeva, forse, come il solito sfigato aspirante boss di provincia senza il carisma del capo. Ieri l’ho vista: era splendida come sempre, con un filo di trucco e con il suo solito seno da pubblicità, costretto nella maglietta scollata e corta sopra l’ombelico ferito da quel piercing che mi faceva impazzire. Ho cercato disperatamente il suo sguardo, ma invano, perché guardava lontano verso la fine della strada: sembrava che volesse affrettare un evento che desiderava. Fu allora che apparve una macchina in fondo alla via; si fermò proprio davanti ai suoi piedi e lei salì svelta. La macchina la riconobbi subito: era il Mercedes SLK di Ciro, uomo senza qualità, ma con un portafoglio gonfio che piaceva tanto a certe ragazzine. Anche Lucia era dunque caduta nella rete. Ciro spacciava cocaina, ma speravo che Lucia fosse interessata solo ai soldi. Già i soldi… Non bastano mai anche se sono tanti, figuriamoci quando sono pochi. Per fare colpo con le ragazze bisogna vestirsi in maniera adeguata, andarle a prendere con la macchina giusta, tipo quella di Ciro “o’ spacciacocattaro”, portarle nel ristorante alla moda, pagare con la carta di credito e prenotare un tavolo con bottiglia di champagne nel locale più “in” della zona. Forse, con tali requisiti, avrei potuto soffiare Lucia a Ciro o, meglio, sarei potuto uscire con una ancora più bella di lei. Io, invece, mi arrabattavo con qualche borseggio sulla Circumvesuviana e qualche truffa ai forestieri creduloni che acquistavano bellissime scatole di puro cartone contenenti 31
mattoni, credendo di comprare videoregistratori e stereo a prezzi stracciati. Capitava anche di fare qualche piccola rapina con il coltello per prendere un orologio, un portafoglio, una catenina, al massimo un ciclomotore. Ma il mio sogno era la rapina in banca. Con qualche colpo messo bene a segno mi sarei sistemato almeno per un po’ di tempo. E poi chissà, forse mi sarebbe venuta voglia di lavorare. Già, il lavoro! Qualche lavoretto mio padre, pover’uomo, riusciva a trovarmelo in cantieri edili abusivi dove la paga era poca e la fatica tanta. Mi dovevo svegliare all’alba, la sera ero distrutto e senza soldi in tasca. Io invece volevo vivere alla grande, senza sacrifici assurdi e con quanto necessario per divertirmi. La vita, biologico o divino che sia, è un dono e viverla è anche un dovere, ma si può vivere e ringraziare della vita in tanti modi. Si può anche tirare a campare, cioè si può sopravvivere cerando di dribblare le difficoltà più varie e imprevedibili, in una perenne altalena tra rinunce e piccole soddisfazioni. Forse chi vive così non si accorge neppure di morire, quando la morte arriva. E la morte arriva sempre, prima o poi, talvolta in punta di piedi, all’improvviso come una pacca sulle spalle quando credi di essere solo, talaltra si manifesta e si nasconde, strisciando subdolamente come un rettile dal manto mimetico che si muove insidioso in mezzo al fogliame. Che senso ha tutto ciò se ogni sacrificio diventa vano ed ogni buona azione impallidisce davanti al baratro che si apre alla fine dell’esistenza? O c’è dell’altro o rimane solo la disperazione, l’angoscia, il vuoto che accompagna costantemente il nostro sopravvivere. Facciamo tutto quel che facciamo caricandolo di importanti significati, elevandolo ad idolo, ma anche l’azione più nobile, più importante, più alta non è in grado neppure di scalfire il muro di dolore e di morte che l’uomo è, comunque, destinato a incontrare sulla propria strada. Allora pensi che sia meglio prendere tutto quello che si può, cogliere tutti i frutti acerbi, maturi o marci che siano, 32
annientare le nostre insicurezze nei piaceri che è in grado di offrirci il presente, senza alcuna fiducia nel domani. Allora ogni mezzo è quello giusto per arrivare ad afferrare l’oggetto dei nostri desideri, anche se una volta raggiunto l’obiettivo riusciamo sempre a scorgerne un altro più allettante, un palmo più avanti: una corsa infinita verso il vestito più bello, la macchina più potente e la vacanza più lunga, la casa più bella, la donna più seducente. Pensai allora che le rapine potevano essere un buon mezzo, forse l’unico per me, almeno in quel momento, per vivere a mille all’ora l’attimo o il secolo che mi restava. Questi pensieri che allora riuscivano solo ad affiorare nella mia mente e che adesso riesco a mala pena a descrivere, rafforzarono la mia inclinazione al delitto. Le rapine, quelle vere, non si possono fare da soli, bisogna essere almeno in due, pensai. La mia mente passò in rassegna i balordi del paese in cerca di un complice, ma forse era meglio ripiegare su un ragazzo più giovane di me, sveglio e in gamba, da portare sulla cattiva strada. Antonio poteva andar bene: aveva diciassette anni, fumava hashish e qualche furtarello lo faceva. Non ero ancora riemerso dai miei torbidi pensieri quando lo vidi sfrecciare in sella al suo scooter malandato e inquinante. «Antoniooo, Antoniooo – gridai d’istinto – fermati un minuto che ti devo parlare». Inchiodò le ruote del motorino fermandosi solo dopo aver lasciato una striscia di gomma sull’asfalto ed aver controllato una pericolosa sbandata. «Che c’è di tanto importante?» disse ansimando come un podista. «C’è che è arrivata l’ora di cambiare vita, devi svoltare, basta con questo motorino da morto di fame, basta con questa vita di merda, sempre senza una lira in tasca…». «Ma che ti prende?». «Mi prende che ho avuto un’idea». «Quale?». 33
«Adesso te la dico. Andiamo al bar che ti offro il caffè ed una sigaretta». «Sì, ma sbrighiamoci che ho fretta». Con la tazzina che mi bruciava tra le mani, almeno così mi sembrava, andai diretto al dunque: «Ho pensato di mettermi a fare rapine, di quelle importanti però, di quelle che dopo un po’ ti sistemi veramente. Metti da parte un capitale, lo investi bene e fai il nababbo: femmine…, macchine…, viaggi… bella vita insomma!». Antonio assunse un’espressione attonita, come se si fosse trovato improvvisamente in mezzo ad un guado. Alla fine disse, rompendo il silenzio. «Rapine?… ma io non… non ne ho mai fatte!». «C’è sempre una prima volta, poi ti sembrerà un lavoro come un altro, anzi più divertente e soprattutto più redditizio degli altri… Però non ti preoccupare, non voglio una risposta subito. Ci vediamo stasera alle dieci sotto casa mia, parleremo meglio dei dettagli, nel frattempo inizia a pensarci». Non ricordo se lo salutai; di sicuro lui se ne andò silenzioso e perplesso. Io, invece, ero sicuro che si sarebbe comunque presentato puntuale nell’ora stabilita all’appuntamento con la trasgressione. Le cattive strade spesso sono le più facili da imboccare, perché sembrano più larghe e più corte. Infatti arrivò perfino in anticipo sotto casa mia con quel maledetto motorino smarmittato che si sentiva a distanza di due isolati. Parlammo dei dettagli, del collant sul viso, piuttosto che degli occhiali da sole, del cappellino con la tesa calata sul volto, delle pistole giocattolo o vere, della fuga e del bottino. O meglio, io parlavo e lui ascoltava. Alla fine disse che ci voleva pensare qualche giorno perché, perché… Non lo disse, ma aveva paura. Dopo un paio di giorni lo incontrai di sera tardi, fuori del bar già chiuso; parlava con un gruppetto di coetanei, fece 34
finta di non vedermi mentre inseriva i soldi nel distributore automatico di sigarette. Nel momento in cui lo chiamai, ebbi la sensazione che avesse il desiderio di infilarsi come una banconota dentro la macchinetta e scomparire. Tuttavia la fessura era troppo stretta e non poté sottrarsi al colloquio. «Ti sei deciso? Quanto tempo devo aspettare?». Taceva guardandomi imbarazzato. «Ho pensato che possiamo iniziare con quella piccola gioielleria vicino al ristorante cinese; il gestore è un vecchio rimbambito. Se ti va bene passo a prenderti domattina alle undici a casa tua» incalzai. «Va bene, ti aspetto» sussurrò con un filo di voce. La mattina dopo all’ora stabilita suonai il campanello. Mi rispose la mamma di Antonio, dicendo che stranamente dormiva ancora. Pensai fra me e me che non era poi tanto strano quel sonno prolungato, tipico di chi vuole sottrarsi ad un impegno con la scusa del cattivo funzionamento di una sveglia mai caricata. Scese in strada con gli occhi cisposi e uno sbadiglio stampato sulla faccia che non aveva nessuna intenzione di svanire. «Non mi sento per niente bene stamattina» esordì mettendo le mani avanti. «Non me ne fotte un cazzo di come stai! Dopo starai meglio» replicai brutalmente. «Va be’, andiamo». Salimmo su una macchina che avevo rubato la mattina stessa vicino alla stazione dei treni, gli detti una pistola giocattolo senza tappo rosso che sembrava autentica, un cappello con tesa larga e mezzo grammo di coca per tirarlo un po’ su. Parcheggiai vicino al negozio ed entrammo in azione proprio all’ora della chiusura mattutina. «Fermo, è un rapina!». L’uomo fece un ghigno di rabbia mista ad ira, ma alzò le mani; mi avvicinai per prendere l’incasso ed i pochi preziosi che non erano stati ancora rinchiusi nella cassaforte: tutto il più velocemente possibile per guadagnare al più presto l’u35
scita mentre Antonio teneva il gioielliere sotto il falso tiro dell’altrettanto falso revolver. Appena fuori, urlai: «Dai, scappa! corri!». Non avevo ancora finito di domandarmi perché si attardasse dopo che mi aveva coperto la fuga, quando sentii due spari, uno appresso all’altro. Continuai a correre. Dopo appena mezz’ora già circolava la notizia della morte di un giovane rapinatore per mano di un commerciante esasperato dalle continue rapine. Passò qualche giorno e fui arrestato a causa di un’impronta che avevo lasciato sul registratore di cassa: che fesso! Avevo pensato a tutto tranne che ai guanti. Seguì il processo e la condanna, ma non mi interessava più niente: la mia vita era già finita quella mattina, nell’attimo in cui Antonio spirava. Uno di quei due colpi aveva raggiunto anche me, al cuore.
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indice
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L’omicidio L’evasione La rapina L’egiziano L’onore L’azzardo La correzione Ernesto e Lucia. (Due anime divise)