Mauritania

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UNGARETTIANA

mauroroversimonaco

SocietĂ

Editrice Fiorentina

mauritania



ungarettiana 10

collana di poesia, traduzioni e saggi diretta da Paolo Valesio e Alessandro Polcri

«Ungarettiana» si interessa a un’esperienza di poesia che sappia fare convivere un forte senso della situazione italiana con una significativa apertura internazionale. Nel repertorio della collana rientrano libri monolingui in italiano, libri bifronti (tradotti in italiano) e saggi. Siamo convinti che la poesia sia in prima istanza ricerca di linguaggio e linguaggio della ricerca. Ma quello che noi in ultima analisi cerchiamo non è, come spesso accade di trovare nella lirica contemporanea, un eccesso di esistenza al ribasso, spesso ridotta a catalogo di fatti insignificanti narrati con una lingua scolorita; è, semmai, una nuova e accresciuta quantità di vita e di pensiero. Lo stile sarà la forma di quella quantità e sarà a volte semplice, a volte – perché no? – complesso e seletto. Ma saranno i poeti che sceglieremo a condurci là dove ancora non sappiamo di voler andare.



Mauro Roversi Monaco

Mauritania prefazione di

Stefano Colangelo

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Š 2016 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn 978-88-6032-377-4 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina Antonella Roversi Monaco, Ritratto di Mauro Roversi Monaco


alla Giangi


Ringrazio Ferdinando Amigoni, da sempre mio mentore e adesso anche mio mecenate, e Stefano Colangelo


prefazione

Si intitolava A Rimbaud una delle più riuscite, delle più sottilmente calme eppure spregiudicate poesie di Bolle di Bosch, il primo libro di versi, uscito più o meno cinque anni fa, di Mauro Roversi Monaco. «Fra farfalle di gesso bronzee palpebre», cominciava, con tutti quei suoni di consonante come agitati, shakerati dentro il tubo di un caleidoscopio. Era un omaggio al dio delle sinestesie, al pittore e allo scultore delle vocali, all’inseguirsi continuo delle sue tremende percezioni e profezie. E quando Rimbaud arrivò in Africa, tra i sufi e i mercanti di Harar, doveva senz’altro avere qualcosa al collo, un amuleto, un souvenir risonante di incertezza e di abbandono del tempo. Magari un piccolo strumento per scrivere o per disegnare, che un giorno qualcun altro avrebbe ritrovato, pulito, intinto e usato per tracciare un segno a forma di spirale sulla parte anteriore del proprio corpo, sulla pancia, prima di potersi dichiarare finalmente sovrano del Nulla, e di quel tempo che avrebbe racchiuso e confuso tutti quanti i tempi. Ecco allora il secondo precursore: Alfred Jarry, nel quale Mauro Roversi Monaco, dopo essersi sentito per una vita «piccolissimo / al collo di Rimbaud», avrebbe potuto riconoscere un maestro, un simile a distanza, prendendone a prestito il sorriso eversivo, la preziosità tirannica delle parole, l’autoconsapevolezza di chi riguarda l’insieme dei propri anni – anche di quelli che avrebbero potuto essere

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diversi da come sono stati – e vede la propria immagine riflessa in uno specchio dall’enorme e sfuggente cornice barocca. Ed ecco dunque Mauritania. Non l’Etiopia di Rimbaud, né la Polonia di Re Ubu; e nemmeno l’Africa fantasma di Michel Leiris, che diventò quasi senza accorgersene etnografo di se stesso. Un territorio, invece, che somma di tutti questi antecedenti i linguaggi, le distanze, le polverizzazioni del tempo, le nostalgie, le fragilità. La Mauritania, non a caso, fin dai tempi della guerra civile tra Cesare e Pompeo, era piena di tribù nomadi: gente che conosceva a fondo il deserto, che guidava cavalli da guerra con tecniche funamboliche, tendendo archi e scoccando frecce da posizioni impossibili. Guai a farsi beccare allo scoperto: le traiettorie non perdonavano, e sul cumulo dei caduti il deserto faceva il resto, mettendo sabbia su sabbia e costringendo chi sarebbe arrivato dopo a scavare, scoperchiare, decifrare. E questo libro, Mauritania, è evidentemente un autoritratto: un «catasto di memoria», come avrebbe potuto definirlo Gadda; dove tutto si muove di continuo, dove né il ritrattista, né lo specchio, né la cornice barocca né lo sfondo restano un momento fermi; e dove tuttavia ogni piccola contraddizione lascia quel po’ di tempo, di indugio necessario ad andare sotto, a immergersi, a esplorare. L’impasto sonoro è quasi sempre opaco, denso di strati. Il lessico è provocatoriamente ricercato, e per certi aspetti concavo, cavernoso: vi risuonano dentro una grande quantità di parole del passato, con i loro corpi ingombranti e desueti, con i loro suoni nutriti di ombre, che si proiettano dal riflesso della lampada sempre accesa e saldamente fissata alla fronte.

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Alla fronte di quale esploratore, poi? Di uno che a modo suo confessa che ha vissuto, pur senza la seriosità né lo sguardo d’insieme di un Neruda o di un Ungaretti. Uno che, anzi, ripensa volentieri al Montale di Voce giunta con le folaghe: «Memoria / non è peccato fin che giova. Dopo / è letargo di talpe, abiezione // che funghisce su sé...». Un dandy virtuoso, melanconico il giusto: fatalmente disingannato, ma di una precisione feroce nel reclamare il proprio spazio. Uno che ha visto la postmodernità fare a pezzi ogni Dioniso possibile; uno che ha percepito l’invecchiare degli altri dèi dal modo scomposto in cui ridevano sbattendo le mani sul tavolo, mentre giocavano un’eterna, noiosissima partita a carte. Uno per il quale ogni traiettoria metafisica è un allegro precipizio, e ogni tremore di farfalla disegna – prima di Montale, qui, la memoria va a Gozzano – una figura sfingea nell’aria: un segno che rimane da interrogare, e che lascia inquieti. Ma per maggiore chiarezza è sufficiente riascoltare, come esempio, un testo: «Quello che nel mio interno si riflette / e del mondo e di voi, vi servo, / contorcendomi dentro: cameriere; / remo-pennello-vomere mancato, / senza colori o solchi in terra o in acqua». Come spesso gli accade, Roversi Monaco affida al passo dei versi – questa base endecasillabica contornata da qualche inserto capzioso, poliritmico, a volte sapientemente zoppicante – il suo tempo fatto di materia, di materie: sabbia, vetro, pongo, superfici spugnose e plastiche. Materie che sembrano restare visibili dopo una battaglia, come pezzi su una pianura desertica sulla quale si è combattuto. Ogni dichiarazione di poetica, come quella che abbiamo appena riletto, è sottrattiva: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, evidentemente, ma anche ciò che cade

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a precipizio dentro i nostri ricordi, e che nessuna luce sembra abbastanza forte per tornare a illuminare. Questa Mauritania, questo luogo interiore e insieme esotico, è piena di sentieri di guerra, di asce disseppellite, di conti che non tornano, di striature indecifrabili. I Mauri, scriveva Lucano nel libro iv della Farsaglia, hanno lo stesso colore degli Indi. La loro velocità di esecuzione, il loro virtuosismo in campo aperto li rende imprendibili e fatali. Sono a loro modo fabbricatori di epoche, di stratificazioni storiche. Per tutte queste ragioni la parola d’ordine, trasmessa direttamente dal sovrano discendente di un lontanissimo re Ubu, diventa proprio riflettere. «Quello che nel mio interno si riflette», appunto. Ma anche, transitivamente, nel senso di tornare a flettere un arco: «Si ritrovò nel lago di Taos, dono di Nixon, / a riflettere l’arco con frecce / immaginate [...]»: così, appunto, un arciere che ricomprende in sé tutti i possibili Mauri, gli Indi, i Marmaridi, e i Lakota, gli Ulissidi, i cavalieri nomadi che percorrono da sempre il mondo; e che a loro volta si radunano – magari con lo status di richiamati, di riservisti, bisognosi di comprendere più che di combattere, perché è chiaro che la freccia che stanno per scagliare sarà proprio quella vettoriale del tempo – nel sottosuolo interiore di questa Mauritania. Cavalieri che finiranno prima o poi – molto patafisicamente, è il caso di dirlo – per venire trafitti da quella stessa freccia, che rispunterà beffarda dietro di loro; perché il mondo è tondo, e certe antiche traiettorie si riaffacciano prima o poi al punto di partenza. Spazio e tempo, pianura di sabbia in campo aperto e sottosuolo stratificato. Tutta questa geografia – o si dovrebbe dire, forse, geologia – si scopre come raffigurazio-

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ne, come evidenza, come certificazione di identità, per qualcosa che sarebbe difficile trattenere, ricordare, conservare se non assumesse proprio questa forma, e solo questa: con tutto il suo lessico prezioso e oscuro, e le soluzioni ritmiche così ostentatamente barocche, la cui geometria rasenta di continuo, consapevolmente, una perdita di equilibrio. Una «agogica filastroccale»: questa è per Roversi Monaco la disciplina del tempo; anche quando è il tempo stesso a privarsi di contorni, a diventare «aoristo»: quando, cioè, non sembra proprio più leggibile altrimenti che come un passato riflesso sul presente; come una situazione di vuoto, rispetto alla quale si può solo arrivare tardi, a battaglia conclusa, a esercito già disperso. E così resta, al di sotto, un insieme di codici persi, di iscrizioni lontane e mutile, di superfici coperte di geroglifici. Che cosa è rimasto del passato? Quali frecce vanno ancora portate, soffiate verso l’alto, tenute in quota nell’aria? Non si sa bene perché, ma la risposta sembra nella fedeltà di queste poesie a una certa forma sotterranea di racconto epico. Mauritania ospita molti nomi di cavalieri: Gurdulù, Galaad, e altri inesistenti. I minori delle saghe, le controparti degli eroi, i nomadi senza dinastia. Sono loro i testimoni dei vecchi conflitti? E come possono ancora parlare? La loro presenza fa pensare al rapporto tra memoria musicale, fedeltà al verso e necessità del racconto. Alcuni indizi di tono, più o meno espliciti, chiamano a raccolta poesie di narratori che avrebbero voluto essere versificatori, oppure musicisti: l’amaro, leopardiano miele di Bufalino, gli inferi sovrappopolati del Manganelli in versi, il gioco affettivo e compulsivo delle poesie di Landolfi. E per di più – citato anche in un’epigrafe – il padre putativo di tutti

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loro: Kafka, il campione della sottrazione dolorosa, scarna, pungente, della lingua alla musica. E non è da escludere, anzi, che sia la musica stessa, a tratti, la guida di tutto il meccanismo: come Naturlaut, come voce totale di natura, persa per sempre, ridotta in briciole; e tuttavia come necessità ugualmente salvifica, ostinata nel suo esserci ancora, così scomposta in frammenti come è quel mondo di cui vuole tornare a parlare. Stefano Colangelo

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Che stupore quando al porto vidi navi lunghe e snelle! Che colori radiosi, fra i voli, per parabole strane simbolici, dei gabbiani e di cirri lontani! Marinai solari con la bronzea pelle, dove il bianco del sale seccato sembra una peluria fanciullesca, con che virile ardimento, con che reverenza miravate l’onde! E come empivano l’aria gli accordi monumentali delle orchestre! E che spasimo gioioso, non esprimibile il cuore mi prese, sul mare, quando scorsi alle prore gloriose le mie fattezze scolpite, poco sopra alla liquida spuma, perchÊ con valore conducessero i grandi velieri nei salmastri brividi!

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nota biobibliografica

Mauro Roversi Monaco (Bologna, 31.3.1947) ha pubblicato, insieme con Valeria Roncuzzi, Bologna. Parole e immagini attraverso i secoli (2010) e Bologna s’è desta! Itinerario risorgimentale nella città (2011), entrambi con Minerva Editore. Ha inoltre pubblicato la raccolta di poesie Bolle di Bosch (Book Editore, 2011). È membro del Comitato scientifico del Centro Studi Sara Valesio, e studia Tai Chi Chuan col maestro Flavio Daniele.

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Indice 9 Prefazione di Stefano Colangelo 17 Che stupore quando al porto 18 Ho visto, senza ferite 19 Una farfalla sopra uno scoglio 20 O calette del Nulla, vi sovrastano 21 Talvolta, per strada 22 Che le parole non bastino 23 Quando sul pavimento pelvico il pensiero 24 Mi concimano osanna e tarantelle 25 Torneismo perbenistico 26 Forse la morte, piano piano 27 Probiviri del mondo! Estenuati 28 Larvalia 29 Temperamento equabile 30 Propaggine di mensole granitiche 32 La carovana delle mie parole 33 Ricordo certe glosse viperine 35 Questo piccolo nessuno 36 Fatti di niente gli urti 37 Erodiade abbracciata a una palma


38 Sarebbe bello, noi, poter soffiare 39 Sono un’indennità esonerativa 40 Abbiate campo, di tempi e di figure 41 Chiedeva ancora tempo, come sempre 42 Alce Nero, sei grande! 43 Angeli scongelati, come scampi 44 Nella sabbia tramortita ecco del pongo 45 Era lo sciaguattare di collane 46 Pescosa liuteria, sopra le siepi 47 Sulla mia pelle, Sibille di Mercatore 48 L’unghia del tempo con solchi sanguinosi 49 Abbiamo il tempo nelle nostre tasche 50 Risultan stupefatte diagonali 52 T’inerpichi nel viaggio 53 Fra i sintomi dell’essere 54 Le conversioni dei rimeriti 55 Come onde radio 56 Dal congedo di fossili 57 Ognuno sta per essere inoltrato 58 Per respirare il cuoio e la saliva 59 È la parola appena conclusa 60 Entità di cui l’olio 61 Quello che nel mio interno si riflette 62 Il colore dell’ombra 63 Affiorano nel bosco 64 È la duttilità del cuore 65 Tanto da quieti margini le cose 66 Gli angoli delle stagioni 67 Cagliostro 68 Fruscii 69 Dagli spalti di scanni 70 Si attenua la prudenza. Piano piano


71 Riporta il vento le parole reflue 73 A Quirino Principe 74 La morte ha inizio occulto dalla nascita 75 Epitaffio 76 È, l’amicizia, come una traduzione 77 È come se cercasse scampo, l’anima 78 E se occorresse spegnere la luce 79 Come vuoi che si mutino in gorgheggi 80 Ma chi vuoi che conosca questo prato 81 Stava la spiaggia di carta da pacchi 82 La purezza del pianto delle foglie 83 Alienità monarchicodisfòrica 84 Come fata Morgana a mezzo il cielo 85 Fragile schermo, insufficiente scudo 86 Duv vut andèr? 87 Distacca arazzi e muschi 89 Il “sistema sfacelo” ha una sua logica 90 Atrii con specchi, a rinterzar gli ulivi 91 Stupefatte contrade, verdi sbocchi 92 Un ramo che tossisce 93 Era un affanno lieve, bisestile 94 Pianura bianca di disteso foglio 95 Colti, nel silos, a giocare a Subbuteo 96 Dove l’àlpaca volle mi fermai 97 Si sa di capre per le quali s’inargenta 98 Disanadiomenia orfica 99 Ero seduto talmente lontano 100 Piangeva aghi di pino dalle mensole 101 Andavo verso Aldebaran, coi piedi 103 Nota biobibliografica


ungarettiana 1. Emma Pretti, I giorni chiamati nemici, pp. 84, 2010 2. Vera Lucia de Oliveira, La carne quando è sola, pp. 72, 2011 3. Leopoldo María Panero, Ianus Pravo, Senz’arma che dia carne all’«imperium», pp. 92, 2011 4. Patrizia Santi, Frammenti, periferici, pp. 56, 2013 5. Alberto Bertoni, Traversate, pp. 152, 2014 6. Marco Sonzogni, Ci vuole un fiore, pp. 72, 2014 7. Mario Moroni, Recitare le ceneri, pp. 96, 2015 8. Antonio Barolini. Cronistoria di un’anima, Atti dei Convegni di New York e di Vicenza nel centenario della nascita, a cura di Teodolinda Barolini, pp. xxx+342, 2015 9. Antonio Bux, Kevlar, pp. 144 2016 10. Mauro Roversi Monaco, Mauritania, pp. 108, 2016


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