Serena Penni
SFIDA AGLI INGANNI FINANZA, POTERE, SEDUZIONI Romanzo
Serena Penni
Sfida agli inganni Finanza, potere, seduzioni Romanzo
Società
Editrice Fiorentina
© 2022 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice instagram account @sef_editrice isbn 978-88-6032-642-3 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata L’Editore desidera ringraziare Carlo Parenti per l’aiuto offerto alla realizzazione di questo progetto editoriale Anche se ispirato da vicende reali, questo romanzo è un’opera di fantasia frutto dell’immaginazione dell’autrice e i personaggi, caratterizzazioni, luoghi e dialoghi sono stati romanzati o creati per motivi drammaturgici, eccezion fatta per la storia del protagonista David con riferimento alla sua esclusiva personale carriera lavorativa e familiare. Qualsiasi somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto involontaria e casuale
Premessa dell’autrice
Qualche tempo fa, per festeggiare una ricorrenza familiare, i miei genitori decisero di organizzare una grande festa a casa loro. Invitarono pressoché tutti i loro amici, e per me fu l’occasione di rivedere persone che avevo avuto vicino durante l’infanzia ma con cui poi, a causa delle vicissitudini della vita, ci eravamo persi di vista. Fu una serata memorabile. La luce della luna quasi piena accarezzava gli abiti eleganti e le giacche scure degli invitati, i fiori e le piante del giardino. A tratti avevo la sensazione di trovarmi in un sogno; la casa dove ero cresciuta mi pareva divenuta un luogo magico, ricco di possibilità inesplorate, di tesori nascosti. C’era la malinconia, certo, di ritrovarci tutti cresciuti, cambiati, trasformati dal tempo. Ma c’era altresì la gioia di essere lì, insieme, a ricordare, raccontare, ridere di ciò che un tempo ci aveva fatto disperare. Tra le persone che serbavano di me l’immagine di un’adolescente timida e schiva, appassionata di lettura, c’erano, per l’appunto, Roberto e sua moglie Laura. Con loro ci abbracciammo e ci baciammo: fu come essersi visti il giorno prima, eppure gli anni erano passati, e le cose da dirsi erano tante. Parlammo di una vacanza fatta tutti insieme a Minorca. Di quei giorni, io conservavo il ricordo della spiaggia bianca e rosa cui si accedeva direttamente dal nostro residence, delle piscine di forme stravaganti che accompagnavano ogni gruppo di appartamenti, ma soprattutto, della gentilezza e disponibilità di Roberto, Laura e dei loro figli: essi ci fecero conoscere ed esplorare il luogo, per noi nuovo e dai tratti esotici. 5
Poi, mentre Laura si intratteneva con le tante amiche che, probabilmente, non vedeva da tempo, io e Roberto ci sedemmo in disparte, sorseggiando prosecco e mangiando tartine. Lui mi raccontò dei suoi figli, dei nipoti, delle molteplici attività cui si dedicava quotidianamente. Io gli dissi dei miei bambini, del mio lavoro di insegnante e della mia passione per la scrittura. Questo ultimo argomento, con mia grande soddisfazione, parve interessarlo molto, tanto che mi interrogò a lungo sui romanzi e racconti che avevo pubblicato. Dopo avermi ascoltato, Roberto mi confessò un suo desiderio: narrare alcuni fatti della propria vita e della storia della sua famiglia. Mi chiese – e io fui assai lusingata dalla fiducia che riponeva in me – se sarei stata disponibile a prestare la voce, o meglio, la penna, ai suoi ricordi e alle sue riflessioni. Dopo che Roberto mi ebbe accennato gli argomenti di cui avrebbe desiderato parlare, io accettai con entusiasmo la proposta. Tuttavia, dovetti precisare che la mia vena creativa mi avrebbe impedito una riproduzione fedele del suo racconto: infatti, per mia natura, trovo troppo stretti i vincoli imposti dalla realtà. Però, visto che i fatti e i pensieri dell’amico che avevo da poco ritrovato costituivano, per me, altrettanti spunti di approfondimento e di invenzione, mi dissi disposta a scrivere, insieme a lui, un testo narrativo che fosse liberamente ispirato alla sua biografia. Roberto accettò e, nei giorni e nelle settimane che seguirono, condivise con me episodi, dubbi, rimpianti, ricordi che avevano popolato la sua storia personale fino a quel momento, in modo tale che io potessi ispirarmi a essi per il mio lavoro. Sfide agli inganni nasce dunque in una serata di luna piena sulle colline fiorentine. Nasce dall’incontro di due persone diverse per sesso, età, stili di vita, interessi lavorativi ma unite dall’amore per l’atto sublime di narrare, per l’analisi e la rielaborazione di un vissuto in senso creativo. Nasce dal connubio di chi, nel corso della propria vita, ha accumulato moltissime esperienze, e di chi ama trasformare la vita in racconto. I nomi dei personaggi sono spesso di invenzione, presi a pre6
stito dal mondo della fantascienza, dalla tradizione biblica e mitologica o dai classici della letteratura. Questa scelta nasce sia dal desiderio di universalizzare i fatti narrati, sia dall’esigenza di non urtare la sensibilità di persone che, in qualche modo, sono state coinvolte nella vicenda.
7
Sfida agli inganni
1 Come tutto è iniziato (27 settembre 19.., ore 09:07)
Poco fa mi hanno convocato per offrirmi un nuovo lavoro. Se possiamo chiamare lavoro un’impresa tanto ardua. Risollevare le sorti di una ditta destinata a fallire. Io non sono mai stato bravo ad andare contro il destino, e perché mai dovrei imparare proprio adesso? È chiaro, perché mi sono ritrovato a più di cinquant’anni con in mano un pugno di mosche. Dopo una vita passata a faticare come un dannato per persone che, al momento buono, non ci hanno pensato due volte a darmi il benservito. Sono loro quelli abili a giocare col destino. Io no. Io assecondo gli eventi. Per tutta la vita ho fatto il mio dovere e sono stato ripagato con la stessa moneta. Ho lavorato e sono stato ricompensato. Ho amato e sono stato riamato. Ho fatto del bene e sono stato ringraziato. Ho sbagliato, sono stato punito e dopo perdonato. Poi un giorno tutto è crollato. *** Non dimenticherò mai l’espressione del dottor Saturno, con cui avevo giocato a golf non più di due settimane prima, mentre cercava di dirmi che era giunto per me il momento di abbandonare le alte sfere, di dire addio al mio ruolo dirigenziale per ritirarmi in un cantuccio della ditta. Dovevo diventare uno dei tanti fantocci che obbedivano senza fare domande, ma intelligenti abbastanza per capire quando dire e quando non dire, quando agire e quando restare inerti. Ai lati del dottor Saturno sedevano il dottor Urano e il dottor Giove, che non aprirono mai bocca, ma che con la loro pre11
senza ribadivano l’unità inviolabile della triade. Dovevano essersi accordati prima perché fosse solo il dottor Saturno a parlare. Per un istante, quando li vidi, affondati nelle loro comode poltrone di pelle, tornai bambino, e mi salì un groppo alla gola. «Non vale! In tre contro uno non vale! Forti contro deboli non vale! Cattivi contro buoni non vale!». Ma subito quella vocina si zittì, lasciando il posto a due sentimenti che tanto spesso hanno caratterizzato la mia vita. Una grande paura dell’ignoto, e un’altrettanto grande curiosità. Il dottor Saturno aveva l’aria imbarazzata e colpevole, i suoi occhi evitavano i miei. Continuava a parlare senza venire al punto, girando intorno alla questione. «Vedi, David, il mondo cambia assai rapidamente. Ora stiamo tutti a vedere cosa succederà con la faccenda degli attentati, che davvero sta diventando seria. E quale sarà la posizione della Russia rispetto all’occidente. Anche noi come sai siamo un po’ in difficoltà, abbiamo bisogno di reinventarci». Eccome se lo sapevo. Era da decenni che li reinventavo. Il dottor Saturno continuava a parlare, ma io dopo pochi minuti non lo ascoltavo più. Avevo capito sin dal principio che per me le cose si sarebbero messe male. A insospettirmi erano bastati il modo in cui mi aveva salutato, senza nemmeno riuscire a stringermi la mano, e il tono solenne con cui mi aveva chiesto di accomodarmi. In realtà avevo cominciato a capire che stava tramando qualcosa già alcuni mesi prima, quando, dopo un Consiglio di Amministrazione assai lungo e snervante, mi aveva detto che la mia società, la sola del Gruppo che desse profitti rilevanti, gli sembrava troppo capitalizzata. Ma ci sarebbe voluto del tempo per scoprire tutta l’ambiguità che stava dietro una simile affermazione. Nelle settimane seguenti volli indagare, e venni a sapere di una lettera sigillata con la ceralacca, di un notaio con i capelli grigi, lunghi, legati in una coda di cavallo, di capitali accumulati, trasferiti, cancellati. Seppi che avevano pianificato di fare una fusione con una società che distribuiva solo perdite da anni. Seppi pure di incontri in luoghi anonimi che si somigliavano 12
tutti. Il mondo in cui avevo abitato per anni non lo avevo mai veramente compreso, ma era stata una scelta. Avevo preferito portare avanti il mio lavoro senza farmi troppe domande. Il mio lavoro mi piaceva. A modo mio, credevo nella ditta: mi sentivo parte di un tutto, un ingranaggio fondamentale perché un meccanismo molto complesso potesse funzionare. Dopo che, mio malgrado, avevo scoperto l’amara verità, di cui io stesso avevo fatto le spese, la ditta mi appariva come un grande cimitero, con tombe ben imbiancate che nascondevano cadaveri putrefatti. È stato un lutto. Un altro, nella mia vita. Avevo capito subito cosa voleva dirmi il dottor Saturno quella mattina, ma lo stavo a osservare, curioso di vedere quanto tempo ci avrebbe impiegato per tirare fuori la verità. Il fumo del sigaro che, come sempre, teneva in bocca mi fece tossire. Gli chiesi la cortesia di spegnerlo. Il dottor Urano e il dottor Giove, già trasformatisi per me in fantasmi annoiati, sgranarono tanto d’occhi. Il dottor Saturno per un attimo credette di non aver sentito bene, così io gli ripetei la frase. A quel punto sorrise, di un sorriso triste e già un po’ distante, e spense il sigaro nel posacenere d’argento posato sulla scrivania. Aveva capito che avevo compreso, ma ciononostante continuò ancora per un bel po’ a parlare dei problemi che affliggono il nostro mondo e la ditta. Dietro di lui, la finestra aperta sul cielo grigio di Milano sembrava un richiamo alla fuga. Eppure io volli rimanere. Mi dissi che dopotutto a modo nostro io e il dottor Saturno ci eravamo anche voluti bene. Forse. Guardavo le sue mani. Mani brutte, tozze, da contadino, del quale però non aveva la saggia sensibilità di chi vive con la natura. Sua madre lo aveva voluto pianista e lui aveva patito le pene dell’inferno per familiarizzare con uno strumento che non gli si confaceva per nulla. Quella donna esile, dall’aspetto fragile, ma nel contempo agguerrita, determinata a farsi giustizia, in qualche modo, aveva riposto nell’unico figlio tutte le sue aspettative, da quando il marito, dopo pochi anni di matrimonio, l’aveva abbandonata per una 13
segretaria di trent’anni più giovane di lui. Erano storie delle quali lo stesso dottor Saturno mi aveva messo a parte, come io lo avevo messo a parte di fatti riguardanti la mia esistenza. Perché eravamo amici, o almeno così credevo. Ma tra chi comanda e chi è comandato non può esserci amicizia: ecco un’amara verità che ho imparato quel giorno, quel mercoledì 8 gennaio dal quale ormai mi separano quasi tre anni. No, non può esserci amicizia, anche se chi è comandato è ben pagato e molto stimato. Dopo l’incontro con la triade rincasai a piedi, come ogni giorno. Ebbi modo di riflettere su quante volte avevo già incontrato nel mondo del lavoro, ma anche in quello politico, persone inadeguate sia sul piano etico sia su quello professionale, che avevano avuto la possibilità di esercitare un comando e un controllo smisurati. Gente abituata a considerare le opportunità consentite dalla posizione raggiunta solo in funzione del proprio interesse personale. Gente del tutto priva del senso dell’importanza sociale attribuibile al loro ruolo. Ripensai alla lettera che scrisse mio padre quando io nacqui, e che, assecondando la sua volontà, ho potuto leggere solo una volta raggiunta la maggiore età. Erano anni che non tornavo col pensiero a tale lettera. In essa, mio padre mi parlava del suo rapporto con l’ebraismo, reso difficile dagli eventi storici. Mi raccomandava di essere sempre dalla parte dei perseguitati. Mi sentii un perseguitato io stesso. Sentii che una parte di me apparteneva a quel popolo, a quella cultura, a quel credo. Anche se non ne praticavo i riti, non ne frequentavo i luoghi sacri. Ma sapevo che in fondo anche io ero destinato alla persecuzione così come alla grandezza. Del resto, quella che gli storici liquidano troppo spesso con l’espressione “questione ebraica” è sempre stata, ed è tutt’oggi, una ferita aperta per me. Come dimenticare la condanna a morte inflitta a mio padre e alla mia famiglia – così come ad altri milioni di innocenti –, dalla quale noi ci siamo salvati grazie all’intelligenza e alla caparbietà dei miei cari, ma senz’altro anche alla fortuna. A volte, la notte, tra il son14
no e la veglia, sento gridare le vittime innocenti, nella testa e nel cuore; sono uomini e donne, vecchi e giovani, sani e malati. Ci sono anche i bambini. Sono soprattutto i bambini a spaventarmi, forse perché a quei tempi ero un bambino io stesso. Implorano di ricevere aiuto, chiedono di non essere dimenticati. Ho sentito pesare su di me la responsabilità di chi, sopravvissuto alla disgrazia, scampato alla tragedia, deve fare giustizia. Fu per questo, immagino, che diedi di insensibile e incompetente all’insegnante che valutò il mio tema di maturità: io sostenevo che non c’era da stupirsi se il razzismo esisteva ancora, bastava voltarsi indietro, e non importava neppure avere la vista tanto lunga. L’attuazione del male assoluto era proprio a un passo da noi, anche se alcuni preferivano chiuderla nei libri di storia. La professoressa non mi capì, disse che avevo affrontato argomenti che non avevano a che fare con la traccia proposta, io non provai nemmeno a capire lei. Eravamo due mondi che avevano paura di toccarsi. Fui rimandato; mi rovinai l’estate, costretto sui libri, ma a settembre ebbi la mia rivincita. E probabilmente fu ancora per questo che tagliai i ponti con Piero T. e gli altri. Infatti qualche anno più tardi, mi trovavo con alcuni compagni di università, diretti verso Courmayeur con la mia Fiat 500 Giardinetta di seconda mano. Volevamo partecipare a una gara di sci, il trofeo Ferruccio Gilera. La giornata era bella, a noi lo sci piaceva molto e amavamo scherzare e stare insieme: c’erano tutti i presupposti per passare delle ore gradevoli. A un certo punto Piero, uno dei ragazzi del gruppo, si rivolse a me con tono allegro, scanzonato, dicendomi: «Dammi del tabacco, sporco ebreo!». Di sicuro non voleva ferirmi. Di sicuro non voleva offendermi. Di sicuro aveva parlato senza pensare, credendo di essere divertente. Fatto sta, che per me fu come una coltellata. Lì per lì non dissi nulla, non volendo passare per uno che non sa stare agli scherzi; la gara di sci si svolse come previsto, ma da quel giorno non volli più vedere né Piero né gli altri amici. Loro per un po’ mi cercarono, poi smisero. Non credo che 15
abbiano capito il motivo del mio allontanamento. Mi dissi che il problema era in me, che la mia sofferenza anacronistica non serviva a nessuno. Un giorno andai da uno psicanalista. Aveva folti capelli argentei, una fronte spaziosa e due grandi occhi azzurri schermati da lenti piuttosto spesse. Lo studio era pieno di libri: alcuni erano di Freud e di Jung, molti altri invece di autori che non avevo mai sentito nominare. Mi ascoltò, poi, dopo un silenzio che a me parve interminabile, disse: «Per stare meglio, dovrebbe mettere da parte il senso di colpa e la voglia di vendetta, che lei evidentemente prova, anche se non ha il coraggio di confessarlo neppure a se stesso. Dobbiamo tutti imparare a convivere con la consapevolezza del male. È il male di oggi, di ieri e di tutti i tempi». Non tornai più da quel medico; il senso di colpa (di essermi salvato? di non aver fatto abbastanza per i miei simili? di essere ebreo?) e la voglia di vendetta, negli anni, hanno lasciato gradualmente il posto a una visione più distaccata e fatalista, ma anche più serena, della vita. Si deve pur andare avanti: lavorare, stare in compagnia, sorridere, stringersi cordialmente la mano. Il bambino perseguitato che sono stato, talvolta fa ancora capolino dai meandri più reconditi della mia anima, dove è andato a rintanarsi. Ciò accadde anche il giorno in cui fui allontanato, per opera del dottor Saturno, dal posto di responsabilità ricoperto fino ad allora. Anche per questo provai tanta rabbia nei confronti della triade. Pensai a mio padre, che era stato licenziato per ben tre volte per il solo fatto di essere ebreo. Ma quando mi fermai a riflettere mi resi conto che, ancora una volta, stavo mettendo in campo le mie paure antiche, e non era il caso perché, così facendo, avrei rischiato di farmi ancora più male. Per affrontare un nemico bisogna conoscerlo e riconoscerlo. A quei tre non importava un accidente che io fossi di famiglia ebrea: il loro unico Dio è il denaro. Dovevano coprire i loro grovigli e i loro lucri, io ero diventato di troppo; un ospite invitato ma non più gradito, una presenza scomoda, uno sguardo indiscreto. Mi imposi quindi, non appena ne avessi 16
avuto il tempo, di far conoscere all’ambiente da me frequentato la mia testimonianza contro quei tempi, contro quelle persone del tutto prive di valori etici, contro la possibilità che il meccanismo democratico che regge la nostra società possa essere impunemente, costantemente violato. Il giorno del mio declassamento, arrivato davanti alla porta di casa, già con le chiavi del portone in mano, mi resi conto di non avere nessuna voglia di entrare: avevo bisogno di camminare. Passeggiai per Milano quasi tutto il pomeriggio. Desideravo respirarla, la città che, come una bella donna, mi aveva ammaliato e poi ingannato. Ci sono nato, l’ho sempre sentita come la mia patria, e non ho mai pensato, nemmeno per un istante, che al mondo esista un luogo che mi corrisponda di più. Fu così che, senza volerlo, il mio pensiero andò alle confessioni scritte qualche mese prima a Raffaele A., detto Raffa. Il mio amico genovese, amante del mare più aspro e del cielo più lontano. Il pittore del pensiero. L’inventore dell’Uomo nello spazio, creatura malinconica e metafisica raffigurata nel quadro che domina il mio soggiorno. Buffa coincidenza: a Raffa, alcuni mesi prima di sapere che sarei stato declassato, avevo scritto di un’atmosfera non più serena che percepivo al lavoro. Come se qualcosa si fosse rotto, come se una catena si fosse spezzata, come se l’equilibrio che aveva sempre caratterizzato quel mondo, almeno ai miei occhi, stesse per venire meno. Avevo concluso attribuendo tali sensazioni alla mia eccessiva sensibilità, che talvolta mi porta a enfatizzare alcuni aspetti della realtà. Invece, ecco che le mie percezioni, le mie paure si rivelavano sensate. Non credo sia stato un caso il fatto che proprio il poetico, rude e ineffabile Raffa ne fosse stato l’unico confidente. Di ritorno a casa avrei rivisto il quadro di Raffa, che mi ha sempre fatto riflettere su quanto l’uomo si affanni inutilmente inseguendo sciocche chimere, immagini false e deformate di un bene destinato a essere sempre desiderato e mai raggiunto. Il quadro del mio caro, insostituibile amico era lì per ricordarmi che, in quanto essere umano, ero 17
infinito, e che nessuno, tanto meno la triade, avrebbe mai potuto uccidere la poesia che portavo dentro. Mi chiesi se il mio rapporto con Francesca, mia moglie, somigliasse a quello tra i miei genitori, però sulle prime non seppi darmi una risposta. I miei genitori erano sempre stati uniti, o almeno questa era l’immagine che ne avevo ricavato io, bambino poi giovane uomo. La pensavano quasi sempre nello stesso modo, avevano le medesime opinioni praticamente su tutto. Anche nella morte sono rimasti vicini, perché se ne sono andati a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra. Spesso mi sono chiesto se quell’immagine di perfezione familiare cui più di una volta mi sono aggrappato per non affondare, scaturisse in maniera naturale dal loro modo di essere, o sia costata loro qualche sforzo. Ma adesso mi rendo conto che è una domanda priva di senso, perché io ragiono come chi non ha mai avuto paura di perdere tutto dall’oggi al domani. Credo che nell’animo di chi ha vissuto in tempi di guerra, di chi ha dovuto affrontare le persecuzioni razziali o, in generale, di chi ha visto la morte in faccia, l’ha sentita sfiorargli le palpebre, accarezzargli i capelli, sussurrargli nell’orecchio, non resti molto spazio per le sfumature. Si decide molto più facilmente per un sì o per un no, per l’amore o l’odio, per l’esserci o il non esserci. I miei genitori avevano scelto per il sì, per l’amore, per l’esserci. Lo avevano scelto una volta e non ci erano più tornati sopra. E tuttavia, erano esseri umani, con le loro immancabili imperfezioni. Probabilmente, se oggi fossero ancora vivi, sorriderebbero senza capire ascoltando i cosiddetti problemi di coppia che affliggono molti di noi. Non comprenderebbero le nostre domande, trovandole forse sciocche e inutili. Una simile riflessione, però, me li fa amare ancora di più, nel ricordo. Da quando ho accettato di considerare i miei genitori non come mostri sacri ma come creature umane, semplicemente figli di un’altra epoca storica, caratterizzata da dinamiche diverse da quella in cui vivo io, ripenso a loro più spesso, e con maggiore simpatia. Mi pare che il timore reverenziale che per 18
lungo tempo ho nutrito nei loro confronti abbia lasciato il posto a un affetto più autentico. Adesso ormai mi concedo di ricordare i piccoli screzi, le discussioni appena accennate, gli sguardi di rimprovero che, di tanto in tanto, erano presenti anche a casa nostra. Ma dopotutto, cosa importa, dato che stiamo parlando di chi non c’è più? *** Importa invece, per scoprire chi sono. Comprendere da dove vengo può forse aiutarmi a capire dove voglio andare. Già, perché oggi mi hanno offerto un nuovo lavoro. Mi hanno spiegato tutto con una semplice telefonata. Poche parole. Chiarissime. Mi hanno concesso solo un’ora per decidere se accettare o rifiutare. Sono passati venti minuti, me ne restano quaranta. Mi hanno offerto un lavoro maledetto, che – lo sento – non mi porterà altro che rogne. Risollevare una ditta sull’orlo del fallimento, rimediare ai danni di un imprenditore scellerato. Eppure più ci penso e più mi rendo conto che, in fondo, voglio accettare. Quando raccontai a mia moglie di essere stato declassato, lei, lungi dal farne un dramma, mi rispose che dopotutto avevo a lungo lavorato sodo, avevo più di cinquant’anni e forse il destino aveva voluto darmi un segno: era arrivato il momento di dedicare più tempo ai miei interessi, alle mie passioni. La vita professionale mi aveva sempre costretto a metterli in secondo piano. Il teatro, la pittura, il cinema, l’arte, la letteratura, le associazioni benefiche. «Dopotutto» disse Francesca tenendomi una mano «non moriremo di fame. Abbiamo di che vivere, e anche bene, per il resto dei nostri giorni. Se lo stipendio sarà più basso, chi se ne importa». Queste parole, anziché farmi piacere, mi misero addosso una profonda malinconia. Ebbi la sensazione che mia moglie vedesse in me un vecchio, uno per cui era arrivato il momento di tirare i remi in barca. Forse in parte era anche contenta di ciò che mi era accaduto, pensando che avremmo passato 19
più tempo insieme. I miei interessi, le mie passioni... Sapevo bene che non sarebbero bastati a riempirmi la vita. E poi, certo, era vero che non saremmo morti di fame, tuttavia avremmo dovuto senz’altro rivedere il nostro tenore di vita. Ma a Francesca di questo non importava nulla. È diversa dalle altre donne, potrebbe vivere con pochissimo. Le è sempre interessato assai poco avere vestiti firmati, fare vacanze in posti di lusso, frequentare i migliori ristoranti della città. Apprezza tutto questo, ovviamente, tuttavia rinunciarvi non le costa nessuno sforzo. Anche adesso, come il giorno in cui ricevetti la notizia del mio declassamento, penso all’amico pittore Raffa. Mi domando perché mai neppure lui si lasci trasportare dai propri sogni. Perché anche lui – artista, apparentemente libero dai lacci che tengono la maggior parte degli uomini legati ai propri bisogni, alle proprie abitudini, passioni, interessi – in realtà si senta sempre insoddisfatto e obbligato a superare se stesso nella successiva opera. Ho la sensazione che, nonostante il fatto che i progressi compiuti dal mondo negli ultimi tempi sembrino aver cancellato il ricordo degli anni bui, ciascuno di noi covi dentro di sé il dubbio che il male continui a corroderci, senza la prospettiva di un futuro luminoso e tranquillo. Ma io, chi sono? Da dove veniva l’angoscia in cui mi gettò il fatto di essere stato declassato? Sapevo bene che non erano in discussione le mie capacità, ma che ero vittima di giochi di potere assai più grandi di me. Per qualche ora, il giorno stesso in cui parlai col dottor Saturno, prima di rientrare a casa, potei raccontarmi una bugia, ovvero che avevo paura della reazione di mia moglie. Ma era una bugia, appunto, perché sapevo bene che Francesca non avrebbe drammatizzato. E oggi, da dove viene la gioia, l’entusiasmo che provo alla sola idea di potermi rimettere in gioco, anche se l’impresa è difficilissima, e forse persino rischiosa? Già, rischiosa. Certo, non rischio di rimetterci dei soldi né tantomeno di finire in galera. Ma rischio di fallire, di deludere le aspettative di centinaia di persone che probabilmente perderanno il posto di lavoro se 20
le cose non andranno per il verso giusto. Soprattutto, rischio di non farcela là dove invece sia mio padre che mio nonno sono riusciti. Un destino singolare mi vuole discendente da una stirpe di salvatori di aziende sull’orlo del fallimento. Mi dico che erano altri tempi, che per i miei predecessori, sul piano lavorativo, era più facile. Nel 1945 mio padre, per salvare una ditta, dovette licenziare ben duecentocinquanta dipendenti. Decise di farlo nel modo più indolore possibile, in accordo con i sindacati: per ognuno cercarono un nuovo posto di lavoro. In sostanza, ne uscì da eroe, e ad accrescere la sua fama contribuì il suo passato di uomo perseguitato e impegnato sul fronte della Resistenza. Dopo quell’episodio, tutti lo apprezzavano e lo rispettavano. Persino nei momenti di massima tensione, quando i dirigenti erano tenuti fuori dalle fabbriche con i picchetti, per lui veniva fatta eccezione. Certo, a quell’epoca i sindacati erano assai meno agguerriti di quanto sarebbero diventati negli anni successivi, e lo stesso i lavoratori, che erano più poveri ma meno disperati, meno pieni di rabbia, meno delusi. C’era la speranza. C’era un Paese da ricostruire. Eppure, qualunque storia io mi racconti, mio padre resta per me un eroe, resta il mio eroe e forse diventare uomo significa imparare ad accettarlo. Io, a differenza di mio padre e di mio nonno, vivo in uno Stato dove ormai si è costruito anche troppo, e non posso vantare una giovinezza gloriosa. Mi ripeto che ognuno ha la sua vita, il suo cammino da compiere. Tuttavia, ciò non basta a rassicurarmi, non basta a farmi accettare l’idea che io, proprio io, il piccolo David, quello che più di tutti era amato e stimato in famiglia, potrei rivelarmi un perdente. E allora forse è meglio non tentare nemmeno, rifiutare la proposta del nuovo incarico. Forse è meglio che per me tutto rimanga come è stato negli ultimi tre anni; devo continuare a timbrare il cartellino, a eseguire i compiti che mi vengono assegnati senza fare né farmi domande, e nelle ore libere dipingere paesaggi. In simili condizioni, però, quali paesaggi dipingo? Paesaggi cupi. Paesaggi senza gioia. 21
Indice
5
Premessa dell’autrice
Sfida agli inganni
11
1. Come tutto è iniziato
31
2. Il tempo, l’attesa
43
3. Brillanti che non brillano
58
4. Lettere e fuochi
61
5. La paura della morte
81
6. L’illusione della vita
96
7. Disegni e domande
102
8. Tre anni dopo
107
9. Uno sguardo da lontano