La Struzione della Tavola Ritonda (I Cantari di Lancillotto)

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sempio di cultura popolare per eccellenza, i cantari italiani del Basso Medioevo volgarizzano e diffondono fra un pubblico sempre più vasto storie e miti elaborati per l’antica società feudale. Alla fine del Trecento, a Firenze, un poeta non dozzinale pensò di tradurre in sette cantari, nel classico metro dell’ottava, la storia del romanzo La Mort le roi Artu, ultimo anello della grande saga dedicata alle avventure del re Artù e dei suoi cavalieri della Tavola Rotonda. Nel passaggio dalla Francia all’Italia, dalla società feudale a quella comunale, da lettura per un pubblico aristocratico a spettacolo per un pubblico popolare, il romanzo viene naturalmente trasformato: la vicenda è ridotta a dimensioni ‘borghesi’ e diventa una storia di gelosia, d’adulterio e di vendetta; colorata però dall’aura mitica che ancora circondava i personaggi, dal meraviglioso valore dei cavalieri, dalla conclusione moraleggiante. Soprattutto, il poeta, e forse più precisamente il canterino che potrebbe aver rielaborato il testo, riesce a trasmettere la partecipazione con cui è rivissuta la fine tragica di un’epoca mitica esaltata dalla nobiltà e dal valore.

a cura di Maria Bendinelli Predelli

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La Struzione della Tavola Ritonda (I Cantari di Lancillotto)

a cura di Maria Bendinelli Predelli

Maria Bendinelli Predelli, laureata a Firenze sotto la direzione di Gianfranco Contini, e presto trasferitasi a Montreal (Canada), ha diretto la Section d’études italiennes dell’Université de Montréal e poi il Department of Italian Studies dell’Università McGill. I suoi interessi di ricerca portano soprattutto sulla letteratura cavalleresca italiana del Basso Medioevo nei suoi rapporti con gli antecedenti francesi, per esempio nei volumi Alle origini del “Bel Gherardino” (Firenze, Olschki, 1990), Cantari e dintorni (Roma, EUroma, 1999), “Gismirante” and “Madonna Leonessa” by Antonio Pucci (British Rencesvals Society). Alla ricerca nel campo della letteratura popolare moderna appartiene invece Piccone e poesia: la cultura dell’ottava nel poema d’emigrazione di un contadino lucchese (Lucca, Accademia Lucchese di Scienze Lettere e Arti, 1997).

e 18,00

La Struzione della Tavola Ritonda

studi 17



studi 17



La Struzione della Tavola Ritonda (I Cantari di Lancillotto) a cura di

Maria Bendinelli Predelli

SocietĂ

Editrice Fiorentina


Š 2015 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-332-3 issn: 2035-4363 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata


Indice

vii La Mort le roi Artu e la Struzione della Tavola Ritonda

xxxvii

Critica del testo

lxxi

Opere citate

struzione della tavola ritonda

3

Primo cantare

13

‹Secondo cantare›

23

Terzo cantare

33

Quarto cantare

45

‹Quinto cantare›

59

Sesto cantare

73

Settimo cantare

85 Apparato 111 Glossario 121 Personaggi menzionati nella Struzione 129 Indice dei nomi e dei personaggi menzionati nell’Introduzione e nelle Note



La Mort le roi Artu e la Struzione della Tavola Ritonda

1. introduzione Le fascinose storie delle avventure dei cavalieri della Tavola Rotonda, e in particolare la storia degli amori fra Lancillotto e la regina Ginevra, furono diffuse in Francia, nei primi decenni del XIII secolo, principalmente da un gruppo di romanzi, di cui ancora si discute l’omogeneità e l’identità del compositore: l’Estoire del Saint Graal, l’Estoire de Merlin, il Lancelot propre, la Queste del Saint Graal e la Mort le roi Artu. La loro pronta diffusione è dimostrata, per l’Italia, dalle numerose allusioni di Dante a personaggi ed episodi della saga, sparse in tutte le sue opere: dall’evocazione del «buon incantatore» nel sonetto Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io, alla definizione delle «Arturi regis ambages pulcerrimae» del De vulgari eloquentia (I, X 2), all’evocazione del colpo di tosse della Dame de Malehaut di fronte al «primo fallo scritto di Ginevra» (Par. XVI 14-15), alla menzione di Mordret fra i traditori dei parenti (Inf. XXXII 61-62) e all’allusione al finale pentimento di Lancillotto (Conv. IV 28). Dante dette però autorevole voce anche all’atteggiamento di diffidenza che la società cristiana nutrì a lungo nei confronti del romance arturiano: non a caso Paolo e Francesca furono sopraffatti da una passione peccaminosa proprio nel momento in cui «noi leggiavamo un giorno per diletto | di Lancialotto come amor lo strinse | […] Quando leggemmo il disiato riso | esser baciato da cotanto amante, | questi, che mai da me non fia diviso, | la bocca mi baciò tutto tremante» (Inf. V 127-136). A giudicare dal numero e dall’entità delle opere che raccontarono le loro vicende, gli italiani preferirono la coppia Tristano-Isotta, il cui amore non dipendeva da una loro scelta ma dalla forza di un filtro magico. E tuttavia, sempre più frequentemente gli studiosi scoprono e fanno conoscere anche testimonianze e reliquie di romanzi ruotanti intorno alla figura di Lancillotto e ai cavalieri della Tavola Rotonda, fin dal secolo XIII, soprattutto per merito delle ricerche di Daniela Delcorno


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Branca1. La studiosa ha dedicato, in particolare, uno studio alla diffusione in Italia della Mort Artu, l’ultimo romanzo del ciclo, che racconta il disfacimento della Tavola Rotonda, la morte del re e finalmente anche la morte di Lancillotto e di Ginevra. È precisamente a questo romanzo che corrispondono i Cantari di Lancillotto, composti tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento. Si tratta in realtà di un poema, intitolato molto probabilmente La Struzione della Tavola Ritonda, che l’anonimo compositore articolò in sette cantari. E secondo Antonio Contreras Martín, che ha recentemente tradotto in spagnolo i Cantares de Lanzarote, la scelta del numero sette non era casuale: El contenido simbólico del número siete como expresión de un ciclo, de un periodo cerrado, prefigurador del nacimiento de uno nuevo (Ghynka 1971), en la Edad Media devendrá (Davy 1977), fruto de la tradición judeocristiana, de las corrientes platónicas y neoplatónicas, y, especialmente, del valor y prestigio de la obra de Macrobio, Commentarii in Somnium Scipionis, la manifestación más acabada de la perfección: «Tot uirtutibus insignitus septenarius, quas uel de partibus suis mutuatur uel totus exercet, iure plenus et habetur et dicitur» (Armisen-Marchetti 2001-2003: I, 6.82)2.

Anche attraverso la valenza simbolica del numero sette l’autore avrebbe inteso dare alla sua opera «un significado que acentuaba enormemente el character apocalìptico de la fuente». In effetti, mentre nel romanzo francese la caduta di Artù è interpretata secondo la cifra dei “geu de Fortune” (MA § 190, p. 243), già il Boccaccio, nel suo De casibus virorum illustrium (Lib. VIII, cap. XIX De Arturo Brittonum rege), accentua il significato della morte di Artù, estendendo il senso della caduta del re a quella di tutta la sua corte: «Tabula Rotunda tot probis splendida viris, cesis omnibus, deserta fractaque et in vulgi fabula versa est. Gloria ingens regis et claritas desolatione in ignominiam et obscuritatem deleta est». E il motivo penetrò probabilmente nella tradizione italiana se ancora i nostri cantari concludono il racconto della battaglia di Salisbiera con la riflessione solenne (e amara): La Tavola distrutta del suo luoco, dopo la morte del cortese sire, di leï il grido tosto venne fioco: prodezza e gagliardia tosto diventa entro la Gran Brettagna tutta spenta. (VI 55.4-8) 1 Si vedano in particolare, di D. Delcorno Branca, Tristano e Lancillotto in Italia, Ravenna, Longo, 1998, e Tristano e Lancillotto a confronto, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 2001; La tradizione della «Mort Artu» in Italia, in «Critica del testo: Storia, geografia, tradizioni manoscritte», VII, 1, 2004, pp. 317-339. Recentemente il giovane studioso Luca Cadioli ha fatto conoscere l’esistenza di un manoscritto medievale del XIV sec., fortunosamente sfuggito finora all’attenzione degli studiosi, che contiene il volgarizzamento italiano del Lancelot en prose (Tesi di dottorato, Università di Siena, 2013). 2 A. Contreras Martín, De la «Mort Artu» a los «Cantari di Lanciallotto». Un ejemplo de la reelaboraciòn de la materia de Bretaña en el àmbito italiano”, in Actas del XVII Simposio de la Societad Española de Literatura General y Comparada, Barcelona, Universitat Pompeu Fabra, Madrid, Societad Española de Literatura General y Comparada, 2010, p. 47n.


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La battaglia di Salisbiera segna dunque la sparizione degli alti valori cavallereschi che rendevano così accattivanti le storie arturiane, come se un ciclo storico si fosse definitivamente chiuso, e le vicende della Tavola Rotonda potessero appartenere ormai soltanto a un universo mitico. Pubblicati per l’ultima volta da E.T. Griffiths nel 1924 col titolo Li Chantari di Lancellotto3, i sette cantari del poemetto dovrebbero riprendere il titolo La Struzione della Tavola Ritonda, che è quello che compare nella prima ottava del primo cantare, e nell’explicit della trascrizione. È probabile che questo sia stato il titolo attribuito in Italia al romanzo della Mort le roi Artu: anche nel manoscritto che tramanda una frammentaria versione ebraica del romanzo (Vat. Hebr. Urb. 48) si trova una glossa, all’inizio della trascrizione, che translittera la parola italiana l’distruzion4, e la porzione finale della Tavola Ritonda (cap. CXXXVII) annuncia: «ora lascia lo conto di parlare dell’alta vendetta di Messer Tristano e conteremo della distruzione della Tavola Ritonda», titolo che coincide con quello dei Cantari. Infine, «l’inventario Estense del 1436 registra due copie (n. 28 e n. 29) della “destrution” (o “desfation”) de la Tavola Rotonda»5. I Cantari sono tramandati dal manoscritto lxxviii.23 della Laurenziana di Firenze, codice miscellaneo e composito che comprende dapprima un volgarizzamento del De Consolatione di Boezio, il Libro dell’arte di Cennino Cennini, la Guerra Giugurtina di Sallustio e alcuni trionfi del Petrarca, per lasciare poi luogo a un blocco di cantari trascritti tutti dalla stessa mano (il Cantare d’Amadio, il Cantare di Piramo e Tisbe, il Cantare del mercatante, e infine il nostro pometto), presumibilmente intorno al 1437, che è la data che compare in fondo al Libro dell’arte. Gli errori testuali, i passi confusi, le lacune presenti nella versione conservataci accertano che siamo davanti a una trascrizione e non a un originale e anzi, come vedremo più avanti, si tratta probabilmente di un testo rielaborato e non della versificazione originale. La datazione del manoscritto potrà dunque avere influito sul dettato del testo, ma l’opera è certamente più antica. Come avverte Picone nel più recente saggio critico dedicato in Italia a quest’opera, dopo l’edizione del 1924 i cantari non sono stati «mai più studiati in profondità, come pure meriterebbero di esserlo, data la loro importanza documentaria e anche […] il loro valore letterario»6. La Struzione rappresenta senza dubbio la versificazione di un testo risalente in un’ultima analisi al ro3 Per le edizioni precedenti a quella del Griffiths, v. R. Rabboni, Per il testo (e la datazione) dei «Cantari di Lancillotto», in Generi e contaminazioni. Studi sui cantari, l’ecloga volgare e la prima imitazione petrarchesca, Roma, Aracne, 2013, pp. 137-180. 4 King Artus. A Hebrew Arthurian Romance of 1279, a cura di C. Leviant, New York, Ktav Publishing House, 1969, p. 5. 5 D. Delcorno Branca, La tradizione della «Mort Artu» in Italia, cit., p. 323. 6 M. Picone, Il cantare cavalleresco, in Il cantare italiano fra folklore e letteratura, Atti del convegno internazionale di Zurigo 2005, a cura di M. Picone e L. Rubini, Firenze, Olschki, 2007, p. 264.


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manzo francese che conclude il ciclo del Lancelot-Graal, La mort le roi Artu (ca. 1230), ma non mi sembra affatto necessario pensare che l’autore lavorasse direttamente su un testo francese, come ritengono Griffiths e Picone. I francesismi rilevati dal Griffiths sono semplicemente quelli che si ritrovano comunemente nella letteratura cavalleresca, e anche la coincidenza verbale di alcune frasi, rilevata tanto da Griffiths che da Picone non esclude affatto la mediazione di un volgarizzamento italiano. L’esempio dei volgarizzamenti del Palamidès, del Conte du Graal e dei Tristani italiani dimostrano quando pedissequa potesse essere la resa in italiano degli originali francesi. È vero che sono stati reperiti almeno cinque manoscritti francesi della Mort Artu redatti in Italia, ma il largo frammento trasmesso dal Panciatichiano 33 della Biblioteca Nazionale di Firenze, il frammento della versione ebraica di un originale italiano datata addirittura 1279 e il rifacimento che si trova in fondo alla Tavola Ritonda fanno pensare che esistessero anche versioni italiane7. Più interessante è la discussione generata dal confronto fra il racconto della Struzione e quello del romanzo francese. Mentre il Griffiths riteneva che la Struzione risalisse a una fase dell’evoluzione della storia antecedente alla codificazione nel romanzo della Mort Artu, J. Douglas Bruce prima di lui, e più recentemente Picone, ritengono che le differenze siano perfettamente spiegabili con un’operazione di compendio del romanzo francese: Griffiths di solito spiega queste omissioni richiamandosi ad una presunta versione più antica, e di conseguenza più autentica, della Mort le roi Artu; io credo invece che esse costituiscano la dimostrazione dell’arte del levare del rifacitore italiano, una riprova della sua forte capacità di sintesi e quindi della sua abilità di narratore popolare8.

Credo anch’io che questa sia la soluzione più plausibile: in molti punti la Struzione rivela puntuali coincidenze verbali con il testo francese; in altri casi, gli episodi o i passi omessi della Mort Artu ricompaiono sotto forma di allusioni che si spiegano soltanto se la fonte del poemetto italiano conteneva quei passi e quegli episodi; in altri casi ancora, le differenze si spiegano come anticipazioni, o come ripresa, di passi che nella fonte comparivano in momenti diversi della storia. Considereremo quindi che fonte diretta della versificazione sia una versione della Mort le roi Artu, probabilmente già resa in un volgare italiano; e naturalmente alcune delle differenze fra i Cantari e l’edizione critica della Mort le roi Artu saranno imputabili a modifiche già avvenute nel corso della trasmissione del romanzo. Già alcune redazioni del romanzo francese 7 D. Delcorno Branca, La tradizione della «Mort Artu» in Italia, cit. I testi dei frammenti sono reperibili in P. Breillat, Une traduction italienne de la «Mort le roi Artu», in «Archivum romanicum», 21, 1937, pp. 437-467 e G. Allaire, Tristano Panciatichiano, Cambridge, D.S. Brewer, 2002, pp. 338-386; King Artus. A Hebrew Arthurian Romance of 1279, cit. Il manoscritto è il Vat. Hebr. Urb. 48 della Biblioteca Apostolica Vaticana, cc. 75-77. A proposito del Panciatichiano 33 Breillat osserva: «dans cette traduction italienne […] un très grand nombre d’expressions correspondent à des variantes fournies par le groupe DBVOZ» dell’edizione Frappier. 8 M. Picone, Il cantare cavalleresco, cit., p. 265.


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presentano una versione abbreviata, o sopprimono alcuni episodi, o ne modificano l’ordine9; e la mouvance del testo si perpetua nei volgarizzamenti italiani. Per esempio, anche nel frammento trasmesso dal ms. Panciatichiano 33 Morderete è nominato fin dalla prima denuncia, e all’entrelacement del romanzo francese si sostituisce una sequenza ordinata e lineare che completa successivamente, uno per uno, gli episodi del Torneo di Winchester, della morte della damigella d’Escalot, dell’avvelenamento di Mador della Porta e del giudizio di Ginevra10. 2. impostazione esemplare Tutti i critici che hanno fatto il confronto fra i Cantari e il romanzo francese hanno già concordemente indicato come principale differenza la stringatezza dei cantari: gli episodi si succedono l’uno all’altro senza pause (che non siano le introduzioni e le conclusioni extradiegetiche che si trovano all’inizio e alla fine di ciascun cantare), eliminando tutti gli indugi dell’originale sulle conversazioni fra cavalieri, le ripetizioni del già noto nei racconti dei personaggi, le considerazioni sui sentimenti dei protagonisti11. Caso eclatante la contrazione in un solo episodio dei rapporti fra Lancillotto e la demoiselle d’Escalot, che nel romanzo si estende in tre incontri e nel cantare sono invece ridotti a uno solo: la damigella chiede subito a Lancillotto di amarla e, in seguito al suo netto rifiuto, ottiene che Lancillotto porti la sua manica al torneo quasi come un “premio di consolazione” (nessun accenno al motivo del don contraignant). Ma, soprattutto, la compattezza dei cantari mette in evidenza la logicità della sequenza degli avvenimenti: gli eventi appaiono strettamente collegati fra di loro da relazioni da causa a effetto, spesso esplicitamente spiegate dal narratore. I soli momenti sui quali il narratore sembra indugiare sono le descrizioni dei duelli e delle battaglie, che sono narrate con rara vivacità: fatto notevole se si pensa alla frequenza di duelli e battaglie nelle narrazioni cavalleresche, che spesso scadono nell’uso di luoghi comuni e trite espressioni12. Forse per questo 9 J. Frappier, Introduzione all’edizione critica della Mort le roi Artu, p. xxxiii; A. Contreras Martín, «De la «Mort Artu» a los «Cantari di Lanciallotto», p. 43. 10 Secondo la Delcorno Branca, «questa struttura risale probabilmente a un testo dove il montaggio ad entrelacement era stato già ridotto a segmenti autonomi e successivi» (D. Delcorno Branca, La tradizione della «Mort Artu» in Italia, cit., p. 333). Nei Cantari non si trova traccia dell’episodio della chambre aux images né dell’episodio in cui Lancillotto viene ferito da dei cacciatori, che compariva nel frammento conservato nell’ultimo foglio di un registro notarile dell’Archivio di Stato di Bologna, datato 1376, e pubblicato dal Griffiths nell’Introduzione ai Chantari di Lancellotto, pp. 16-17. 11 «L’estensore dei Cantari di Lancillotto è riuscito a comprimere in sette cantari – oscillanti fra le 40 e le 60 ottave, e quindi in meno di 3000 versi – un romanzo in prosa che si distende nell’arco di 204 capitoli, aventi una media di 40-50 righe ognuno», M. Picone, Il cantare cavalleresco, cit., p. 264. 12 Anche nel romanzo tornano espressioni del tipo: «et poïssiez veoir chevaliers verser a terre et trebuschier les uns morz et les autres navrez […] Et quant li glaive furent brisié, si metent les meins as espees et s’entrefierent granz cox, si qu’ils peçoient leur hiaumes et detrenchent leur escuz; si s’en-


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